INT-80
12.12.2024
Dopo l’enorme successo di The Guilty (2018), il regista svedese Gustav Möller torna con Sons (Vogter), un altro thriller claustrofobico che racconta la storia di Eva (Sidse Babett Knudsen), la cui professionalità comincerà a vacillare una volta che Mikkel (Sebastian Bull Sarning), l'assassino di suo figlio, verrà rinchiuso nella prigione dove lavora come guardia carceraria. La donna chiederà quindi di essere trasferita nel reparto dove è detenuto l'omicida, senza rivelare ai suoi superiori la connessione che la lega al carcerato. Il desiderio di farsi giustizia e vendicare la morte del figlio crescerà sempre più in lei, fino a mettere in gioco la sua stessa morale.
Vogter è stato presentato per la prima volta lo scorso febbraio al Festival di Berlino, venendo ingiustamente ignorato alla cerimonia dei premi - soprattutto per quanto riguarda la magistrale interpretazione di Sidse Babett Knudsen. Il nuovo lungometraggio di Möller ha avuto la sua premiere italiana in occasione del Noir in Festival, che si è svolto dal 2 al 7 dicembre.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare il regista Gustav Möller, che ci ha raccontato di alcune decisioni stilistiche e narrative e della scelta di ambientare la storia in un carcere - una location che si è rivelata una grande fonte d’ispirazione.
Vorrei cominciare questa conversazione chiedendoti dell'ambientazione principale della storia, ovvero la prigione. Come mai hai deciso di raccontare questa vicenda all’interno di un carcere? Questo luogo rappresenta una metafora legata al lutto di Eva per il figlio?
Ci sono due ragioni principali dietro questa scelta. Da una parte, io e il co-sceneggiatore volevamo esplorare la tematica del “delitto e castigo”, della linea morale che separa il perdono e la vendetta, la riabilitazione e la giustizia. Partendo da queste basi, il setting della prigione è sembrato una scelta facile e coerente per evolvere determinati argomenti. L’altra motivazione è legata alla mia figura di cineasta. Mi piace lavorare con il cinema di genere e sperimentare con le convenzioni di esso per vedere se riesco a creare qualcosa di diverso. Quando stavo sviluppando l’idea, mi sono reso conto che il personaggio di Eva si trovava in questo stato di prigionia, proprio come hai detto tu. Si trova “incarcerata” per via dei propri sensi di colpa e sta faticando ad evadere da questa condizione. Una volta sviluppata questa allegoria, abbiamo capito che dovevamo imporre una regola precisa: quella di non lasciare mai la prigione. Abbiamo sviluppato il personaggio di Eva come sei lei stessa fosse una detenuta, per questo non vediamo mai la sua vita all’infuori di quel contesto. Poi, come ho già detto, la prigione rappresenta l’occasione perfetta per lavorare con il cinema di genere perché hai dei forti archetipi con quel setting. Se pensi bene alla storia, questa è una sorta di sovversione rispetto alla tipica visione stereotipata che si vede in altri film. Di solito si ha il detenuto “più debole” che viene spostato nel dipartimento più pericoloso e si vede come questo debba imparare a diventare più forte, come debba capire la gerarchia della prigione e farsi rispettare in questo nuovo ambiente. Nel film puoi invece vedere il personaggio di Rami, il suo nuovo capo, come il leader di questa gang formata dagli altri ufficiali. Con questo, ho potuto ribaltare il ruolo guardia/detenuto all’interno della storia.
La prigione è un’ambientazione claustrofobica, isolata, e non è la prima volta che lavori con questo tipo di setting, visto che anche The Guilty è ambientato per lo più in una sola location confinata. Sembra che ti piaccia lavorare con queste limitazioni.
Esatto. Per The Guilty avevamo solo due stanze, mentre per Vogter avevamo a disposizione un intero edificio. Però non credo che mi limiterò solo a questo tipo di “location confinate” nel futuro. Comunque in entrambi i casi non è stata una scelta obbligata, è successo per via delle storie che volevo raccontare. Inoltre, mi piace quel tipo di cinema che ti trasporta in una sorta di universo chiuso in se stesso, queste limitazioni spaziali mi ispirano creativamente perché mi obbligano a trovare delle soluzioni a livello cinematografico. Nonostante abbia deciso di seguire questa regola di non uscire mai dalla prigione, alla fine non l’ho rispettata e, come puoi vedere dal film, ci sono un paio di sequenze chiave ambientate in altre location.
Uno degli aspetti chiave di Vogter è l’eccellente interpretazione di Sidse Babett Knudsen. Cosa mi puoi dire di questa vostra collaborazione? È vero che hai scritto il ruolo pensando a lei?
Si, posso confermarlo. Dopo aver presentato The Guilty, mi aveva contattato per dirmi che era una grande estimatrice del film. Ovviamente sono anche io un suo fan, è un’attrice fantastica. Ci siamo incontrati diverse volte perché mi aveva proposto un progetto che le interessava, ma alla fine abbiamo capito che non era la direzione giusta. Poi mi è venuta in mente l’idea per il soggetto di Vogter, ovvero quello di una madre che va in “prigione” volontariamente. Il momento in cui ho avuto l’idea, ho pensato subito a lei. L’ho chiamata e le ho ho raccontato il pitch. Sidse non ha esitato e mi ha detto che avrebbe partecipato al progetto. Quindi posso confermarti che non avevo ancora scritto una parola sulla sceneggiatura prima del suo coinvolgimento.
Per quanto riguarda Sebastian Bull Sarning? Avete fatto dei casting?
Sì, la situazione è stata l’esatto opposto, ho fatto dei casting a molti giovani ventenni in Danimarca. È stato davvero difficile trovare l’attore giusto perché volevo qualcuno con un po’ di esperienza alle spalle, dato che sapevo che il ruolo avrebbe richiesto una certa intensità sia a livello fisico che psicologico. Hai visto il film ovviamente, puoi capire come Mikkel sia la vittima di una violenza psicologica per molto tempo, questa esperienza può essere davvero difficile per un attore amatoriale e non me la sentivo di mettere una persona in quella condizione. Volevo un attore professionista, che sapesse essere autentico, una persona che se la guardi pensi davvero che sia un detenuto, non un attore con finti tatuaggi o cicatrici. Volevo l’autenticità in Mikkel. Quando ho incontrato Sebastian mi ha colpito molto l’ espressività del suo viso, aveva l’intensità che cercavo. Inoltre, è stato in grado di rappresentare perfettamente quel mix tra violenza e ingenuità . Inizialmente è stato preso insieme ad altre persone e, per ottenere il ruolo, ha dovuto superare altre fasi del casting. Si è impegnato tanto e ha svolto un ottimo lavoro.
Una degli argomenti chiave di Vogter, come si evince anche dal titolo, è il rapporto madre/figlio. Cosa ti ha spinto ad analizzare questa tematica?
Credo di aver semplicemente seguito il mio intuito. Il nostro approccio analitico era quello di voler raccontare una storia che avesse una forte connotazione all’interno della nostra società. Il punto di partenza quindi non è stata la genitorialità, anche perché ero sopratutto interessato al conflitto tra razionalità ed emotività, oppure tra violenza e perdono. Ben presto mi sono reso conto che l’affrontare queste tematiche con al centro la figura di una madre poteva essere un modo affascinante e universale per raccontare la storia ad un ampio pubblico. Adoperando una narrativa come quella tra genitore e figlio, in cui ci si può facilmente rispecchiare, si permette alle persone di riflettere sul sistema giuridico o criminale . Questo tipo di relazione, che sia forte o debole, è qualcosa che, in un certo senso, abbiamo tutti.
Per questo hai deciso di rispecchiare la condizione di Eva attraverso il rapporto che ha Mikkel con la madre?
La risposta più onesta che posso darti è che ho seguito il mio intuito, era una cosa naturale nel dipanarsi della vicenda. Ora che ci rifletto, credo anche sia stato un escamotage per analizzare la storia di Eva e suo figlio. Ed è anche un modo per farle capire che questo tipo di relazioni non riguardano solo lei. Credo che ci sia questa sensazione liberatoria nel suoi confronti perché riesce a vedere se stessa nelle altre persone. Spero che una parte del pubblico capisca che Vogter parla anche di questo: della difficoltà del rapporto con i propri figli e come questa lotta accomuna molte persone.
All’interno del film c’è una sequenza che mi ha colpito molto, ovvero quella dove Eva e Mikkel stanno fumando nel cortile, subito dopo la fine dei giochi psicologici della protagonista, appena Mikkel capisce il suo intento. In questa scena hai optato di riprendere i due personaggi dall’alto, come se volessi mostrare che sono allo stesso “livello”, era qualcosa di intenzionale?
Onestamente, io e il mio DOP non parliamo molto dei simbolismi dietro ad alcune sequenze, siamo focalizzati per lo più sulla storia e sullo sviluppo psicologico dei personaggi. Come ad esempio, come si sente lei o che emozioni sta provando in un determinato momento. All’inizio della lavorazione di Vogter, abbiamo guardato molti film ambientati nei carceri per vedere il modo in cui li avevano girati. Ad un certo punto, il DOP mi ha detto che dovevamo smetterla perché altrimenti saremmo stati troppo concentrati nel ricreare certe cose e creare un prison movie. Quindi abbiamo iniziato a pensare a come potevamo rappresentare stilisticamente la condizione psicologica di Eva, anche perché è impossibile non girare dei film in prigione senza che ci siano metafore esplicite su questo ambiente claustrofobico. Ovunque tu metti la camera, ti ritrovi comunque a girare scene di persone che stanno dietro alla sbarre o all’interno di stanze. La scena che citi nel cortile ha certamente una valenza metaforica, ma la scelta dell’ inquadratura ha più una motivazione logistica perché era l’unica angolazione che permetteva di inquadrare entrambi e dare il senso dello spazio. Ho trovato interessante lavorare con questa limitazione a livello fotografico, anche perché devi sapere che abbiamo girato in una vera prigione, quindi non potevamo abbattere pareti, togliere cose o altro. Per quanto riguarda i simbolismi, questi sono presenti in molte scene, ma perché sono presenti sin dalla premessa. Siamo in una prigione… ovunque giriamo o qualsiasi cosa inquadriamo diventa un simbolo (il regista ride, n.d.r.).
Hai citato l’aspetto claustrofobico del girare film in queste location, è per questo che hai optato per un aspect ratio ridotto per il film?
Si, anche se abbiamo provato a girare con diversi formati, tipo lo scope, il 1:85 ed infine l’Academy (aspect ratio 1.37:1, n.d.r.). Volevamo sperimentare con i diversi formati in alcune inquadrature per capire quale di essi fosse idoneo per tutto il film. L’Academy è un formato perfetto se si vogliono girare delle scene in lunghi corridoi, o anche per i closeup su Sidse. Inoltre, quando sono andato nelle prigioni per fare delle ricerche sul soggetto, ho incontrato e parlato con le guardie e i carcerati, e in molti hanno citato più volte quella sensazione di non sapere quello che succederà. C'è una costante tensione in questi ambienti, non sai mai chi puoi trovarti alle spalle o chi c’è nella stanza accanto. Ho pensato fosse interessante usare un aspect ratio più stretto, come se fossimo all’interno di un tunnel, per esprimere quella sensazione di incertezza. Anche la gestione del sonoro ha giocato un ruolo fondamentale nel creare questo tipo di atmosfera.
La scena finale del lungometraggio ricorda vagamente il modo in cui termina The Guilty, ovvero riprendendo un personaggio da una certa distanza in un corridoio. Era qualcosa di pianificato a priori?
Non credo, anche perché il finale originale era diverso. Abbiamo girato tanto materiale e ho dovuto lavorare a lungo in fase di montaggio per trovare la forma appropriata per la storia. Concludere con quell’inquadratura sembrava giusto perché riflette l’inizio del film. Vogter si apre con l’arrivo di qualcuno e termina con qualcuno che lascia quell’ambiente. Rappresenta un cliché del prison movie, ma tematicamente ha senso, perché Eva alla fine sente un po’ quella sensazione di libertà. Il finale si può interpretare in diversi modi, ma c’è comunque quella consapevolezza di lasciarsi alle spalle un evento traumatico e continuare con la propria vita.
Vorrei concludere questa conversazione chiedendoti del tuo prossimo progetto. Avevo letto la notizia di una possibile collaborazione con Jake Gyllenhaal.
Si, il progetto è ancora confermato ed è ciò a cui sto lavorando in questo momento. Ma bisogna aspettare ancora un po’ e vedere quello che accadrà, ma spero davvero che questo sia il mio prossimo film.
INT-80
12.12.2024
Dopo l’enorme successo di The Guilty (2018), il regista svedese Gustav Möller torna con Sons (Vogter), un altro thriller claustrofobico che racconta la storia di Eva (Sidse Babett Knudsen), la cui professionalità comincerà a vacillare una volta che Mikkel (Sebastian Bull Sarning), l'assassino di suo figlio, verrà rinchiuso nella prigione dove lavora come guardia carceraria. La donna chiederà quindi di essere trasferita nel reparto dove è detenuto l'omicida, senza rivelare ai suoi superiori la connessione che la lega al carcerato. Il desiderio di farsi giustizia e vendicare la morte del figlio crescerà sempre più in lei, fino a mettere in gioco la sua stessa morale.
Vogter è stato presentato per la prima volta lo scorso febbraio al Festival di Berlino, venendo ingiustamente ignorato alla cerimonia dei premi - soprattutto per quanto riguarda la magistrale interpretazione di Sidse Babett Knudsen. Il nuovo lungometraggio di Möller ha avuto la sua premiere italiana in occasione del Noir in Festival, che si è svolto dal 2 al 7 dicembre.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare il regista Gustav Möller, che ci ha raccontato di alcune decisioni stilistiche e narrative e della scelta di ambientare la storia in un carcere - una location che si è rivelata una grande fonte d’ispirazione.
Vorrei cominciare questa conversazione chiedendoti dell'ambientazione principale della storia, ovvero la prigione. Come mai hai deciso di raccontare questa vicenda all’interno di un carcere? Questo luogo rappresenta una metafora legata al lutto di Eva per il figlio?
Ci sono due ragioni principali dietro questa scelta. Da una parte, io e il co-sceneggiatore volevamo esplorare la tematica del “delitto e castigo”, della linea morale che separa il perdono e la vendetta, la riabilitazione e la giustizia. Partendo da queste basi, il setting della prigione è sembrato una scelta facile e coerente per evolvere determinati argomenti. L’altra motivazione è legata alla mia figura di cineasta. Mi piace lavorare con il cinema di genere e sperimentare con le convenzioni di esso per vedere se riesco a creare qualcosa di diverso. Quando stavo sviluppando l’idea, mi sono reso conto che il personaggio di Eva si trovava in questo stato di prigionia, proprio come hai detto tu. Si trova “incarcerata” per via dei propri sensi di colpa e sta faticando ad evadere da questa condizione. Una volta sviluppata questa allegoria, abbiamo capito che dovevamo imporre una regola precisa: quella di non lasciare mai la prigione. Abbiamo sviluppato il personaggio di Eva come sei lei stessa fosse una detenuta, per questo non vediamo mai la sua vita all’infuori di quel contesto. Poi, come ho già detto, la prigione rappresenta l’occasione perfetta per lavorare con il cinema di genere perché hai dei forti archetipi con quel setting. Se pensi bene alla storia, questa è una sorta di sovversione rispetto alla tipica visione stereotipata che si vede in altri film. Di solito si ha il detenuto “più debole” che viene spostato nel dipartimento più pericoloso e si vede come questo debba imparare a diventare più forte, come debba capire la gerarchia della prigione e farsi rispettare in questo nuovo ambiente. Nel film puoi invece vedere il personaggio di Rami, il suo nuovo capo, come il leader di questa gang formata dagli altri ufficiali. Con questo, ho potuto ribaltare il ruolo guardia/detenuto all’interno della storia.
La prigione è un’ambientazione claustrofobica, isolata, e non è la prima volta che lavori con questo tipo di setting, visto che anche The Guilty è ambientato per lo più in una sola location confinata. Sembra che ti piaccia lavorare con queste limitazioni.
Esatto. Per The Guilty avevamo solo due stanze, mentre per Vogter avevamo a disposizione un intero edificio. Però non credo che mi limiterò solo a questo tipo di “location confinate” nel futuro. Comunque in entrambi i casi non è stata una scelta obbligata, è successo per via delle storie che volevo raccontare. Inoltre, mi piace quel tipo di cinema che ti trasporta in una sorta di universo chiuso in se stesso, queste limitazioni spaziali mi ispirano creativamente perché mi obbligano a trovare delle soluzioni a livello cinematografico. Nonostante abbia deciso di seguire questa regola di non uscire mai dalla prigione, alla fine non l’ho rispettata e, come puoi vedere dal film, ci sono un paio di sequenze chiave ambientate in altre location.
Uno degli aspetti chiave di Vogter è l’eccellente interpretazione di Sidse Babett Knudsen. Cosa mi puoi dire di questa vostra collaborazione? È vero che hai scritto il ruolo pensando a lei?
Si, posso confermarlo. Dopo aver presentato The Guilty, mi aveva contattato per dirmi che era una grande estimatrice del film. Ovviamente sono anche io un suo fan, è un’attrice fantastica. Ci siamo incontrati diverse volte perché mi aveva proposto un progetto che le interessava, ma alla fine abbiamo capito che non era la direzione giusta. Poi mi è venuta in mente l’idea per il soggetto di Vogter, ovvero quello di una madre che va in “prigione” volontariamente. Il momento in cui ho avuto l’idea, ho pensato subito a lei. L’ho chiamata e le ho ho raccontato il pitch. Sidse non ha esitato e mi ha detto che avrebbe partecipato al progetto. Quindi posso confermarti che non avevo ancora scritto una parola sulla sceneggiatura prima del suo coinvolgimento.
Per quanto riguarda Sebastian Bull Sarning? Avete fatto dei casting?
Sì, la situazione è stata l’esatto opposto, ho fatto dei casting a molti giovani ventenni in Danimarca. È stato davvero difficile trovare l’attore giusto perché volevo qualcuno con un po’ di esperienza alle spalle, dato che sapevo che il ruolo avrebbe richiesto una certa intensità sia a livello fisico che psicologico. Hai visto il film ovviamente, puoi capire come Mikkel sia la vittima di una violenza psicologica per molto tempo, questa esperienza può essere davvero difficile per un attore amatoriale e non me la sentivo di mettere una persona in quella condizione. Volevo un attore professionista, che sapesse essere autentico, una persona che se la guardi pensi davvero che sia un detenuto, non un attore con finti tatuaggi o cicatrici. Volevo l’autenticità in Mikkel. Quando ho incontrato Sebastian mi ha colpito molto l’ espressività del suo viso, aveva l’intensità che cercavo. Inoltre, è stato in grado di rappresentare perfettamente quel mix tra violenza e ingenuità . Inizialmente è stato preso insieme ad altre persone e, per ottenere il ruolo, ha dovuto superare altre fasi del casting. Si è impegnato tanto e ha svolto un ottimo lavoro.
Una degli argomenti chiave di Vogter, come si evince anche dal titolo, è il rapporto madre/figlio. Cosa ti ha spinto ad analizzare questa tematica?
Credo di aver semplicemente seguito il mio intuito. Il nostro approccio analitico era quello di voler raccontare una storia che avesse una forte connotazione all’interno della nostra società. Il punto di partenza quindi non è stata la genitorialità, anche perché ero sopratutto interessato al conflitto tra razionalità ed emotività, oppure tra violenza e perdono. Ben presto mi sono reso conto che l’affrontare queste tematiche con al centro la figura di una madre poteva essere un modo affascinante e universale per raccontare la storia ad un ampio pubblico. Adoperando una narrativa come quella tra genitore e figlio, in cui ci si può facilmente rispecchiare, si permette alle persone di riflettere sul sistema giuridico o criminale . Questo tipo di relazione, che sia forte o debole, è qualcosa che, in un certo senso, abbiamo tutti.
Per questo hai deciso di rispecchiare la condizione di Eva attraverso il rapporto che ha Mikkel con la madre?
La risposta più onesta che posso darti è che ho seguito il mio intuito, era una cosa naturale nel dipanarsi della vicenda. Ora che ci rifletto, credo anche sia stato un escamotage per analizzare la storia di Eva e suo figlio. Ed è anche un modo per farle capire che questo tipo di relazioni non riguardano solo lei. Credo che ci sia questa sensazione liberatoria nel suoi confronti perché riesce a vedere se stessa nelle altre persone. Spero che una parte del pubblico capisca che Vogter parla anche di questo: della difficoltà del rapporto con i propri figli e come questa lotta accomuna molte persone.
All’interno del film c’è una sequenza che mi ha colpito molto, ovvero quella dove Eva e Mikkel stanno fumando nel cortile, subito dopo la fine dei giochi psicologici della protagonista, appena Mikkel capisce il suo intento. In questa scena hai optato di riprendere i due personaggi dall’alto, come se volessi mostrare che sono allo stesso “livello”, era qualcosa di intenzionale?
Onestamente, io e il mio DOP non parliamo molto dei simbolismi dietro ad alcune sequenze, siamo focalizzati per lo più sulla storia e sullo sviluppo psicologico dei personaggi. Come ad esempio, come si sente lei o che emozioni sta provando in un determinato momento. All’inizio della lavorazione di Vogter, abbiamo guardato molti film ambientati nei carceri per vedere il modo in cui li avevano girati. Ad un certo punto, il DOP mi ha detto che dovevamo smetterla perché altrimenti saremmo stati troppo concentrati nel ricreare certe cose e creare un prison movie. Quindi abbiamo iniziato a pensare a come potevamo rappresentare stilisticamente la condizione psicologica di Eva, anche perché è impossibile non girare dei film in prigione senza che ci siano metafore esplicite su questo ambiente claustrofobico. Ovunque tu metti la camera, ti ritrovi comunque a girare scene di persone che stanno dietro alla sbarre o all’interno di stanze. La scena che citi nel cortile ha certamente una valenza metaforica, ma la scelta dell’ inquadratura ha più una motivazione logistica perché era l’unica angolazione che permetteva di inquadrare entrambi e dare il senso dello spazio. Ho trovato interessante lavorare con questa limitazione a livello fotografico, anche perché devi sapere che abbiamo girato in una vera prigione, quindi non potevamo abbattere pareti, togliere cose o altro. Per quanto riguarda i simbolismi, questi sono presenti in molte scene, ma perché sono presenti sin dalla premessa. Siamo in una prigione… ovunque giriamo o qualsiasi cosa inquadriamo diventa un simbolo (il regista ride, n.d.r.).
Hai citato l’aspetto claustrofobico del girare film in queste location, è per questo che hai optato per un aspect ratio ridotto per il film?
Si, anche se abbiamo provato a girare con diversi formati, tipo lo scope, il 1:85 ed infine l’Academy (aspect ratio 1.37:1, n.d.r.). Volevamo sperimentare con i diversi formati in alcune inquadrature per capire quale di essi fosse idoneo per tutto il film. L’Academy è un formato perfetto se si vogliono girare delle scene in lunghi corridoi, o anche per i closeup su Sidse. Inoltre, quando sono andato nelle prigioni per fare delle ricerche sul soggetto, ho incontrato e parlato con le guardie e i carcerati, e in molti hanno citato più volte quella sensazione di non sapere quello che succederà. C'è una costante tensione in questi ambienti, non sai mai chi puoi trovarti alle spalle o chi c’è nella stanza accanto. Ho pensato fosse interessante usare un aspect ratio più stretto, come se fossimo all’interno di un tunnel, per esprimere quella sensazione di incertezza. Anche la gestione del sonoro ha giocato un ruolo fondamentale nel creare questo tipo di atmosfera.
La scena finale del lungometraggio ricorda vagamente il modo in cui termina The Guilty, ovvero riprendendo un personaggio da una certa distanza in un corridoio. Era qualcosa di pianificato a priori?
Non credo, anche perché il finale originale era diverso. Abbiamo girato tanto materiale e ho dovuto lavorare a lungo in fase di montaggio per trovare la forma appropriata per la storia. Concludere con quell’inquadratura sembrava giusto perché riflette l’inizio del film. Vogter si apre con l’arrivo di qualcuno e termina con qualcuno che lascia quell’ambiente. Rappresenta un cliché del prison movie, ma tematicamente ha senso, perché Eva alla fine sente un po’ quella sensazione di libertà. Il finale si può interpretare in diversi modi, ma c’è comunque quella consapevolezza di lasciarsi alle spalle un evento traumatico e continuare con la propria vita.
Vorrei concludere questa conversazione chiedendoti del tuo prossimo progetto. Avevo letto la notizia di una possibile collaborazione con Jake Gyllenhaal.
Si, il progetto è ancora confermato ed è ciò a cui sto lavorando in questo momento. Ma bisogna aspettare ancora un po’ e vedere quello che accadrà, ma spero davvero che questo sia il mio prossimo film.