Il cinema di Matteo Garrone come
trasfigurazione del mondo oggettivo,
di Diana Incorvaia
TR-55
21.03.2022
Dover dare una definizione di cinema d’autore non è di per sé cosa semplice, soprattutto perché il rischio di cadere in superficiali categorizzazioni o etichettature forzate è dietro l’angolo. Senza voler ripercorrere la storia dalla nascita allo sviluppo della cosiddetta teoria dell’autore, anche a rischio di cadere nella banalità di una semplice definizione, ciò che distingue un autore cinematografico da un cineasta è probabilmente riconducibile alla sfera della riconoscibilità. Nel cosiddetto cinema d’autore a prevalere è la personalità del regista (che spesso coincide con l’autore del soggetto, della sceneggiatura o di entrambi), il suo modo di rielaborare il reale filtrandolo attraverso la propria visione. Riportando questa prospettiva di analisi sul cinema italiano, non si può che fare riferimento a Matteo Garrone, regista centrale nel panorama cinematografico nazionale contemporaneo e all’interno del discorso sul cinema d’autore.
Il cinema di Matteo Garrone si fonda al contempo sulla ricercatezza dell’immagine e sull’anima dei personaggi che ne popolano i mondi. È un cinema essenziale anche quando è esteticamente traboccante e barocco, ma nel senso più elevato del termine. L’immagine è quel che resta di un processo progressivo di scarnificazione, che prende vita e si concretizza nel suo senso più essenziale e profondo . In Primo Amore il protagonista orafo descrive il proprio impulso che finisce per diventare necessità ossessiva di scavare, scarnificare, non solo nei suoi manufatti, ma anche nelle persone. «C’è tanta lavorazione, poco peso, tanta perdita» sono le parole pronunciate da Vittorio, Orafo (interpretato da Vitaliano Trevisan, da poco scomparso), con nonchalance, come se avessero poco peso. In realtà dietro queste parole si cela un indizio che potrebbe aiutare a definire il processo dell’impalcatura creativa dietro al cinema di Matteo Garrone. Vittorio scarnifica oro e carne umana, ossessionato dall’ideale di una perfezione tanto irraggiungibile quanto utopica. La ricerca dell’essenza come valore assoluto è resa invisibile dalla materia che va scavata, annullata. Un procedimento simile si crea nel cinema di Matteo Garrone, la cui bellezza, anche estetica, deriva da una costante ricerca che approda all’essenzialità. Il racconto di Primo Amore prende vita a partire dall’agghiacciante vicenda riportata dallo stesso killer Mario Mariolini nel suo libro Il Cacciatore di anoressiche. Il racconto che ne trae Matteo Garrone però non ha nulla a che vedere con la tragica vicenda reale. Anzi, l’ossessione della scarnificazione e della perdita di materiale e di carne che muove l’orafo Vittorio diventa speculare alla costruzione del racconto filmico. Con lo stesso metodo dell’artigiano orafo, Garrone estrae dal potenziale di un racconto la sua essenza figurativa ed emozionale più pura. È bene a questo punto ricordare che in quasi tutti i suoi film, oltre che regista, Matteo Garrone è anche operatore di macchina. E questo è un aspetto fondamentale perché elimina qualsiasi filtro tra l’immaginario nella mente dell’autore e la realtà che lo circonda. Ogni porzione di realtà racchiusa in inquadrature fisse o piani sequenza è assoluta, essenziale. Matteo Garrone è un artigiano del cinema, anche qui, nella più alta accezione del termine.
Nato a Roma nel 1968, è figlio del noto critico teatrale Nico Garrone e della fotografa Donatella Rinaldi. Il suo personale percorso di formazione affonda le radici nel mondo della pittura. Dopo il diploma di liceo artistico frequenta infatti l’accademia d’arte Ripetta a Roma. Terminato il percorso da studente, lavora come aiuto operatore sul set di alcuni film accanto a Marco Onorato, direttore della fotografia e storico compagno della madre Donatella, nonché figura centrale nella carriera da regista di Matteo Garrone. Marco Onorato infatti, oltre ad aver accompagnato artisticamente come direttore della fotografia buona parte dei film di Matteo Garrone, da Terra di mezzo a Reality (a seguito del quale purtroppo è venuto a mancare), ha incarnato probabilmente la spinta che indirizzò un giovane pittore, quale era Matteo Garrone, a confrontarsi con un altro tipo di racconto per immagini, il cinema. A raccontarlo è Garrone stesso, ricordando il suo primo cortometraggio dal titolo Silhouette, nato dall’idea di voler usare delle pizze di pellicola regalategli proprio da Marco Onorato. Con questo primo esperimento cinematografico Garrone si aggiudicò il Sacher d’oro, premio istituito da Nanni Moretti indirizzato a giovani registi. Con il denaro ricevuto dalla vincita, decise di girare altri due cortometraggi che insieme a Silhouette compongono il suo vero esordio cinematografico, Terra di mezzo. Un titolo che finisce per diventare emblematico per tutto il suo percorso artistico. Una dimensione sospesa che si impone fino ad avvolgere tutto l’immaginario cinematografico di Matteo Garrone. Una Terra di mezzo estetica tra reale e fiabesco, bellezza e bruttezza, terra di mezzo morale, tra passione e ossessione, vizio e virtù, ed infine esistenziale, tra amore e morte, giovinezza e vecchiaia. Un orizzonte simile a un limbo inteso come luogo dell’anima oltre che spazio-temporale.
Si potrebbe idealmente procedere isolando tre momenti nella cinematografia di Garrone, pur tenendo presente gli elementi fondativi del suo cinema ricorrenti dal primo cortometraggio sino all’ultimo film. Gli inizi da Terra di mezzo fino a Estate romana; una fase intermedia in cui il regista abbandona la tiepida malinconia e la leggerezza tipica dei primi film in favore di atmosfere più cupe da alcuni definite vicine al noir, da L’Imbalsamatore al più recente Dogman, passando per Primo amore, Gomorra e Reality (in seguito vedremo quanto sia complicata una classificazione di questa fase in un genere specifico); infine un’esplorazione del mondo fiabesco da Il racconto dei racconti a Pinocchio.
Come già accennato la prima ipotetica fase della carriera di Matteo Garrone, si caratterizza per un approccio estetico apparentemente più vicino a uno stile documentaristico, per alcuni figlio di un certo neorealismo italiano. L’interesse di Matteo Garrone per le esistenze dei suoi protagonisti, però, deriva da quanto di più lontano si possa immaginare rispetto a una spinta di denuncia sociale. Il mondo raccontato dal regista è solo apparentemente aderente al reale, infatti si concretizza come spunto per elevarsi a una dimensione estetica, in primo luogo, ma anche etica astratta, quasi magica. Nello stesso momento in cui la mdp, sempre maneggiata dallo stesso regista, posa lo sguardo su ognuna delle realtà animate dai diversi protagonisti, succede qualcosa. A scatenarsi è quasi una reazione chimica, stimolata o consequenziale, che porta a una trasfigurazione poetica ed espressiva del reale. La ricerca della convergenza tra mondi distanti è il motore del cosiddetto happening cinematografico. È come se nell’universo del cinema di Garrone gli opposti si attraessero per poi incontrarsi e amalgamarsi senza soluzione di continuità.
Ecco allora che in una distesa di campagna accade che si incontrino mondi e generazioni opposte, anziani pastori alla guida di infiniti greggi di pecore e splendide prostitute nigeriane vestite di colori sgargianti, in una quotidianità fotografata sotto una luce in grado di trasfigurare il racconto in qualcosa di magico, fiabesco. Le loro sono esistenze sospese, come quelle dei due giovani ragazzi immigrati dall’Albania alla ricerca di lavoro, o quella intima di un benzinaio egiziano costretto a lavorare di notte. La ricercatezza estetica, anche in questi primi film, prevale sulla dimensione etica che, sebbene presente, non rappresenta mai lo spunto di partenza. Anche in Ospiti a prevalere è la dimensione dell’attesa. Gheni e Gherti, immigrati clandestini, vengono ospitati temporaneamente da Corrado e trovano lavoro in una pizzeria. Sanno bene che la loro è una condizione di passaggio, una Terra di mezzo ancora una volta, non soltanto intesa come dimensione fisica, ma piuttosto come luogo dell’anima, incertezza esistenziale. Lo stesso stato d’animo che caratterizza anche Corrado, un fotografo sempre alla ricerca dell’approvazione altrui, forse più spettatore degli eventi che autore di essi. Lo stile che caratterizza questa opera seconda di Garrone, e che ne costituisce gran parte del valore, è libero e spensierato, quasi spontaneo. Forte il legame con un’estetica che deriva dall’arte pittorica, Ospiti si compone di una serie di affascinanti immagini rese tridimensionali da uno sguardo emotivamente molto vicino ai suoi protagonisti. Qui il regista romano ha anche modo di mettere a punto un suo metodo di lavoro che lo accompagnerà anche in buona parte dei film successivi e che riguarda il montaggio. Sin dai primi film Matteo Garrone ha girato in sequenza cronologica, metodo che non solo gli permetteva in qualche modo di visualizzare mentalmente la concatenazione di scene così come sarebbero state montate ma, aspetto fondamentale, questa metodologia permette agli interpreti di vivere sulla propria pelle la storia raccontata, così da rendere più fluido e immediato il processo di immedesimazione e quindi di evoluzione. Inoltre relativamente al discorso sul montaggio, lo stesso autore ha dichiarato più volte di avere la necessità di ritagliarsi almeno un paio di settimane in più dal pre-montaggio, così da poter aggiungere o aggiustare laddove fosse necessario con eventuali riprese aggiuntive. Pratica che il regista non ha mai abbandonato, anche con le produzioni più strutturate (da L’imbalsamatore con la Fandango in poi), decidendo semplicemente di metterla a contratto.
Con Estate Romana si chiude l’ideale trilogia a cui si accennava poco fa, iniziata con Terra di mezzo. Siamo nel 2000, è estate e la città di Roma si sta preparando per il Giubileo. L’atmosfera è surreale, Roma è una città senza volto, avvolta in enormi teli bianchi e affollata da cantieri di lavori in corso.Rossella, attrice del teatro d’avanguardia, torna nella capitale dopo diversi anni di assenza, ma è disorientata, la città che le sembrava di conoscere è molto diversa. A casa sua è ospite Salvatore, scenografo che le deve diversi mesi d’affitto. Lui e Monica, la sua assistente, stanno tentando di completare la realizzazione di un enorme mappamondo, commissionatogli per uno spettacolo teatrale. Estate Romana è un sentito omaggio al mondo del teatro d’avanguardia, e ai suoi protagonisti presenti nelle vesti di loro stessi nel film. Rossella Or, grande attrice e icona del movimento d’avanguardia teatrale romana degli anni ‘70, tenta dopo un primo momento di spaesamento di ricomporre i pezzi di un tempo che sembra ormai essere scomparso. Man mano va incontrando alcuni dei suoi storici compagni di viaggio, da Simone Carella a Victor Cavallo, ormai arresi al cambiamento. Rossella incarna un mondo che non c’è più, ma il suo candore e la sua purezza riaccendono una commovente speranza nei volti dei suoi compagni. Così come Rossella anche Salvatore sembra danzare a un ritmo tutto suo, fuori tempo rispetto al mondo esterno, quello di una Roma che ha perso la propria riconoscibilità, divenendo un non-luogo. Commedia surreale e dolceamara, Estate Romana, nella sua fluida eleganza, tiene insieme toni estremamente umoristici e malinconici, segnando l’ultima tappa di un percorso del cinema autoriale di Matteo Garrone che, a partire dal film successivo, cambierà pelle ma non essenza.
L’Imbalsamatore (2002), prodotto da Domenico Procacci per la Fandango e liberamente tratto dal caso di cronaca Il nano di Termini, segna un punto di svolta nella carriera del regista. Cambia la struttura produttiva, che da questo film diviene più solida, ma rimangono inalterati alcuni aspetti che avevano caratterizzato l’indipendenza produttiva protratta fino a quel momento. Intanto la presenza di una sceneggiatura firmata da Massimo Gaudioso, Ugo Chiti e Garrone stesso garantisce una maggiore solidità nell’intreccio narrativo pur rimanendo intesa come progetto, dal quale eventualmente staccarsi per favorire il fluire di momenti impossibili da prevedere ma preziosi per il racconto cinematografico. Ampio margine di improvvisazione e soprattutto, da contratto, una settimana di riprese in più dopo il pre-montato (sfruttata pienamente visto che in una settimana sono stati girati circa 40 minuti ulteriori inseriti nella versione finale). La vicenda prende vita dal caso di cronaca accennato poco fa, ma presto se ne discosta. Un triangolo amoroso sfocia nel desiderio ossessivo di Peppino, tassidermista di mezza età, di possedere Valerio, giovane ragazzo di bell’aspetto e suo assistente. Tutto precipita quando Valerio intraprende una relazione con la giovane Deborah. A predominare è il sentimento dell’ambivalenza, soprattutto inquadrata nella dimensione di coesistenza di sentimenti opposti per uno stesso evento o individuo. L’esperienza dello spettatore viene in un certo senso problematizzata. Questo processo è generato soprattutto da un’attenta e precisa costruzione dei punti di vista che vanno a modulare l’esperienza sensoriale e cognitiva dello spettatore. L’obiettivo della regia di Garrone sembra quello di mantenere un equilibrio tra le diverse prospettive. Lo spettatore sente quello che sentono i personaggi. Per questo è impossibile condannare il comportamento di Peppino: agisce secondo i suoi istinti, ne è vittima.
I luoghi nel cinema di Matteo Garrone ricoprono un’importanza fondamentale, e per la prima volta, con L’imbalsamatore, le riprese si spostano in Campania, al Villaggio Coppola di Castel Volturno. L’intento non è quello di descrivere lo squallore della periferia, o le sue implicazioni socio-politiche, anzi, le spiagge del casertano, illuminate da una luce quasi magica, trasportano il racconto su una dimensione diversa. L’ambivalenza risiede nell’identità stessa dei luoghi, nella cui anima ed espressione risiede un fascino tanto magnetico quanto respingente. I confini consumati tra cielo, mare e terra assorbono le essenze dei personaggi che vivono di assoluti al loro interno. Lo stesso Villaggio Coppola ospiterà ben quattordici anni dopo Dogman, parentesi di ritorno a un cinema più cupo e umano in mezzo a Il Racconto dei Racconti e Pinocchio. Ancora una volta Matteo Garrone utilizza un fatto di cronaca (Il canaro della Magliana) per scavare a fondo nell’anima dei suoi protagonisti, arrivando allo scheletro essenziale, ovvero l’umanità che li caratterizza.
In un luogo privo di connotazioni spazio temporali (contenitore universale di una storia universale), vige la legge del più forte. Marcello è un uomo esile e mite, ha un negozio di tolettatura per cani, animali con cui ha un rapporto di amore e fiducia. Ha una figlia per cui prova un amore sconfinato e vive un ambiguo rapporto di sudditanza con il pugile Simoncino. Garrone non si limita a mettere in scena l’eterna lotta tra bene e male, ma va molto oltre, scavando a fondo nella natura umana. Indaga dentro Marcello, esplorando la sua sensibilità sempre lontano dai moralismi e cogliendo profondamente ogni sfaccettatura dell’animo umano. Marcello vuole a tutti costi essere considerato parte della comunità, per questo decide di ribellarsi ai soprusi di Simoncino, arriva a ucciderlo convinto di poter essere celebrato come eroe. La sequenza finale che vede Marcello farsi carico del pesante cadavere di Simoncino mentre immagina le ombre sfumate dei suoi compagni a cui urla fiero le sue gesta, si esaurisce ancora una volta in un tempo sospeso in cui, complice una fotografia suggestiva, si consuma la tragedia di un essere umano dilaniato dall’impossibilità di aderire alle regole di un mondo che finisce per schiacciarlo.
Un rapporto, quello tra ambiente e personaggi, che andrebbe indagato più a fondo nel cinema del regista romano. Vicino al mondo della cronaca, anche se prende vita a partire dall’ormai celeberrimo saggio di Roberto Saviano, Gomorra è il film che consacra il talento di Matteo Garrone anche per la critica internazionale. Presentato in concorso al Festival internazionale del cinema di Cannes, si aggiudica il Gran Prix della giuria. L’approccio di Gomorra a un tema complicato come quello della Camorra è molto diverso dai film che lo hanno preceduto. Quello che interessa Garrone non è un approccio da telecronista, ma al centro del film vi sono i personaggi. Tutto il senso è circoscrivibile all’intensa quanto dilaniante parabola discendente dei due giovani adolescenti Marco e Ciro. Cresciuti con il mito delle sparatorie, sognano una vita alla Scarface, con lo stesso slancio innocente e vitale di ogni adolescente di qualsiasi parte del mondo. Di grande pregio la sequenza che li vede ballare sulla spiaggia. La camera a mano di Matteo Garrone segue l’esile corpo di pisellino (soprannome di Ciro) che balla pervaso da scariche adrenaliniche. Non sa lui, come non sa nemmeno il suo compagno, che di lì a poco saranno uccisi. Vittime dei loro stessi sogni, gli unici che gli siano mai stati concessi dal contesto in cui si trovano a vivere.
Reduce dal suddetto successo internazionale ottenuto con Gomorra, Matteo Garrone dirige il suo settimo cortometraggio Reality. Importante è lo scarto da un punto di vista produttivo, perché per la prima volta, oltre alla Fandango di Domenico Procacci e a L’Archimede di Matteo Garrone stesso, entrano in coproduzione due società internazionali, Le Pacte e Garance Capital. Il film ottiene il Grand Prix di Cannes ma viene accolto piuttosto freddamente dalla critica internazionale, riscuotendo invece un consenso quasi unanime in patria. Reality si apre con una panoramica a campo lunghissimo che si muove tra i tetti di alcuni palazzi napoletani sul cui sfondo svetta il Vesuvio. In un piano sequenza continuo la mdp scende fino a mostrare una splendida carrozza trainata da cavalli bianchi nel bel mezzo del traffico cittadino. Apertura che immediatamente crea nello spettatore un effetto di puro straniamento, dovuto alla convergenza di due immagini apparentemente appartenenti a due mondi molto lontani. A livello sonoro al rumore degli zoccoli viene pian piano sovrapposta una colonna sonora sognante, dai tratti fiabeschi, del compositore Alexandre Desplat. A seguito di questo piano sequenza iniziale la mdp a mano si muove sinuosa all’interno della villa La Sonrisa, location sfarzosa e di un kitsch traboccante che ospita ben due matrimoni. Tra fasciati in abiti sgargianti e tirati a festa a poco a poco ci viene presentato il protagonista. Luciano, formidabilmente interpretato da Aniello Arena, è un pescivendolo che insieme alla moglie Maria vive di piccoli espedienti.Luciano è estroverso e aperto alla vita. Così, quando le sue figlie lo spingono a prendere parte ai provini per il GF, Luciano accetta. Da questo momento, poco a poco, la sua percezione della realtà circostante comincia a cambiare. Prigioniero di un vortice di paranoia, animato dall’unico desiderio di entrare nella casa del Reality, Luciano finirà per rimanere vittima dei suoi desideri, o forse no.
Con una struttura circolare Reality segna la trasfigurazione narrativa dal reale al fiabesco. Ancora una volta siamo a Napoli, ma il contesto in cui vivono e si animano le vicende del protagonista e della sua famiglia sembra elevarsi a una realtà altra dove l’idea di spazio e di tempo sembrano non coincidere con quelle di un mondo reale. Questo perché il filtro è lo sguardo di Luciano, protagonista di un vortice paranoie che non sfocia mai nella dimensione del grottesco eccessivo, perché lo sguardo di Matteo Garrone gli è sempre umanamente accanto, anche questa volta senza giudizio. Sta tutto negli occhi di Luciano, grandi, sognanti e speranzosi, in cui leggiamo ogni emozione, stato di fibrillazione, delusione seguita dal riaccendersi di una speranza. Nella parte finale del film Luciano corona finalmente il suo sogno riuscendo a entrare nella casa del Grande Fratello. Attraverso i vetri trasparenti che ne delimitano il perimetro lo vediamo guardarsi intorno ammirato, convinto di aver concretizzato il suo desiderio più grande. Completamente invisibile agli altri concorrenti, Luciano si sdraia sorridente e rilassato su una sdraio del patio guardando il cielo speranzoso. Garrone lo inquadra dall’alto verso il basso, mentre sul viso di Luciano si apre un sorriso che a poco a poco si trasforma in una risata. A questo punto, con un movimento ascensionale della mdp, Garrone si allontana dal suo protagonista mostrando il patio che accoglie Luciano illuminato, avvolto in una Roma buia e deserta.
Reality è forse il film di Garrone in cui convivono in maniera più visibile le due dimensioni del reale e del fiabesco, perfetto anello di congiunzione con il film successivo, Il racconto dei racconti. Liberamente ispirato a tre delle fiabe contenute ne Lu cunto de li cunti di Giambattista Basile, è un film fiabesco. Immensi boschi, radure, lunghissimi corridoi, antri di splendidi castelli e affascinanti labirinti non esauriscono la loro funzione soltanto nella veste di cornice ospitante delle vicende, ma ne diventano forza motrice. Sono essi stessi agenti di cambiamento degli stati psichici dei personaggi, così come gli agenti naturali agiscono direzionando gli eventi. Le tre storie, unite da sottili legami, finiscono per intersecarsi tra di loro dando vita a un affresco visivo dal fascino perturbante. Vicino alle inquietudini delle Pitture nere di Goya o all’espressività di Caravaggio, in grado di trasmettere attraverso la teatralità gestuale l’intensità delle pulsioni umane. Nonostante, almeno esteticamente, possa sembrare distante dalla produzione precedente del regista romano, Il racconto si inscrive perfettamente all’interno del suo universo sia estetico che narrativo. Partendo dall’attenzione per i corpi, sempre lontani da forme convenzionali, per arrivare alla costruzione di mondi che finiscono per assumere caratteri soffocanti per i protagonisti che li abitano. Garrone ancora una volta affonda il suo sguardo nelle inquietudini, esplorando la dinamica di nascita e crescita dei conflitti, delle insicurezze, delle mancanze, delle passioni, delle ossessioni e dei desideri che da sempre turbano le esistenze umane, tanto affascinanti quanto imperfette.
La dimensione della fiaba permette al regista di approcciarsi a dinamiche appartenenti alla sfera dell'inconscio in maniera più libera e profonda. A concludere (almeno per il momento) un percorso che era iniziato dichiaratamente con Reality, c’è l’ultimo film di Matteo Garrone, Pinocchio. Il film, che segue le orme del romanzo di Carlo Collodi, è frutto di diverse riflessioni che, a detta di Matteo Garrone stesso, sono iniziate diversi anni fa. Il suo primo storyboard basato sulle vicende del burattino infatti è datato al 1974. Il film, che ha per protagonisti alcuni dei giganti del nostro cinema (basti pensare a Gigi Proietti nei panni di Mangiafuoco o a Roberto Benigni in quelli di Geppetto) rimane, come impianto narrativo, quanto più possibile fedele al racconto di Collodi. Ancora una volta però l’interesse di Garrone sta nel cercare di scavare a fondo nella dimensione umana. Pinocchio, che nasce dalla maestria di Geppetto di saper modellare un ciocco di legno, ha fame di conoscere. La sua fuga dalla scuola è dovuta al desiderio insaziabile di confronto con altri modelli, diversi da quello di suo padre. È dallo sguardo di Pinocchio che si fonda il reale e prende vita tutto il film.
Volendo tracciare una linea immaginaria nella filmografia di Garrone, ci si accorgerebbe di quanto coerente sia stato il suo percorso. Fino a Reality infatti (comprendendo anche Dogman), i suoi racconti prendevano spunto da fatti reali, che venivano trasfigurati in una dimensione altra, spesso molto vicina a un universo onirico e fiabesco. Nel Racconto dei racconti così come in Pinocchio viene semplicemente ribaltato il percorso. Lo spunto narrativo ha origine da suggestioni e racconti appartenenti al mondo delle fiabe, ma le vicende narrate sono sempre quanto di più riconducibile alla sfera della realtà e della più intima umanità.
Il cinema di Matteo Garrone come
trasfigurazione del mondo oggettivo,
di Diana Incorvaia
TR-55
21.03.2022
Dover dare una definizione di cinema d’autore non è di per sé cosa semplice, soprattutto perché il rischio di cadere in superficiali categorizzazioni o etichettature forzate è dietro l’angolo. Senza voler ripercorrere la storia dalla nascita allo sviluppo della cosiddetta teoria dell’autore, anche a rischio di cadere nella banalità di una semplice definizione, ciò che distingue un autore cinematografico da un cineasta è probabilmente riconducibile alla sfera della riconoscibilità. Nel cosiddetto cinema d’autore a prevalere è la personalità del regista (che spesso coincide con l’autore del soggetto, della sceneggiatura o di entrambi), il suo modo di rielaborare il reale filtrandolo attraverso la propria visione. Riportando questa prospettiva di analisi sul cinema italiano, non si può che fare riferimento a Matteo Garrone, regista centrale nel panorama cinematografico nazionale contemporaneo e all’interno del discorso sul cinema d’autore.
Il cinema di Matteo Garrone si fonda al contempo sulla ricercatezza dell’immagine e sull’anima dei personaggi che ne popolano i mondi. È un cinema essenziale anche quando è esteticamente traboccante e barocco, ma nel senso più elevato del termine. L’immagine è quel che resta di un processo progressivo di scarnificazione, che prende vita e si concretizza nel suo senso più essenziale e profondo . In Primo Amore il protagonista orafo descrive il proprio impulso che finisce per diventare necessità ossessiva di scavare, scarnificare, non solo nei suoi manufatti, ma anche nelle persone. «C’è tanta lavorazione, poco peso, tanta perdita» sono le parole pronunciate da Vittorio, Orafo (interpretato da Vitaliano Trevisan, da poco scomparso), con nonchalance, come se avessero poco peso. In realtà dietro queste parole si cela un indizio che potrebbe aiutare a definire il processo dell’impalcatura creativa dietro al cinema di Matteo Garrone. Vittorio scarnifica oro e carne umana, ossessionato dall’ideale di una perfezione tanto irraggiungibile quanto utopica. La ricerca dell’essenza come valore assoluto è resa invisibile dalla materia che va scavata, annullata. Un procedimento simile si crea nel cinema di Matteo Garrone, la cui bellezza, anche estetica, deriva da una costante ricerca che approda all’essenzialità. Il racconto di Primo Amore prende vita a partire dall’agghiacciante vicenda riportata dallo stesso killer Mario Mariolini nel suo libro Il Cacciatore di anoressiche. Il racconto che ne trae Matteo Garrone però non ha nulla a che vedere con la tragica vicenda reale. Anzi, l’ossessione della scarnificazione e della perdita di materiale e di carne che muove l’orafo Vittorio diventa speculare alla costruzione del racconto filmico. Con lo stesso metodo dell’artigiano orafo, Garrone estrae dal potenziale di un racconto la sua essenza figurativa ed emozionale più pura. È bene a questo punto ricordare che in quasi tutti i suoi film, oltre che regista, Matteo Garrone è anche operatore di macchina. E questo è un aspetto fondamentale perché elimina qualsiasi filtro tra l’immaginario nella mente dell’autore e la realtà che lo circonda. Ogni porzione di realtà racchiusa in inquadrature fisse o piani sequenza è assoluta, essenziale. Matteo Garrone è un artigiano del cinema, anche qui, nella più alta accezione del termine.
Nato a Roma nel 1968, è figlio del noto critico teatrale Nico Garrone e della fotografa Donatella Rinaldi. Il suo personale percorso di formazione affonda le radici nel mondo della pittura. Dopo il diploma di liceo artistico frequenta infatti l’accademia d’arte Ripetta a Roma. Terminato il percorso da studente, lavora come aiuto operatore sul set di alcuni film accanto a Marco Onorato, direttore della fotografia e storico compagno della madre Donatella, nonché figura centrale nella carriera da regista di Matteo Garrone. Marco Onorato infatti, oltre ad aver accompagnato artisticamente come direttore della fotografia buona parte dei film di Matteo Garrone, da Terra di mezzo a Reality (a seguito del quale purtroppo è venuto a mancare), ha incarnato probabilmente la spinta che indirizzò un giovane pittore, quale era Matteo Garrone, a confrontarsi con un altro tipo di racconto per immagini, il cinema. A raccontarlo è Garrone stesso, ricordando il suo primo cortometraggio dal titolo Silhouette, nato dall’idea di voler usare delle pizze di pellicola regalategli proprio da Marco Onorato. Con questo primo esperimento cinematografico Garrone si aggiudicò il Sacher d’oro, premio istituito da Nanni Moretti indirizzato a giovani registi. Con il denaro ricevuto dalla vincita, decise di girare altri due cortometraggi che insieme a Silhouette compongono il suo vero esordio cinematografico, Terra di mezzo. Un titolo che finisce per diventare emblematico per tutto il suo percorso artistico. Una dimensione sospesa che si impone fino ad avvolgere tutto l’immaginario cinematografico di Matteo Garrone. Una Terra di mezzo estetica tra reale e fiabesco, bellezza e bruttezza, terra di mezzo morale, tra passione e ossessione, vizio e virtù, ed infine esistenziale, tra amore e morte, giovinezza e vecchiaia. Un orizzonte simile a un limbo inteso come luogo dell’anima oltre che spazio-temporale.
Si potrebbe idealmente procedere isolando tre momenti nella cinematografia di Garrone, pur tenendo presente gli elementi fondativi del suo cinema ricorrenti dal primo cortometraggio sino all’ultimo film. Gli inizi da Terra di mezzo fino a Estate romana; una fase intermedia in cui il regista abbandona la tiepida malinconia e la leggerezza tipica dei primi film in favore di atmosfere più cupe da alcuni definite vicine al noir, da L’Imbalsamatore al più recente Dogman, passando per Primo amore, Gomorra e Reality (in seguito vedremo quanto sia complicata una classificazione di questa fase in un genere specifico); infine un’esplorazione del mondo fiabesco da Il racconto dei racconti a Pinocchio.
Come già accennato la prima ipotetica fase della carriera di Matteo Garrone, si caratterizza per un approccio estetico apparentemente più vicino a uno stile documentaristico, per alcuni figlio di un certo neorealismo italiano. L’interesse di Matteo Garrone per le esistenze dei suoi protagonisti, però, deriva da quanto di più lontano si possa immaginare rispetto a una spinta di denuncia sociale. Il mondo raccontato dal regista è solo apparentemente aderente al reale, infatti si concretizza come spunto per elevarsi a una dimensione estetica, in primo luogo, ma anche etica astratta, quasi magica. Nello stesso momento in cui la mdp, sempre maneggiata dallo stesso regista, posa lo sguardo su ognuna delle realtà animate dai diversi protagonisti, succede qualcosa. A scatenarsi è quasi una reazione chimica, stimolata o consequenziale, che porta a una trasfigurazione poetica ed espressiva del reale. La ricerca della convergenza tra mondi distanti è il motore del cosiddetto happening cinematografico. È come se nell’universo del cinema di Garrone gli opposti si attraessero per poi incontrarsi e amalgamarsi senza soluzione di continuità.
Ecco allora che in una distesa di campagna accade che si incontrino mondi e generazioni opposte, anziani pastori alla guida di infiniti greggi di pecore e splendide prostitute nigeriane vestite di colori sgargianti, in una quotidianità fotografata sotto una luce in grado di trasfigurare il racconto in qualcosa di magico, fiabesco. Le loro sono esistenze sospese, come quelle dei due giovani ragazzi immigrati dall’Albania alla ricerca di lavoro, o quella intima di un benzinaio egiziano costretto a lavorare di notte. La ricercatezza estetica, anche in questi primi film, prevale sulla dimensione etica che, sebbene presente, non rappresenta mai lo spunto di partenza. Anche in Ospiti a prevalere è la dimensione dell’attesa. Gheni e Gherti, immigrati clandestini, vengono ospitati temporaneamente da Corrado e trovano lavoro in una pizzeria. Sanno bene che la loro è una condizione di passaggio, una Terra di mezzo ancora una volta, non soltanto intesa come dimensione fisica, ma piuttosto come luogo dell’anima, incertezza esistenziale. Lo stesso stato d’animo che caratterizza anche Corrado, un fotografo sempre alla ricerca dell’approvazione altrui, forse più spettatore degli eventi che autore di essi. Lo stile che caratterizza questa opera seconda di Garrone, e che ne costituisce gran parte del valore, è libero e spensierato, quasi spontaneo. Forte il legame con un’estetica che deriva dall’arte pittorica, Ospiti si compone di una serie di affascinanti immagini rese tridimensionali da uno sguardo emotivamente molto vicino ai suoi protagonisti. Qui il regista romano ha anche modo di mettere a punto un suo metodo di lavoro che lo accompagnerà anche in buona parte dei film successivi e che riguarda il montaggio. Sin dai primi film Matteo Garrone ha girato in sequenza cronologica, metodo che non solo gli permetteva in qualche modo di visualizzare mentalmente la concatenazione di scene così come sarebbero state montate ma, aspetto fondamentale, questa metodologia permette agli interpreti di vivere sulla propria pelle la storia raccontata, così da rendere più fluido e immediato il processo di immedesimazione e quindi di evoluzione. Inoltre relativamente al discorso sul montaggio, lo stesso autore ha dichiarato più volte di avere la necessità di ritagliarsi almeno un paio di settimane in più dal pre-montaggio, così da poter aggiungere o aggiustare laddove fosse necessario con eventuali riprese aggiuntive. Pratica che il regista non ha mai abbandonato, anche con le produzioni più strutturate (da L’imbalsamatore con la Fandango in poi), decidendo semplicemente di metterla a contratto.
Con Estate Romana si chiude l’ideale trilogia a cui si accennava poco fa, iniziata con Terra di mezzo. Siamo nel 2000, è estate e la città di Roma si sta preparando per il Giubileo. L’atmosfera è surreale, Roma è una città senza volto, avvolta in enormi teli bianchi e affollata da cantieri di lavori in corso.Rossella, attrice del teatro d’avanguardia, torna nella capitale dopo diversi anni di assenza, ma è disorientata, la città che le sembrava di conoscere è molto diversa. A casa sua è ospite Salvatore, scenografo che le deve diversi mesi d’affitto. Lui e Monica, la sua assistente, stanno tentando di completare la realizzazione di un enorme mappamondo, commissionatogli per uno spettacolo teatrale. Estate Romana è un sentito omaggio al mondo del teatro d’avanguardia, e ai suoi protagonisti presenti nelle vesti di loro stessi nel film. Rossella Or, grande attrice e icona del movimento d’avanguardia teatrale romana degli anni ‘70, tenta dopo un primo momento di spaesamento di ricomporre i pezzi di un tempo che sembra ormai essere scomparso. Man mano va incontrando alcuni dei suoi storici compagni di viaggio, da Simone Carella a Victor Cavallo, ormai arresi al cambiamento. Rossella incarna un mondo che non c’è più, ma il suo candore e la sua purezza riaccendono una commovente speranza nei volti dei suoi compagni. Così come Rossella anche Salvatore sembra danzare a un ritmo tutto suo, fuori tempo rispetto al mondo esterno, quello di una Roma che ha perso la propria riconoscibilità, divenendo un non-luogo. Commedia surreale e dolceamara, Estate Romana, nella sua fluida eleganza, tiene insieme toni estremamente umoristici e malinconici, segnando l’ultima tappa di un percorso del cinema autoriale di Matteo Garrone che, a partire dal film successivo, cambierà pelle ma non essenza.
L’Imbalsamatore (2002), prodotto da Domenico Procacci per la Fandango e liberamente tratto dal caso di cronaca Il nano di Termini, segna un punto di svolta nella carriera del regista. Cambia la struttura produttiva, che da questo film diviene più solida, ma rimangono inalterati alcuni aspetti che avevano caratterizzato l’indipendenza produttiva protratta fino a quel momento. Intanto la presenza di una sceneggiatura firmata da Massimo Gaudioso, Ugo Chiti e Garrone stesso garantisce una maggiore solidità nell’intreccio narrativo pur rimanendo intesa come progetto, dal quale eventualmente staccarsi per favorire il fluire di momenti impossibili da prevedere ma preziosi per il racconto cinematografico. Ampio margine di improvvisazione e soprattutto, da contratto, una settimana di riprese in più dopo il pre-montato (sfruttata pienamente visto che in una settimana sono stati girati circa 40 minuti ulteriori inseriti nella versione finale). La vicenda prende vita dal caso di cronaca accennato poco fa, ma presto se ne discosta. Un triangolo amoroso sfocia nel desiderio ossessivo di Peppino, tassidermista di mezza età, di possedere Valerio, giovane ragazzo di bell’aspetto e suo assistente. Tutto precipita quando Valerio intraprende una relazione con la giovane Deborah. A predominare è il sentimento dell’ambivalenza, soprattutto inquadrata nella dimensione di coesistenza di sentimenti opposti per uno stesso evento o individuo. L’esperienza dello spettatore viene in un certo senso problematizzata. Questo processo è generato soprattutto da un’attenta e precisa costruzione dei punti di vista che vanno a modulare l’esperienza sensoriale e cognitiva dello spettatore. L’obiettivo della regia di Garrone sembra quello di mantenere un equilibrio tra le diverse prospettive. Lo spettatore sente quello che sentono i personaggi. Per questo è impossibile condannare il comportamento di Peppino: agisce secondo i suoi istinti, ne è vittima.
I luoghi nel cinema di Matteo Garrone ricoprono un’importanza fondamentale, e per la prima volta, con L’imbalsamatore, le riprese si spostano in Campania, al Villaggio Coppola di Castel Volturno. L’intento non è quello di descrivere lo squallore della periferia, o le sue implicazioni socio-politiche, anzi, le spiagge del casertano, illuminate da una luce quasi magica, trasportano il racconto su una dimensione diversa. L’ambivalenza risiede nell’identità stessa dei luoghi, nella cui anima ed espressione risiede un fascino tanto magnetico quanto respingente. I confini consumati tra cielo, mare e terra assorbono le essenze dei personaggi che vivono di assoluti al loro interno. Lo stesso Villaggio Coppola ospiterà ben quattordici anni dopo Dogman, parentesi di ritorno a un cinema più cupo e umano in mezzo a Il Racconto dei Racconti e Pinocchio. Ancora una volta Matteo Garrone utilizza un fatto di cronaca (Il canaro della Magliana) per scavare a fondo nell’anima dei suoi protagonisti, arrivando allo scheletro essenziale, ovvero l’umanità che li caratterizza.
In un luogo privo di connotazioni spazio temporali (contenitore universale di una storia universale), vige la legge del più forte. Marcello è un uomo esile e mite, ha un negozio di tolettatura per cani, animali con cui ha un rapporto di amore e fiducia. Ha una figlia per cui prova un amore sconfinato e vive un ambiguo rapporto di sudditanza con il pugile Simoncino. Garrone non si limita a mettere in scena l’eterna lotta tra bene e male, ma va molto oltre, scavando a fondo nella natura umana. Indaga dentro Marcello, esplorando la sua sensibilità sempre lontano dai moralismi e cogliendo profondamente ogni sfaccettatura dell’animo umano. Marcello vuole a tutti costi essere considerato parte della comunità, per questo decide di ribellarsi ai soprusi di Simoncino, arriva a ucciderlo convinto di poter essere celebrato come eroe. La sequenza finale che vede Marcello farsi carico del pesante cadavere di Simoncino mentre immagina le ombre sfumate dei suoi compagni a cui urla fiero le sue gesta, si esaurisce ancora una volta in un tempo sospeso in cui, complice una fotografia suggestiva, si consuma la tragedia di un essere umano dilaniato dall’impossibilità di aderire alle regole di un mondo che finisce per schiacciarlo.
Un rapporto, quello tra ambiente e personaggi, che andrebbe indagato più a fondo nel cinema del regista romano. Vicino al mondo della cronaca, anche se prende vita a partire dall’ormai celeberrimo saggio di Roberto Saviano, Gomorra è il film che consacra il talento di Matteo Garrone anche per la critica internazionale. Presentato in concorso al Festival internazionale del cinema di Cannes, si aggiudica il Gran Prix della giuria. L’approccio di Gomorra a un tema complicato come quello della Camorra è molto diverso dai film che lo hanno preceduto. Quello che interessa Garrone non è un approccio da telecronista, ma al centro del film vi sono i personaggi. Tutto il senso è circoscrivibile all’intensa quanto dilaniante parabola discendente dei due giovani adolescenti Marco e Ciro. Cresciuti con il mito delle sparatorie, sognano una vita alla Scarface, con lo stesso slancio innocente e vitale di ogni adolescente di qualsiasi parte del mondo. Di grande pregio la sequenza che li vede ballare sulla spiaggia. La camera a mano di Matteo Garrone segue l’esile corpo di pisellino (soprannome di Ciro) che balla pervaso da scariche adrenaliniche. Non sa lui, come non sa nemmeno il suo compagno, che di lì a poco saranno uccisi. Vittime dei loro stessi sogni, gli unici che gli siano mai stati concessi dal contesto in cui si trovano a vivere.
Reduce dal suddetto successo internazionale ottenuto con Gomorra, Matteo Garrone dirige il suo settimo cortometraggio Reality. Importante è lo scarto da un punto di vista produttivo, perché per la prima volta, oltre alla Fandango di Domenico Procacci e a L’Archimede di Matteo Garrone stesso, entrano in coproduzione due società internazionali, Le Pacte e Garance Capital. Il film ottiene il Grand Prix di Cannes ma viene accolto piuttosto freddamente dalla critica internazionale, riscuotendo invece un consenso quasi unanime in patria. Reality si apre con una panoramica a campo lunghissimo che si muove tra i tetti di alcuni palazzi napoletani sul cui sfondo svetta il Vesuvio. In un piano sequenza continuo la mdp scende fino a mostrare una splendida carrozza trainata da cavalli bianchi nel bel mezzo del traffico cittadino. Apertura che immediatamente crea nello spettatore un effetto di puro straniamento, dovuto alla convergenza di due immagini apparentemente appartenenti a due mondi molto lontani. A livello sonoro al rumore degli zoccoli viene pian piano sovrapposta una colonna sonora sognante, dai tratti fiabeschi, del compositore Alexandre Desplat. A seguito di questo piano sequenza iniziale la mdp a mano si muove sinuosa all’interno della villa La Sonrisa, location sfarzosa e di un kitsch traboccante che ospita ben due matrimoni. Tra fasciati in abiti sgargianti e tirati a festa a poco a poco ci viene presentato il protagonista. Luciano, formidabilmente interpretato da Aniello Arena, è un pescivendolo che insieme alla moglie Maria vive di piccoli espedienti.Luciano è estroverso e aperto alla vita. Così, quando le sue figlie lo spingono a prendere parte ai provini per il GF, Luciano accetta. Da questo momento, poco a poco, la sua percezione della realtà circostante comincia a cambiare. Prigioniero di un vortice di paranoia, animato dall’unico desiderio di entrare nella casa del Reality, Luciano finirà per rimanere vittima dei suoi desideri, o forse no.
Con una struttura circolare Reality segna la trasfigurazione narrativa dal reale al fiabesco. Ancora una volta siamo a Napoli, ma il contesto in cui vivono e si animano le vicende del protagonista e della sua famiglia sembra elevarsi a una realtà altra dove l’idea di spazio e di tempo sembrano non coincidere con quelle di un mondo reale. Questo perché il filtro è lo sguardo di Luciano, protagonista di un vortice paranoie che non sfocia mai nella dimensione del grottesco eccessivo, perché lo sguardo di Matteo Garrone gli è sempre umanamente accanto, anche questa volta senza giudizio. Sta tutto negli occhi di Luciano, grandi, sognanti e speranzosi, in cui leggiamo ogni emozione, stato di fibrillazione, delusione seguita dal riaccendersi di una speranza. Nella parte finale del film Luciano corona finalmente il suo sogno riuscendo a entrare nella casa del Grande Fratello. Attraverso i vetri trasparenti che ne delimitano il perimetro lo vediamo guardarsi intorno ammirato, convinto di aver concretizzato il suo desiderio più grande. Completamente invisibile agli altri concorrenti, Luciano si sdraia sorridente e rilassato su una sdraio del patio guardando il cielo speranzoso. Garrone lo inquadra dall’alto verso il basso, mentre sul viso di Luciano si apre un sorriso che a poco a poco si trasforma in una risata. A questo punto, con un movimento ascensionale della mdp, Garrone si allontana dal suo protagonista mostrando il patio che accoglie Luciano illuminato, avvolto in una Roma buia e deserta.
Reality è forse il film di Garrone in cui convivono in maniera più visibile le due dimensioni del reale e del fiabesco, perfetto anello di congiunzione con il film successivo, Il racconto dei racconti. Liberamente ispirato a tre delle fiabe contenute ne Lu cunto de li cunti di Giambattista Basile, è un film fiabesco. Immensi boschi, radure, lunghissimi corridoi, antri di splendidi castelli e affascinanti labirinti non esauriscono la loro funzione soltanto nella veste di cornice ospitante delle vicende, ma ne diventano forza motrice. Sono essi stessi agenti di cambiamento degli stati psichici dei personaggi, così come gli agenti naturali agiscono direzionando gli eventi. Le tre storie, unite da sottili legami, finiscono per intersecarsi tra di loro dando vita a un affresco visivo dal fascino perturbante. Vicino alle inquietudini delle Pitture nere di Goya o all’espressività di Caravaggio, in grado di trasmettere attraverso la teatralità gestuale l’intensità delle pulsioni umane. Nonostante, almeno esteticamente, possa sembrare distante dalla produzione precedente del regista romano, Il racconto si inscrive perfettamente all’interno del suo universo sia estetico che narrativo. Partendo dall’attenzione per i corpi, sempre lontani da forme convenzionali, per arrivare alla costruzione di mondi che finiscono per assumere caratteri soffocanti per i protagonisti che li abitano. Garrone ancora una volta affonda il suo sguardo nelle inquietudini, esplorando la dinamica di nascita e crescita dei conflitti, delle insicurezze, delle mancanze, delle passioni, delle ossessioni e dei desideri che da sempre turbano le esistenze umane, tanto affascinanti quanto imperfette.
La dimensione della fiaba permette al regista di approcciarsi a dinamiche appartenenti alla sfera dell'inconscio in maniera più libera e profonda. A concludere (almeno per il momento) un percorso che era iniziato dichiaratamente con Reality, c’è l’ultimo film di Matteo Garrone, Pinocchio. Il film, che segue le orme del romanzo di Carlo Collodi, è frutto di diverse riflessioni che, a detta di Matteo Garrone stesso, sono iniziate diversi anni fa. Il suo primo storyboard basato sulle vicende del burattino infatti è datato al 1974. Il film, che ha per protagonisti alcuni dei giganti del nostro cinema (basti pensare a Gigi Proietti nei panni di Mangiafuoco o a Roberto Benigni in quelli di Geppetto) rimane, come impianto narrativo, quanto più possibile fedele al racconto di Collodi. Ancora una volta però l’interesse di Garrone sta nel cercare di scavare a fondo nella dimensione umana. Pinocchio, che nasce dalla maestria di Geppetto di saper modellare un ciocco di legno, ha fame di conoscere. La sua fuga dalla scuola è dovuta al desiderio insaziabile di confronto con altri modelli, diversi da quello di suo padre. È dallo sguardo di Pinocchio che si fonda il reale e prende vita tutto il film.
Volendo tracciare una linea immaginaria nella filmografia di Garrone, ci si accorgerebbe di quanto coerente sia stato il suo percorso. Fino a Reality infatti (comprendendo anche Dogman), i suoi racconti prendevano spunto da fatti reali, che venivano trasfigurati in una dimensione altra, spesso molto vicina a un universo onirico e fiabesco. Nel Racconto dei racconti così come in Pinocchio viene semplicemente ribaltato il percorso. Lo spunto narrativo ha origine da suggestioni e racconti appartenenti al mondo delle fiabe, ma le vicende narrate sono sempre quanto di più riconducibile alla sfera della realtà e della più intima umanità.