NC-37
08.11.2020
Roma al crepuscolo è stata scenografia di rocamboleschi retroscena della Hollywood sul Tevere: Antonioni che rimane sveglio per veder spegnersi ogni lampione della città all’arrivo dell’alba, De Sica che di corsa rincasa per assistere al risveglio dei figli, Leone e Verdone che passeggiano per Trastevere la notte precedente all’inizio delle riprese di Un Sacco Bello (1980) e tanti giovani «negri» («scrittori per conto terzi, ghostwriters, fornitori di gag, battutisti a cottimo») che, terminata l’ennesima stesura, silenziosi si accendono l’ultima sigaretta prima di coricarsi.
Dopo la fine della guerra le case di produzione torinesi (Itala film e Ambrosio) perdono terreno e la capitale, grazie alla sua dimensione metropolitana, diventa la città invisibile dei cinematografari, il cui impero si ingrandisce anno dopo anno con Cinecittà, con la Titanus di Lombardo, la Cineriz di Rizzoli, la Ponti-De Laurentis, la Lux di Gualino, diventando una vera e propria industria.
Come molti si imbarcavano per «Lamerica» per scovare nella nebbia la Statua della Libertà e rivendicare il proprio diritto alla felicità, altrettanti sbarcavano nella città eterna all’insegna del mito di Cinecittà. Diversi partirono ma pochi riuscirono a fare del Teatro 5 la loro dimora: Vincenzoni, fulminato dalla visione di In Nome della Legge (1949), si trasferì, portandosi in valigia soltanto l’amore per la settima arte, Germi nella speranza di essere ammesso al CSC abbandona le navi e la sua timidezza a Genova e Nicola Palumbo lascia moglie e figli a Nocera inferiore per ritrovare sulla sua via Bruno Ricci (da non confondere con Enzo Staiola) che piange, accusato di essere un ciccaiolo.
I libri che ricordano gli aneddoti di questo periodo portano la firma di chi li ha vissuti, dei loro figli o di giornalisti feticisti, indulgenti con il passato a cui si aggrappano, che assolvono, perdonano, tentando di sorvolare sui contratti non firmati, i soggetti rimasti nei cassetti e i film non finanziati. Galeotta però è la penna che li accomuna: la nostalgia, sentimento che avvolge ogni riga, incontro o nome riportato e che lascia la lucidità e l’onestà come parametri ad uso esclusivo dell’analisi della contemporaneità.
Nietzsche, che nel testo Sull’utilità e il danno della storia per la vita individua tre diverse tipologie di rapporto tra storia e vivente, in questo caso parlerebbe di storia antiquata: propria di chi custodisce e venera il passato e permette anche a ciò che è piccolo, limitato, decrepito e invecchiato di ricevere la sua propria dignità e intangibilità.
Senza colpevolizzare la letteratura per la sua attitudine di romanzare gli eventi e creare miti, Notti magiche si impone come una versione Rated R, ufficiosa e indiscreta di quegli anni e coraggiosamente riporta dinamiche, fuori scena e ipocrisie taciute che mai avevano raggiunto una rappresentazione così sincera sullo schermo.
Virzì, in chiave voyeuristica, mediante l’escamotage del punto di vista spaesato, a tratti provinciale e alienato di tre aspiranti sceneggiatori, spia quanto accadeva nel dietro le quinte di un teatro dalle poltrone scolorite, invecchiato da spettacoli stanchi e scritto da drammaturghi con un piede già nella fossa.
Mamet ne I tre usi del coltello sostiene che ricorrere alle backstories è superfluo e che un personaggio cresce solo con le sue azioni e non attraverso traumi superati o dialoghi esplicativi. Domandarci ora cosa o chi abbia ridotto il grande cinema italiano in queste condizioni, narrativamente, è altrettanto privo di senso.
E’ il 1990, la nazionale italiana gioca la finale dei mondiali contro l'Argentina ma Donadoni e Serena sbagliano il rigore. Cossiga è Presidente della Repubblica, è in corso il sesto governo Andreotti, Occhetto è segretario del PCI, Craxi del PSI. I fiochi ruggiti della Pantera chiudono l’era dei movimenti studenteschi mentre la strage di Bologna rimane senza colpevoli. Lo stato di salute del cinema italiano come direbbe Bruni è pessimo: gli autori, in balia di produttori azzeccagarbugli, pur di essere pagati si sono arresi alla costante e incessante richiesta di «far ridere» anche se, dietro a quelle risate commissionate, sono riusciti a tratteggiare l’Italia: ridicolizzandola, criticandola, compiangendola ed amandola.
Senza rancore stavano invecchiando. Nelle loro solitudini accettavano uniti la fine , e nell’attesa hanno continuato a fumare ovunque: nelle stanze degli studi di produzione, nelle sale del cinematografo, nelle case in pieno centro della capitale e soprattutto nelle trattorie dove, tra una forchettata e l’altra, sono stati concepiti dei capolavori immortali.
Quei vecchi marpioni, immortalati nel documentario La strana coppia. Incontro con Age e Scarpelli (2001) dello stesso Virzì, conoscevano profondamente la dimensione collettiva e davanti ai tonnarelli cacio e pepe di Otello alla Concordia (antico ristorante vicino a piazza di Spagna) si scambiavano soggetti, regie, attori e male parole senza nessuna punta di individualismo.
Come anche il più assente dei genitori non si sottrae alla formazione dei figli, i «venerati maestri» che avevano ancora la guerra negli occhi e il boom economico cucito addosso non si sono negati all’insegnamento nelle scuole. Hanno educato gli occhi principianti a guardare fuori dalla finestra e le menti ingenue a cercare nei romanzi l’ispirazione, ma non sono riusciti a tramandare la leggerezza e il mestiere di vivere. Per gelosia o integrità si sono portati nella tomba i segreti e la tradizione che avevano creato e che hanno voluto distruggere, lasciando così orfana quella giovane generazione di «negri», soltanto perché non aveva visto abbastanza del mondo per poterlo raccontare.
Di conseguenza è giusto ripudiare i propri padri, quelli altrui e quelli che non si ha avuto modo di abbracciare, ma inevitabilmente il tempo e il silenzio fanno il loro corso e si finisce per capirli, compiangerli ed entrare nel loro meccanismo violento fatto di «brillanti promesse» e «soliti stronzi», da cui ogni artista in Italia deve passare.
Non è stato un disilluso tentativo di negazione del dialogo intergenerazionale, ma un momento di inestirpabile incomunicabilità ad avergli impedito di prendere sul serio chi non conosceva l’odore della cappella Sistina perché non è mai stato lì con la testa rivolta verso quel bellissimo soffitto, come pontifica il personaggio di Robin Williams in Good Will Hunting di Gus Van Sant (1997).
Come lo spettatore di oggi, che si è potuto confrontare con Age (Agenore Incrocci) soltanto attraverso la lettura di Scriviamo un film. Manuale di sceneggiatura, è in lutto per la vita mai vissuta in bianco e nero e rimpiange Piazza del Popolo prima che diventasse area pedonale, così la nuova leva di cineasti è stata lasciata con il sogno di poter incontrare prostitute, mangiafuoco e attacchini derubati delle loro biciclette, sulla loro strada, luogo di nascita del Neorealismo e dei volti più noti. Tanto che Monicelli diceva «La commedia all'italiana è finita quando i registi hanno smesso di prendere l'autobus». Loro le idee le avevano trovate sui marciapiedi e sapevano che, a chi li avrebbe sostituiti, sarebbe toccato di salire sugli alberi e arrivare sulla luna per poter avere nuove storie da sviluppare. Persino Rossellini nei salotti veniva preso in giro, perché si diceva che sarebbe dovuta scoppiare un’altra guerra per fargli fare un altro capolavoro.
Ma il racconto è un personaggio dinamico che da secoli si rinnova, prendendo la forma delle epoche. E se se prima c’erano «Giorgio, Fulvio, Piero, Leo, Mario, Citto, Lina, Suso, Tullio, Ennio, Lino, Fosco, Pontani» oggi ci sono Jep, Lazzaro, Enzo, Agata, Elio, Oliver, Viola, Daisy, Mirko, Manolo, Nico, Pio XIII, Claudia, Cesare, Vittorio, Pinuccia, Christian, Vanda, Luciano, Eugenia, Antonino e tanti altri di cui non ancora conosciamo i nomi.
Anche noi come Edipo siamo stati abbandonati su un monte e dovremo continuare a fare l’amore con i cinepanettoni reiterati e risolvere gli enigmi del cinema d’autore, prima di poter uccidere i nostri genitori e liberarci una volta per tutte.
NC-37
08.11.2020
Roma al crepuscolo è stata scenografia di rocamboleschi retroscena della Hollywood sul Tevere: Antonioni che rimane sveglio per veder spegnersi ogni lampione della città all’arrivo dell’alba, De Sica che di corsa rincasa per assistere al risveglio dei figli, Leone e Verdone che passeggiano per Trastevere la notte precedente all’inizio delle riprese di Un Sacco Bello (1980) e tanti giovani «negri» («scrittori per conto terzi, ghostwriters, fornitori di gag, battutisti a cottimo») che, terminata l’ennesima stesura, silenziosi si accendono l’ultima sigaretta prima di coricarsi.
Dopo la fine della guerra le case di produzione torinesi (Itala film e Ambrosio) perdono terreno e la capitale, grazie alla sua dimensione metropolitana, diventa la città invisibile dei cinematografari, il cui impero si ingrandisce anno dopo anno con Cinecittà, con la Titanus di Lombardo, la Cineriz di Rizzoli, la Ponti-De Laurentis, la Lux di Gualino, diventando una vera e propria industria.
Come molti si imbarcavano per «Lamerica» per scovare nella nebbia la Statua della Libertà e rivendicare il proprio diritto alla felicità, altrettanti sbarcavano nella città eterna all’insegna del mito di Cinecittà. Diversi partirono ma pochi riuscirono a fare del Teatro 5 la loro dimora: Vincenzoni, fulminato dalla visione di In Nome della Legge (1949), si trasferì, portandosi in valigia soltanto l’amore per la settima arte, Germi nella speranza di essere ammesso al CSC abbandona le navi e la sua timidezza a Genova e Nicola Palumbo lascia moglie e figli a Nocera inferiore per ritrovare sulla sua via Bruno Ricci (da non confondere con Enzo Staiola) che piange, accusato di essere un ciccaiolo.
I libri che ricordano gli aneddoti di questo periodo portano la firma di chi li ha vissuti, dei loro figli o di giornalisti feticisti, indulgenti con il passato a cui si aggrappano, che assolvono, perdonano, tentando di sorvolare sui contratti non firmati, i soggetti rimasti nei cassetti e i film non finanziati. Galeotta però è la penna che li accomuna: la nostalgia, sentimento che avvolge ogni riga, incontro o nome riportato e che lascia la lucidità e l’onestà come parametri ad uso esclusivo dell’analisi della contemporaneità.
Nietzsche, che nel testo Sull’utilità e il danno della storia per la vita individua tre diverse tipologie di rapporto tra storia e vivente, in questo caso parlerebbe di storia antiquata: propria di chi custodisce e venera il passato e permette anche a ciò che è piccolo, limitato, decrepito e invecchiato di ricevere la sua propria dignità e intangibilità.
Senza colpevolizzare la letteratura per la sua attitudine di romanzare gli eventi e creare miti, Notti magiche si impone come una versione Rated R, ufficiosa e indiscreta di quegli anni e coraggiosamente riporta dinamiche, fuori scena e ipocrisie taciute che mai avevano raggiunto una rappresentazione così sincera sullo schermo.
Virzì, in chiave voyeuristica, mediante l’escamotage del punto di vista spaesato, a tratti provinciale e alienato di tre aspiranti sceneggiatori, spia quanto accadeva nel dietro le quinte di un teatro dalle poltrone scolorite, invecchiato da spettacoli stanchi e scritto da drammaturghi con un piede già nella fossa.
Mamet ne I tre usi del coltello sostiene che ricorrere alle backstories è superfluo e che un personaggio cresce solo con le sue azioni e non attraverso traumi superati o dialoghi esplicativi. Domandarci ora cosa o chi abbia ridotto il grande cinema italiano in queste condizioni, narrativamente, è altrettanto privo di senso.
E’ il 1990, la nazionale italiana gioca la finale dei mondiali contro l'Argentina ma Donadoni e Serena sbagliano il rigore. Cossiga è Presidente della Repubblica, è in corso il sesto governo Andreotti, Occhetto è segretario del PCI, Craxi del PSI. I fiochi ruggiti della Pantera chiudono l’era dei movimenti studenteschi mentre la strage di Bologna rimane senza colpevoli. Lo stato di salute del cinema italiano come direbbe Bruni è pessimo: gli autori, in balia di produttori azzeccagarbugli, pur di essere pagati si sono arresi alla costante e incessante richiesta di «far ridere» anche se, dietro a quelle risate commissionate, sono riusciti a tratteggiare l’Italia: ridicolizzandola, criticandola, compiangendola ed amandola.
Senza rancore stavano invecchiando. Nelle loro solitudini accettavano uniti la fine , e nell’attesa hanno continuato a fumare ovunque: nelle stanze degli studi di produzione, nelle sale del cinematografo, nelle case in pieno centro della capitale e soprattutto nelle trattorie dove, tra una forchettata e l’altra, sono stati concepiti dei capolavori immortali.
Quei vecchi marpioni, immortalati nel documentario La strana coppia. Incontro con Age e Scarpelli (2001) dello stesso Virzì, conoscevano profondamente la dimensione collettiva e davanti ai tonnarelli cacio e pepe di Otello alla Concordia (antico ristorante vicino a piazza di Spagna) si scambiavano soggetti, regie, attori e male parole senza nessuna punta di individualismo.
Come anche il più assente dei genitori non si sottrae alla formazione dei figli, i «venerati maestri» che avevano ancora la guerra negli occhi e il boom economico cucito addosso non si sono negati all’insegnamento nelle scuole. Hanno educato gli occhi principianti a guardare fuori dalla finestra e le menti ingenue a cercare nei romanzi l’ispirazione, ma non sono riusciti a tramandare la leggerezza e il mestiere di vivere. Per gelosia o integrità si sono portati nella tomba i segreti e la tradizione che avevano creato e che hanno voluto distruggere, lasciando così orfana quella giovane generazione di «negri», soltanto perché non aveva visto abbastanza del mondo per poterlo raccontare.
Di conseguenza è giusto ripudiare i propri padri, quelli altrui e quelli che non si ha avuto modo di abbracciare, ma inevitabilmente il tempo e il silenzio fanno il loro corso e si finisce per capirli, compiangerli ed entrare nel loro meccanismo violento fatto di «brillanti promesse» e «soliti stronzi», da cui ogni artista in Italia deve passare.
Non è stato un disilluso tentativo di negazione del dialogo intergenerazionale, ma un momento di inestirpabile incomunicabilità ad avergli impedito di prendere sul serio chi non conosceva l’odore della cappella Sistina perché non è mai stato lì con la testa rivolta verso quel bellissimo soffitto, come pontifica il personaggio di Robin Williams in Good Will Hunting di Gus Van Sant (1997).
Come lo spettatore di oggi, che si è potuto confrontare con Age (Agenore Incrocci) soltanto attraverso la lettura di Scriviamo un film. Manuale di sceneggiatura, è in lutto per la vita mai vissuta in bianco e nero e rimpiange Piazza del Popolo prima che diventasse area pedonale, così la nuova leva di cineasti è stata lasciata con il sogno di poter incontrare prostitute, mangiafuoco e attacchini derubati delle loro biciclette, sulla loro strada, luogo di nascita del Neorealismo e dei volti più noti. Tanto che Monicelli diceva «La commedia all'italiana è finita quando i registi hanno smesso di prendere l'autobus». Loro le idee le avevano trovate sui marciapiedi e sapevano che, a chi li avrebbe sostituiti, sarebbe toccato di salire sugli alberi e arrivare sulla luna per poter avere nuove storie da sviluppare. Persino Rossellini nei salotti veniva preso in giro, perché si diceva che sarebbe dovuta scoppiare un’altra guerra per fargli fare un altro capolavoro.
Ma il racconto è un personaggio dinamico che da secoli si rinnova, prendendo la forma delle epoche. E se se prima c’erano «Giorgio, Fulvio, Piero, Leo, Mario, Citto, Lina, Suso, Tullio, Ennio, Lino, Fosco, Pontani» oggi ci sono Jep, Lazzaro, Enzo, Agata, Elio, Oliver, Viola, Daisy, Mirko, Manolo, Nico, Pio XIII, Claudia, Cesare, Vittorio, Pinuccia, Christian, Vanda, Luciano, Eugenia, Antonino e tanti altri di cui non ancora conosciamo i nomi.
Anche noi come Edipo siamo stati abbandonati su un monte e dovremo continuare a fare l’amore con i cinepanettoni reiterati e risolvere gli enigmi del cinema d’autore, prima di poter uccidere i nostri genitori e liberarci una volta per tutte.