di Omar Franini, Antonio Orrico, Arturo Garavaglia, Cecilia Parini e Lorenzo Sartor
NC-291
31.03.2025
Ogni anno, verso la metà di marzo, a Copenaghen si svolge uno dei festival cinematografici più rinomati nel campo dei documentari: il CPH:DOX. Oggi vi daremo una panoramica sulle principali opere presentate nelle diverse sezioni del festival, proponendo un mix affascinante di film che raccontano le difficoltà, personali e collettive, che caratterizzano la nostra vita.
Bogancloch, di Ben Rivers
Nel 2011 Ben Rivers presenta al Festival di Venezia il suo esordio nel lungometraggio, Two Years at Sea, il risultato di una lunga serie di riprese con cui aveva cercato di rappresentare la vita meditativa e ordinaria dell’eremita scozzese Jake Williams, mettendo in scena il ripetersi indistinto di giornate sempre uguali tra loro e un’esistenza basata sull’attesa e sulla contemplazione di una natura silenziosa. Nessuna musica extradiegetica, nessun dialogo, nessun evento più significativo di altri. L’opera prima di Rivers, con un 16mm essenziale e un sobrio B&W, riusciva così a portare in scena un ritratto acritico e anti-psicologico della solitudine e di una vita distante da qualunque conformismo sociale. Tredici anni dopo il cineasta londinese ritorna in mezzo ai conturbanti boschi scozzesi e nell’intimo luogo di ritiro di Jake Williams, mostrando un uomo cambiato rispetto a quello che aveva conosciuto tempo prima, ma soprattutto esibendo un registro molto diverso da quello con cui si era distinto nelle sue opere precedenti. Già nel primo atto avviene uno sconvolgimento rispetto all’essenzialità cogitabonda del suo esordio, perché Williams canta e comunica con altre persone, in sequenze di convivenza umana che sembrano quasi dei sogni ad occhi aperti, simbolo di un essere umano che sente la necessità di esporsi e di vivere con l’altro. La stessa regia di Rivers si concede virtuosismi molto più azzardati, esprimendo con la macchina da presa una tensione romantica verso una dimensione ideale di serenità, lontana dagli schematismi della società contemporanea, ma comunque connessa alla vita terrena. Se sono tanti i momenti di puro romanticismo in cui Rivers dimostra di essere ancora in grado di comporre immagini che appagano lo sguardo dello spettatore, sono troppi i passaggi in cui il film appare invece molto più costruito e patinato rispetto al suo predecessore. Ciò che era spontaneo e tangibile in Two Years at Sea appare invece come artificioso all’interno di Bogancloch. Pure il ritorno alla sporcizia di un B&W estetizzante e di una sovraesposizione della luce irreale, sembra quasi un tentativo di ripetere quanto era già stato detto dal regista nel suo primo film, la cui asciuttezza invece viene sacrificata a favore di una laconicità molto più re-inquadrabile all’interno degli schemi del cinema d’autore contemporaneo. La mano di Ben Rivers rimane quella di un regista che conosce il linguaggio del documentario e sa ancora come mutare il proprio stile attraverso una forma che non è mai priva di nuove variazioni, ma rimane a pesare per tutta la durata l’idea che probabilmente avrebbe dovuto abbandonare questo tipo di cinema festivaliero che nell’attuale decennio sembra fin troppo inflazionato e privo dell’autenticità a cui invece vorrebbe aspirare.
Girls & Gods, di Inna Shevchenko
Come si può essere femministe e donne di fede allo stesso tempo? Come si fa a credere nell’autodeterminazione della donna e nel mentre pregare un dio che invece ci vuole sottomesse all’uomo? Queste sono solo alcune delle domande che si pone il documentario Girls & Gods scritto da Inna Shevchenko, artista e attivista ucraina del collettivo FEMEN e girato dai registi Verena Soltiz e Arash T. Riahi. Girls & Gods è un viaggio che non solo tocca vari paesi Europei e Americani, ma è un vero e proprio pellegrinaggio votato alla scoperta del femminile nelle tre principali religioni monoteiste. Inna Shevchenko non nasconde la propria diffidenza davanti alla fede e alle organizzazioni che la dominano, ma si apre all’ascolto di tutte quelle donne che nella fede hanno trovato una via per autodeterminarsi e portare avanti un discorso femminista nonostante gli ostacoli posti dagli uomini. Le donne che Shevchenko incontra, sono libere e determinate, sia che siano atee o credenti, e sempre pronte al dialogo. L’attivista ucraina, infatti, non si limita ad ascoltare, ma a volte cerca lo scontro e il dibattito per scavare a fondo sulle ragioni che spingono le donne a credere in un essere superiore. Da questi “scontri” dialettici, nascono vari spunti di riflessione che conducono sempre al fatto che il problema non è quasi mai la religione, ma gli uomini che la usano come arma contro chi è diverso da loro, senza mai davvero rispettare le sacre scritture. Girls & Gods, oltre ad essere un documentario interessante per l’argomento che tratta, è anche un piccolo gioiello di regia. Verena Soltiz e Arash T. Riahi mischiamo il genere documentarista alla video arte. Infatti, oltre alla religione, l’altra grande protagonista del documentario è proprio l’arte, che se prima esaltava la religione, ora la dissacra e ne conquista anche gli spazi. Infatti, il documentario si apre con le immagini di una mostra di sculture a forma di vulva, che trova ospitalità proprio in una chiesa. Le immagini sono potenti, distinte e pulite. Le interviste sono spesso intervallate dalla presenza di artiste donne che con la loro arte portano avanti il discorso femminista. Il montaggio del documentario, infatti, è dinamico e crea un dialogo tra le varie religioni, dimostrando come cristianesimo, islam e ebraismo siano molto simili tra loro. Girls & Gods è un vero e proprio manifesto femminista intersezionale, che cerca l’unità nella diversità e porta avanti il vero credo: la libertà di credere, di amare e di essere ciò che si vuole senza paure e restrizioni.
Flophouse America, di Monica Strømdahl
Monica Strømdahl è conosciuta come una delle migliori foto-reporter del mondo. La donna è collaboratrice attiva del New York Times, con cui ha realizzato varie foto-inchieste nel corso della sua carriera e, soprattutto, è stata la vincitrice nel 2010 del famoso Olympus Award, premio che viene conferito internazionalmente alla miglior fotografia scattata nel corso di ogni anno. Strømdahl, nel 2025, è ufficialmente sbarcata nel mondo del cinema. Infatti, al CPH:DOX di quest’anno ha presentato il suo primo documentario, dal titolo Flophouse America, una storia che, in qualche modo, si relaziona in modo evidente con l’impegno sociale che la regista ha sempre messo nei suoi lavori fotografici e che trasforma il tutto in una video-inchiesta. Nell’analizzare il percorso di Mikal, incontrato otto anni fa e alle prese con una famiglia tutt’altro che regolare, rinchiusa in un hotel dalla struttura fatiscente denominato “flophouse”, Strømdahl decide di dare voce alle realtà marginali di un'America profondamente spaccata. La sua, oltre ad essere un’opera intima e personale che segue da vicino la difficile vita del piccolo protagonista, come fossimo in un coming-of-age disfunzionale, è anche un indiretto attacco critico al fallimento del “nuovo” sogno americano, costruito in realtà sulle ceneri e sulle difficoltà della middle class, che negli ultimi anni è diventata progressivamente sempre meno agiata e le cui difficoltà vengono messe in primo piano tramite dialoghi ad effetto e l'utilizzo di colonne sonore diegetiche (nel caso specifico, la canzone If I Had Million Dollars del gruppo canadese Barenaked Ladies) che riescono ad alimentare il suo sguardo su questa situazione sconfortante. Anche lo stile di ripresa, sporco, intriso di macchina a mano e out of focus, ricrea il senso di sporcizia e squallore a cui è soggetto il protagonista e la sua famiglia, ma l’approccio, in compenso, resta sul fiabesco per la maggior parte del tempo (salvo la parte finale, dove tutti i nodi vengono irrimediabilmente al pettine), ricordando da vicino l’elogio del brutto e lo sguardo proletario del primo cinema di Harmony Korine, soprattutto nel senso di protezione e di positività che la Strømdahl arma consapevolmente nel corso del film. C’è, dunque, un contrasto netto tra il realismo/disfatta delineato dalla condizione sociale di quest’America che si riscopre claudicante (soprattutto nel finale, che emotivamente travolge extra-diegeticamente lo spettatore e che diventa inevitabile punto di svolta emotivo di Flophouse America) e questo senso “sognante” che la regista propone nel corso della narrazione, portando lo spettatore ad interrogarsi, inevitabilmente, sulle contraddizioni interne di un Paese che, anche a distanza di tempo, non ha ancora ben compreso la gravità delle condizioni in cui sono ridotti la maggior parte dei suoi abitanti.
I Am Night at Noonday, di Gaspard Hirschi
Gaspard Hirschi è un documentarista parigino nato nel 1978. Dopo aver studiato letteratura e filosofia, ha incominciato subito la sua attività filmica, entrando a far parte del collettivo Le Fresnoy, Studio National des Arts Contemporains. Successivamente, ha preso parti a produzioni internazionali, come Syriana (2005) di Stephen Gaghan, thriller politico con George Clooney, in cui Hirschi ha ricoperto il ruolo di assistente dello staff d’ufficio, supervisionando location e logistiche varie. Comincia poi a lavorare nel mondo televisivo, in cui si occupa di fare da assistente alla regia della serie TV La Cour Des Grands (2009), creata da Didier Cohen. Nel 2013, esordisce ufficialmente alla regia, dirigendo un episodio della serie Une Place Au Soleil (2013-). Dopo aver effettuato il suo primo lavoro anche in televisione, torna nuovamente al cinema, nel ruolo di primo assistente al documentario Kokoschka, Oeuvre-Vie (2017), diretto da Michel Rodde. Dopo un silenzio lungo quasi un decennio, è finalmente approdato al CPH:DOX 2025 debuttando alla regia con il suo primo documentario, dal titolo I Am Night At Noonday. Il film, ambientato in Francia, a Marsiglia, nei nostri giorni, ipotizza un assurdo scenario in cui il regista teatrale Manolo Bez si immedesima nel ruolo di Don Chisciotte, eroe della letteratura spagnola creato da Miguel De Cervantes. In questo viaggio, lo stesso Bez, accompagnato dal fido “scudiero” Saïd, si pone l'obiettivo di mettere a nudo le piaghe più recondite relative alla gentrificazione e alla privatizzazione dell’apparato statale francese. Hirschi documenta, attraverso i cambiamenti di un’intera città, la metamorfosi non solo di un intero Paese, quanto più di un intero continente, che si riscopre in continua trasformazione a discapito di tutte le dicerie che lo condannano ad essere “vecchio”. I Am Night At Noonday è un road movie di beckettiana costituzione, in cui la banalità dello status quo della vita francese di periferia è messa in discussione e, soprattutto, viene risaltata come in un racconto della banlieue. A cambiare è però la prospettiva e il registro usato: Hirschi costruisce una commedia surreale molto divertente, affrontando molti temi particolari e non semplici con un linguaggio eccentrico, a tratti esagerato, sfruttando Marsiglia come luogo per dare corpo alla sua follia e alle sue tematiche moderne, riprendendone più volte i cambiamenti e la vitalità che, al giorno d’oggi, la caratterizza. Ne risulta, dunque, un viaggio picaresco e divertente, privo di una struttura rigida (come, del resto, l'opera originale di De Cervantes), libero e stravagante, in cui i confini tra realtà e finzione sono decisamente sfumati e il linguaggio del mockumentary serve a ribellarsi contro le convenzioni delle tradizione. In questo, il film ricorda molto da vicino un altro adattamento recente e contemporaneo delle vicende di Don Chisciotte, ovvero The Man Who Killed Don Quixote (2018) di Terry Gilliam. Dal regista britannico, infatti, Hirschi prende in prestito il gusto per un umorismo del tutto surreale e per le forme giocose e del tutto sovversive, che sono ben lontane da qualsiasi conformismo odierno (anche nelle riprese, come dimostra la MDP sempre libera e molto fluida nel pedinare i suoi protagonisti) e che riempiono lo sguardo del film di un’aura nostalgica per il mito medievale, senza dimenticare l’importanza per il futuro della città e della nazione.
ILOVERUSS, di Tova Mozard
Ogni film è un viaggio. È un viaggio in quanto è un processo che si svolge e che va da un punto A a un punto B e che comporta un investimento di tempo e di energie da parte dei coinvolti. Di fatto, un film, in piccolo, è come la vita. Quando è però la vita e il suo scorrere a essere protagonista di un film il viaggio a cui ci si accinge presenta parecchie insidie. Fra queste prova a destreggiarsi Tova Mozard, artista visiva e fotografa di scena svedese che lavora a Hollywood da una ventina d’anni. ILOVERUSS è la storia del rapporto fra la regista e Russ Kingston, una comparsa che ha preso parte a numerosissimi film e che ha fatto della propria presenza sporadica e impercettibile il mestiere di una vita. La regista ha costruito negli anni uno spazio in cui Russ potesse esprimere sé stesso, le sue idee, le sue abilità recitative, la sua vita. Un luogo in cui potesse essere finalmente protagonista. Nello scorrere del film, caratterizzato da una scansione temporale non definita resa evidente dalla qualità delle riprese e dal cambio di formato, lo spettatore entra a contatto con una storia di cinefilia, con un personaggio che vede nella finzione il senso della sua vita. Nonostante l’eccentricità del suo protagonista, ILOVERUSS sembra più interessato a negare la classica struttura character-driven che caratterizza molti documentari per offrire allo spettatore la chiave di lettura di una relazione fra regista e attore, fra istanza narrante e oggetto della narrazione, destinata a lasciare vuoti e conflitti irrisolvibili. Quello di Tova Mozard è quindi un documentario meta-cinematografico, che svela personaggi invisibili al mondo del cinema (la comparsa e la fotografa di scena) e che si fa riflessione sui fantasmi e sui non detti che si insinuano negli anni in un rapporto artistico e personale. Un’opera che, nonostante acquisti una maggiore forza solo nell’ultimo atto e che sembra, in certi momenti, chiudersi sin troppo su sé stessa escludendo lo spettatore, riesce a regalare attimi di limpidezza che scaldano il cuore.
Il castello indistruttibile, di Danny Biancardi, Stefano La Rosa e Virginia Nardelli
Danny Biancardi e Stefano La Rosa sono entrambi registi palermitani, mentre Virginia Nardelli è nata a Trento. I tre hanno avuto tre percorsi accademici diversi. Biancardi si è laureato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo con il documentario Sparring Partners (2019), selezionato al Festival dei Popoli 2019. Successivamente, per tre anni ha collaborato con Stefano Savona alla creazione del documentario Le Mura Di Bergamo (2023), presentato alla Berlinale 73 nella sezione Encounters. Stefano La Rosa, dopo aver lavorato anche lui con Stefano Savona alla creazione di Samouni Road (2018), selezionato per la Quinzaine des Réalisateurs e vincitore, tra gli altri, dell’Œil d’Or per il miglior documentario al Festival di Cannes 2018 e del Prix Lumière, comincia la creazione del suo primo progetto di lungometraggio, dal titolo L’Ultima Regina (2024). Virginia Nardelli si è invece laurea nel 2019 al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo con il lungometraggio C’è un lupo nel Parco del Re (2019), presentato in anteprima al FilmMaker Festival - dove ha vinto il premio Movie People - al Cinema du Réel - Première fenêtre, al MedFilm e al QFest 2021 - Houston Gay and Lesbian Film Festival - dove si è aggiudicato il riconoscimento per la Miglior Regia. Dal 2020 al 2023 anche lei collabora con Stefano Savona per il documentario Le mura di Bergamo. I tre registi hanno messo insieme le forze e hanno presentato, al CPH:DOX 2025, il loro primo progetto insieme, dal titolo Il castello indistruttibile (2025), racconto che ci porta in un quartiere isolato di Palermo, chiamato Danisinni, dove quattro ragazzi, Angelo, Mery, Rosy e Giada, trasformano un asilo abbandonato, creduto dai più infestato e prossimo alla riqualificazione da parte del Comune, in un rifugio segreto dove poter dare sfogo alla loro immaginazione più recondita, alla loro felicità e al loro vezzo di crescita e di immaginazione. Il castello indistruttibile, sotto il linguaggio del documentario, nasconde un’anima da coming-of-age, dove i luoghi sono deputati alla scoperta di sé stessi, sono delle vere e proprie “fortezze” (come nei romanzi di Robert Louis Stevenson) che i protagonisti sfruttano per affrontare le loro paure e per confrontarsi sui propri bisogni. I registi pedinano i loro “soggetti, rendendo però naturale la loro recitazione, restando sempre nascosti con la loro camera e manifestando un certo pudore anche nella manipolazione dell’immagine e delle inquadrature. Questa leggerezza rende i protagonisti più liberi e la vicenda pienamente verosimile, anche nell’atto di costruzione di un proprio luogo “fantastico” che sorge all’interno di un contesto pienamente realistico, con una cornice che richiama da vicino il Neorealismo di Germi ma che, allo stesso tempo, si caratterizza per essere un luogo eterotopico simile all’Isola di Peter Pan, in quanto incontaminato dagli adulti e in quanto posto ideale per svolgere la propria crescita. I luoghi de Il castello indistruttibile sono dunque spazi di fuga, dove i protagonisti possono diventare qualcun altro senza preoccuparsi di nulla (come nel monologo allo specchio) e dove la possibilità del confronto tra di loro si trasforma, piuttosto, in una solidarietà interiore, in volontà di tirare le proprie forze nascoste gli uni dagli altri, in un luogo e in un contesto che permette di crescere con calma, a discapito degli adulti.
Mr. Nobody Against Putin, di David Borenstein e Pavel Talankin
Da quando il 20 Febbraio del 2022 la Russia ha invaso l’Ucraina, ci siamo abituati a venire sommersi dalle immagini del conflitto sul suolo ucraino, spesso non ponendoci domande su come queste arrivino fino ai nostri media e senza interrogarci su come i cittadini russi stanno tutt’ora reagendo alla guerra in corso. Aiutato dal documentarista David Borenstein, l’insegnante russo Pavel Talankin seleziona e organizza tutte le immagini da lui filmate dal 2022 al 2024 nella scuola della cittadina Karabash, in cui per anni ha insegnato e coordinato gli eventi sociali, denunciando la militarizzazione dell’istituto e la propaganda che da anni invade l’istruzione nazionale. I due registi giustappongono così immagini di una gioventù che vuole essere libera e spensierata a quelle dei giovani studenti manipolati dalla macchina proselitista di Putin e del suo regime, mostrando classi straripanti di simboli dell’identità nazionale russa e gruppi di giovani uomini che sognano di partire per la guerra e di morire per la propria patria. Immagini di repertorio che erano state commissionate a Talankin con l’obiettivo di rafforzare l’idea di un popolo pronto a sostenere il governo di Putin, vengono invece rielaborate secondo una luce diversa, esibendo l’illusione che si nasconde dietro i fenomeni massmediali e la sofferenza di una nazione stremata dal conflitto. Laddove nessuno può negare l’importanza delle immagini che sono costate al professore la fuga dalla sua stessa madrepatria, può essere tuttavia messa in discussione la modalità con cui quanto filmato è stato filtrato da una serie di scelte stilistiche compiute da Borenstein. Non può (e non dovrebbe) bastare l’inserimento di una serie di reperti riguardanti la militarizzazione delle scuole russe per fare un discorso su come il cinema può essere usato come mezzo di condizionamento ideologico, se poi non vengono messi in discussione i meccanismi e le forme con cui avviene tale manipolazione. Se infatti l’intenzione del documentario è quella di svelare la finzione dietro la propaganda e quanto facilmente essa può plagiare le menti dei più giovani, è assurdo constatare come il montaggio dell’opera utilizzi gli stessi meccanismi retorici per portare avanti la propria tesi, spesso limitandosi ad accompagnare le immagini di questa “gioventù putiniana” con musiche enfatiche o con rallenty di dubbio gusto. Lo scarso interesse del film nel mettere in discussione ciò che mostra risalta ancor di più pensando che l’unico momento realmente impattante sia proprio quello dove le immagini spariscono e viene lasciato spazio alle grida di dolore di una madre in lutto. Ma la retorica non dovrebbe mai essere il fine ultimo di un discorso su come siamo facilmente manipolati dal potere e, per quanto sia facile empatizzare con una tesi così attuale, non possiamo fare a meno di interrogarci anche sulla dannosità del filtro con cui queste realtà così lontane ci vengono mediate.
My Dear Théo, di Alisa Kovalenko
In seguito allo scoppio della guerra in Ucraina nel febbraio del 2022, molti civili persero la decisione di unirsi alla Ukrainian Armed Forces per cercare di difendere il proprio paese dall’invasione russa. Tra queste persone c’era anche la cineasta Alisa Kovalenko, che ha documentato la propria esperienza sul fronte. My Dear Théo inizialmente non doveva essere un film, ma un semplice vlog nel quale una madre cerca di spiegare la sua scelta e il suo amore incondizionato verso il figlio, documentando al tempo stesso la distruzione e l’orrore attorno a lei. Il conflitto degenerò in poco tempo e il progetto mutò in un testamento della resilienza del popolo ucraino contro l’oppressione russa. Kovalenko parte dalla propria esperienza personale per dare uno sguardo introspettivo sulla vita al fronte, sul senso di cameratismo ed unione del popolo ucraino in un momento di estrema difficoltà. L’andamento lineare e cronologico del documentario, che mostra da una parte l’evoluzione della guerra e dall’altra lo scambio di video e lettere tra madre/figlio, rende My Dear Théo una visione piuttosto toccante, nel quale la cineasta mostra come lei e i propri compagni non sono soldati, ma semplicemente persone vulnerabili, che temono per la propria incolumità, ma che sono sempre desiderose di costruire un futuro più luminoso per i propri cari.
Seeds, di Brittany Shyne
Dopo gli acclamati lavori come DOP, tra cui quello in American Factory (2019) di Julia Reichert e Steve Bognar, Brittany Shyne ha intrapreso la sua carriera nella regia e, lo scorso gennaio, ha presentato la sua opera prima al Sundance Film Festival, dove si è aggiudicata lo U.S. Grand Jury Prize. Seeds pone al centro della sua narrazione l’uomo e il rapporto con la propria terra, esplorando diverse generazioni di agricoltori afroamericani e le loro difficoltà quotidiane. Partendo da alcune storie personali, Shyne intraprende un discorso piuttosto complesso e multi sfaccettato nel quale vengono esplorate le varie discriminazioni razziali perpetrate dall'USDA (U.S. Department of Agriculture), il conflitto generazionale e il futuro stesso dell’agricoltura. A risaltare quest’ultimo aspetto sono i soggetti scelti da Shyne, persone che potrebbero andare tranquillamente in pensione, ma che continuano il loro lavoro per preservare la terra e creare un futuro per i nipoti che sia lontano dagli uffici e dagli schermi dei computer. L’operazione eseguita da Shyne rende infatti omaggio a quel mondo rurale e grezzo; la camera spesso predilige dei closeup sulle mani degli agricoltori, i loro strumenti e i “frutti” del loro lavoro. Girato con un sontuoso bianco e nero, il film, non solo acquisisce un’inclinazione onirica, ma funge anche come una sorta di capsula nel tempo, donando quella sensazione di nostalgia e melanconia verso un periodo che, in qualche modo, sembrava più roseo rispetto alla dura realtà dei tempi moderni. Seeds è un’opera ambiziosa nel suo approccio minimalista e contemplativo, nella quale Shyne riesce egregiamente a costruire un’esperienza visiva che rende il film affascinante e soprattutto diverso rispetto a lavori passati che hanno analizzato tematiche simili.
The Last Ambassador, di Natalie Johanna Halla
Usiamo dire “ambasciator non porta pena” quando dobbiamo riportare delle brutte notizie, ma cosa succede quando è proprio chi fa l’ambasciatore a ricevere una notizia terribile che cambierà il suo mondo per sempre? Natalie Johanna Halla con il suo ultimo documentario The Last Ambassador ci porta a vivere la vita di Manizha Bakhtari, ultima ambasciatrice donna dell’Afghanistan a Vienna, che dopo il 15 agosto del 2021 - giorno in cui i talebani entrano a Kabul - vede la propria vita cambiare per sempre. Manizha Bakhtari assiste da lontano agli orrori che i talebani compiono nel suo Paese, soprattutto ai danni delle donne. Sono, infatti, quest’ultime ad essere le vere vittime del nuovo regime. Non possono più lavorare, andare a scuola o avere una vita. Nonostante la distanza, Manizha Bakhtari, non rinuncia al proprio incarico come ambasciatrice dell’Afghanistan, e soprattutto si fa portavoce dei diritti delle donne. Natalie Halla, con la sua camera ci fa vivere il lavoro - ma soprattutto la vita - da ambasciatrice della Bakhtari, dal 15 agosto 2021 ai giorni nostri. Le immagini documentaristiche si intervallano con immagini di repertorio che mostrano ció che i talebani hanno voluto mostrare al mondo, come la prima conferenza stampa dove promettevano di non violare i diritti delle donne. Halla porta sul grande schermo il coraggio e la passione di una donna che davanti a un regime che la vorrebbe in silenzio, fa sentire ancora di più la propria voce.
Unanimal, di Sally Jacobson e Tuva Bjork
L’ammaliante voce di Isabella Rossellini invita lo spettatore, nelle prime battute di Unanimal, ad adottare il punto di vista degli animali protagonisti delle immagini del film. Un suggerimento e una suggestione, che - purtroppo - non trovano nel documentario di Sally Jacobson e Tuva Bjork un adeguato compimento. Partendo dalle pitture rupestri, i registi indagano la relazione - inizialmente sacra - fra animale e uomo per arrivare a una contemporaneità in cui la bilancia di questo rapporto pende totalmente verso l’essere umano. Tuttavia, l’accostamento paratattico dei vari blocchi di materiale, l’eccessivo accumulo di immagini differenti, non dà ad Unanimal quella forza e quella profondità necessaria per rimanere impressa nella mente dello spettatore. Un film di cui si riesce a cogliere chiaramente la tematica, di cui si riesce a cogliere anche qualche scena interessante, ma che nella sua durata non riesce a portare avanti né un processo argomentativo approfondito, né un punctum che possa aprire allo spettatore nuovi orizzonti di senso oltre l’immagine. La presenza vocale di Isabella Rossellini, che da regista ha sempre portato un punto di vista tanto interessante quanto irriverente sull’etologia animale, sembra più un tentativo da parte degli autori di Unanimal di marcare un territorio di cui non si conosce la conformazione.
When the Phone Rang, di Iva Radivojević
Numerosi registi nel corso della storia recente si sono interrogati su come esaminare i contrasti tra la memoria individuale del singolo e l’oblio indistinto della loro storia nazionale. Arrivata al suo terzo film, presentato a Locarno nel 2024, la regista serba Iva Radivojević decide di esaminare le modalità attraverso cui i ricordi più intimi di una persona possono venire intaccati dagli sconvolgimenti della politica internazionale. When the Phone Rang gira attorno ai ricordi sconnessi e frammentati di una ragazza nata nella cittadina di Novi Sad, le cui strade e vicoli vengono messe in scena dalla cineasta come se fossero parte di un non-luogo il cui progresso è stato fermato dai mutamenti della Storia. I personaggi si aggirano come fantasmi all’interno di una dimensione in cui il tempo è definito da ellissi e ripetizioni e in cui la grana della fotografia in 16mm restituisce una forma che è più vicina a quella del sogno lucido, rispetto che a una rappresentazione fedele della realtà. Non c’è quindi nulla di attendibile o concreto all’interno dei tanti episodi isolati su cui si basano i ricordi esposti dalla voce narrante, la cui stessa provenienza non viene mai spiegata. La narrazione non segue gli stilemi di una rievocazione lineare del passato, ma come una spirale ruota attorno a un evento, ovvero una chiamata che ha cambiato la vita della protagonista. Questo piccolo frammento viene ripreso, ripetuto, dilatato ed esposto secondo modalità sempre diverse, mostrando così l’impossibilità di costruire una memoria coesa e coerente con il quadro della Storia globale. Il sogno ha quindi un’importanza decisiva nell’opera della regista, perché la sospensione e l’ermetismo della dimensione onirica influenzano l’identità della protagonista, la quale, ripensando a eventi significativi della propria vita a Novi Sad, non riesce a comprendere pienamente il ruolo di questi episodi nel processo della propria crescita, ripensando con amarezza ai rimpianti di una giovinezza troncata. La regista punta quindi a una costante stilizzazione delle immagini, in cui ogni immagine appare agli occhi dello spettatore come irreale e in cui l’uso stesso dei colori punta a rafforzare l’idea che non sia possibile trovare nei propri ricordi una testimonianza della realtà, ma solo una sua copia sbiadita. Questa sperimentazione stilistica procede quindi tra sovrimpressioni, soggettive differite e giochi sui riflessi, fino a un finale in cui le immagini si emancipano dai rigidi limiti dell’inquadratura fissa e la stessa protagonista può liberarsi dal peso dei propri rimpianti.
di Omar Franini, Antonio Orrico, Arturo Garavaglia, Cecilia Parini e Lorenzo Sartor
NC-291
31.03.2025
Ogni anno, verso la metà di marzo, a Copenaghen si svolge uno dei festival cinematografici più rinomati nel campo dei documentari: il CPH:DOX. Oggi vi daremo una panoramica sulle principali opere presentate nelle diverse sezioni del festival, proponendo un mix affascinante di film che raccontano le difficoltà, personali e collettive, che caratterizzano la nostra vita.
Bogancloch, di Ben Rivers
Nel 2011 Ben Rivers presenta al Festival di Venezia il suo esordio nel lungometraggio, Two Years at Sea, il risultato di una lunga serie di riprese con cui aveva cercato di rappresentare la vita meditativa e ordinaria dell’eremita scozzese Jake Williams, mettendo in scena il ripetersi indistinto di giornate sempre uguali tra loro e un’esistenza basata sull’attesa e sulla contemplazione di una natura silenziosa. Nessuna musica extradiegetica, nessun dialogo, nessun evento più significativo di altri. L’opera prima di Rivers, con un 16mm essenziale e un sobrio B&W, riusciva così a portare in scena un ritratto acritico e anti-psicologico della solitudine e di una vita distante da qualunque conformismo sociale. Tredici anni dopo il cineasta londinese ritorna in mezzo ai conturbanti boschi scozzesi e nell’intimo luogo di ritiro di Jake Williams, mostrando un uomo cambiato rispetto a quello che aveva conosciuto tempo prima, ma soprattutto esibendo un registro molto diverso da quello con cui si era distinto nelle sue opere precedenti. Già nel primo atto avviene uno sconvolgimento rispetto all’essenzialità cogitabonda del suo esordio, perché Williams canta e comunica con altre persone, in sequenze di convivenza umana che sembrano quasi dei sogni ad occhi aperti, simbolo di un essere umano che sente la necessità di esporsi e di vivere con l’altro. La stessa regia di Rivers si concede virtuosismi molto più azzardati, esprimendo con la macchina da presa una tensione romantica verso una dimensione ideale di serenità, lontana dagli schematismi della società contemporanea, ma comunque connessa alla vita terrena. Se sono tanti i momenti di puro romanticismo in cui Rivers dimostra di essere ancora in grado di comporre immagini che appagano lo sguardo dello spettatore, sono troppi i passaggi in cui il film appare invece molto più costruito e patinato rispetto al suo predecessore. Ciò che era spontaneo e tangibile in Two Years at Sea appare invece come artificioso all’interno di Bogancloch. Pure il ritorno alla sporcizia di un B&W estetizzante e di una sovraesposizione della luce irreale, sembra quasi un tentativo di ripetere quanto era già stato detto dal regista nel suo primo film, la cui asciuttezza invece viene sacrificata a favore di una laconicità molto più re-inquadrabile all’interno degli schemi del cinema d’autore contemporaneo. La mano di Ben Rivers rimane quella di un regista che conosce il linguaggio del documentario e sa ancora come mutare il proprio stile attraverso una forma che non è mai priva di nuove variazioni, ma rimane a pesare per tutta la durata l’idea che probabilmente avrebbe dovuto abbandonare questo tipo di cinema festivaliero che nell’attuale decennio sembra fin troppo inflazionato e privo dell’autenticità a cui invece vorrebbe aspirare.
Girls & Gods, di Inna Shevchenko
Come si può essere femministe e donne di fede allo stesso tempo? Come si fa a credere nell’autodeterminazione della donna e nel mentre pregare un dio che invece ci vuole sottomesse all’uomo? Queste sono solo alcune delle domande che si pone il documentario Girls & Gods scritto da Inna Shevchenko, artista e attivista ucraina del collettivo FEMEN e girato dai registi Verena Soltiz e Arash T. Riahi. Girls & Gods è un viaggio che non solo tocca vari paesi Europei e Americani, ma è un vero e proprio pellegrinaggio votato alla scoperta del femminile nelle tre principali religioni monoteiste. Inna Shevchenko non nasconde la propria diffidenza davanti alla fede e alle organizzazioni che la dominano, ma si apre all’ascolto di tutte quelle donne che nella fede hanno trovato una via per autodeterminarsi e portare avanti un discorso femminista nonostante gli ostacoli posti dagli uomini. Le donne che Shevchenko incontra, sono libere e determinate, sia che siano atee o credenti, e sempre pronte al dialogo. L’attivista ucraina, infatti, non si limita ad ascoltare, ma a volte cerca lo scontro e il dibattito per scavare a fondo sulle ragioni che spingono le donne a credere in un essere superiore. Da questi “scontri” dialettici, nascono vari spunti di riflessione che conducono sempre al fatto che il problema non è quasi mai la religione, ma gli uomini che la usano come arma contro chi è diverso da loro, senza mai davvero rispettare le sacre scritture. Girls & Gods, oltre ad essere un documentario interessante per l’argomento che tratta, è anche un piccolo gioiello di regia. Verena Soltiz e Arash T. Riahi mischiamo il genere documentarista alla video arte. Infatti, oltre alla religione, l’altra grande protagonista del documentario è proprio l’arte, che se prima esaltava la religione, ora la dissacra e ne conquista anche gli spazi. Infatti, il documentario si apre con le immagini di una mostra di sculture a forma di vulva, che trova ospitalità proprio in una chiesa. Le immagini sono potenti, distinte e pulite. Le interviste sono spesso intervallate dalla presenza di artiste donne che con la loro arte portano avanti il discorso femminista. Il montaggio del documentario, infatti, è dinamico e crea un dialogo tra le varie religioni, dimostrando come cristianesimo, islam e ebraismo siano molto simili tra loro. Girls & Gods è un vero e proprio manifesto femminista intersezionale, che cerca l’unità nella diversità e porta avanti il vero credo: la libertà di credere, di amare e di essere ciò che si vuole senza paure e restrizioni.
Flophouse America, di Monica Strømdahl
Monica Strømdahl è conosciuta come una delle migliori foto-reporter del mondo. La donna è collaboratrice attiva del New York Times, con cui ha realizzato varie foto-inchieste nel corso della sua carriera e, soprattutto, è stata la vincitrice nel 2010 del famoso Olympus Award, premio che viene conferito internazionalmente alla miglior fotografia scattata nel corso di ogni anno. Strømdahl, nel 2025, è ufficialmente sbarcata nel mondo del cinema. Infatti, al CPH:DOX di quest’anno ha presentato il suo primo documentario, dal titolo Flophouse America, una storia che, in qualche modo, si relaziona in modo evidente con l’impegno sociale che la regista ha sempre messo nei suoi lavori fotografici e che trasforma il tutto in una video-inchiesta. Nell’analizzare il percorso di Mikal, incontrato otto anni fa e alle prese con una famiglia tutt’altro che regolare, rinchiusa in un hotel dalla struttura fatiscente denominato “flophouse”, Strømdahl decide di dare voce alle realtà marginali di un'America profondamente spaccata. La sua, oltre ad essere un’opera intima e personale che segue da vicino la difficile vita del piccolo protagonista, come fossimo in un coming-of-age disfunzionale, è anche un indiretto attacco critico al fallimento del “nuovo” sogno americano, costruito in realtà sulle ceneri e sulle difficoltà della middle class, che negli ultimi anni è diventata progressivamente sempre meno agiata e le cui difficoltà vengono messe in primo piano tramite dialoghi ad effetto e l'utilizzo di colonne sonore diegetiche (nel caso specifico, la canzone If I Had Million Dollars del gruppo canadese Barenaked Ladies) che riescono ad alimentare il suo sguardo su questa situazione sconfortante. Anche lo stile di ripresa, sporco, intriso di macchina a mano e out of focus, ricrea il senso di sporcizia e squallore a cui è soggetto il protagonista e la sua famiglia, ma l’approccio, in compenso, resta sul fiabesco per la maggior parte del tempo (salvo la parte finale, dove tutti i nodi vengono irrimediabilmente al pettine), ricordando da vicino l’elogio del brutto e lo sguardo proletario del primo cinema di Harmony Korine, soprattutto nel senso di protezione e di positività che la Strømdahl arma consapevolmente nel corso del film. C’è, dunque, un contrasto netto tra il realismo/disfatta delineato dalla condizione sociale di quest’America che si riscopre claudicante (soprattutto nel finale, che emotivamente travolge extra-diegeticamente lo spettatore e che diventa inevitabile punto di svolta emotivo di Flophouse America) e questo senso “sognante” che la regista propone nel corso della narrazione, portando lo spettatore ad interrogarsi, inevitabilmente, sulle contraddizioni interne di un Paese che, anche a distanza di tempo, non ha ancora ben compreso la gravità delle condizioni in cui sono ridotti la maggior parte dei suoi abitanti.
I Am Night at Noonday, di Gaspard Hirschi
Gaspard Hirschi è un documentarista parigino nato nel 1978. Dopo aver studiato letteratura e filosofia, ha incominciato subito la sua attività filmica, entrando a far parte del collettivo Le Fresnoy, Studio National des Arts Contemporains. Successivamente, ha preso parti a produzioni internazionali, come Syriana (2005) di Stephen Gaghan, thriller politico con George Clooney, in cui Hirschi ha ricoperto il ruolo di assistente dello staff d’ufficio, supervisionando location e logistiche varie. Comincia poi a lavorare nel mondo televisivo, in cui si occupa di fare da assistente alla regia della serie TV La Cour Des Grands (2009), creata da Didier Cohen. Nel 2013, esordisce ufficialmente alla regia, dirigendo un episodio della serie Une Place Au Soleil (2013-). Dopo aver effettuato il suo primo lavoro anche in televisione, torna nuovamente al cinema, nel ruolo di primo assistente al documentario Kokoschka, Oeuvre-Vie (2017), diretto da Michel Rodde. Dopo un silenzio lungo quasi un decennio, è finalmente approdato al CPH:DOX 2025 debuttando alla regia con il suo primo documentario, dal titolo I Am Night At Noonday. Il film, ambientato in Francia, a Marsiglia, nei nostri giorni, ipotizza un assurdo scenario in cui il regista teatrale Manolo Bez si immedesima nel ruolo di Don Chisciotte, eroe della letteratura spagnola creato da Miguel De Cervantes. In questo viaggio, lo stesso Bez, accompagnato dal fido “scudiero” Saïd, si pone l'obiettivo di mettere a nudo le piaghe più recondite relative alla gentrificazione e alla privatizzazione dell’apparato statale francese. Hirschi documenta, attraverso i cambiamenti di un’intera città, la metamorfosi non solo di un intero Paese, quanto più di un intero continente, che si riscopre in continua trasformazione a discapito di tutte le dicerie che lo condannano ad essere “vecchio”. I Am Night At Noonday è un road movie di beckettiana costituzione, in cui la banalità dello status quo della vita francese di periferia è messa in discussione e, soprattutto, viene risaltata come in un racconto della banlieue. A cambiare è però la prospettiva e il registro usato: Hirschi costruisce una commedia surreale molto divertente, affrontando molti temi particolari e non semplici con un linguaggio eccentrico, a tratti esagerato, sfruttando Marsiglia come luogo per dare corpo alla sua follia e alle sue tematiche moderne, riprendendone più volte i cambiamenti e la vitalità che, al giorno d’oggi, la caratterizza. Ne risulta, dunque, un viaggio picaresco e divertente, privo di una struttura rigida (come, del resto, l'opera originale di De Cervantes), libero e stravagante, in cui i confini tra realtà e finzione sono decisamente sfumati e il linguaggio del mockumentary serve a ribellarsi contro le convenzioni delle tradizione. In questo, il film ricorda molto da vicino un altro adattamento recente e contemporaneo delle vicende di Don Chisciotte, ovvero The Man Who Killed Don Quixote (2018) di Terry Gilliam. Dal regista britannico, infatti, Hirschi prende in prestito il gusto per un umorismo del tutto surreale e per le forme giocose e del tutto sovversive, che sono ben lontane da qualsiasi conformismo odierno (anche nelle riprese, come dimostra la MDP sempre libera e molto fluida nel pedinare i suoi protagonisti) e che riempiono lo sguardo del film di un’aura nostalgica per il mito medievale, senza dimenticare l’importanza per il futuro della città e della nazione.
ILOVERUSS, di Tova Mozard
Ogni film è un viaggio. È un viaggio in quanto è un processo che si svolge e che va da un punto A a un punto B e che comporta un investimento di tempo e di energie da parte dei coinvolti. Di fatto, un film, in piccolo, è come la vita. Quando è però la vita e il suo scorrere a essere protagonista di un film il viaggio a cui ci si accinge presenta parecchie insidie. Fra queste prova a destreggiarsi Tova Mozard, artista visiva e fotografa di scena svedese che lavora a Hollywood da una ventina d’anni. ILOVERUSS è la storia del rapporto fra la regista e Russ Kingston, una comparsa che ha preso parte a numerosissimi film e che ha fatto della propria presenza sporadica e impercettibile il mestiere di una vita. La regista ha costruito negli anni uno spazio in cui Russ potesse esprimere sé stesso, le sue idee, le sue abilità recitative, la sua vita. Un luogo in cui potesse essere finalmente protagonista. Nello scorrere del film, caratterizzato da una scansione temporale non definita resa evidente dalla qualità delle riprese e dal cambio di formato, lo spettatore entra a contatto con una storia di cinefilia, con un personaggio che vede nella finzione il senso della sua vita. Nonostante l’eccentricità del suo protagonista, ILOVERUSS sembra più interessato a negare la classica struttura character-driven che caratterizza molti documentari per offrire allo spettatore la chiave di lettura di una relazione fra regista e attore, fra istanza narrante e oggetto della narrazione, destinata a lasciare vuoti e conflitti irrisolvibili. Quello di Tova Mozard è quindi un documentario meta-cinematografico, che svela personaggi invisibili al mondo del cinema (la comparsa e la fotografa di scena) e che si fa riflessione sui fantasmi e sui non detti che si insinuano negli anni in un rapporto artistico e personale. Un’opera che, nonostante acquisti una maggiore forza solo nell’ultimo atto e che sembra, in certi momenti, chiudersi sin troppo su sé stessa escludendo lo spettatore, riesce a regalare attimi di limpidezza che scaldano il cuore.
Il castello indistruttibile, di Danny Biancardi, Stefano La Rosa e Virginia Nardelli
Danny Biancardi e Stefano La Rosa sono entrambi registi palermitani, mentre Virginia Nardelli è nata a Trento. I tre hanno avuto tre percorsi accademici diversi. Biancardi si è laureato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo con il documentario Sparring Partners (2019), selezionato al Festival dei Popoli 2019. Successivamente, per tre anni ha collaborato con Stefano Savona alla creazione del documentario Le Mura Di Bergamo (2023), presentato alla Berlinale 73 nella sezione Encounters. Stefano La Rosa, dopo aver lavorato anche lui con Stefano Savona alla creazione di Samouni Road (2018), selezionato per la Quinzaine des Réalisateurs e vincitore, tra gli altri, dell’Œil d’Or per il miglior documentario al Festival di Cannes 2018 e del Prix Lumière, comincia la creazione del suo primo progetto di lungometraggio, dal titolo L’Ultima Regina (2024). Virginia Nardelli si è invece laurea nel 2019 al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo con il lungometraggio C’è un lupo nel Parco del Re (2019), presentato in anteprima al FilmMaker Festival - dove ha vinto il premio Movie People - al Cinema du Réel - Première fenêtre, al MedFilm e al QFest 2021 - Houston Gay and Lesbian Film Festival - dove si è aggiudicato il riconoscimento per la Miglior Regia. Dal 2020 al 2023 anche lei collabora con Stefano Savona per il documentario Le mura di Bergamo. I tre registi hanno messo insieme le forze e hanno presentato, al CPH:DOX 2025, il loro primo progetto insieme, dal titolo Il castello indistruttibile (2025), racconto che ci porta in un quartiere isolato di Palermo, chiamato Danisinni, dove quattro ragazzi, Angelo, Mery, Rosy e Giada, trasformano un asilo abbandonato, creduto dai più infestato e prossimo alla riqualificazione da parte del Comune, in un rifugio segreto dove poter dare sfogo alla loro immaginazione più recondita, alla loro felicità e al loro vezzo di crescita e di immaginazione. Il castello indistruttibile, sotto il linguaggio del documentario, nasconde un’anima da coming-of-age, dove i luoghi sono deputati alla scoperta di sé stessi, sono delle vere e proprie “fortezze” (come nei romanzi di Robert Louis Stevenson) che i protagonisti sfruttano per affrontare le loro paure e per confrontarsi sui propri bisogni. I registi pedinano i loro “soggetti, rendendo però naturale la loro recitazione, restando sempre nascosti con la loro camera e manifestando un certo pudore anche nella manipolazione dell’immagine e delle inquadrature. Questa leggerezza rende i protagonisti più liberi e la vicenda pienamente verosimile, anche nell’atto di costruzione di un proprio luogo “fantastico” che sorge all’interno di un contesto pienamente realistico, con una cornice che richiama da vicino il Neorealismo di Germi ma che, allo stesso tempo, si caratterizza per essere un luogo eterotopico simile all’Isola di Peter Pan, in quanto incontaminato dagli adulti e in quanto posto ideale per svolgere la propria crescita. I luoghi de Il castello indistruttibile sono dunque spazi di fuga, dove i protagonisti possono diventare qualcun altro senza preoccuparsi di nulla (come nel monologo allo specchio) e dove la possibilità del confronto tra di loro si trasforma, piuttosto, in una solidarietà interiore, in volontà di tirare le proprie forze nascoste gli uni dagli altri, in un luogo e in un contesto che permette di crescere con calma, a discapito degli adulti.
Mr. Nobody Against Putin, di David Borenstein e Pavel Talankin
Da quando il 20 Febbraio del 2022 la Russia ha invaso l’Ucraina, ci siamo abituati a venire sommersi dalle immagini del conflitto sul suolo ucraino, spesso non ponendoci domande su come queste arrivino fino ai nostri media e senza interrogarci su come i cittadini russi stanno tutt’ora reagendo alla guerra in corso. Aiutato dal documentarista David Borenstein, l’insegnante russo Pavel Talankin seleziona e organizza tutte le immagini da lui filmate dal 2022 al 2024 nella scuola della cittadina Karabash, in cui per anni ha insegnato e coordinato gli eventi sociali, denunciando la militarizzazione dell’istituto e la propaganda che da anni invade l’istruzione nazionale. I due registi giustappongono così immagini di una gioventù che vuole essere libera e spensierata a quelle dei giovani studenti manipolati dalla macchina proselitista di Putin e del suo regime, mostrando classi straripanti di simboli dell’identità nazionale russa e gruppi di giovani uomini che sognano di partire per la guerra e di morire per la propria patria. Immagini di repertorio che erano state commissionate a Talankin con l’obiettivo di rafforzare l’idea di un popolo pronto a sostenere il governo di Putin, vengono invece rielaborate secondo una luce diversa, esibendo l’illusione che si nasconde dietro i fenomeni massmediali e la sofferenza di una nazione stremata dal conflitto. Laddove nessuno può negare l’importanza delle immagini che sono costate al professore la fuga dalla sua stessa madrepatria, può essere tuttavia messa in discussione la modalità con cui quanto filmato è stato filtrato da una serie di scelte stilistiche compiute da Borenstein. Non può (e non dovrebbe) bastare l’inserimento di una serie di reperti riguardanti la militarizzazione delle scuole russe per fare un discorso su come il cinema può essere usato come mezzo di condizionamento ideologico, se poi non vengono messi in discussione i meccanismi e le forme con cui avviene tale manipolazione. Se infatti l’intenzione del documentario è quella di svelare la finzione dietro la propaganda e quanto facilmente essa può plagiare le menti dei più giovani, è assurdo constatare come il montaggio dell’opera utilizzi gli stessi meccanismi retorici per portare avanti la propria tesi, spesso limitandosi ad accompagnare le immagini di questa “gioventù putiniana” con musiche enfatiche o con rallenty di dubbio gusto. Lo scarso interesse del film nel mettere in discussione ciò che mostra risalta ancor di più pensando che l’unico momento realmente impattante sia proprio quello dove le immagini spariscono e viene lasciato spazio alle grida di dolore di una madre in lutto. Ma la retorica non dovrebbe mai essere il fine ultimo di un discorso su come siamo facilmente manipolati dal potere e, per quanto sia facile empatizzare con una tesi così attuale, non possiamo fare a meno di interrogarci anche sulla dannosità del filtro con cui queste realtà così lontane ci vengono mediate.
My Dear Théo, di Alisa Kovalenko
In seguito allo scoppio della guerra in Ucraina nel febbraio del 2022, molti civili persero la decisione di unirsi alla Ukrainian Armed Forces per cercare di difendere il proprio paese dall’invasione russa. Tra queste persone c’era anche la cineasta Alisa Kovalenko, che ha documentato la propria esperienza sul fronte. My Dear Théo inizialmente non doveva essere un film, ma un semplice vlog nel quale una madre cerca di spiegare la sua scelta e il suo amore incondizionato verso il figlio, documentando al tempo stesso la distruzione e l’orrore attorno a lei. Il conflitto degenerò in poco tempo e il progetto mutò in un testamento della resilienza del popolo ucraino contro l’oppressione russa. Kovalenko parte dalla propria esperienza personale per dare uno sguardo introspettivo sulla vita al fronte, sul senso di cameratismo ed unione del popolo ucraino in un momento di estrema difficoltà. L’andamento lineare e cronologico del documentario, che mostra da una parte l’evoluzione della guerra e dall’altra lo scambio di video e lettere tra madre/figlio, rende My Dear Théo una visione piuttosto toccante, nel quale la cineasta mostra come lei e i propri compagni non sono soldati, ma semplicemente persone vulnerabili, che temono per la propria incolumità, ma che sono sempre desiderose di costruire un futuro più luminoso per i propri cari.
Seeds, di Brittany Shyne
Dopo gli acclamati lavori come DOP, tra cui quello in American Factory (2019) di Julia Reichert e Steve Bognar, Brittany Shyne ha intrapreso la sua carriera nella regia e, lo scorso gennaio, ha presentato la sua opera prima al Sundance Film Festival, dove si è aggiudicata lo U.S. Grand Jury Prize. Seeds pone al centro della sua narrazione l’uomo e il rapporto con la propria terra, esplorando diverse generazioni di agricoltori afroamericani e le loro difficoltà quotidiane. Partendo da alcune storie personali, Shyne intraprende un discorso piuttosto complesso e multi sfaccettato nel quale vengono esplorate le varie discriminazioni razziali perpetrate dall'USDA (U.S. Department of Agriculture), il conflitto generazionale e il futuro stesso dell’agricoltura. A risaltare quest’ultimo aspetto sono i soggetti scelti da Shyne, persone che potrebbero andare tranquillamente in pensione, ma che continuano il loro lavoro per preservare la terra e creare un futuro per i nipoti che sia lontano dagli uffici e dagli schermi dei computer. L’operazione eseguita da Shyne rende infatti omaggio a quel mondo rurale e grezzo; la camera spesso predilige dei closeup sulle mani degli agricoltori, i loro strumenti e i “frutti” del loro lavoro. Girato con un sontuoso bianco e nero, il film, non solo acquisisce un’inclinazione onirica, ma funge anche come una sorta di capsula nel tempo, donando quella sensazione di nostalgia e melanconia verso un periodo che, in qualche modo, sembrava più roseo rispetto alla dura realtà dei tempi moderni. Seeds è un’opera ambiziosa nel suo approccio minimalista e contemplativo, nella quale Shyne riesce egregiamente a costruire un’esperienza visiva che rende il film affascinante e soprattutto diverso rispetto a lavori passati che hanno analizzato tematiche simili.
The Last Ambassador, di Natalie Johanna Halla
Usiamo dire “ambasciator non porta pena” quando dobbiamo riportare delle brutte notizie, ma cosa succede quando è proprio chi fa l’ambasciatore a ricevere una notizia terribile che cambierà il suo mondo per sempre? Natalie Johanna Halla con il suo ultimo documentario The Last Ambassador ci porta a vivere la vita di Manizha Bakhtari, ultima ambasciatrice donna dell’Afghanistan a Vienna, che dopo il 15 agosto del 2021 - giorno in cui i talebani entrano a Kabul - vede la propria vita cambiare per sempre. Manizha Bakhtari assiste da lontano agli orrori che i talebani compiono nel suo Paese, soprattutto ai danni delle donne. Sono, infatti, quest’ultime ad essere le vere vittime del nuovo regime. Non possono più lavorare, andare a scuola o avere una vita. Nonostante la distanza, Manizha Bakhtari, non rinuncia al proprio incarico come ambasciatrice dell’Afghanistan, e soprattutto si fa portavoce dei diritti delle donne. Natalie Halla, con la sua camera ci fa vivere il lavoro - ma soprattutto la vita - da ambasciatrice della Bakhtari, dal 15 agosto 2021 ai giorni nostri. Le immagini documentaristiche si intervallano con immagini di repertorio che mostrano ció che i talebani hanno voluto mostrare al mondo, come la prima conferenza stampa dove promettevano di non violare i diritti delle donne. Halla porta sul grande schermo il coraggio e la passione di una donna che davanti a un regime che la vorrebbe in silenzio, fa sentire ancora di più la propria voce.
Unanimal, di Sally Jacobson e Tuva Bjork
L’ammaliante voce di Isabella Rossellini invita lo spettatore, nelle prime battute di Unanimal, ad adottare il punto di vista degli animali protagonisti delle immagini del film. Un suggerimento e una suggestione, che - purtroppo - non trovano nel documentario di Sally Jacobson e Tuva Bjork un adeguato compimento. Partendo dalle pitture rupestri, i registi indagano la relazione - inizialmente sacra - fra animale e uomo per arrivare a una contemporaneità in cui la bilancia di questo rapporto pende totalmente verso l’essere umano. Tuttavia, l’accostamento paratattico dei vari blocchi di materiale, l’eccessivo accumulo di immagini differenti, non dà ad Unanimal quella forza e quella profondità necessaria per rimanere impressa nella mente dello spettatore. Un film di cui si riesce a cogliere chiaramente la tematica, di cui si riesce a cogliere anche qualche scena interessante, ma che nella sua durata non riesce a portare avanti né un processo argomentativo approfondito, né un punctum che possa aprire allo spettatore nuovi orizzonti di senso oltre l’immagine. La presenza vocale di Isabella Rossellini, che da regista ha sempre portato un punto di vista tanto interessante quanto irriverente sull’etologia animale, sembra più un tentativo da parte degli autori di Unanimal di marcare un territorio di cui non si conosce la conformazione.
When the Phone Rang, di Iva Radivojević
Numerosi registi nel corso della storia recente si sono interrogati su come esaminare i contrasti tra la memoria individuale del singolo e l’oblio indistinto della loro storia nazionale. Arrivata al suo terzo film, presentato a Locarno nel 2024, la regista serba Iva Radivojević decide di esaminare le modalità attraverso cui i ricordi più intimi di una persona possono venire intaccati dagli sconvolgimenti della politica internazionale. When the Phone Rang gira attorno ai ricordi sconnessi e frammentati di una ragazza nata nella cittadina di Novi Sad, le cui strade e vicoli vengono messe in scena dalla cineasta come se fossero parte di un non-luogo il cui progresso è stato fermato dai mutamenti della Storia. I personaggi si aggirano come fantasmi all’interno di una dimensione in cui il tempo è definito da ellissi e ripetizioni e in cui la grana della fotografia in 16mm restituisce una forma che è più vicina a quella del sogno lucido, rispetto che a una rappresentazione fedele della realtà. Non c’è quindi nulla di attendibile o concreto all’interno dei tanti episodi isolati su cui si basano i ricordi esposti dalla voce narrante, la cui stessa provenienza non viene mai spiegata. La narrazione non segue gli stilemi di una rievocazione lineare del passato, ma come una spirale ruota attorno a un evento, ovvero una chiamata che ha cambiato la vita della protagonista. Questo piccolo frammento viene ripreso, ripetuto, dilatato ed esposto secondo modalità sempre diverse, mostrando così l’impossibilità di costruire una memoria coesa e coerente con il quadro della Storia globale. Il sogno ha quindi un’importanza decisiva nell’opera della regista, perché la sospensione e l’ermetismo della dimensione onirica influenzano l’identità della protagonista, la quale, ripensando a eventi significativi della propria vita a Novi Sad, non riesce a comprendere pienamente il ruolo di questi episodi nel processo della propria crescita, ripensando con amarezza ai rimpianti di una giovinezza troncata. La regista punta quindi a una costante stilizzazione delle immagini, in cui ogni immagine appare agli occhi dello spettatore come irreale e in cui l’uso stesso dei colori punta a rafforzare l’idea che non sia possibile trovare nei propri ricordi una testimonianza della realtà, ma solo una sua copia sbiadita. Questa sperimentazione stilistica procede quindi tra sovrimpressioni, soggettive differite e giochi sui riflessi, fino a un finale in cui le immagini si emancipano dai rigidi limiti dell’inquadratura fissa e la stessa protagonista può liberarsi dal peso dei propri rimpianti.