INT-60
14.03.2024
Un cinema che è per sua definizione piccolo e minoritario, personale e anti-comunicativo. I cortometraggi di Federica Foglia - film-maker italiana che da alcuni anni opera in Canada - compongono un corpus filmico ibrido e in continuo divenire, pronto a spingersi al di là delle sue possibilità formali grazie alle rinnovate scoperte tecniche e scientifiche messe a punto dall’artista. Indipendente dalle leggi del mercato e libera da qualsiasi convenzione narrativa, Foglia si affaccia alla sperimentazione artistica con manualità ossessiva, sguardo intimista e sensibilità empirica, riunendo nella propria ricerca un’incredibile pluralità di temi, forme e suggestioni. Lavori in found footage come Currents/Perpendicolare avanti (2021) e Film negativo/positivo (2023) indagano questioni identitarie che hanno a che fare con la sua condizione di immigrata e di donna, delineando una sorta di autobiografia sentimentale o di autoritratto impossibile.
Per l’artista si tratta di ritrovarsi e rispecchiarsi nelle immagini degli altri, in filmini che catturano eventi e corpi mai vissuti in prima persona, ma che si legano al proprio trascorso e alla propria identità in modi sottili e suggestivi. La sua è un’indagine su di sé attraverso gli altri, una propria messa a nudo che spoglia il cinema e le sue parti.
Il cinema, la scelta di studiare e lavorare in Canada... come sei arrivata a certi risvolti?
Ho studiato a Napoli, all’Orientale, un corso che era un po’ un misto di cose... perché da tempo avevo il desiderio di studiare cinema, ma mia madre mi consigliò di studiare lingue, come continuazione dei miei studi al liceo linguistico. Così ho cercato un compromesso. Questa laurea in lingue all’Orientale aveva una specializzazione in storia del teatro, dell’arte, del cinema, linguaggi multimediali e informatica umanistica: praticamente tutto. Nello stesso anno in cui mi sono laureata arrivò una troupe Canadese nel mio paese, a Fondi, per girare un film. Portai il mio curriculum al produttore: tra le varie cose avevo scritto di aver fatto un corso di cucito a Napoli, e mi presero a lavorare - con mio estremo stupore! - perché gli serviva qualcuno con una macchina per cucire. Ho lavorato sul set come assistente costumista. In più ero l’unica che parlava sia inglese che italiano in maniera fluente, così ho fatto anche da traduttrice per il regista e altre piccole cose per facilitare la produzione. Partecipando a questo set mi sono innamorata ancora di più del cinema. Di lì a poco mi sono industriata per andare in Canada e seguire i membri di questa troupe, sognando di continuare a fare cinema, e poi mi sono stabilita a Toronto. Nel frattempo sono successe varie cose, ma soprattutto ho finalmente trovato il modo di studiare cinema, alla York University, prima con un Master in Film e recentemente proseguendo con un Dottorato. Ho deciso di rimanere ancora per un po’ in Canada anche per l’influenza che questo professore e regista, Philip Hoffman, ha avuto su di me (i suoi film vennero portati in Italia nel 1981, da Adriano Aprà, al Festival di Salsomaggiore). Lui mi ha insegnato tutto quello che so sul cinema sperimentale.
Uno dei tuoi primi cortometraggi, Fantassùt/Rain on the Borders (2016), è un documentario che hai girato al confine tra Grecia e Macedonia, nel più grande campo di rifugiati d’Europa. Come sei arrivata a questa esperienza?
In quel periodo stavo aspettando il mio visto di lavoro, in Canada, e l’attesa era così lunga... Sono stata per un certo periodo senza fare nulla, ferma, ad aspettare. Nel frattempo, dalle pagine del New York Times, leggevo continuamente gli aggiornamenti sulla situazione dei rifugiati di guerra al confine macedone – forse ti ricordi la foto di Alan Kurdi, un bambino di tre anni, siriano, morto annegato e ritrovato sulle rive di Bodrum. Da quel momento ho pensato di usare il mio tempo per andare in Grecia, a fare volontariato ad Idomeni. Avevo con me una piccola macchina fotografica Nikon e dopo varie settimane lì ho iniziato a filmare delle testimonianze. Il fatto che non usassi una videocamera grande mi ha aiutato, perché le persone non erano intimorite. Anzi, erano loro che mi dicevano cosa filmare. I bambini mi prendevano per mano e mi portavano a vedere le cose più interessanti. L’esigenza di filmare nasceva dal fatto che io non potevo credere ai miei occhi. Era tutto troppo assurdo. Volevo portare a casa un documento tangibile per esporre quella realtà, una prova, un documentario. Portare le storie dei profughi al di fuori del campo rifugiati.
Mi piacerebbe sapere qualcosa di più anche su 8 metri, 4 metri, questo lavoro in video che hai dedicato a Pier Paolo Pasolini.
Il video che ho fatto su Pasolini era un esercizio per l’università, per il corso di Process Cinema tenuto da Philip Hoffman, come per altri corti di uno o due minuti che ho fatto. Hoffman lanciava spesso a noi studenti delle sfide creative. In quel caso la sfida era di creare qualcosa utilizzando un unico frame. Ho scelto quella foto perché stavo esplorando i motivi che mi hanno spinta a lasciare il mio paese e al tempo stesso avevo bisogno di un’immagine iconica che rappresentasse in modo forte il trattamento che è stato riservato al più grande artista italiano del secondo Novecento. Non che pensassi che se fossi rimasta in Italia mi avrebbero ucciso... però sicuramente il mio percorso sperimentale sarebbe stato più sofferto, faticoso, doloroso. Questa immagine di Pasolini morto a terra, buttato lì come una bestia, mi è sempre rimasta impressa, sin da bambina. E in quel momento l’ho vista come un simbolo del motivo per cui avevo lasciato l’Italia.
Tra le tue ispirazioni hai più volte menzionato il lavoro di Cècilie Fontaine, Vivian Ostrovsky e altre cineaste per lo più francesi o americane... Eppure io vedo una certa vicinanza anche con la scena sperimentale italiana. Penso ad esempio all’estetica di Paolo Gioli per Film negativo/positivo.
Ti faccio una confessione: io ho conosciuto il lavoro di Paolo Gioli solo nell’ultimo anno, proprio perché in molti hanno visto delle affinità tra i miei film e i suoi. Il fatto è che essendo cresciuta in provincia di Latina non avevo molte risorse in questo senso... Era difficile accedere a questo tipo di stimoli e sono stata esposta al cinema sperimentale piuttosto tardi. Però secondo me è stato un bene: non mi piace molto vedere i film degli altri, perché non voglio farmi influenzare. Voglio lavorare a mente libera. Comunque sì, dovrei approfondire di più lo sperimentale italiano, ma c'è ancora poca accessibilità a queste opere essenziali.
Quando si parla di questo tipo di film, ogni visione diventa il frutto di una ricerca minuziosa, ossessiva…
Infatti! Invece queste registe che ho nominato in diverse occasioni le ho scoperte facendo delle ricerche sulle tecniche, soprattutto quelle per manipolare l’immagine. Cercavo informazioni online sul mordançage, l’emulsion lifting, la solarizzazione... ma poi volevo vedere degli esempi, delle applicazioni pratiche. Così ho scoperto il lavoro di queste cineaste, che sono presto diventate degli idoli per me perché so quanto hanno sofferto per applicare certe tecniche!
Quindi non hai mai visto nemmeno i film di Piero Bargellini o Alberto Grifi?
No.
Gianikian e Ricci Lucchi?
Loro sì. Li ho scoperti proprio grazie a queste ricerche sul found footage, sulle tecniche.
Ti nominavo Bargellini soprattutto in riferimento a Film negativo/positivo, perché anche lui ha lavorato con found footage pornografico, in particolare in Trasferimento di modulazione (1969). Si tratta di un cortometraggio concepito da Bargellini per esistere in un'unica copia positiva invertibile e quindi destinata a consumarsi di proiezione in proiezione. La pellicola accumula di volta in volta sporcizia e rigature e il film è costretto a una lenta morte per consunzione.
Questo che dici mi riporta a un libro di Paolo Cherchi Usai, The Death of Cinema, che tratta di questa cosa, della distruzione del cinema. Lui è stato curatore del George Eastman Museum, fondatore delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, un grande archivista e teorico del cinema, e questo suo saggio parla proprio della morte fisica del cinema, della pellicola che si deteriora passaggio dopo passaggio nel proiettore. Un libro molto affascinante. Invece, per quanto riguarda Film Negativo/Positivo, una delle mie ispirazioni è stato The Exquisite Corpus (2015) di Peter Tscherkassky, anche se io non ho usato proprio la stessa tecnica. Tscherkassky in pratica lavora in una stanza buia, prende della pellicola vergine, in bianco e nero, e sovrappone a questa pellicola vari frammenti di negativi. Poi prende un piccolo laser e a mano punta la luce sui frammenti: in questo modo le immagini si imprimono sulla pellicola vergine in base al movimento della sua mano. Quindi lui fa un lavoro simile alla pinhole camera di Gioli, però lo fa a mano, con delle piccole fonti di luce, e in questo modo interviene sul movimento e l’esposizione di tutti i vari frammenti. Anche io lavoro senza macchina da presa, ma tutte le sovrimpressioni le faccio creando dei collage a mano, utilizzando frammenti di celluloide stratificati, e non con l’esposizione a fonti di luce. In generale mi piace approcciare le immagini in senso sculturale, scartavetrare le pellicole, rimaneggiare i pezzi, creare dei collage. E usare le mani. È proprio un rapporto che io ho con le immagini, un rapporto tattile. Non è una presa di posizione: mi piace così.
Trovo molto interessante che per te viene prima la tecnica, cioè che conosci prima delle tecniche, le studi nei loro meccanismi, e poi scopri degli autori e dei film.
Sì perché durante questo master di cinema volevo trovare un modo visivo e sonoro per rappresentare l’esperienza dell’immigrazione. Volevo raccontare la mia storia con una tesi di laurea, che è stata Currents (2021), questo viaggio transoceanico dall’Italia all’America. La cosa principale era riuscire a ricreare la sensazione frammentaria che vivevo in questo nuovo paese. In Canadasentivo parlare lingue diverse, mi sentivo spezzettata tra due continenti, la realtà mi sembrava fatta di immagini sovrapposte... I film sull’immigrazione che avevo visto erano troppo lineari, narrativi. Io invece volevo rappresentare visivamente e sonoramente come fosse “ammuinata” la mia testa in questo periodo da immigrata. Per questo è venuta prima la tecnica: dovevo scompaginare l’immagine e il suono in modo da estraniare lo spettatore e fargli percepire come io vedo e vivo la mia esperienza.
E perché privilegi, fra le altre, proprio la tecnica dell’emulsion lifting?
Ci sono varie motivazioni, però la principale è che mi rilassa molto. È come l’uncinetto o il bricolage, una cosa manuale e piacevole: ti siedi là, con le tue immagini, e inizi anzitutto a toccarle, ad odorarle... Per prima cosa devi capire se le pellicole sono andate in sindrome d’aceto [vineagar syndrome]. Poi bisogna analizzarle a mano, guardarle con la lente d’ingrandimento, e già in questa fase si creano delle micro-idee nella testa, dei piccoli film. Tu le tocchi, le guardi, e queste immagini ti trasmettono qualcosa. E poi è una tecnica che include un sacco di passaggi minuziosi e laboriosi che mi tranquillizzano. Sono una persona molto impaziente, invece l’emulsion lifting richiede un sacco di pazienza. Bisogna lavorare su delle strisce piccole, perché non puoi lavorare con strisce più lunghe di 20 o 30 centimetri alla volta, praticamente un secondo di film (24 frame) alla volta. Poi le devi mettere in ammollo in dei bagni particolari per farle ammorbidire, per farle sciogliere, quindi prenderle in mano e spellarle, proprio come si spella un’abbronzatura. Ogni volta vedere queste emulsioni di immagini che si scollano, non so... penso che mi parli della mia vita, del mio “scollamento” dai vari posti a cui appartenevo.
Ultimamente a cosa stai lavorando?
Sto lavorando a vari cortometraggi. Uno l’ho finito poco tempo fa ma non l’ho ancora fatto circolare. Un cortometraggio d’animazione, ispirato a Evelyn Lambart e Norman McLaren. Non posso dirti esattamente come l’ho fatto perché... è un segreto! È un’astrazione grafica in movimento, forme che si inseguono sullo schermo, come un gioco, tre minuti appena. Si chiama Glitter for Girls, che è la marca di uno dei prodotti che ho usato per realizzarlo. Nel frattempo sto lavorando anche a un progetto per realizzare delle pellicole biodegradabili. Ci sono riuscita, però sono soltanto i primi prototipi. Si tratta di strisce di 35mm da otto frame, quindi per un secondo di film ne devo usare tre. Sono piccole e difficili da gestire, ma sono ricavate da fogli di bioplastica. Su queste strisce sono riuscita a stampare i frame di alcune pellicole ritrovate tramite un processo di esposizione diretta alla luce solare.
Come si ricava la pellicola da questi fogli?
Si parte da un foglio di bioplastica (che produco utilizzando alghe e altri elementi naturali) e lo si taglia in strisce da 35mm. Le strisce vanno perforate e rese fotosensibili. Poi si lavora con le immagini, per impressionarle con la luce del sole: si prendono cioè delle pellicole, del found footage, sperando che producano l’immagine su questa plastica. Una volta fatto questo, le strisce vanno scannerizzate e si può cominciare ad animare le immagini, un frame alla volta. Il bello è che queste pellicole potrei metterle nel mio giardino e si dissolverebbero senza problemi, in maniera toxic-free. Ci potrei piantare sopra le mie piante di basilico! Per ora questi esperimenti li sto facendo a casa, con le mie pentole. Infatti volevo provare a fare anche una pellicola commestibile, così ci mangiamo i nostri film. Sai che bello?
INT-60
14.03.2024
Un cinema che è per sua definizione piccolo e minoritario, personale e anti-comunicativo. I cortometraggi di Federica Foglia - film-maker italiana che da alcuni anni opera in Canada - compongono un corpus filmico ibrido e in continuo divenire, pronto a spingersi al di là delle sue possibilità formali grazie alle rinnovate scoperte tecniche e scientifiche messe a punto dall’artista. Indipendente dalle leggi del mercato e libera da qualsiasi convenzione narrativa, Foglia si affaccia alla sperimentazione artistica con manualità ossessiva, sguardo intimista e sensibilità empirica, riunendo nella propria ricerca un’incredibile pluralità di temi, forme e suggestioni. Lavori in found footage come Currents/Perpendicolare avanti (2021) e Film negativo/positivo (2023) indagano questioni identitarie che hanno a che fare con la sua condizione di immigrata e di donna, delineando una sorta di autobiografia sentimentale o di autoritratto impossibile.
Per l’artista si tratta di ritrovarsi e rispecchiarsi nelle immagini degli altri, in filmini che catturano eventi e corpi mai vissuti in prima persona, ma che si legano al proprio trascorso e alla propria identità in modi sottili e suggestivi. La sua è un’indagine su di sé attraverso gli altri, una propria messa a nudo che spoglia il cinema e le sue parti.
Il cinema, la scelta di studiare e lavorare in Canada... come sei arrivata a certi risvolti?
Ho studiato a Napoli, all’Orientale, un corso che era un po’ un misto di cose... perché da tempo avevo il desiderio di studiare cinema, ma mia madre mi consigliò di studiare lingue, come continuazione dei miei studi al liceo linguistico. Così ho cercato un compromesso. Questa laurea in lingue all’Orientale aveva una specializzazione in storia del teatro, dell’arte, del cinema, linguaggi multimediali e informatica umanistica: praticamente tutto. Nello stesso anno in cui mi sono laureata arrivò una troupe Canadese nel mio paese, a Fondi, per girare un film. Portai il mio curriculum al produttore: tra le varie cose avevo scritto di aver fatto un corso di cucito a Napoli, e mi presero a lavorare - con mio estremo stupore! - perché gli serviva qualcuno con una macchina per cucire. Ho lavorato sul set come assistente costumista. In più ero l’unica che parlava sia inglese che italiano in maniera fluente, così ho fatto anche da traduttrice per il regista e altre piccole cose per facilitare la produzione. Partecipando a questo set mi sono innamorata ancora di più del cinema. Di lì a poco mi sono industriata per andare in Canada e seguire i membri di questa troupe, sognando di continuare a fare cinema, e poi mi sono stabilita a Toronto. Nel frattempo sono successe varie cose, ma soprattutto ho finalmente trovato il modo di studiare cinema, alla York University, prima con un Master in Film e recentemente proseguendo con un Dottorato. Ho deciso di rimanere ancora per un po’ in Canada anche per l’influenza che questo professore e regista, Philip Hoffman, ha avuto su di me (i suoi film vennero portati in Italia nel 1981, da Adriano Aprà, al Festival di Salsomaggiore). Lui mi ha insegnato tutto quello che so sul cinema sperimentale.
Uno dei tuoi primi cortometraggi, Fantassùt/Rain on the Borders (2016), è un documentario che hai girato al confine tra Grecia e Macedonia, nel più grande campo di rifugiati d’Europa. Come sei arrivata a questa esperienza?
In quel periodo stavo aspettando il mio visto di lavoro, in Canada, e l’attesa era così lunga... Sono stata per un certo periodo senza fare nulla, ferma, ad aspettare. Nel frattempo, dalle pagine del New York Times, leggevo continuamente gli aggiornamenti sulla situazione dei rifugiati di guerra al confine macedone – forse ti ricordi la foto di Alan Kurdi, un bambino di tre anni, siriano, morto annegato e ritrovato sulle rive di Bodrum. Da quel momento ho pensato di usare il mio tempo per andare in Grecia, a fare volontariato ad Idomeni. Avevo con me una piccola macchina fotografica Nikon e dopo varie settimane lì ho iniziato a filmare delle testimonianze. Il fatto che non usassi una videocamera grande mi ha aiutato, perché le persone non erano intimorite. Anzi, erano loro che mi dicevano cosa filmare. I bambini mi prendevano per mano e mi portavano a vedere le cose più interessanti. L’esigenza di filmare nasceva dal fatto che io non potevo credere ai miei occhi. Era tutto troppo assurdo. Volevo portare a casa un documento tangibile per esporre quella realtà, una prova, un documentario. Portare le storie dei profughi al di fuori del campo rifugiati.
Mi piacerebbe sapere qualcosa di più anche su 8 metri, 4 metri, questo lavoro in video che hai dedicato a Pier Paolo Pasolini.
Il video che ho fatto su Pasolini era un esercizio per l’università, per il corso di Process Cinema tenuto da Philip Hoffman, come per altri corti di uno o due minuti che ho fatto. Hoffman lanciava spesso a noi studenti delle sfide creative. In quel caso la sfida era di creare qualcosa utilizzando un unico frame. Ho scelto quella foto perché stavo esplorando i motivi che mi hanno spinta a lasciare il mio paese e al tempo stesso avevo bisogno di un’immagine iconica che rappresentasse in modo forte il trattamento che è stato riservato al più grande artista italiano del secondo Novecento. Non che pensassi che se fossi rimasta in Italia mi avrebbero ucciso... però sicuramente il mio percorso sperimentale sarebbe stato più sofferto, faticoso, doloroso. Questa immagine di Pasolini morto a terra, buttato lì come una bestia, mi è sempre rimasta impressa, sin da bambina. E in quel momento l’ho vista come un simbolo del motivo per cui avevo lasciato l’Italia.
Tra le tue ispirazioni hai più volte menzionato il lavoro di Cècilie Fontaine, Vivian Ostrovsky e altre cineaste per lo più francesi o americane... Eppure io vedo una certa vicinanza anche con la scena sperimentale italiana. Penso ad esempio all’estetica di Paolo Gioli per Film negativo/positivo.
Ti faccio una confessione: io ho conosciuto il lavoro di Paolo Gioli solo nell’ultimo anno, proprio perché in molti hanno visto delle affinità tra i miei film e i suoi. Il fatto è che essendo cresciuta in provincia di Latina non avevo molte risorse in questo senso... Era difficile accedere a questo tipo di stimoli e sono stata esposta al cinema sperimentale piuttosto tardi. Però secondo me è stato un bene: non mi piace molto vedere i film degli altri, perché non voglio farmi influenzare. Voglio lavorare a mente libera. Comunque sì, dovrei approfondire di più lo sperimentale italiano, ma c'è ancora poca accessibilità a queste opere essenziali.
Quando si parla di questo tipo di film, ogni visione diventa il frutto di una ricerca minuziosa, ossessiva…
Infatti! Invece queste registe che ho nominato in diverse occasioni le ho scoperte facendo delle ricerche sulle tecniche, soprattutto quelle per manipolare l’immagine. Cercavo informazioni online sul mordançage, l’emulsion lifting, la solarizzazione... ma poi volevo vedere degli esempi, delle applicazioni pratiche. Così ho scoperto il lavoro di queste cineaste, che sono presto diventate degli idoli per me perché so quanto hanno sofferto per applicare certe tecniche!
Quindi non hai mai visto nemmeno i film di Piero Bargellini o Alberto Grifi?
No.
Gianikian e Ricci Lucchi?
Loro sì. Li ho scoperti proprio grazie a queste ricerche sul found footage, sulle tecniche.
Ti nominavo Bargellini soprattutto in riferimento a Film negativo/positivo, perché anche lui ha lavorato con found footage pornografico, in particolare in Trasferimento di modulazione (1969). Si tratta di un cortometraggio concepito da Bargellini per esistere in un'unica copia positiva invertibile e quindi destinata a consumarsi di proiezione in proiezione. La pellicola accumula di volta in volta sporcizia e rigature e il film è costretto a una lenta morte per consunzione.
Questo che dici mi riporta a un libro di Paolo Cherchi Usai, The Death of Cinema, che tratta di questa cosa, della distruzione del cinema. Lui è stato curatore del George Eastman Museum, fondatore delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, un grande archivista e teorico del cinema, e questo suo saggio parla proprio della morte fisica del cinema, della pellicola che si deteriora passaggio dopo passaggio nel proiettore. Un libro molto affascinante. Invece, per quanto riguarda Film Negativo/Positivo, una delle mie ispirazioni è stato The Exquisite Corpus (2015) di Peter Tscherkassky, anche se io non ho usato proprio la stessa tecnica. Tscherkassky in pratica lavora in una stanza buia, prende della pellicola vergine, in bianco e nero, e sovrappone a questa pellicola vari frammenti di negativi. Poi prende un piccolo laser e a mano punta la luce sui frammenti: in questo modo le immagini si imprimono sulla pellicola vergine in base al movimento della sua mano. Quindi lui fa un lavoro simile alla pinhole camera di Gioli, però lo fa a mano, con delle piccole fonti di luce, e in questo modo interviene sul movimento e l’esposizione di tutti i vari frammenti. Anche io lavoro senza macchina da presa, ma tutte le sovrimpressioni le faccio creando dei collage a mano, utilizzando frammenti di celluloide stratificati, e non con l’esposizione a fonti di luce. In generale mi piace approcciare le immagini in senso sculturale, scartavetrare le pellicole, rimaneggiare i pezzi, creare dei collage. E usare le mani. È proprio un rapporto che io ho con le immagini, un rapporto tattile. Non è una presa di posizione: mi piace così.
Trovo molto interessante che per te viene prima la tecnica, cioè che conosci prima delle tecniche, le studi nei loro meccanismi, e poi scopri degli autori e dei film.
Sì perché durante questo master di cinema volevo trovare un modo visivo e sonoro per rappresentare l’esperienza dell’immigrazione. Volevo raccontare la mia storia con una tesi di laurea, che è stata Currents (2021), questo viaggio transoceanico dall’Italia all’America. La cosa principale era riuscire a ricreare la sensazione frammentaria che vivevo in questo nuovo paese. In Canadasentivo parlare lingue diverse, mi sentivo spezzettata tra due continenti, la realtà mi sembrava fatta di immagini sovrapposte... I film sull’immigrazione che avevo visto erano troppo lineari, narrativi. Io invece volevo rappresentare visivamente e sonoramente come fosse “ammuinata” la mia testa in questo periodo da immigrata. Per questo è venuta prima la tecnica: dovevo scompaginare l’immagine e il suono in modo da estraniare lo spettatore e fargli percepire come io vedo e vivo la mia esperienza.
E perché privilegi, fra le altre, proprio la tecnica dell’emulsion lifting?
Ci sono varie motivazioni, però la principale è che mi rilassa molto. È come l’uncinetto o il bricolage, una cosa manuale e piacevole: ti siedi là, con le tue immagini, e inizi anzitutto a toccarle, ad odorarle... Per prima cosa devi capire se le pellicole sono andate in sindrome d’aceto [vineagar syndrome]. Poi bisogna analizzarle a mano, guardarle con la lente d’ingrandimento, e già in questa fase si creano delle micro-idee nella testa, dei piccoli film. Tu le tocchi, le guardi, e queste immagini ti trasmettono qualcosa. E poi è una tecnica che include un sacco di passaggi minuziosi e laboriosi che mi tranquillizzano. Sono una persona molto impaziente, invece l’emulsion lifting richiede un sacco di pazienza. Bisogna lavorare su delle strisce piccole, perché non puoi lavorare con strisce più lunghe di 20 o 30 centimetri alla volta, praticamente un secondo di film (24 frame) alla volta. Poi le devi mettere in ammollo in dei bagni particolari per farle ammorbidire, per farle sciogliere, quindi prenderle in mano e spellarle, proprio come si spella un’abbronzatura. Ogni volta vedere queste emulsioni di immagini che si scollano, non so... penso che mi parli della mia vita, del mio “scollamento” dai vari posti a cui appartenevo.
Ultimamente a cosa stai lavorando?
Sto lavorando a vari cortometraggi. Uno l’ho finito poco tempo fa ma non l’ho ancora fatto circolare. Un cortometraggio d’animazione, ispirato a Evelyn Lambart e Norman McLaren. Non posso dirti esattamente come l’ho fatto perché... è un segreto! È un’astrazione grafica in movimento, forme che si inseguono sullo schermo, come un gioco, tre minuti appena. Si chiama Glitter for Girls, che è la marca di uno dei prodotti che ho usato per realizzarlo. Nel frattempo sto lavorando anche a un progetto per realizzare delle pellicole biodegradabili. Ci sono riuscita, però sono soltanto i primi prototipi. Si tratta di strisce di 35mm da otto frame, quindi per un secondo di film ne devo usare tre. Sono piccole e difficili da gestire, ma sono ricavate da fogli di bioplastica. Su queste strisce sono riuscita a stampare i frame di alcune pellicole ritrovate tramite un processo di esposizione diretta alla luce solare.
Come si ricava la pellicola da questi fogli?
Si parte da un foglio di bioplastica (che produco utilizzando alghe e altri elementi naturali) e lo si taglia in strisce da 35mm. Le strisce vanno perforate e rese fotosensibili. Poi si lavora con le immagini, per impressionarle con la luce del sole: si prendono cioè delle pellicole, del found footage, sperando che producano l’immagine su questa plastica. Una volta fatto questo, le strisce vanno scannerizzate e si può cominciare ad animare le immagini, un frame alla volta. Il bello è che queste pellicole potrei metterle nel mio giardino e si dissolverebbero senza problemi, in maniera toxic-free. Ci potrei piantare sopra le mie piante di basilico! Per ora questi esperimenti li sto facendo a casa, con le mie pentole. Infatti volevo provare a fare anche una pellicola commestibile, così ci mangiamo i nostri film. Sai che bello?