I movimenti e gli autori che hanno
segnato il cinema dell’Europa orientale,
di Viktor Tóth
TR-105
13.07.2024
Nouvelle Vague, “nuova onda”, fin dalla sua coniazione questo termine è entrato nel linguaggio comune per descrivere le “stagioni cinematografiche” di varie nazioni. Si sottintende quasi sempre una coesione tra i film di una nuova onda, quasi che i cineasti si siano riuniti attorno ad un tavolo ed abbiano consciamente deciso, di comune accordo, di dare inizio ad un movimento. Ci sono casi in cui, più o meno, qualcosa di simile è accaduto, si pensi al Dogme 95, raramente però avviene una tale dichiarazione d’intenti, e spesso il termine diventa un’etichetta bollata dalla critica e dalla storiografia, una semplificazione.
Così, ci troviamo davanti la Nuova Onda tedesca, la Nuova Onda australiana, più recentemente la Nuova Onda rumena, greca, addirittura qualcuno suggerisce la Nuova Onda ucraina, eccetera. Al contempo, è giusto analizzare e comparare tra loro opere di una stessa periodizzazione e provenienza, trovare punti di contatto o divergenze, intenzionali o meno; ma è altresì giusto procedere ad utilizzare l’espressione “nuova onda”, comunque e dovunque, pur con le dovute avvertenze?
Per cercare di rispondere al quesito, bisogna approfondire due esempi di “nuove onde” agli antipodi, di provenienze geografiche simili. La scelta cade sull’Est Europa, e le onde a confronto saranno la Nova Vlna Cecoslovacca e la Nuova Onda Polacca.
Nova Vlna
Correva l’anno 1963, quando a Febbraio, in Cecoslovacchia, uscì Il sole nella rete (Slnko v Sieti) di Stefan Uher. Più avanti, in maggio, a Cannes, nel palmarès accanto al trionfante Il Gattopardo di Luchino Visconti, viene insignito del premio speciale della giuria, Un giorno, un gatto (Az prijde kocour) di Vojtěch Jasný. Se il film di Uher è solitamente ricordato come il primo film della Nuova Onda cecoslovacca, la Nova Vlna, è giusto ricordarli entrambi, non solo perché il lungometraggio di Jasný è il primo del periodo a ricevere un riconoscimento internazionale (al quale seguiranno altri), ma anche in quanto, in qualche modo, posti a dittico, i due film riassumono molto bene le varie, e contraddittorie, tendenze del movimento; il primo è in lingua slovacca, il secondo in lingua ceca; il primo cerca di rappresentare una realtà sociale, il secondo è un opera di pura fantasia, semi-surreale; Uher appartiene alla nuova generazione di cineasti, mentre Jasny ad una generazione precedente, già consolidata. Sono queste le due parallele su cui grosso modo si muoverà la maggior parte del cinema della Nuova Vlna (Vlna = Onda) Cecoslovacca.
Per meglio descrivere il fenomeno, è lecito partire da una celebre fotografia, che ritrae, tra i vari, Věra Chytilová, Miloš Forman, Ivan Passer, Jan Nemes, Jiří Menzel e Pavel Juráček - i principali esponenti del movimento. Nella foto, i soggetti si muovono in pose disordinate, Vera fa una smorfia, Miloš si spinge quasi oltre lo steccato dietro al quale si trovano tutti, ma nel caos si nota una certa coesione: potrebbe essere la foto di un’allegra combriccola di amici. Mancano però alcuni importanti esponenti del movimento che vanno segnalati: Juraj Herz e Juraj Jakubisko.
Ciò che unisce gli autori della Nova Vlna, più che un manifesto o una dichiarazione d’intenti, è una vicinanza generazionale: la maggior parte di loro ha studiato alla FAMU, la scuola di cinema di Praga, negli stessi anni - Forman e Passer addirittura si conoscono fin dall’infanzia, da quando frequentavano lo stesso collegio insieme ad un alunno notoriamente “mascalzone”, il futuro regista Jerzy Skolimowski, che si trovava a Praga per via degli impegni diplomatici dei genitori. Un po’ come le pose autonome della foto, nonostante la vicinanza generazionale e formativa, gli autori si sono tutti espressi in forme diverse - addirittura, la critica estera, in specie quella francese, apprezza Forman ma critica pesantemente Nemec, tanto diversi sono i loro modi di fare cinema.
Un fattore molto importante per la nascita della Nova Vlna fu il periodo storico: in seguito alla morte di Stalin, come in vari paesi del blocco sovietico, anche nella Cecoslovacchia si cominciò a respirare un’aria di maggiore libertà. Una coincidenza che ha spinto, nei primi anni ’60, alcuni nuovi cineasti a sperimentare con il linguaggio. Di onde e nuove tendenze ce ne sono state tante a livello globale, ma la Nouvelle Vague francese non aveva dovuto fare i conti con la censura statale, almeno non al livello dei cecoslovacchi. Spesso, i protagonisti della Nova Vlna usano l’espressione miracolo cecoslovacco per descrivere la propria esperienza, sottolineando la natura fortuita del momento, che permise alle prime opere del movimento di superare indenni la censura, e ai cineasti di operare, non senza difficoltà, negli anni successivi.
Com’è già stato anticipato, il movimento ha avuto varie direzioni: alla generazione giovane, si è affiancata una generazione precedente, anche se spesso non la si considera come parte del movimento ma più come una serie di registi che operarono parallelamente ad esso, come per esempio il duo composto da Erman Klos e Ján Kadár, vincitori del premio Oscar al miglior film straniero per Il negozio sul corso (Obchod na korze,1965), o František Vláčil, autore di numerosi film storici estreamente particolari come La trappola del diavolo (Ďáblova past, 1962), Marketa Lazarová (1967) e La valle delle api (Údolí včel, 1968). Alle commedie pungenti di Forman e Menzel - anch’esso premio Oscar, per Treni strettamente sorvegliati (Ostře sledované vlaky,1966) - si contrappongono le opere surreali di Vera Chytilová, regista di Le margheritine (Sedmikrásky, 1966), ancora oggi un film manifesto del femminismo cinematografico, e quelle, in ambito slovacco, di Juraj Jakubisko.
Insomma, cosa riunisce i film della Nova Vlna? Certo, Le margheritine della Chytilová e Uccelli, orfani e folli (Vtáčkovia, siroty a blázni, 1969) di Jakubisko sono entrambe opere che giocano con la dimensione infantile, il caos variopinto, il surreale, ma cosa hanno in comune con L’asso di picche (Cerny Petr, 1964) di Forman, o Lo scherzo (Žert, 1969) di Juraj Herz? Probabilmente l’irriverenza.
La grande scoperta della Nova Vlna è il poter fare un cinema che, partendo dai dettami del realismo sociale, proceda in una direzione satirica, per l’appunto irriverente, per certi versi immatura, come il protagonista adolescente di L’asso di picche, un ragazzo che, assunto per sorvegliare un supermercato contro i taccheggiatori, proprio non riesce ad obbedire, o la protagonista in Amori di una bionda (Lásky jedné plavovlásky, 1965), che appena conosce i genitori di uno dei suoi amanti, sente il bisogno di fuga non riuscendo a sottostare alle convenzioni sociali.
Così in Le margheritine di Chytilová, le due protagoniste si prendono gioco di tutto e tutti, a volte con ingenuità, a volte sfruttando le convenzioni patriarcali a proprio favore. Un “irriverenza” che si rispecchia anche nelle consuetudini e regole della tecnica cinematografica, molto evidente ne L’uomo che bruciava i cadaveri (Spalovac mrtvol, 1969), in cui la psiche turbata del protagonista viene visualizzata attraverso movimenti di macchina incoerenti, un largo uso di obiettivi grandangolari in spazi angusti e una generale concezione spaziale allucinatoria.
Il miracolo cecoslovacco non poteva durare a lungo: nel 1968, ebbe luogo la primavera di Praga, culminata nell’invio da parte dell’Unione Sovietica di carri armati per reprimere la rivolta, una profonda ferita che segnò per sempre i territori della Cecoslovacchia. La conseguenza fu fatale per la Nova Vlna, la censura divenne feroce e proibì l’uscita di quasi tutte le opere legate al movimento. L’esempio più eclatante fu Allodole sul filo (Skrivánci na niti, 1968) di Jiri Menzel, interamente bandito e mai proiettato fino al 1990, ma anche Uccelli, orfani e folli di Jakubisko, che a seguito delle proiezioni a Cannes fu sequestrato fino alla caduta del regime nell’89, come anche L’uomo che bruciava i cadaveri di Juraj Herz, che pur presentando un personaggio che aderisce al nazismo, fu visto come un film critico verso il conformismo ai regimi - un procedimento che i poteri forti preferivano nel periodo successivo alla repressione.
Quando Miloš Forman ed Ivan Passer decisero di fuggire negli Stati Uniti, causarono una frattura irreparabile con Vera Chytilová, che interpretò la loro decisione come una specie di “arresa” nei confronti del governo cecoslovacco. Se in America Forman ebbe l’importante carriera che tutti conosciamo, con Taking Off (1971), One Flew Over the Cuckoo's Nest (Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975), Hair (1979), Amadeus (1984) e Larry Flynt (1996), la maggior parte dei registi cechi e slovacchi rimasti in patria ebbe grosse difficoltà negli anni successivi.
Il miracolo cecoslovacco era finito, ma non la sua fama. Oltre ai già citati riconoscimenti, le opere della Nova Vlna ricevettero numerosissimi premi a livello internazionale, e furono estremamente presenti nel circuito dei festival: L’uomo che bruciava i cadaveri vinse per il miglior film, la miglior fotografia e il miglior attore a Stiges, mentre L’asso di picche venne riconosciuto con il premio principale a Locarno. Inoltre, l’ultimo film diretto in cecoslovacchia da Forman, Fuoco ragazza mia! (Hoří, má panenko, 1967), fu uno dei pochi film che, nel 1969, non venne censurato divenendo negli anni un vero e proprio classico riconosciuto da parte del vasto pubblico nazionale - ancora oggi in Repubblica Ceca è considerato un cult.
Alla fine della Guerra Fredda, dopo il 1989 ci fu una vera e propria riscoperta delle opere della Nova Vlna, che culminò con l’Orso d’Oro assegnato a Jiri Menzel per Allodole sul filo, finalmente presentato al pubblico durante il Festival di Berlino del 1990.
Nuova Onda polacca
Nel 1981, L’uomo di ferro (Człowiek z żelaza) vince la Palma d’Oro a Cannes. Pochi anni dopo, nel 1984, Krzysztof Zanussi ottiene il Leone d’Oro per L’anno del sole quieto (Rok spokojnego słońca). Un decennio più tardi, di nuovo a Cannes, alla notizia della vittoria di Pulp Fiction (1994) una considerevole porzione di pubblico si indigna per la mancata vittoria di Tre colori: Film rosso (Trois couleurs: Rouge), di Krzysztof Kieślowski. Se il discorso sulla Nova Vlna era limpido e chiaro, è più difficile cercare di riassumere cosa sia la fantomatica “Nuova Onda polacca”, termine spesso utilizzato dalla critica internazionale. Al principio del discorso evochiamo di nuovo una fotografia, risalente al 1990, che ritrae una serie di cineasti in fila, che sorreggono una bandiera polacca: Andrzej Żuławski, Andrzej Wajda, Agnieszka Holland, Roman Polański, Ryszard Bugajski e Krzysztof Kieślowski.
Innanzitutto, non c’è alcuna unità generazionale: Żuławski, Zanussi e Kieślowski sono nati negli stessi anni, ma Wajda e Polański sono di quasi un decennio più vecchi, Holland, al contrario, è di 5-6 anni più giovane. Esistono rapporti di collaborazione: Żuławski e Holland sono stati assistenti alla regia di Wajda, e sempre Agnieszka Holland ha co-sceneggiato la trilogia dei Tre Colori di Kieślowski. Polański, invece, appare come comparsa in alcuni dei primi film di Wajda. Eppure, se interpellati a riguardo, difficilmente ciascuno di loro accetterebbe di far parte di un movimento.
Effettivamente, se si volesse cercare di delineare un movimento in Polonia, bisognerebbe piuttosto tornare alla cosiddetta “Scuola Polacca”, una tendenza nata in seguito alle distensioni politiche del Paese, successive al 1956, che permisero, un po’ come in Cecoslovacchia, di dar vita ad una stagione cinematografica più “libera”. Fortemente legato al neorealismo italiano, almeno nei principi suggeriti dai suoi esponenti, a questo periodo vengono associati, tra i vari, Andrzej Wajda, Jerzy Kawalerowicz, Wojciech Has e Andrzej Munk, tutti studenti emersi dalla scuola di cinema di Łódź. È la stagione in cui Zbigniew Cybulski, il protagonista di Cenere e diamanti (Popiół i diament, 1958), viene trattato a livello internazionale quasi come un James Dean dell’Est. Insomma, una tendenza cinematografica importante - che dette inizio alla carriera epocale di Wajda e di altri autori - che si radicò nella sua epoca, in continuità con altre realtà contemporanee, ma che non rappresentò una rottura o un’innovazione radicale.
Quando si descrive la Nuova Onda polacca, sono i registi della foto - ed insieme a loro, Jerzy Skolimowski - a cui la critica internazionale fa spesso riferimento. Questa fantomatica eterogeneità diventa ancora più evidente se si prendono in esame i loro film. Si pensi a Possession (1981), pellicola di genere horror che racconta di un divorzio e, più nel particolare, di una mostruosa relazione che il personaggio femminile (Isabelle Adjani) intraprende con una creatura mostruosa; un’opera in cui vige un'atmosfera di caos, contraddistinta da una recitazione degli attori impostata su eccessi emotivi ed urla, e dove la macchina da presa si muove continuamente.
In confronto, Destino cieco (Przypadek, 1987) di Krzysztof Kieślowski, racconta di un uomo che corre dietro ad un treno in partenza, e delle tre possibili storie alternative che avrebbero luogo nel caso lui riuscisse a prenderlo o meno. L’urlo anche qui ha una sua presenza ad inizio e fine film, ma Destino cieco è lontano dalle esuberanze di Żuławski per via di una mise-en-scène statica, un tema che si lega alla potenzialità degli eventi e una storia più vicina alla verosimiglianza che alla fantasia.
Ancora, La Costante (Constans, 1980), di Krzysztof Zanussi, è un film dai toni estremamente intellettuali, in cui il protagonista cerca di comprendere il significato della vita affrontando il dramma della malattia della madre e una serie di ingiustizie sociali, un lavoro intriso di dialoghi complessi e ragionamenti filosofico-scientifici.
Infine, sempre di quegli anni, è L’uomo di Ferro di Wajda, completamento di un dittico iniziato con L’uomo di marmo (Człowiek z marmuru, 1977), un film molto politico, che racconta le proteste di Gdansk e le rivolte che portarono all’inasprimento del regime e alla legge marziale instaurata nel 1981. L’opera spesso riprende linguaggi tecnici documentaristici, pur rimanendo nello spazio della finzione, ed ha un evidente scopo politico, quello di raccontare la situazione complessa di una Polonia che cerca di distanziarsi dal blocco sovietico di cui fa parte. Wajda, con questo e L’uomo di marmo, dimostra una grande flessibilità rispetto ai tempi: pur essendo uno dei registi più anziani, riesce a dirigere film modernissimi per le loro epoche.
Quattro opere uscite nel 1980/81, quattro voci autoriali completamente diverse. Eppure con molta facilità, per via della provenienza nazionale in comune, Żuławski, Kieślowski, Zanussi e Wajda sono accostati fra loro. Diventa palese, prendendo in esame la Nuova Onda polacca, che il termine è un’artificiosità posteriore, più che un’identificazione lecita e condivisa a livello autoriale. Questa denominazione sembra essere legata, piuttosto, alla stagione di premi ottenuti a livello internazionale durante un breve lasso di tempo, senza tenere conto delle profonde divergenze contenutistiche-stilistiche degli autori - come se la Nuova Onda polacca esistesse solo perché Wajda vinse la Palma d’oro nel 1981, Zanussi il Leone d’Oro nel 1984, e così via.
Conseguenze
Abbiamo visto, nel caso della Nova Vlna, un movimento che, seppur senza un manifesto o linee guida vere e proprie, si è dichiarato tale dall’interno, ha dimostrato una certa coerenza, pur concedendo libertà notevoli ai propri esponenti, ma che in ogni caso resta un gruppo di persone chiaramente in dialogo fra loro a livello artistico. Di contro, con la Nuova Onda polacca, ci siamo imbattuti più in un’etichetta assegnata dalla critica ad un gruppo di cineasti che in comune hanno alcune collaborazioni, ma principalmente solo la stessa nazione di origine. Come giudicare quindi l’uso dell’espressione Nuova Onda?
Un esempio analogo, in tempi più recenti, è il caso della Nuova Onda rumena: in seguito alle vittorie di Cristi Puiu e di Cristian Mungiu a Cannes, vari cineasti rumeni emersero sul piano internazionale, ottenendo importanti riconoscimenti - i tre Orsi d’Oro vinti nel corso dei decenni successivi e il premio alla regia in Un Certain Regard assegnato ad Alexandru Belc due anni fa. La critica parla molto di una “Nuova Onda”, ma, per esempio, alla conferenza stampa di Animali selvatici (R.M.N.,2022), Mungiu parlò di “me e di altri miei colleghi a cui vengo assimilato”, più che di un movimento. Pur essendoci una somiglianza notevole tra la maggior parte dei film del cinema rumeno, è palese la divergenza con gli autori originali, che hanno preso strade in solitaria: si confronti Malmkrog (2020) di Cristi Puiu a Animali selvatici di Cristian Mungiu, o Sesso sfortunato o follie porno (Babardeală cu bucluc sau porno balamuc, 2021) di Radu Jude, opere completamente diverse fra loro. L’unico aspetto in comune, di nuovo, è la nazionalità degli autori.
Da questa prospettiva, etichettare ogni fase in cui i cineasti di una stessa nazionalità acquisiscono successo internazionale può sembrare addirittura problematica: più che riconoscere i talenti individuali, si rischia di affiancare fra loro individui sfruttando come soli criteri il loro successo e la loro provenienza, senza tenere conto delle loro poetiche personali. Tornando alla Nuova Onda polacca, Żuławski e Kieślowski sono autori radicalmente diversi in tutto, eccetto la loro Nazione d’origine ( e, alla fine, nemmeno quella, perché Żuławski, di origini polacche, è nato a Lviv, in Ucraina), da cosa deriva questa urgenza di descriverli come esponenti di un movimento, se non il bisogno di una semplificazione talmente eccessiva da assumere connotati discriminatori?
Va notato che, a seguito della Nouvelle Vague, l’espressione Nuova Onda è stata spesso adoperata per descrivere delle cinematografie legate a località reputate “esotiche” da una critica polarizzata verso l’Occidente e i Paesi anglofoni. Tutti i casi non occidentali (o anche non statunitensi) di successi diventano automaticamente parte di una “Nuova Onda”, quasi solamente perché si tratta di opere che giungono da paesi precedentemente meno riconosciuti a livello internazionale - Andrzej Wajda si fece conoscere negli anni cinquanta con I dannati di Varsavia (Kanał, 1957) e il già citato Cenere e diamanti, mentre Polański ebbe una prolifica carriera hollywoodiana nei decenni successivi, ma lo scenario internazionale spesso dimentica opere di vent’anni prima se non hanno ottenuto premi significativi, e Rosemary's Baby (1968) o Chinatown (1974) di certo non vengono percepiti come dei film “stranieri”.
Di contro, seppur rari, esistono casi analoghi alla Nova Vlna, di collettivi o di movimenti organizzati, sempre dichiarati tali dai propri “membri”. Per esempio, il Dogme 95, di breve durata, ma con un manifesto vero e proprio, esponenti autodichiarati e stilemi da seguire rigorosamente. Certo, la critica cinematografica non deve chiedere l’autorizzazione agli autori per ipotizzare una categorizzazione di opere, o un’analisi che riunisca dei cineasti all’interno di un determinato contesto. Sembra però che molto spesso queste assimilazioni siano più arbitrarie che ragionate, legate ad un superficiale raccordo per criteri sommari, quali il successo e la nazionalità, piuttosto che a un intento analitico maggiormente approfondito.
La conclusione è quindi un auspicio alla necessità di uno studio approfondito di argomenti, in ambito cinematografico, che si distacchi da una visione internazionale forse troppo legata ai premi ottenuti ai festival, e che permetta un arricchimento analitico dello studio del cinema, più che una sua semplificazione.
I movimenti e gli autori che hanno
segnato il cinema dell’Europa orientale,
di Viktor Tóth
TR-105
13.07.2024
Nouvelle Vague, “nuova onda”, fin dalla sua coniazione questo termine è entrato nel linguaggio comune per descrivere le “stagioni cinematografiche” di varie nazioni. Si sottintende quasi sempre una coesione tra i film di una nuova onda, quasi che i cineasti si siano riuniti attorno ad un tavolo ed abbiano consciamente deciso, di comune accordo, di dare inizio ad un movimento. Ci sono casi in cui, più o meno, qualcosa di simile è accaduto, si pensi al Dogme 95, raramente però avviene una tale dichiarazione d’intenti, e spesso il termine diventa un’etichetta bollata dalla critica e dalla storiografia, una semplificazione.
Così, ci troviamo davanti la Nuova Onda tedesca, la Nuova Onda australiana, più recentemente la Nuova Onda rumena, greca, addirittura qualcuno suggerisce la Nuova Onda ucraina, eccetera. Al contempo, è giusto analizzare e comparare tra loro opere di una stessa periodizzazione e provenienza, trovare punti di contatto o divergenze, intenzionali o meno; ma è altresì giusto procedere ad utilizzare l’espressione “nuova onda”, comunque e dovunque, pur con le dovute avvertenze?
Per cercare di rispondere al quesito, bisogna approfondire due esempi di “nuove onde” agli antipodi, di provenienze geografiche simili. La scelta cade sull’Est Europa, e le onde a confronto saranno la Nova Vlna Cecoslovacca e la Nuova Onda Polacca.
Nova Vlna
Correva l’anno 1963, quando a Febbraio, in Cecoslovacchia, uscì Il sole nella rete (Slnko v Sieti) di Stefan Uher. Più avanti, in maggio, a Cannes, nel palmarès accanto al trionfante Il Gattopardo di Luchino Visconti, viene insignito del premio speciale della giuria, Un giorno, un gatto (Az prijde kocour) di Vojtěch Jasný. Se il film di Uher è solitamente ricordato come il primo film della Nuova Onda cecoslovacca, la Nova Vlna, è giusto ricordarli entrambi, non solo perché il lungometraggio di Jasný è il primo del periodo a ricevere un riconoscimento internazionale (al quale seguiranno altri), ma anche in quanto, in qualche modo, posti a dittico, i due film riassumono molto bene le varie, e contraddittorie, tendenze del movimento; il primo è in lingua slovacca, il secondo in lingua ceca; il primo cerca di rappresentare una realtà sociale, il secondo è un opera di pura fantasia, semi-surreale; Uher appartiene alla nuova generazione di cineasti, mentre Jasny ad una generazione precedente, già consolidata. Sono queste le due parallele su cui grosso modo si muoverà la maggior parte del cinema della Nuova Vlna (Vlna = Onda) Cecoslovacca.
Per meglio descrivere il fenomeno, è lecito partire da una celebre fotografia, che ritrae, tra i vari, Věra Chytilová, Miloš Forman, Ivan Passer, Jan Nemes, Jiří Menzel e Pavel Juráček - i principali esponenti del movimento. Nella foto, i soggetti si muovono in pose disordinate, Vera fa una smorfia, Miloš si spinge quasi oltre lo steccato dietro al quale si trovano tutti, ma nel caos si nota una certa coesione: potrebbe essere la foto di un’allegra combriccola di amici. Mancano però alcuni importanti esponenti del movimento che vanno segnalati: Juraj Herz e Juraj Jakubisko.
Ciò che unisce gli autori della Nova Vlna, più che un manifesto o una dichiarazione d’intenti, è una vicinanza generazionale: la maggior parte di loro ha studiato alla FAMU, la scuola di cinema di Praga, negli stessi anni - Forman e Passer addirittura si conoscono fin dall’infanzia, da quando frequentavano lo stesso collegio insieme ad un alunno notoriamente “mascalzone”, il futuro regista Jerzy Skolimowski, che si trovava a Praga per via degli impegni diplomatici dei genitori. Un po’ come le pose autonome della foto, nonostante la vicinanza generazionale e formativa, gli autori si sono tutti espressi in forme diverse - addirittura, la critica estera, in specie quella francese, apprezza Forman ma critica pesantemente Nemec, tanto diversi sono i loro modi di fare cinema.
Un fattore molto importante per la nascita della Nova Vlna fu il periodo storico: in seguito alla morte di Stalin, come in vari paesi del blocco sovietico, anche nella Cecoslovacchia si cominciò a respirare un’aria di maggiore libertà. Una coincidenza che ha spinto, nei primi anni ’60, alcuni nuovi cineasti a sperimentare con il linguaggio. Di onde e nuove tendenze ce ne sono state tante a livello globale, ma la Nouvelle Vague francese non aveva dovuto fare i conti con la censura statale, almeno non al livello dei cecoslovacchi. Spesso, i protagonisti della Nova Vlna usano l’espressione miracolo cecoslovacco per descrivere la propria esperienza, sottolineando la natura fortuita del momento, che permise alle prime opere del movimento di superare indenni la censura, e ai cineasti di operare, non senza difficoltà, negli anni successivi.
Com’è già stato anticipato, il movimento ha avuto varie direzioni: alla generazione giovane, si è affiancata una generazione precedente, anche se spesso non la si considera come parte del movimento ma più come una serie di registi che operarono parallelamente ad esso, come per esempio il duo composto da Erman Klos e Ján Kadár, vincitori del premio Oscar al miglior film straniero per Il negozio sul corso (Obchod na korze,1965), o František Vláčil, autore di numerosi film storici estreamente particolari come La trappola del diavolo (Ďáblova past, 1962), Marketa Lazarová (1967) e La valle delle api (Údolí včel, 1968). Alle commedie pungenti di Forman e Menzel - anch’esso premio Oscar, per Treni strettamente sorvegliati (Ostře sledované vlaky,1966) - si contrappongono le opere surreali di Vera Chytilová, regista di Le margheritine (Sedmikrásky, 1966), ancora oggi un film manifesto del femminismo cinematografico, e quelle, in ambito slovacco, di Juraj Jakubisko.
Insomma, cosa riunisce i film della Nova Vlna? Certo, Le margheritine della Chytilová e Uccelli, orfani e folli (Vtáčkovia, siroty a blázni, 1969) di Jakubisko sono entrambe opere che giocano con la dimensione infantile, il caos variopinto, il surreale, ma cosa hanno in comune con L’asso di picche (Cerny Petr, 1964) di Forman, o Lo scherzo (Žert, 1969) di Juraj Herz? Probabilmente l’irriverenza.
La grande scoperta della Nova Vlna è il poter fare un cinema che, partendo dai dettami del realismo sociale, proceda in una direzione satirica, per l’appunto irriverente, per certi versi immatura, come il protagonista adolescente di L’asso di picche, un ragazzo che, assunto per sorvegliare un supermercato contro i taccheggiatori, proprio non riesce ad obbedire, o la protagonista in Amori di una bionda (Lásky jedné plavovlásky, 1965), che appena conosce i genitori di uno dei suoi amanti, sente il bisogno di fuga non riuscendo a sottostare alle convenzioni sociali.
Così in Le margheritine di Chytilová, le due protagoniste si prendono gioco di tutto e tutti, a volte con ingenuità, a volte sfruttando le convenzioni patriarcali a proprio favore. Un “irriverenza” che si rispecchia anche nelle consuetudini e regole della tecnica cinematografica, molto evidente ne L’uomo che bruciava i cadaveri (Spalovac mrtvol, 1969), in cui la psiche turbata del protagonista viene visualizzata attraverso movimenti di macchina incoerenti, un largo uso di obiettivi grandangolari in spazi angusti e una generale concezione spaziale allucinatoria.
Il miracolo cecoslovacco non poteva durare a lungo: nel 1968, ebbe luogo la primavera di Praga, culminata nell’invio da parte dell’Unione Sovietica di carri armati per reprimere la rivolta, una profonda ferita che segnò per sempre i territori della Cecoslovacchia. La conseguenza fu fatale per la Nova Vlna, la censura divenne feroce e proibì l’uscita di quasi tutte le opere legate al movimento. L’esempio più eclatante fu Allodole sul filo (Skrivánci na niti, 1968) di Jiri Menzel, interamente bandito e mai proiettato fino al 1990, ma anche Uccelli, orfani e folli di Jakubisko, che a seguito delle proiezioni a Cannes fu sequestrato fino alla caduta del regime nell’89, come anche L’uomo che bruciava i cadaveri di Juraj Herz, che pur presentando un personaggio che aderisce al nazismo, fu visto come un film critico verso il conformismo ai regimi - un procedimento che i poteri forti preferivano nel periodo successivo alla repressione.
Quando Miloš Forman ed Ivan Passer decisero di fuggire negli Stati Uniti, causarono una frattura irreparabile con Vera Chytilová, che interpretò la loro decisione come una specie di “arresa” nei confronti del governo cecoslovacco. Se in America Forman ebbe l’importante carriera che tutti conosciamo, con Taking Off (1971), One Flew Over the Cuckoo's Nest (Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975), Hair (1979), Amadeus (1984) e Larry Flynt (1996), la maggior parte dei registi cechi e slovacchi rimasti in patria ebbe grosse difficoltà negli anni successivi.
Il miracolo cecoslovacco era finito, ma non la sua fama. Oltre ai già citati riconoscimenti, le opere della Nova Vlna ricevettero numerosissimi premi a livello internazionale, e furono estremamente presenti nel circuito dei festival: L’uomo che bruciava i cadaveri vinse per il miglior film, la miglior fotografia e il miglior attore a Stiges, mentre L’asso di picche venne riconosciuto con il premio principale a Locarno. Inoltre, l’ultimo film diretto in cecoslovacchia da Forman, Fuoco ragazza mia! (Hoří, má panenko, 1967), fu uno dei pochi film che, nel 1969, non venne censurato divenendo negli anni un vero e proprio classico riconosciuto da parte del vasto pubblico nazionale - ancora oggi in Repubblica Ceca è considerato un cult.
Alla fine della Guerra Fredda, dopo il 1989 ci fu una vera e propria riscoperta delle opere della Nova Vlna, che culminò con l’Orso d’Oro assegnato a Jiri Menzel per Allodole sul filo, finalmente presentato al pubblico durante il Festival di Berlino del 1990.
Nuova Onda polacca
Nel 1981, L’uomo di ferro (Człowiek z żelaza) vince la Palma d’Oro a Cannes. Pochi anni dopo, nel 1984, Krzysztof Zanussi ottiene il Leone d’Oro per L’anno del sole quieto (Rok spokojnego słońca). Un decennio più tardi, di nuovo a Cannes, alla notizia della vittoria di Pulp Fiction (1994) una considerevole porzione di pubblico si indigna per la mancata vittoria di Tre colori: Film rosso (Trois couleurs: Rouge), di Krzysztof Kieślowski. Se il discorso sulla Nova Vlna era limpido e chiaro, è più difficile cercare di riassumere cosa sia la fantomatica “Nuova Onda polacca”, termine spesso utilizzato dalla critica internazionale. Al principio del discorso evochiamo di nuovo una fotografia, risalente al 1990, che ritrae una serie di cineasti in fila, che sorreggono una bandiera polacca: Andrzej Żuławski, Andrzej Wajda, Agnieszka Holland, Roman Polański, Ryszard Bugajski e Krzysztof Kieślowski.
Innanzitutto, non c’è alcuna unità generazionale: Żuławski, Zanussi e Kieślowski sono nati negli stessi anni, ma Wajda e Polański sono di quasi un decennio più vecchi, Holland, al contrario, è di 5-6 anni più giovane. Esistono rapporti di collaborazione: Żuławski e Holland sono stati assistenti alla regia di Wajda, e sempre Agnieszka Holland ha co-sceneggiato la trilogia dei Tre Colori di Kieślowski. Polański, invece, appare come comparsa in alcuni dei primi film di Wajda. Eppure, se interpellati a riguardo, difficilmente ciascuno di loro accetterebbe di far parte di un movimento.
Effettivamente, se si volesse cercare di delineare un movimento in Polonia, bisognerebbe piuttosto tornare alla cosiddetta “Scuola Polacca”, una tendenza nata in seguito alle distensioni politiche del Paese, successive al 1956, che permisero, un po’ come in Cecoslovacchia, di dar vita ad una stagione cinematografica più “libera”. Fortemente legato al neorealismo italiano, almeno nei principi suggeriti dai suoi esponenti, a questo periodo vengono associati, tra i vari, Andrzej Wajda, Jerzy Kawalerowicz, Wojciech Has e Andrzej Munk, tutti studenti emersi dalla scuola di cinema di Łódź. È la stagione in cui Zbigniew Cybulski, il protagonista di Cenere e diamanti (Popiół i diament, 1958), viene trattato a livello internazionale quasi come un James Dean dell’Est. Insomma, una tendenza cinematografica importante - che dette inizio alla carriera epocale di Wajda e di altri autori - che si radicò nella sua epoca, in continuità con altre realtà contemporanee, ma che non rappresentò una rottura o un’innovazione radicale.
Quando si descrive la Nuova Onda polacca, sono i registi della foto - ed insieme a loro, Jerzy Skolimowski - a cui la critica internazionale fa spesso riferimento. Questa fantomatica eterogeneità diventa ancora più evidente se si prendono in esame i loro film. Si pensi a Possession (1981), pellicola di genere horror che racconta di un divorzio e, più nel particolare, di una mostruosa relazione che il personaggio femminile (Isabelle Adjani) intraprende con una creatura mostruosa; un’opera in cui vige un'atmosfera di caos, contraddistinta da una recitazione degli attori impostata su eccessi emotivi ed urla, e dove la macchina da presa si muove continuamente.
In confronto, Destino cieco (Przypadek, 1987) di Krzysztof Kieślowski, racconta di un uomo che corre dietro ad un treno in partenza, e delle tre possibili storie alternative che avrebbero luogo nel caso lui riuscisse a prenderlo o meno. L’urlo anche qui ha una sua presenza ad inizio e fine film, ma Destino cieco è lontano dalle esuberanze di Żuławski per via di una mise-en-scène statica, un tema che si lega alla potenzialità degli eventi e una storia più vicina alla verosimiglianza che alla fantasia.
Ancora, La Costante (Constans, 1980), di Krzysztof Zanussi, è un film dai toni estremamente intellettuali, in cui il protagonista cerca di comprendere il significato della vita affrontando il dramma della malattia della madre e una serie di ingiustizie sociali, un lavoro intriso di dialoghi complessi e ragionamenti filosofico-scientifici.
Infine, sempre di quegli anni, è L’uomo di Ferro di Wajda, completamento di un dittico iniziato con L’uomo di marmo (Człowiek z marmuru, 1977), un film molto politico, che racconta le proteste di Gdansk e le rivolte che portarono all’inasprimento del regime e alla legge marziale instaurata nel 1981. L’opera spesso riprende linguaggi tecnici documentaristici, pur rimanendo nello spazio della finzione, ed ha un evidente scopo politico, quello di raccontare la situazione complessa di una Polonia che cerca di distanziarsi dal blocco sovietico di cui fa parte. Wajda, con questo e L’uomo di marmo, dimostra una grande flessibilità rispetto ai tempi: pur essendo uno dei registi più anziani, riesce a dirigere film modernissimi per le loro epoche.
Quattro opere uscite nel 1980/81, quattro voci autoriali completamente diverse. Eppure con molta facilità, per via della provenienza nazionale in comune, Żuławski, Kieślowski, Zanussi e Wajda sono accostati fra loro. Diventa palese, prendendo in esame la Nuova Onda polacca, che il termine è un’artificiosità posteriore, più che un’identificazione lecita e condivisa a livello autoriale. Questa denominazione sembra essere legata, piuttosto, alla stagione di premi ottenuti a livello internazionale durante un breve lasso di tempo, senza tenere conto delle profonde divergenze contenutistiche-stilistiche degli autori - come se la Nuova Onda polacca esistesse solo perché Wajda vinse la Palma d’oro nel 1981, Zanussi il Leone d’Oro nel 1984, e così via.
Conseguenze
Abbiamo visto, nel caso della Nova Vlna, un movimento che, seppur senza un manifesto o linee guida vere e proprie, si è dichiarato tale dall’interno, ha dimostrato una certa coerenza, pur concedendo libertà notevoli ai propri esponenti, ma che in ogni caso resta un gruppo di persone chiaramente in dialogo fra loro a livello artistico. Di contro, con la Nuova Onda polacca, ci siamo imbattuti più in un’etichetta assegnata dalla critica ad un gruppo di cineasti che in comune hanno alcune collaborazioni, ma principalmente solo la stessa nazione di origine. Come giudicare quindi l’uso dell’espressione Nuova Onda?
Un esempio analogo, in tempi più recenti, è il caso della Nuova Onda rumena: in seguito alle vittorie di Cristi Puiu e di Cristian Mungiu a Cannes, vari cineasti rumeni emersero sul piano internazionale, ottenendo importanti riconoscimenti - i tre Orsi d’Oro vinti nel corso dei decenni successivi e il premio alla regia in Un Certain Regard assegnato ad Alexandru Belc due anni fa. La critica parla molto di una “Nuova Onda”, ma, per esempio, alla conferenza stampa di Animali selvatici (R.M.N.,2022), Mungiu parlò di “me e di altri miei colleghi a cui vengo assimilato”, più che di un movimento. Pur essendoci una somiglianza notevole tra la maggior parte dei film del cinema rumeno, è palese la divergenza con gli autori originali, che hanno preso strade in solitaria: si confronti Malmkrog (2020) di Cristi Puiu a Animali selvatici di Cristian Mungiu, o Sesso sfortunato o follie porno (Babardeală cu bucluc sau porno balamuc, 2021) di Radu Jude, opere completamente diverse fra loro. L’unico aspetto in comune, di nuovo, è la nazionalità degli autori.
Da questa prospettiva, etichettare ogni fase in cui i cineasti di una stessa nazionalità acquisiscono successo internazionale può sembrare addirittura problematica: più che riconoscere i talenti individuali, si rischia di affiancare fra loro individui sfruttando come soli criteri il loro successo e la loro provenienza, senza tenere conto delle loro poetiche personali. Tornando alla Nuova Onda polacca, Żuławski e Kieślowski sono autori radicalmente diversi in tutto, eccetto la loro Nazione d’origine ( e, alla fine, nemmeno quella, perché Żuławski, di origini polacche, è nato a Lviv, in Ucraina), da cosa deriva questa urgenza di descriverli come esponenti di un movimento, se non il bisogno di una semplificazione talmente eccessiva da assumere connotati discriminatori?
Va notato che, a seguito della Nouvelle Vague, l’espressione Nuova Onda è stata spesso adoperata per descrivere delle cinematografie legate a località reputate “esotiche” da una critica polarizzata verso l’Occidente e i Paesi anglofoni. Tutti i casi non occidentali (o anche non statunitensi) di successi diventano automaticamente parte di una “Nuova Onda”, quasi solamente perché si tratta di opere che giungono da paesi precedentemente meno riconosciuti a livello internazionale - Andrzej Wajda si fece conoscere negli anni cinquanta con I dannati di Varsavia (Kanał, 1957) e il già citato Cenere e diamanti, mentre Polański ebbe una prolifica carriera hollywoodiana nei decenni successivi, ma lo scenario internazionale spesso dimentica opere di vent’anni prima se non hanno ottenuto premi significativi, e Rosemary's Baby (1968) o Chinatown (1974) di certo non vengono percepiti come dei film “stranieri”.
Di contro, seppur rari, esistono casi analoghi alla Nova Vlna, di collettivi o di movimenti organizzati, sempre dichiarati tali dai propri “membri”. Per esempio, il Dogme 95, di breve durata, ma con un manifesto vero e proprio, esponenti autodichiarati e stilemi da seguire rigorosamente. Certo, la critica cinematografica non deve chiedere l’autorizzazione agli autori per ipotizzare una categorizzazione di opere, o un’analisi che riunisca dei cineasti all’interno di un determinato contesto. Sembra però che molto spesso queste assimilazioni siano più arbitrarie che ragionate, legate ad un superficiale raccordo per criteri sommari, quali il successo e la nazionalità, piuttosto che a un intento analitico maggiormente approfondito.
La conclusione è quindi un auspicio alla necessità di uno studio approfondito di argomenti, in ambito cinematografico, che si distacchi da una visione internazionale forse troppo legata ai premi ottenuti ai festival, e che permetta un arricchimento analitico dello studio del cinema, più che una sua semplificazione.