di Bianca Susi
NC-51
29.03.2021
Due anni fa, il 29 Marzo 2019, ci lasciava Agnès Varda unica voce femminile della cerchia dei registi della Nouvelle Vague. Nonostante la critica l’abbia relegata ad un ruolo secondario rispetto ai più celebri compagni Truffaut e Godard, Agnès Varda ha regalato al cinema non poche gemme. Regista, fotografa e in tarda età anche artista visuale, ha sempre portato avanti, in 63 anni di carriera, un cinema in cui arte e realtà si fondono rendendo quasi impercettibile il confine tra fiction e documentario; ecco per cui, alternando i linguaggi, il suo stile innovativo e non rivoluzionario - come ci tiene a precisare - non può essere ricondotto ad un unico genere.
Nella sua ultima opera, il documentario autobiografico Varda par Agnès, inizia dicendo “Ci sono tre parole importanti per me: ispirazione, creazione, condivisione”. In questi tre concetti è racchiusa l’essenza del suo processo creativo da lei denominato la “cinescrittura”, una mescolanza di progettazione, di improvvisazione e di montaggio. Varda, infatti, partendo da un soggetto di poche pagine sviluppa la sceneggiatura a partire dai paesaggi e dagli incontri che animavano il set.
Nata nel 1928 a Ixelles in Belgio e trasferitasi con la famiglia nel sud della Francia durante la seconda guerra mondiale, inizia la sua carriera come fotografa di Jean Vilar, creatore del Festival di Avignone, con cui collabora nel 1948. Nel 1954 crea la società di produzione Ciné-Tamaris con cui avvia la sua carriera cinematografica. Il suo primo film La pointe courte (1954), che alterna continuamente tra realtà e finzione, racconta una crisi coniugale e, in parallelo, la vita dei pescatori di un villaggio. Girato con poco budget e senza nessun tipo di formazione professionale, verrà definito da Bazin come l’inizio di un cinema “libero e puro”. Montata da Alain Resnais, la pellicola è evidentemente influenzata dal cinema neorealista italiano ed è grazie a questa sua prima opera che Agnès Varda si guadagna il soprannome di “Nonnina della Nouvelle Vague”. Non possedendo la stessa conoscenza cinefila del cinema, che invece condividono i registi provenienti dall’ambiente dei Cahiers du cinema, ella preferisce definirsi parte della realtà della Rive Gauche più che della Nouvelle Vague. La mancanza di riferimenti cinematografici sarà infatti ciò che le permetterà di immergersi nella settima arte con così tanta libertà. Nonostante La pointe courte avesse preceduto film come I 400 colpi di Truffaut e Fino all’ultimo respiro di Godard, la vera e propria consacrazione di Agnès Varda come regista della Nouvelle Vague arriva nel 1962 con Cleo dalle 5 alle 7: una sorta di “documentario soggettivo”, per citare la regista stessa, in cui seguiamo per l’arco di due ore, il pomeriggio di una giovane cantante in attesa dei risultati di un esame medico. Il film, diviso in capitoli, che riportano l’ora in tempo reale come se fosse un notiziario alla radio, non perde mai di vista la protagonista scavando in profondità nel suo animo turbato dall’attesa.
Nei decenni successivi al suo esordio continua la sua carriera alternando documentari, fiction e corti, sperimentando nuove modalità di racconto cinematografico e abbracciando nuove tecniche come quella del digitale. Emerge chiaramente, in alcuni suoi lavori, la sua natura femminista ; vediamo, infatti, la rappresentazione di diverse sfaccettature della psiche femminile, dal dolore di Cleo vissuto in solitudine, passando per le dinamiche dell’amore coniugale contro quello passionale in Il verde prato dell’amore del 1965, fino alla firma del Manifesto delle 343 nel 71 per la legalizzazione dell’aborto, dopo il quale realizza nel 1977 L’une chante, l’autre pas, un musical sull’emancipazione delle donne nel passaggio cruciale dagli anni sessanta agli anni settanta.
Grazie alla sua realtà produttiva indipendente, il suo lavoro di autrice è caratterizzato sempre da un forte senso di libertà creativa riscuotendo però un minor successo a livello commerciale. Un unico film diventa un successo di pubblico: Senza tetto né legge (1985), con cui vince il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia. Il film, una sorta di road trip che segue le avventure della vagabonda Mona in giro per la Francia, è costruito su una serie di incontri casuali che hanno il potere di cambiare la rotta di Mona e la vita di chi la conosce. A partire da Senza tetto né legge, Agnès Varda dà voce alla protesta ambientalista, ponendo l’attenzione sugli sprechi alimentari, idea che sviluppa e conclude con i due documentari sugli “spigolatori” moderni che vivono riciclando gli sprechi altrui: La vita è un raccolto (2000) e il seguito Les Glaneurs et la glaneuse… deux ans après (2002).
Rimasta vedova nel 1990 di Jacques Demy, anche lui regista marginale della corrente artistica degli anni Sessanta, con cui ha condiviso la vita e l’amore per il cinema fin dal 1962. Ed è da questo amore che nasce Garage Demy, film che mette in scena la vita di Jacques, tra ricostruzioni e immagini girate da Agnès nelle ultime giornate della loro quotidianità. Dedica al marito anche altri due documentari che esaltano il suo lavoro di regista: Les demoiselles ont eu 25 ans (1993) e L’univers de Jacques Demy (1995).
Infine nell’ultima parte della sua carriera realizza una serie di documentari in cui lei stessa è la protagonista con il suo indimenticabile taglio a scodella ormai bicolore per il bianco della vecchiaia. La vediamo interagire con i personaggi e ascoltare le loro storie senza mai monopolizzare la scena e mostrandoci, attraverso la sua sensibilità, la bellezza delle cose più semplici. Les plages d’Agnès, autoritratto animato da una dolce follia, ottiene il César come miglior documentario nel 2007. Nel 2015, dalla collaborazione con l’artista francese JR nasce invece Visages Villages, film creato con la volontà di scovare volti e storie in giro per la campagna francese, che viene poi candidato all’Oscar come miglior documentario nel 2017. Sempre in quell’anno, diventa la prima donna regista a ricevere l’Oscar onorario durante la cerimonia dei Governors Awards. Sconfitta da un cancro si è spenta a Parigi all’età di novant’anni, ricongiungendosi all’amore della sua vita nel cimitero di Montparnasse.
Agnès Varda ci ha lasciato in eredità un cinema caratterizzato sia da una vivace curiosità nel rappresentare la quotidianità e la complessità dell’animo umano, che dalla volontà di catturare l’essenza del cinema stesso, cercando sempre diverse strutture narrative per ogni film.
“Non mi sono mai posta la domanda se sono legittimata a fare ciò che sto facendo. Non ho alcuna laurea, solo il diploma di liceo […] Dopo la guerra, alla fine degli anni ‘40, la poesia e l’arte erano molto importanti, lo erano per tutti. Non ci si domanda se si ha il diritto di creare. Da quando ho fatto le prime riprese del mio primo film, mi sono sentita cineasta. Ecco ciò che profondamente credo: dal momento in cui si scrive poesia, si è poeti”. Agnès Varda
di Bianca Susi
NC-51
29.03.2021
Due anni fa, il 29 Marzo 2019, ci lasciava Agnès Varda unica voce femminile della cerchia dei registi della Nouvelle Vague. Nonostante la critica l’abbia relegata ad un ruolo secondario rispetto ai più celebri compagni Truffaut e Godard, Agnès Varda ha regalato al cinema non poche gemme. Regista, fotografa e in tarda età anche artista visuale, ha sempre portato avanti, in 63 anni di carriera, un cinema in cui arte e realtà si fondono rendendo quasi impercettibile il confine tra fiction e documentario; ecco per cui, alternando i linguaggi, il suo stile innovativo e non rivoluzionario - come ci tiene a precisare - non può essere ricondotto ad un unico genere.
Nella sua ultima opera, il documentario autobiografico Varda par Agnès, inizia dicendo “Ci sono tre parole importanti per me: ispirazione, creazione, condivisione”. In questi tre concetti è racchiusa l’essenza del suo processo creativo da lei denominato la “cinescrittura”, una mescolanza di progettazione, di improvvisazione e di montaggio. Varda, infatti, partendo da un soggetto di poche pagine sviluppa la sceneggiatura a partire dai paesaggi e dagli incontri che animavano il set.
Nata nel 1928 a Ixelles in Belgio e trasferitasi con la famiglia nel sud della Francia durante la seconda guerra mondiale, inizia la sua carriera come fotografa di Jean Vilar, creatore del Festival di Avignone, con cui collabora nel 1948. Nel 1954 crea la società di produzione Ciné-Tamaris con cui avvia la sua carriera cinematografica. Il suo primo film La pointe courte (1954), che alterna continuamente tra realtà e finzione, racconta una crisi coniugale e, in parallelo, la vita dei pescatori di un villaggio. Girato con poco budget e senza nessun tipo di formazione professionale, verrà definito da Bazin come l’inizio di un cinema “libero e puro”. Montata da Alain Resnais, la pellicola è evidentemente influenzata dal cinema neorealista italiano ed è grazie a questa sua prima opera che Agnès Varda si guadagna il soprannome di “Nonnina della Nouvelle Vague”. Non possedendo la stessa conoscenza cinefila del cinema, che invece condividono i registi provenienti dall’ambiente dei Cahiers du cinema, ella preferisce definirsi parte della realtà della Rive Gauche più che della Nouvelle Vague. La mancanza di riferimenti cinematografici sarà infatti ciò che le permetterà di immergersi nella settima arte con così tanta libertà. Nonostante La pointe courte avesse preceduto film come I 400 colpi di Truffaut e Fino all’ultimo respiro di Godard, la vera e propria consacrazione di Agnès Varda come regista della Nouvelle Vague arriva nel 1962 con Cleo dalle 5 alle 7: una sorta di “documentario soggettivo”, per citare la regista stessa, in cui seguiamo per l’arco di due ore, il pomeriggio di una giovane cantante in attesa dei risultati di un esame medico. Il film, diviso in capitoli, che riportano l’ora in tempo reale come se fosse un notiziario alla radio, non perde mai di vista la protagonista scavando in profondità nel suo animo turbato dall’attesa.
Nei decenni successivi al suo esordio continua la sua carriera alternando documentari, fiction e corti, sperimentando nuove modalità di racconto cinematografico e abbracciando nuove tecniche come quella del digitale. Emerge chiaramente, in alcuni suoi lavori, la sua natura femminista ; vediamo, infatti, la rappresentazione di diverse sfaccettature della psiche femminile, dal dolore di Cleo vissuto in solitudine, passando per le dinamiche dell’amore coniugale contro quello passionale in Il verde prato dell’amore del 1965, fino alla firma del Manifesto delle 343 nel 71 per la legalizzazione dell’aborto, dopo il quale realizza nel 1977 L’une chante, l’autre pas, un musical sull’emancipazione delle donne nel passaggio cruciale dagli anni sessanta agli anni settanta.
Grazie alla sua realtà produttiva indipendente, il suo lavoro di autrice è caratterizzato sempre da un forte senso di libertà creativa riscuotendo però un minor successo a livello commerciale. Un unico film diventa un successo di pubblico: Senza tetto né legge (1985), con cui vince il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia. Il film, una sorta di road trip che segue le avventure della vagabonda Mona in giro per la Francia, è costruito su una serie di incontri casuali che hanno il potere di cambiare la rotta di Mona e la vita di chi la conosce. A partire da Senza tetto né legge, Agnès Varda dà voce alla protesta ambientalista, ponendo l’attenzione sugli sprechi alimentari, idea che sviluppa e conclude con i due documentari sugli “spigolatori” moderni che vivono riciclando gli sprechi altrui: La vita è un raccolto (2000) e il seguito Les Glaneurs et la glaneuse… deux ans après (2002).
Rimasta vedova nel 1990 di Jacques Demy, anche lui regista marginale della corrente artistica degli anni Sessanta, con cui ha condiviso la vita e l’amore per il cinema fin dal 1962. Ed è da questo amore che nasce Garage Demy, film che mette in scena la vita di Jacques, tra ricostruzioni e immagini girate da Agnès nelle ultime giornate della loro quotidianità. Dedica al marito anche altri due documentari che esaltano il suo lavoro di regista: Les demoiselles ont eu 25 ans (1993) e L’univers de Jacques Demy (1995).
Infine nell’ultima parte della sua carriera realizza una serie di documentari in cui lei stessa è la protagonista con il suo indimenticabile taglio a scodella ormai bicolore per il bianco della vecchiaia. La vediamo interagire con i personaggi e ascoltare le loro storie senza mai monopolizzare la scena e mostrandoci, attraverso la sua sensibilità, la bellezza delle cose più semplici. Les plages d’Agnès, autoritratto animato da una dolce follia, ottiene il César come miglior documentario nel 2007. Nel 2015, dalla collaborazione con l’artista francese JR nasce invece Visages Villages, film creato con la volontà di scovare volti e storie in giro per la campagna francese, che viene poi candidato all’Oscar come miglior documentario nel 2017. Sempre in quell’anno, diventa la prima donna regista a ricevere l’Oscar onorario durante la cerimonia dei Governors Awards. Sconfitta da un cancro si è spenta a Parigi all’età di novant’anni, ricongiungendosi all’amore della sua vita nel cimitero di Montparnasse.
Agnès Varda ci ha lasciato in eredità un cinema caratterizzato sia da una vivace curiosità nel rappresentare la quotidianità e la complessità dell’animo umano, che dalla volontà di catturare l’essenza del cinema stesso, cercando sempre diverse strutture narrative per ogni film.
“Non mi sono mai posta la domanda se sono legittimata a fare ciò che sto facendo. Non ho alcuna laurea, solo il diploma di liceo […] Dopo la guerra, alla fine degli anni ‘40, la poesia e l’arte erano molto importanti, lo erano per tutti. Non ci si domanda se si ha il diritto di creare. Da quando ho fatto le prime riprese del mio primo film, mi sono sentita cineasta. Ecco ciò che profondamente credo: dal momento in cui si scrive poesia, si è poeti”. Agnès Varda