Storia della profonda relazione tra cinema e operai,
dai Lumière al Maggio francese,
di Virgil Darelli
TR-01
08.05.2020
Il cinema così come lo conosciamo apparve per la prima volta il 28 dicembre 1895, in una piccola sala del centro di Parigi. In trentatré pagarono un franco, circa cinque euro di oggi, per assistere a un programma di dieci film, tutti lunghi meno di un minuto. Le immagini che quel primo pubblico vide non rispecchiavano la loro vita, come forse si aspettavano, ma una molto più provinciale (in Francia la provincia è tutto ciò che è oltre Parigi). Un congresso di fotografi, artigiani al lavoro, una famiglia, scene di scherzi grossolani in campagna, il mare, queste furono le scene spettacolari che i lionesi Lumière portarono in città – una città che solo per caso è soprannominata come il loro cognome. In assoluto, le prime figure umane a prendere vita davanti a quel pubblico cittadino furono operai, perché il film che convenzionalmente dà avvio alla storia del cinema è L’uscita dalle officine Lumière.
Si è parlato di quel film come di un grande spot. Anche se non si vede nessuna insegna sulla fabbrica di materiali fotografici, si potrebbe in effetti pensare che l’oggetto pubblicizzato fosse lo stesso Cinematografo Lumière, più che la fabbrica. L’attenzione degli spettatori doveva essere tutta su quella macchina capace di riprodurre la vita, non solo sul contenuto di una banale scena di provincia. Così, con un’associazione mentale implicita, gli operai in uscita venivano collegati allo spettacolo del cinema.
Certo, non fu una strategia intenzionale, dato che poco dopo i Lumière si disinteressarono del cinema. Ma resta il fatto che furono gli operai i primi a comparire sul grande schermo. Se il cinema iniziava la sua marcia di conquista del secolo, fino a raggiungere lo status di occhio del novecento, quelli, gli operai, erano già saliti alla ribalta della società e intendevano restarci ancora per molto. Solo due mesi prima della presentazione del cinematografo nacque in Francia la Conféderation Génerale du Travail (CGT), il più grande sindacato francese. Mentre Jack London immaginava uno sciopero generale capace di provocare la fine della civiltà, gli intellettuali europei iniziavano a cogliere la potenza della massa. Quel nuovo soggetto, costituito per la maggior parte di operai, era insieme il potenziale pubblico dei nuovi media e una minaccia politica. La prima “veduta Lumière” sintetizzava queste tensioni nel cancello della fabbrica, luogo di transizione tra lavoro e tempo libero, tra occupazione e disoccupazione, tra picchetti e polizia, tra sindacati ed estremisti. C’è un bel film di Harun Farocki, Workers Leaving The Factory, che mostra come il cinema sia spesso tornato su quel luogo archetipico.
Sessant’anni dopo il numero degli operai aumentava ancora. In Francia e Italia, la percentuale massima di operai sui lavoratori totali si ebbe nei primissimi anni Sessanta, sempre continuando ad aumentare in termini assoluti. Anche il cinema stava cambiando. Oggi non si direbbe vedendo uno dei primi film di Jean-Luc Godard, ma è dal problema del realismo che il cinema voleva rinnovarsi in quegli anni. Il neorealismo aveva stabilito nuovi valori per il cinema, rilanciati in Francia da André Bazin e la sua rivista, i Cahiers du Cinéma. Andare oltre la sceneggiatura, la recitazione e le scenografie ‘di qualità’ per scoprire la complessità del reale: ecco che i film poterono uscire in strada. Il cinema si fece autoriflessivo, è vero, ma fu solo un passaggio obbligato per scoprire che la società si trovava oltre le proprie convenzioni narrative, estetiche e produttive. Ed ecco anche il Maggio 1968. Non era più solo il cinema, ma la realtà stessa a ribellarsi: “siate realisti, chiedete l’impossibile”. Oggi si tende a pensare al Sessantotto come a una rivolta soprattutto degli studenti, basata su richieste antigerarchiche e libertarie. È vero anche questo, ma non bisogna dimenticare che quasi la metà dei lavoratori totali francesi entrò in sciopero, di cui più di un terzo erano operai. Per i marxisti il cambiamento sociale sarebbe stato portato dalla classe operaia. Per i cineasti, la realtà del realismo diventava l’operaio dell’operaismo, come se l’operaio indicasse la persona comune per antonomasia.
Allora apparve il cinema militante. Molti registi si ispirarono alle avanguardie sovietiche. Godard, dopo la svolta verso la politica esplicita con La cinese, costituì il Gruppo Dziga Vertov; Jean-Pierre Thorn, realizzò il film maoista Oser lutter, oser vaincre ispirandosi a Ejzenstejn; Chris Marker con i suoi gruppi Medvedkin (dal nome di un regista non proprio avanguardista, ma che fu a capo di un “cinetreno” sovietico) produsse con gli operai importanti esperimenti di film collaborativi. Thorn addirittura abbandonò il cinema per entrare in fabbrica, per capire quanto la questione operaia fosse sentita. Nel mondo si parlava della possibilità e dell’esistenza di un “terzo cinema”, così chiamato dai cineasti argentini Fernando Solanas e Octavio Getino, un cinema che sarebbe dovuto andare sia oltre quello commerciale americano che quello d’autore europeo.
La Francia intera si fermò. Il sindacato dei tecnici del cinema, legato alla CGT, iniziò anch’esso uno sciopero. A loro si unì una gran parte del mondo del cinema, già mobilitato per l’affaire Langlois (la sostituzione del direttore della Cinématheque, poi reintegrato dal ministro André Malraux): cineasti, giornalisti, studenti delle scuole di cinema, persino cinefili. Vennero costituiti gli États généraux du cinéma in riferimento alla rivoluzione francese, un nome proposto dalla redazione dei Cahiers du Cinéma. Il festival di Cannes fu interrotto, condannato per il suo carattere competitivo e mercantile. Perfino il sindacato appariva molto radicale nelle sue posizioni: sciopero selvaggio e illimitato, come aveva immaginato Jack London. L’idea era quella di rifondare l’audiovisivo da zero, farne un servizio pubblico generalizzato.
A parte qualche piccola riforma nei sistemi di sindacato e finanziamento del cinema, che resisteranno alla prova del tempo, gli Stati Generali del Cinema, troppo divisi tra loro e con obbiettivi decisamente utopici, decisero di passare all’azione: filmare gli “eventi”, come venivano chiamati. Venne istituita una “sotto-commissione” dedicata alla realizzazione di film. Come racconta Sébastien Layerle nel libro Caméras en lutte en Mai 68, i materiali cinematografici arrivarono grazie alle donazioni dei privati e alla solidarietà di qualche produttore terrorizzato e ansioso di conformarsi al cinema rivoluzionario di domani. La commissione coordinava e autorizzava i progetti, sostanzialmente cinétracts, ovvero cinegiornali rivoluzionari. Si decise inoltre di non firmare nessun film: non erano più gli autori, ma il popolo stesso a prendere la parola.
Nel mondo la contestazione ebbe un tratto in comune, la critica dello spettacolo e dell’informazione che vuole passare per oggettiva, bollando la neutralità stessa come qualcosa di ideologica (all’epoca in Francia, come in Italia, la televisione era sotto il monopolio di Stato). Viceversa, solo l’informazione di parte sarebbe stata autentica. In un’intervista televisiva davvero esemplificativa della posizione marxista (in parte tradotta qui), Godard affermò che l’unico regista francese finora era stato Charles De Gaulle e che il popolo non era mai apparso sullo schermo. Bisognava dunque cambiare non solo i contenuti, in fondo abbastanza indifferenti, ma il modo di produzione: rubare la pellicola, sprecarla, smettere di filmare (stranamente l’intervista non andò in onda). I cineasti militanti ebbero in effetti grandi difficoltà: mancava la pellicola, i laboratori non collaboravano (tanto che le pellicole furono sviluppate clandestinamente in Italia e in Belgio grazie alla solidarietà ricevuta in quei paesi). Il film più famoso girato in quelle condizioni fu Grands Soirs et petits matins, di William Klein (che però lo firmò con il suo nome), uscito dieci anni dopo e che rappresentava il Maggio degli studenti al quartiere latino e alla Sorbona.
Gli studenti dell’IDHEC (Institut des Hautes Études Cinématographiques), la più importante scuola di cinema francese del periodo, parteciparono agli Stati Generali mettendo a disposizione locali e attrezzature. Jacques Willemont, studente di secondo anno del corso di fotografia, propose alla commissione un progetto non proprio in linea con lo spontaneismo-didattismo che andava per la maggiore. Si trattava di un film sull’OCI (Organisation Communiste Internationaliste), un gruppo di una corrente del trotskismo (detta “lambertista”) minoritaria tra gli studenti, ma non per questo irrilevante nella vasta galassia del gauchisme (così veniva chiamata l’estrema sinistra opposta alle organizzazioni comuniste ufficiali, dal nome affibbiato da Lenin alla “malattia infantile del comunismo”).
Willemont e alcuni suoi collaboratori iniziarono così a intervistare militanti e a filmare manifestazioni per un film che avrebbe dovuto chiamarsi Sauve qui peut Trotsky. Un giorno, qualcuno all’OCI li indirizzò verso la fabbrica di batterie Wonder, in sciopero, dov’era presente una loro militante. È così che il 10 giugno una piccola troupe degli anni Sessanta si venne a trovare nuovamente sul luogo portante del cinema politico, l’ingresso della fabbrica. Qui, a detta di tutti i commentatori successivi, ebbe luogo un piccolo miracolo: la nascita del film-simbolo del cinema diretto. Molto dipese dalla situazione tecnica, completamente diversa da quella del tempo dei Lumière. Al posto del Cinematografo che riprende e proietta, c’era una Arriflex 16 mm con pellicola invertibile, silenziosa, e un Nagra che registra in sincrono su nastri magnetici da 6,35. L’attrezzatura portatile, non a caso divenuta mitica anch’essa, permise di cogliere una scena spontanea, autentica, senza tagli e della durata dell’unico caricatore (qui ci sono imprecisioni dovute alla mitizzazione: in realtà c’è una seconda breve inquadratura che fa da introduzione e poi fu aggiunto un voice-over, e ci fu quindi un montaggio; Willemont aveva altri stock di pellicola in macchina, non era l’ultimo caricatore). Il risultato fu La reprise du travail aux usines Wonder, la ripresa del lavoro alle fabbriche Wonder.
Sì, perché lo sciopero era finito: un’assemblea aveva deciso così, forse tra le pressioni del sindacato. Quando i quattro studenti dell’IDHEC arrivarono, gli operai avevano iniziato a entrare in fabbrica. Una delle operaie non era d’accordo. La cinepresa puntò su di lei e filmò la discussione che seguì. Il filmato deve la sua forza e il suo status al fatto che sintetizza il Sessantotto in un’unica scena, con i personaggi che incarnano perfettamente il loro ruolo: ci sono i due sindacalisti della CGT che tentano di convincere i lavoratori ad accontentarsi, per non perdere quello che hanno ottenuto; c’è il padrone un po’ in disparte che invita tutti a rientrare; c’è il gauchiste, un liceale che si oppone al sindacato; e infine c’è la protagonista, ripresa di fronte, che urla e si dispera perché non vuole entrare in quella prigione, che sono sporchi di nero fino alle spalle, che a nessuno importa… Si ferma qualche momento ad ascoltare i sindacalisti, ma subito dopo ricomincia allo stesso modo.
Jacques Rivette scrisse sui Cahiers du Cinéma che Wonder (un altro nome del film, che ne ha avuti diversi) «è l’unico film davvero rivoluzionario [del Sessantotto], forse perché è un momento in cui la realtà si trasfigura al punto tale che riesce a condensare tutta una situazione politica in dieci minuti di folle intensità drammatica». Jean-Louis Comolli, ancora sui Cahiers, espresse lo stesso concetto in modo più approfondito: il cinema diretto non incontra la realtà in modo obiettivo, come un semplice reportage, perché il cinema è sempre manipolazione; deve invece raggiungere la realtà e farla significare portandola verso la finzione. Imitarla come questa stava imitando il cinema diretto. I personaggi troppo stereotipati di Wonder trascendono l’immediatezza audiovisiva e suggeriscono una verità sul Maggio francese, lo simbolizzano. Jacques Demeure su Positif paragonò il film alla kino-pravda di Dziga Vertov (come già detto, le avanguardie sovietiche andavano forte): kino-pravda significa verità filmica, ma anche per Vertov si trattava di una verità costruita. In quel caso dal montaggio, mentre nel cinema diretto grazie alla nuova tecnologia della ripresa in sincrono. È la presa della parola, concetto fondamentale per la contestazione in generale, se non addirittura la sua definizione. Michel De Certeau disse che nel Sessantotto «è successo questo di inaudito: ci siamo messi a parlare». E il cinema “prese la parola”, non solo catturandola con un Nagra, ma anche cercando di dire la propria.
Il cinema del reale voleva mostrare tutto ciò che non era stato mostrato dal cinema di finzione. Per questo il cinema diretto sarebbe stato un cinema “parallelo”, come si diceva allora, ma non sostitutivo. Serge Daney e Serge Le Peron scriveranno che Wonder è la scena primitiva del cinema militante, L’uscita dalle officine Lumière al contrario. Ieri si usciva di fabbrica per andare al cinema, oggi è il cinema a entrare, con tutti gli operai. Un parallelo appunto, ma il suo rovescio. E infatti il film dei Lumière era piuttosto una finzione che imitava la realtà: lo testimoniano le diverse versioni esistenti di quel film, l’orario inconsueto della fine del lavoro (metà mattina, forse di domenica), le direzioni esatte che prendono gli operai e le operaie (anche lì, come alle fabbriche Wonder, le donne costituiscono la maggioranza), la velocità e l’ordine con cui escono.
Lo stesso 10 giugno in cui venne girato Wonder morì Gilles Tautin, uno studente in fuga da una carica di polizia. 11 e 12 giugno videro la terza e ultima “notte delle barricate”, e ci furono altri due morti. Il 12 giugno De Gaulle sciolse dodici organizzazioni qualificate come rivoluzionarie, tra cui gli studenti trotskisti dell’OCI e la UJC(ml) di cui faceva parte il gauchiste del filmato. Il rientro in fabbrica era la normalità in quei giorni. La notte tra il 14 e il 15 giugno, i materiali girati da Willemont sparirono misteriosamente dalla sala di montaggio. Non Wonder, perché l’assemblea degli Stati Generali, dopo aver ascoltato la sera stessa l’audio del girato, aveva deciso di far circolare immediatamente la sequenza come un film autonomo. Le proiezioni nei licei e nelle sedi dei collettivi, nei mesi successivi, furono spesso proibite insieme ad altri cinétracts. Il suo percorso continuò nei festival, e il film raggiunse in seguito sia lo status di documento storico, ripreso anche in molti film di montaggio, che di mito, diventando una delle immagini più emblematiche del Sessantotto.
Forse fu proprio questa aura a creare un velo di mistero e confusione. La paternità dell’opera divenne controversa, e a volte è genericamente attribuita ad anonimi o studenti. In qualche caso Willemont appare come operatore audio: in effetti è lui che vediamo nell’immagine tenere il microfono. Il motivo, spiegato successivamente, era l’esigenza di mantenersi il più vicino possibile alle voci, dato che non si trattava di un direzionale. L’operatore di Wonder Pierre Bonneau passò anch’esso per autore. In effetti Willemont, Bonneau e Liane Estiez, che controllava il registratore, decisero poi di attribuirsi formalmente una paternità collettiva, nello spirito del tempo (il quarto elemento della troupe era Roland Portiche, facente funzione di assistente). Alcuni documenti falsi sono venuti poi confondendo ancor più le acque, sostanzialmente escludendo Willemont dai diritti.
La storia è abbastanza intricata: nel 1970 l’associazione degli studenti in rivolta dell’IDHEC cedette i diritti per una prima diffusione commerciale in 35 mm. Fu in quel caso che nacque la confusione sul titolo. Gli autori risultavano essere persone completamente estranee al film. Grazie a un reclamo di Willemont, che conosceva il produttore che aveva acquistato il film, i diritti tornarono a lui. Nonostante ciò, il film fu sfruttato comunque dalle stesse persone legate all’IDHEC, diventate nel frattempo produttori e sindacalisti del cinema. Willemont sta raccontando recentemente sul suo sito tutto “l’affaire Wonder”. Dal suo racconto, sembrerebbe che nei giorni in cui girava fossero nati dei contrasti tra lui e l’ambiente trotskista, con i militanti che non apprezzavano più il progetto del film. In effetti Willemont appare già all’epoca non molto convinto dei “gruppettari”, e inoltre la sua idea di film corrispondeva meno a quella del cinétract che spiega la realtà con l’ideologia che a quella di un’osservazione più dubbiosa della realtà. Più tardi fu negata l’esistenza del film sui trotskisti, o almeno prima di una certa data, il che rendeva Wonder un film autonomo a tutti gli effetti, parte del progetto collettivo degli studenti in lotta. Nel 2005 però, il già citato Sébastien Layerle (a cui devo molte delle informazioni contenute in questo articolo) ritrovò alcuni giornalieri negli archivi belgi, che ora sono disponibili sul Vimeo di Willemont. Questo proverebbe l’esistenza del progetto e quindi il ruolo di regista che Willemont ebbe anche il 10 giugno, il giorno di Wonder.
Nel 1981, un numero dei Cahiers du Cinéma riaccese l’interesse. In un articolo (dei già citati Daney e Le Peron) sulla storia del cinema diretto “in dieci immagini”, La reprise du travail chez Wonder è il primo della lista, un classico a tutti gli effetti. Di cinema diretto, per un breve periodo chiamato anche “cinéma-vérité”, si parlava almeno dal 1960. Era una tendenza nata in Quebec e legata soprattutto al nome di Michel Brault, e in Francia al film Chronique d’un été, di Jean Rouch e Edgar Morin. Non indicava propriamente un gruppo di autori, ma più che altro un diverso modo di interrogarsi sulla realtà del cinema. Era talmente nell’aria che nel 1968 l’assemblea degli studenti IDHEC aveva incaricato Jacques Willemont di fare un corso di cinema diretto, nonostante avesse praticato solo la ripresa 35mm in studio: è così che reclutò la sua piccola troupe. In seguito, fu sempre lui a contribuire alla fondazione del festival Cinéma du réel, oggi il più importante evento francese dedicato al documentario.
Il fotogramma pubblicato dai Cahiers diede nuova vita al film. Vedendolo, Hervé Le Roux, regista francese classe 1956 e recentemente scomparso, scoprì il film e ne rimase impressionato, soprattutto per la teatralità della donna. Decise allora di cercarla per concederle una seconda “prise”, una ripresa. Ne venne fuori un film, Reprise (1996), che con nome richiama non solo il titolo del film del 1968 e la ripresa del lavoro degli operai, ma anche la ripresa in considerazione di quell’immagine in un nuovo contesto: gli anni Novanta, con i grandi scioperi del 1995, segnano in Francia un certo ritorno del cinema militante. Nella sua ricerca, Le Roux incontra i personaggi presenti nel filmato originale o in quel contesto, ricavandone soprattutto la memoria di Saint-Ouen, banlieue industriale di Parigi che all’epoca contava 40'000 operai. Il regista porta con sé un televisore per mostrare Wonder a vecchi sindacalisti e operai, mentre li filma guardarlo; poi aspetta con trepidazione che qualcuno ricordi qualcosa o faccia il nome di lei, la donna misteriosa. Suspense, di nuovo la tensione drammatica che si affaccia nel documentario. Sempre nello spirito della “presa di parola”, Le Roux si limita ad ascoltare, senza contraddire o interrompere. A un certo punto il cresciuto Poulou, che si rivede gauchiste sedicenne ai cancelli di Wonder, nota la sua stessa teatralità. In faccia ai sindacalisti, aveva bisogno di non far scoprire la sua natura di estremista, o quelli non sarebbero andati tanto per il sottile, manu militari, come dice lui.
Anche Reprise, come Wonder, ha due versioni: una più corta, con un altro nome, fu venduta alla televisione dal produttore, al quale servivano i soldi per finire la versione lunga. Per qualche strano caso, si tratta di uno dei capi degli studenti dell’IDHEC che si considerava “produttore simbolico” del film Wonder. Le Roux, che non ne voleva sapere della versione corta ed evitò di associare il suo nome ad essa, ottenne infine un grande successo di critica e di pubblico per il suo film, fatto straordinario per un documentario che alla fine contava più di tre ore.
Storia della profonda relazione tra cinema e operai, dai Lumière al
Maggio francese,
di Virgil Darelli
TR-01
08.05.2020
Il cinema così come lo conosciamo apparve per la prima volta il 28 dicembre 1895, in una piccola sala del centro di Parigi. In trentatré pagarono un franco, circa cinque euro di oggi, per assistere a un programma di dieci film, tutti lunghi meno di un minuto. Le immagini che quel primo pubblico vide non rispecchiavano la loro vita, come forse si aspettavano, ma una molto più provinciale (in Francia la provincia è tutto ciò che è oltre Parigi). Un congresso di fotografi, artigiani al lavoro, una famiglia, scene di scherzi grossolani in campagna, il mare, queste furono le scene spettacolari che i lionesi Lumière portarono in città – una città che solo per caso è soprannominata come il loro cognome. In assoluto, le prime figure umane a prendere vita davanti a quel pubblico cittadino furono operai, perché il film che convenzionalmente dà avvio alla storia del cinema è L’uscita dalle officine Lumière.
Si è parlato di quel film come di un grande spot. Anche se non si vede nessuna insegna sulla fabbrica di materiali fotografici, si potrebbe in effetti pensare che l’oggetto pubblicizzato fosse lo stesso Cinematografo Lumière, più che la fabbrica. L’attenzione degli spettatori doveva essere tutta su quella macchina capace di riprodurre la vita, non solo sul contenuto di una banale scena di provincia. Così, con un’associazione mentale implicita, gli operai in uscita venivano collegati allo spettacolo del cinema.
Certo, non fu una strategia intenzionale, dato che poco dopo i Lumière si disinteressarono del cinema. Ma resta il fatto che furono gli operai i primi a comparire sul grande schermo. Se il cinema iniziava la sua marcia di conquista del secolo, fino a raggiungere lo status di occhio del novecento, quelli, gli operai, erano già saliti alla ribalta della società e intendevano restarci ancora per molto. Solo due mesi prima della presentazione del cinematografo nacque in Francia la Conféderation Génerale du Travail (CGT), il più grande sindacato francese. Mentre Jack London immaginava uno sciopero generale capace di provocare la fine della civiltà, gli intellettuali europei iniziavano a cogliere la potenza della massa. Quel nuovo soggetto, costituito per la maggior parte di operai, era insieme il potenziale pubblico dei nuovi media e una minaccia politica. La prima “veduta Lumière” sintetizzava queste tensioni nel cancello della fabbrica, luogo di transizione tra lavoro e tempo libero, tra occupazione e disoccupazione, tra picchetti e polizia, tra sindacati ed estremisti. C’è un bel film di Harun Farocki, Workers Leaving The Factory, che mostra come il cinema sia spesso tornato su quel luogo archetipico.
Sessant’anni dopo il numero degli operai aumentava ancora. In Francia e Italia, la percentuale massima di operai sui lavoratori totali si ebbe nei primissimi anni Sessanta, sempre continuando ad aumentare in termini assoluti. Anche il cinema stava cambiando. Oggi non si direbbe vedendo uno dei primi film di Jean-Luc Godard, ma è dal problema del realismo che il cinema voleva rinnovarsi in quegli anni. Il neorealismo aveva stabilito nuovi valori per il cinema, rilanciati in Francia da André Bazin e la sua rivista, i Cahiers du Cinéma. Andare oltre la sceneggiatura, la recitazione e le scenografie ‘di qualità’ per scoprire la complessità del reale: ecco che i film poterono uscire in strada. Il cinema si fece autoriflessivo, è vero, ma fu solo un passaggio obbligato per scoprire che la società si trovava oltre le proprie convenzioni narrative, estetiche e produttive. Ed ecco anche il Maggio 1968. Non era più solo il cinema, ma la realtà stessa a ribellarsi: “siate realisti, chiedete l’impossibile”. Oggi si tende a pensare al Sessantotto come a una rivolta soprattutto degli studenti, basata su richieste antigerarchiche e libertarie. È vero anche questo, ma non bisogna dimenticare che quasi la metà dei lavoratori totali francesi entrò in sciopero, di cui più di un terzo erano operai. Per i marxisti il cambiamento sociale sarebbe stato portato dalla classe operaia. Per i cineasti, la realtà del realismo diventava l’operaio dell’operaismo, come se l’operaio indicasse la persona comune per antonomasia.
Allora apparve il cinema militante. Molti registi si ispirarono alle avanguardie sovietiche. Godard, dopo la svolta verso la politica esplicita con La cinese, costituì il Gruppo Dziga Vertov; Jean-Pierre Thorn, realizzò il film maoista Oser lutter, oser vaincre ispirandosi a Ejzenstejn; Chris Marker con i suoi gruppi Medvedkin (dal nome di un regista non proprio avanguardista, ma che fu a capo di un “cinetreno” sovietico) produsse con gli operai importanti esperimenti di film collaborativi. Thorn addirittura abbandonò il cinema per entrare in fabbrica, per capire quanto la questione operaia fosse sentita. Nel mondo si parlava della possibilità e dell’esistenza di un “terzo cinema”, così chiamato dai cineasti argentini Fernando Solanas e Octavio Getino, un cinema che sarebbe dovuto andare sia oltre quello commerciale americano che quello d’autore europeo.
La Francia intera si fermò. Il sindacato dei tecnici del cinema, legato alla CGT, iniziò anch’esso uno sciopero. A loro si unì una gran parte del mondo del cinema, già mobilitato per l’affaire Langlois (la sostituzione del direttore della Cinématheque, poi reintegrato dal ministro André Malraux): cineasti, giornalisti, studenti delle scuole di cinema, persino cinefili. Vennero costituiti gli États généraux du cinéma in riferimento alla rivoluzione francese, un nome proposto dalla redazione dei Cahiers du Cinéma. Il festival di Cannes fu interrotto, condannato per il suo carattere competitivo e mercantile. Perfino il sindacato appariva molto radicale nelle sue posizioni: sciopero selvaggio e illimitato, come aveva immaginato Jack London. L’idea era quella di rifondare l’audiovisivo da zero, farne un servizio pubblico generalizzato.
A parte qualche piccola riforma nei sistemi di sindacato e finanziamento del cinema, che resisteranno alla prova del tempo, gli Stati Generali del Cinema, troppo divisi tra loro e con obbiettivi decisamente utopici, decisero di passare all’azione: filmare gli “eventi”, come venivano chiamati. Venne istituita una “sotto-commissione” dedicata alla realizzazione di film. Come racconta Sébastien Layerle nel libro Caméras en lutte en Mai 68, i materiali cinematografici arrivarono grazie alle donazioni dei privati e alla solidarietà di qualche produttore terrorizzato e ansioso di conformarsi al cinema rivoluzionario di domani. La commissione coordinava e autorizzava i progetti, sostanzialmente cinétracts, ovvero cinegiornali rivoluzionari. Si decise inoltre di non firmare nessun film: non erano più gli autori, ma il popolo stesso a prendere la parola.
Nel mondo la contestazione ebbe un tratto in comune, la critica dello spettacolo e dell’informazione che vuole passare per oggettiva, bollando la neutralità stessa come qualcosa di ideologica (all’epoca in Francia, come in Italia, la televisione era sotto il monopolio di Stato). Viceversa, solo l’informazione di parte sarebbe stata autentica. In un’intervista televisiva davvero esemplificativa della posizione marxista (in parte tradotta qui), Godard affermò che l’unico regista francese finora era stato Charles De Gaulle e che il popolo non era mai apparso sullo schermo. Bisognava dunque cambiare non solo i contenuti, in fondo abbastanza indifferenti, ma il modo di produzione: rubare la pellicola, sprecarla, smettere di filmare (stranamente l’intervista non andò in onda). I cineasti militanti ebbero in effetti grandi difficoltà: mancava la pellicola, i laboratori non collaboravano (tanto che le pellicole furono sviluppate clandestinamente in Italia e in Belgio grazie alla solidarietà ricevuta in quei paesi). Il film più famoso girato in quelle condizioni fu Grands Soirs et petits matins, di William Klein (che però lo firmò con il suo nome), uscito dieci anni dopo e che rappresentava il Maggio degli studenti al quartiere latino e alla Sorbona.
Gli studenti dell’IDHEC (Institut des Hautes Études Cinématographiques), la più importante scuola di cinema francese del periodo, parteciparono agli Stati Generali mettendo a disposizione locali e attrezzature. Jacques Willemont, studente di secondo anno del corso di fotografia, propose alla commissione un progetto non proprio in linea con lo spontaneismo-didattismo che andava per la maggiore. Si trattava di un film sull’OCI (Organisation Communiste Internationaliste), un gruppo di una corrente del trotskismo (detta “lambertista”) minoritaria tra gli studenti, ma non per questo irrilevante nella vasta galassia del gauchisme (così veniva chiamata l’estrema sinistra opposta alle organizzazioni comuniste ufficiali, dal nome affibbiato da Lenin alla “malattia infantile del comunismo”).
Willemont e alcuni suoi collaboratori iniziarono così a intervistare militanti e a filmare manifestazioni per un film che avrebbe dovuto chiamarsi Sauve qui peut Trotsky. Un giorno, qualcuno all’OCI li indirizzò verso la fabbrica di batterie Wonder, in sciopero, dov’era presente una loro militante. È così che il 10 giugno una piccola troupe degli anni Sessanta si venne a trovare nuovamente sul luogo portante del cinema politico, l’ingresso della fabbrica. Qui, a detta di tutti i commentatori successivi, ebbe luogo un piccolo miracolo: la nascita del film-simbolo del cinema diretto. Molto dipese dalla situazione tecnica, completamente diversa da quella del tempo dei Lumière. Al posto del Cinematografo che riprende e proietta, c’era una Arriflex 16 mm con pellicola invertibile, silenziosa, e un Nagra che registra in sincrono su nastri magnetici da 6,35. L’attrezzatura portatile, non a caso divenuta mitica anch’essa, permise di cogliere una scena spontanea, autentica, senza tagli e della durata dell’unico caricatore (qui ci sono imprecisioni dovute alla mitizzazione: in realtà c’è una seconda breve inquadratura che fa da introduzione e poi fu aggiunto un voice-over, e ci fu quindi un montaggio; Willemont aveva altri stock di pellicola in macchina, non era l’ultimo caricatore). Il risultato fu La reprise du travail aux usines Wonder, la ripresa del lavoro alle fabbriche Wonder.
Sì, perché lo sciopero era finito: un’assemblea aveva deciso così, forse tra le pressioni del sindacato. Quando i quattro studenti dell’IDHEC arrivarono, gli operai avevano iniziato a entrare in fabbrica. Una delle operaie non era d’accordo. La cinepresa puntò su di lei e filmò la discussione che seguì. Il filmato deve la sua forza e il suo status al fatto che sintetizza il Sessantotto in un’unica scena, con i personaggi che incarnano perfettamente il loro ruolo: ci sono i due sindacalisti della CGT che tentano di convincere i lavoratori ad accontentarsi, per non perdere quello che hanno ottenuto; c’è il padrone un po’ in disparte che invita tutti a rientrare; c’è il gauchiste, un liceale che si oppone al sindacato; e infine c’è la protagonista, ripresa di fronte, che urla e si dispera perché non vuole entrare in quella prigione, che sono sporchi di nero fino alle spalle, che a nessuno importa… Si ferma qualche momento ad ascoltare i sindacalisti, ma subito dopo ricomincia allo stesso modo.
Jacques Rivette scrisse sui Cahiers du Cinéma che Wonder (un altro nome del film, che ne ha avuti diversi) «è l’unico film davvero rivoluzionario [del Sessantotto], forse perché è un momento in cui la realtà si trasfigura al punto tale che riesce a condensare tutta una situazione politica in dieci minuti di folle intensità drammatica». Jean-Louis Comolli, ancora sui Cahiers, espresse lo stesso concetto in modo più approfondito: il cinema diretto non incontra la realtà in modo obiettivo, come un semplice reportage, perché il cinema è sempre manipolazione; deve invece raggiungere la realtà e farla significare portandola verso la finzione. Imitarla come questa stava imitando il cinema diretto. I personaggi troppo stereotipati di Wonder trascendono l’immediatezza audiovisiva e suggeriscono una verità sul Maggio francese, lo simbolizzano. Jacques Demeure su Positif paragonò il film alla kino-pravda di Dziga Vertov (come già detto, le avanguardie sovietiche andavano forte): kino-pravda significa verità filmica, ma anche per Vertov si trattava di una verità costruita. In quel caso dal montaggio, mentre nel cinema diretto grazie alla nuova tecnologia della ripresa in sincrono. È la presa della parola, concetto fondamentale per la contestazione in generale, se non addirittura la sua definizione. Michel De Certeau disse che nel Sessantotto «è successo questo di inaudito: ci siamo messi a parlare». E il cinema “prese la parola”, non solo catturandola con un Nagra, ma anche cercando di dire la propria.
Il cinema del reale voleva mostrare tutto ciò che non era stato mostrato dal cinema di finzione. Per questo il cinema diretto sarebbe stato un cinema “parallelo”, come si diceva allora, ma non sostitutivo. Serge Daney e Serge Le Peron scriveranno che Wonder è la scena primitiva del cinema militante, L’uscita dalle officine Lumière al contrario. Ieri si usciva di fabbrica per andare al cinema, oggi è il cinema a entrare, con tutti gli operai. Un parallelo appunto, ma il suo rovescio. E infatti il film dei Lumière era piuttosto una finzione che imitava la realtà: lo testimoniano le diverse versioni esistenti di quel film, l’orario inconsueto della fine del lavoro (metà mattina, forse di domenica), le direzioni esatte che prendono gli operai e le operaie (anche lì, come alle fabbriche Wonder, le donne costituiscono la maggioranza), la velocità e l’ordine con cui escono.
Lo stesso 10 giugno in cui venne girato Wonder morì Gilles Tautin, uno studente in fuga da una carica di polizia. 11 e 12 giugno videro la terza e ultima “notte delle barricate”, e ci furono altri due morti. Il 12 giugno De Gaulle sciolse dodici organizzazioni qualificate come rivoluzionarie, tra cui gli studenti trotskisti dell’OCI e la UJC(ml) di cui faceva parte il gauchiste del filmato. Il rientro in fabbrica era la normalità in quei giorni. La notte tra il 14 e il 15 giugno, i materiali girati da Willemont sparirono misteriosamente dalla sala di montaggio. Non Wonder, perché l’assemblea degli Stati Generali, dopo aver ascoltato la sera stessa l’audio del girato, aveva deciso di far circolare immediatamente la sequenza come un film autonomo. Le proiezioni nei licei e nelle sedi dei collettivi, nei mesi successivi, furono spesso proibite insieme ad altri cinétracts. Il suo percorso continuò nei festival, e il film raggiunse in seguito sia lo status di documento storico, ripreso anche in molti film di montaggio, che di mito, diventando una delle immagini più emblematiche del Sessantotto.
Forse fu proprio questa aura a creare un velo di mistero e confusione. La paternità dell’opera divenne controversa, e a volte è genericamente attribuita ad anonimi o studenti. In qualche caso Willemont appare come operatore audio: in effetti è lui che vediamo nell’immagine tenere il microfono. Il motivo, spiegato successivamente, era l’esigenza di mantenersi il più vicino possibile alle voci, dato che non si trattava di un direzionale. L’operatore di Wonder Pierre Bonneau passò anch’esso per autore. In effetti Willemont, Bonneau e Liane Estiez, che controllava il registratore, decisero poi di attribuirsi formalmente una paternità collettiva, nello spirito del tempo (il quarto elemento della troupe era Roland Portiche, facente funzione di assistente). Alcuni documenti falsi sono venuti poi confondendo ancor più le acque, sostanzialmente escludendo Willemont dai diritti.
La storia è abbastanza intricata: nel 1970 l’associazione degli studenti in rivolta dell’IDHEC cedette i diritti per una prima diffusione commerciale in 35 mm. Fu in quel caso che nacque la confusione sul titolo. Gli autori risultavano essere persone completamente estranee al film. Grazie a un reclamo di Willemont, che conosceva il produttore che aveva acquistato il film, i diritti tornarono a lui. Nonostante ciò, il film fu sfruttato comunque dalle stesse persone legate all’IDHEC, diventate nel frattempo produttori e sindacalisti del cinema. Willemont sta raccontando recentemente sul suo sito tutto “l’affaire Wonder”. Dal suo racconto, sembrerebbe che nei giorni in cui girava fossero nati dei contrasti tra lui e l’ambiente trotskista, con i militanti che non apprezzavano più il progetto del film. In effetti Willemont appare già all’epoca non molto convinto dei “gruppettari”, e inoltre la sua idea di film corrispondeva meno a quella del cinétract che spiega la realtà con l’ideologia che a quella di un’osservazione più dubbiosa della realtà. Più tardi fu negata l’esistenza del film sui trotskisti, o almeno prima di una certa data, il che rendeva Wonder un film autonomo a tutti gli effetti, parte del progetto collettivo degli studenti in lotta. Nel 2005 però, il già citato Sébastien Layerle (a cui devo molte delle informazioni contenute in questo articolo) ritrovò alcuni giornalieri negli archivi belgi, che ora sono disponibili sul Vimeo di Willemont. Questo proverebbe l’esistenza del progetto e quindi il ruolo di regista che Willemont ebbe anche il 10 giugno, il giorno di Wonder.
Nel 1981, un numero dei Cahiers du Cinéma riaccese l’interesse. In un articolo (dei già citati Daney e Le Peron) sulla storia del cinema diretto “in dieci immagini”, La reprise du travail chez Wonder è il primo della lista, un classico a tutti gli effetti. Di cinema diretto, per un breve periodo chiamato anche “cinéma-vérité”, si parlava almeno dal 1960. Era una tendenza nata in Quebec e legata soprattutto al nome di Michel Brault, e in Francia al film Chronique d’un été, di Jean Rouch e Edgar Morin. Non indicava propriamente un gruppo di autori, ma più che altro un diverso modo di interrogarsi sulla realtà del cinema. Era talmente nell’aria che nel 1968 l’assemblea degli studenti IDHEC aveva incaricato Jacques Willemont di fare un corso di cinema diretto, nonostante avesse praticato solo la ripresa 35mm in studio: è così che reclutò la sua piccola troupe. In seguito, fu sempre lui a contribuire alla fondazione del festival Cinéma du réel, oggi il più importante evento francese dedicato al documentario.
Il fotogramma pubblicato dai Cahiers diede nuova vita al film. Vedendolo, Hervé Le Roux, regista francese classe 1956 e recentemente scomparso, scoprì il film e ne rimase impressionato, soprattutto per la teatralità della donna. Decise allora di cercarla per concederle una seconda “prise”, una ripresa. Ne venne fuori un film, Reprise (1996), che con nome richiama non solo il titolo del film del 1968 e la ripresa del lavoro degli operai, ma anche la ripresa in considerazione di quell’immagine in un nuovo contesto: gli anni Novanta, con i grandi scioperi del 1995, segnano in Francia un certo ritorno del cinema militante. Nella sua ricerca, Le Roux incontra i personaggi presenti nel filmato originale o in quel contesto, ricavandone soprattutto la memoria di Saint-Ouen, banlieue industriale di Parigi che all’epoca contava 40'000 operai. Il regista porta con sé un televisore per mostrare Wonder a vecchi sindacalisti e operai, mentre li filma guardarlo; poi aspetta con trepidazione che qualcuno ricordi qualcosa o faccia il nome di lei, la donna misteriosa. Suspense, di nuovo la tensione drammatica che si affaccia nel documentario. Sempre nello spirito della “presa di parola”, Le Roux si limita ad ascoltare, senza contraddire o interrompere. A un certo punto il cresciuto Poulou, che si rivede gauchiste sedicenne ai cancelli di Wonder, nota la sua stessa teatralità. In faccia ai sindacalisti, aveva bisogno di non far scoprire la sua natura di estremista, o quelli non sarebbero andati tanto per il sottile, manu militari, come dice lui.
Anche Reprise, come Wonder, ha due versioni: una più corta, con un altro nome, fu venduta alla televisione dal produttore, al quale servivano i soldi per finire la versione lunga. Per qualche strano caso, si tratta di uno dei capi degli studenti dell’IDHEC che si considerava “produttore simbolico” del film Wonder. Le Roux, che non ne voleva sapere della versione corta ed evitò di associare il suo nome ad essa, ottenne infine un grande successo di critica e di pubblico per il suo film, fatto straordinario per un documentario che alla fine contava più di tre ore.