INT-49
09.11.2023
Sono passati quasi due anni dall’uscita nelle sale di Re Granchio - presentato nella Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2021 - lungometraggio firmato da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis che rappresenta l’ultima parte di una trilogia iniziata con Belva nera (2013) e continuata con Il solengo (2015). Partita dal documentario - per una questione di mezzi, come afferma Zoppis - questa trilogia “sulla parola” si è evoluta facendo dialogare abilmente forme e figure del cinema documentario (come le interviste) con quelle del cinema di genere come il western (il vestiario o le scenografie).
E proprio attraverso il cinema di genere i due autori italiani stanno ripartendo con Testa o croce?, lungometraggio in via di sviluppo il cui progetto è stato premiato al Festival di Rotterdam nella cornice del CineMart (Eurimages Co-production Development Award).
Abbiamo avuto modo di intervistare i registi, e di discutere insieme del legame col cinema di genere, di ambizioni, idee e di altre curiosità riguardanti lo sviluppo del loro ultimo titolo.
Come vi sentite dopo aver concluso questa “trilogia sulla parola”? Si è chiuso un capitolo?
Matteo Zoppis: Sicuramente, la vita va avanti. Con Re Granchio, abbiamo cercato di realizzare un lungometraggio che partisse dal luogo dove abbiamo fatto gli altri film, per poi andare il più lontano possibile e potenzialmente chiudere quella storia lì. Ma anche per noi, nel modo di lavorare eccetera.
Alessio Rigo de Righi: Forse se c’è una chiusura vera e propria è dovuta alla casina, il luogo dove nascono tutte e tre le storie di questa trilogia. Quel luogo non c’è più, i due proprietari della casina non ci sono più. Anche Ercole se n’è andato da poco. Dalla nostra prospettiva creativa invece, il punto è un altro.
Vedendo Re Granchio, è curioso notare come tutto sembra già contenuto in Belva nera: il legame con il cinema di genere, gli elementi scenografici, tutto rimanda ad un immaginario western. Questo film è nato più per ambizione o per un legame con la comunità di Vejano?
AR: C’è sempre stata un’ambizione di realizzare qualcosa di legato ad un ’immaginario di quel genere. Quegli uomini li abbiamo sempre trattati come personaggi, tanto da arrivare a vestirli come dei cowboy. Matteo, per esempio, andava a cercare nell’armadio di Ercolino la camicia adatta, il cappello – che non è quello che indossava abitualmente - eccetera. Fin da Belva nera abbiamo giocato con questa idea, questa ambizione, di creare un racconto che potesse rientrare in quei canoni. È un genere che mi appassiona.
MZ: Tutto è partito comunque da degli elementi che abbiamo visto lì. Anche la casina, ad esempio, sembrava una specie di locanda: ogni due secondi arrivavano delle persone e raccontavano delle storie. Noi all’inizio abbiamo lavorato su una sceneggiatura e, confrontandola poi con quello che vivevamo, abbiamo scoperto che quest’ultima via era decisamente meglio. A quel punto abbiamo deciso di trasformare la casina in una vera locanda western. E poi Ercolino sembrava William Holden.
Come siete arrivati a girare nella Terra del Fuoco?
AR: Io ho vissuto in Argentina per 15 anni. L’idea del film è nata a seguito di un viaggio di Matteo a Buenos Aires, per presentare Belva nera, che ci ha portato a visitare assieme la Terra del Fuoco: un territorio in cui, sul finire dell’Ottocento, la gente andava in cerca di fortuna. Insomma, un luogo di leggende. Dal punto di vista produttivo è oggettivamente un posto molto lontano da qui. Ci sono state non poche difficoltà, però ci siamo riusciti.
MZ: Luciano, il personaggio protagonista del film, era realmente andato in Argentina, dove Alessio vive. E questo ci intrigava, per le possibilità di aprire uno spazio filmico nuovo. Così come ci intrigava l’idea di un film che parte da una piccola storia narrata in Italia e che si perde nella seconda parte. In quel viaggio, poi, avevamo stranamente pensato già al titolo, per l’animale - il granchio - che realmente vive in quel luogo.
AR: Io devo dire che mi sono relazionato al film in modo molto personale: dall’idea di strutturarlo in un due parti, fino a focalizzarlo su un uomo diviso tra due mondi.
Parlando del vostro rapporto con il cinema, avete menzionato spesso l’importanza che date alla sceneggiatura o ai vostri riferimenti letterari. Ma come si divide il vostro lavoro? Quanta importanza date alle singole fasi di pre-produzione e sviluppo?
AR: Metterei tutto insieme. Essendo due, poi, la questione è più “trovare” il film insieme. Per questo usiamo anche i riferimenti letterari, pittorici, cinematografici, che sono la materia che abbiamo a disposizione per poterci capire reciprocamente e arrivare, in questo modo, al fulcro della storia. Certo…ognuno dal suo punto di vista: non credo che sia necessariamente lo stesso quello che io sento rispetto al film da quello che sente Matteo.
MZ: Penso che la fase della scrittura sia legata, sì, a un processo di scoperta ma anche di burocrazia. È uno strumento per capirci e per farci capire dagli altri. C’è una fase necessaria e poi un’altra dove, potenzialmente, è più entusiasmante passare ad altro. Io soffro molto la fase della scrittura. È la trasformazione dalle parole alle immagini quello che a me interessa veramente. Poi, leggendo, ognuno si crea delle immagini che deve spiegare all’altro, come nel nostro caso.
AZ: Per Re Granchio, in particolare, la fiducia è arrivata quando siamo riusciti a girare un teaser del film: il momento in cui gli altri hanno visto quello che avevamo in mente e come avevamo intenzione di realizzarlo.
Ve lo chiedevo anche perché voi girate in pellicola, e oggi girare in questo formato costa di più.
AR: Quella in realtà è un’impostazione, molti registi oggi lavorano con la pellicola.
MZ: In realtà noi abbiamo sempre mescolato i due formati. In Belva nera eravamo più vicini alla pellicola perché sapevamo utilizzarla meglio, al di là delle scuole che abbiamo frequentato. Poi, ci siamo trovati di fronte a delle esigenze pratiche e abbiamo virato verso il digitale. Stessa cosa con i film successivi. Abbiamo a lungo discusso con Simone D’Arcangelo - il nostro DOP - su come utilizzare i due formati: per Re Granchio volevamo distinguere la parte maggiormente legata al film precedente dal racconto, dove ricercavamo un’immagine un po’ più sospesa e sognante; poi abbiamo usato, tecnicamente, il digitale negli interni perché, a nostro avviso, più superiore ed efficace. Nella parte in Argentina abbiamo avuto altre esigenze pratiche: non c’erano laboratori per le pellicole lì, e per utilizzarla saremmo dovuti andare o in Brasile, o in Messico, o negli Stati Uniti.
Passiamo a Testa o croce?: avete da poco ottenuto un premio da CineMart a Rotterdam, un finanziamento...
AR: È un premio non un finanziamento, siamo ancora in fase di sviluppo.
MZ: A Rotterdam abbiamo ricevuto un premio che non ci aspettavamo di vincere, ci ha stupito e incentivato. Un vero primo passo per credere di più̀ nel progetto.
AR: E anche la prima volta in cui abbiamo visto il riscontro dei possibili co- produttori, dei possibili interpreti... Tutte quelle persone che poi ci accompagneranno nella realizzazione del film.
C’è in questo progetto un legame diretto con i precedenti, è un ritorno al cinema western.
MZ: Ha delle ambizioni leggermente differenti. Per noi, semplicemente, è anche l’occasione per fare qualcosa di diverso...per rischiare.
AR: È in linea con il nostro percorso: andare sempre più avanti e raddoppiare la posta in gioco. È stato sempre così.
MZ: Anche per Re Granchio è stato rischioso provare a fare un film in Italia e Argentina, tante persone non ci credevano. Il nostro gruppo ha sempre sostenuto il progetto, prendendosi anche dei grossi rischi dal punto di vista produttivo. E non saremmo mai riusciti a farlo se non ci fosse stata la moglie di Alessio - Agustina Costa Varsi – e non avessimo avuto anche un piede di là.
AR: Era una vera coproduzione da quel punto di vista.
MZ: In Argentina abbiamo girato con un’altra equipe, del luogo, portandoci dietro solo l’attore Gabriele Silli e il direttore della fotografia Simone D’Arcangelo. Alla fine, ci siamo trovati molto bene con loro perché lì fanno un cinema molto simile a quello che volevamo fare noi. Per questo nuovo progetto invece vorremmo fare un western totalmente italiano.
Qual è il vostro rapporto con questo genere?
AR: Il nostro progetto è di fare un western ambientato in Italia, una cosa che si è fatta poco in passato. Partendo da una visione classica, e rifacendoci agli inizi del genere, il film si apre con il Wild West Show di Buffalo Bill a Roma, e l’intenzione è quella di portarlo a uno sconvolgimento assoluto; quindi, l’idea è quella di rivisitarlo sia in chiave estetica sia in chiave narrativa.
MZ: Il periodo nel quale vogliamo ambientare il film è quello del brigantaggio - momento leggermente successivo a quello del post-Unità - che ha delle caratteristiche che sono abbastanza western. Nel nostro periodo d’interesse ci sono degli elementi che ci intrigavano e che ci sembravano adatti per essere traslati all’interno del genere. Vorremmo fare un film post-moderno, in tal senso. Con l’America che arriva in Italia attraverso lo show di Buffalo Bill.
Quindi, per ora, abbandonate le tracce del cinema documentario.
MZ: Non proprio. L’idea di fare un documentario era legata ai mezzi che avevamo a disposizione. In realtà, sia io che Alessio, prima di fare Belva nera abbiamo realizzato una decina di cortometraggi a testa, quasi tutti di finzione. Noi abbiamo sempre voluto fare dei film e basta. Poi, non lo so, non sono neanche sicuro di cosa significhi abbandonare il cinema documentario.
Una domanda molto ostica o molto banale: dove vi vedete all’interno del panorama dell’attuale cinema italiano?
MZ: A noi piace semplicemente fare film e vorremmo farne tanti altri, finché ci sarà qualcosa da raccontare, finché avremo voglia di fare cinema. È anche un’esigenza fisica: quando abbiamo deciso di fare il primo film ognuno aveva già realizzato qualcosa per conto proprio, e siamo partiti senza pensarci. Poi, piano piano, siamo diventati più sistemici.
INT-49
09.11.2023
Sono passati quasi due anni dall’uscita nelle sale di Re Granchio - presentato nella Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2021 - lungometraggio firmato da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis che rappresenta l’ultima parte di una trilogia iniziata con Belva nera (2013) e continuata con Il solengo (2015). Partita dal documentario - per una questione di mezzi, come afferma Zoppis - questa trilogia “sulla parola” si è evoluta facendo dialogare abilmente forme e figure del cinema documentario (come le interviste) con quelle del cinema di genere come il western (il vestiario o le scenografie).
E proprio attraverso il cinema di genere i due autori italiani stanno ripartendo con Testa o croce?, lungometraggio in via di sviluppo il cui progetto è stato premiato al Festival di Rotterdam nella cornice del CineMart (Eurimages Co-production Development Award).
Abbiamo avuto modo di intervistare i registi, e di discutere insieme del legame col cinema di genere, di ambizioni, idee e di altre curiosità riguardanti lo sviluppo del loro ultimo titolo.
Come vi sentite dopo aver concluso questa “trilogia sulla parola”? Si è chiuso un capitolo?
Matteo Zoppis: Sicuramente, la vita va avanti. Con Re Granchio, abbiamo cercato di realizzare un lungometraggio che partisse dal luogo dove abbiamo fatto gli altri film, per poi andare il più lontano possibile e potenzialmente chiudere quella storia lì. Ma anche per noi, nel modo di lavorare eccetera.
Alessio Rigo de Righi: Forse se c’è una chiusura vera e propria è dovuta alla casina, il luogo dove nascono tutte e tre le storie di questa trilogia. Quel luogo non c’è più, i due proprietari della casina non ci sono più. Anche Ercole se n’è andato da poco. Dalla nostra prospettiva creativa invece, il punto è un altro.
Vedendo Re Granchio, è curioso notare come tutto sembra già contenuto in Belva nera: il legame con il cinema di genere, gli elementi scenografici, tutto rimanda ad un immaginario western. Questo film è nato più per ambizione o per un legame con la comunità di Vejano?
AR: C’è sempre stata un’ambizione di realizzare qualcosa di legato ad un ’immaginario di quel genere. Quegli uomini li abbiamo sempre trattati come personaggi, tanto da arrivare a vestirli come dei cowboy. Matteo, per esempio, andava a cercare nell’armadio di Ercolino la camicia adatta, il cappello – che non è quello che indossava abitualmente - eccetera. Fin da Belva nera abbiamo giocato con questa idea, questa ambizione, di creare un racconto che potesse rientrare in quei canoni. È un genere che mi appassiona.
MZ: Tutto è partito comunque da degli elementi che abbiamo visto lì. Anche la casina, ad esempio, sembrava una specie di locanda: ogni due secondi arrivavano delle persone e raccontavano delle storie. Noi all’inizio abbiamo lavorato su una sceneggiatura e, confrontandola poi con quello che vivevamo, abbiamo scoperto che quest’ultima via era decisamente meglio. A quel punto abbiamo deciso di trasformare la casina in una vera locanda western. E poi Ercolino sembrava William Holden.
Come siete arrivati a girare nella Terra del Fuoco?
AR: Io ho vissuto in Argentina per 15 anni. L’idea del film è nata a seguito di un viaggio di Matteo a Buenos Aires, per presentare Belva nera, che ci ha portato a visitare assieme la Terra del Fuoco: un territorio in cui, sul finire dell’Ottocento, la gente andava in cerca di fortuna. Insomma, un luogo di leggende. Dal punto di vista produttivo è oggettivamente un posto molto lontano da qui. Ci sono state non poche difficoltà, però ci siamo riusciti.
MZ: Luciano, il personaggio protagonista del film, era realmente andato in Argentina, dove Alessio vive. E questo ci intrigava, per le possibilità di aprire uno spazio filmico nuovo. Così come ci intrigava l’idea di un film che parte da una piccola storia narrata in Italia e che si perde nella seconda parte. In quel viaggio, poi, avevamo stranamente pensato già al titolo, per l’animale - il granchio - che realmente vive in quel luogo.
AR: Io devo dire che mi sono relazionato al film in modo molto personale: dall’idea di strutturarlo in un due parti, fino a focalizzarlo su un uomo diviso tra due mondi.
Parlando del vostro rapporto con il cinema, avete menzionato spesso l’importanza che date alla sceneggiatura o ai vostri riferimenti letterari. Ma come si divide il vostro lavoro? Quanta importanza date alle singole fasi di pre-produzione e sviluppo?
AR: Metterei tutto insieme. Essendo due, poi, la questione è più “trovare” il film insieme. Per questo usiamo anche i riferimenti letterari, pittorici, cinematografici, che sono la materia che abbiamo a disposizione per poterci capire reciprocamente e arrivare, in questo modo, al fulcro della storia. Certo…ognuno dal suo punto di vista: non credo che sia necessariamente lo stesso quello che io sento rispetto al film da quello che sente Matteo.
MZ: Penso che la fase della scrittura sia legata, sì, a un processo di scoperta ma anche di burocrazia. È uno strumento per capirci e per farci capire dagli altri. C’è una fase necessaria e poi un’altra dove, potenzialmente, è più entusiasmante passare ad altro. Io soffro molto la fase della scrittura. È la trasformazione dalle parole alle immagini quello che a me interessa veramente. Poi, leggendo, ognuno si crea delle immagini che deve spiegare all’altro, come nel nostro caso.
AZ: Per Re Granchio, in particolare, la fiducia è arrivata quando siamo riusciti a girare un teaser del film: il momento in cui gli altri hanno visto quello che avevamo in mente e come avevamo intenzione di realizzarlo.
Ve lo chiedevo anche perché voi girate in pellicola, e oggi girare in questo formato costa di più.
AR: Quella in realtà è un’impostazione, molti registi oggi lavorano con la pellicola.
MZ: In realtà noi abbiamo sempre mescolato i due formati. In Belva nera eravamo più vicini alla pellicola perché sapevamo utilizzarla meglio, al di là delle scuole che abbiamo frequentato. Poi, ci siamo trovati di fronte a delle esigenze pratiche e abbiamo virato verso il digitale. Stessa cosa con i film successivi. Abbiamo a lungo discusso con Simone D’Arcangelo - il nostro DOP - su come utilizzare i due formati: per Re Granchio volevamo distinguere la parte maggiormente legata al film precedente dal racconto, dove ricercavamo un’immagine un po’ più sospesa e sognante; poi abbiamo usato, tecnicamente, il digitale negli interni perché, a nostro avviso, più superiore ed efficace. Nella parte in Argentina abbiamo avuto altre esigenze pratiche: non c’erano laboratori per le pellicole lì, e per utilizzarla saremmo dovuti andare o in Brasile, o in Messico, o negli Stati Uniti.
Passiamo a Testa o croce?: avete da poco ottenuto un premio da CineMart a Rotterdam, un finanziamento...
AR: È un premio non un finanziamento, siamo ancora in fase di sviluppo.
MZ: A Rotterdam abbiamo ricevuto un premio che non ci aspettavamo di vincere, ci ha stupito e incentivato. Un vero primo passo per credere di più̀ nel progetto.
AR: E anche la prima volta in cui abbiamo visto il riscontro dei possibili co- produttori, dei possibili interpreti... Tutte quelle persone che poi ci accompagneranno nella realizzazione del film.
C’è in questo progetto un legame diretto con i precedenti, è un ritorno al cinema western.
MZ: Ha delle ambizioni leggermente differenti. Per noi, semplicemente, è anche l’occasione per fare qualcosa di diverso...per rischiare.
AR: È in linea con il nostro percorso: andare sempre più avanti e raddoppiare la posta in gioco. È stato sempre così.
MZ: Anche per Re Granchio è stato rischioso provare a fare un film in Italia e Argentina, tante persone non ci credevano. Il nostro gruppo ha sempre sostenuto il progetto, prendendosi anche dei grossi rischi dal punto di vista produttivo. E non saremmo mai riusciti a farlo se non ci fosse stata la moglie di Alessio - Agustina Costa Varsi – e non avessimo avuto anche un piede di là.
AR: Era una vera coproduzione da quel punto di vista.
MZ: In Argentina abbiamo girato con un’altra equipe, del luogo, portandoci dietro solo l’attore Gabriele Silli e il direttore della fotografia Simone D’Arcangelo. Alla fine, ci siamo trovati molto bene con loro perché lì fanno un cinema molto simile a quello che volevamo fare noi. Per questo nuovo progetto invece vorremmo fare un western totalmente italiano.
Qual è il vostro rapporto con questo genere?
AR: Il nostro progetto è di fare un western ambientato in Italia, una cosa che si è fatta poco in passato. Partendo da una visione classica, e rifacendoci agli inizi del genere, il film si apre con il Wild West Show di Buffalo Bill a Roma, e l’intenzione è quella di portarlo a uno sconvolgimento assoluto; quindi, l’idea è quella di rivisitarlo sia in chiave estetica sia in chiave narrativa.
MZ: Il periodo nel quale vogliamo ambientare il film è quello del brigantaggio - momento leggermente successivo a quello del post-Unità - che ha delle caratteristiche che sono abbastanza western. Nel nostro periodo d’interesse ci sono degli elementi che ci intrigavano e che ci sembravano adatti per essere traslati all’interno del genere. Vorremmo fare un film post-moderno, in tal senso. Con l’America che arriva in Italia attraverso lo show di Buffalo Bill.
Quindi, per ora, abbandonate le tracce del cinema documentario.
MZ: Non proprio. L’idea di fare un documentario era legata ai mezzi che avevamo a disposizione. In realtà, sia io che Alessio, prima di fare Belva nera abbiamo realizzato una decina di cortometraggi a testa, quasi tutti di finzione. Noi abbiamo sempre voluto fare dei film e basta. Poi, non lo so, non sono neanche sicuro di cosa significhi abbandonare il cinema documentario.
Una domanda molto ostica o molto banale: dove vi vedete all’interno del panorama dell’attuale cinema italiano?
MZ: A noi piace semplicemente fare film e vorremmo farne tanti altri, finché ci sarà qualcosa da raccontare, finché avremo voglia di fare cinema. È anche un’esigenza fisica: quando abbiamo deciso di fare il primo film ognuno aveva già realizzato qualcosa per conto proprio, e siamo partiti senza pensarci. Poi, piano piano, siamo diventati più sistemici.