INT-18
05.01.2023
Nella passata edizione del Festival di Venezia, Beyond the Wall di Vahid Jalilvand è stato uno dei film che ci ha maggiormente sorpreso. La pellicola ha segnato il ritorno del regista iraniano alla manifestazione cinematografica dopo aver presentato, nella sezione Orizzonti, il film No Date, No Signature (2017), con il quale aveva vinto il premio alla miglior regia. La nuova opera di Jalilvand è un notevole dramma che si concentra sulle sofferenze e il dolore che accomunano due persone: Ali, un uomo da poco divenuto cieco che vive isolato all’interno del suo piccolo appartamento, e Leila, una donna ricercata dalla polizia che trova nascondiglio all’interno dell’edificio dove abita Ali. Le ingiustizie subite uniranno i due protagonisti, e Ali cercherà in ogni modo di far ricongiungere Leila con il figlio. Per raccontare questa storia, Jalilvand ha utilizzato un’interessante costruzione ad intreccio dove analizza le due backstory dei personaggi tramite l’utilizzo di vari flashback e flash-forward. Questa struttura suscita una particolare ambiguità, mentre si cerca di ricostruire ciò che ha portato i due protagonisti in quella precisa situazione. Beyond the Wall è un film intenso ed emotivo, dove il cineasta e i suoi due grandi interpreti, Navid Mohammadzadeh e Diana Habibi, riescono a raccontare una storia straziante con un tocco delicato.
Abbiamo avuto l’occasione di intervistare Vahid Jalilvand, con il quale abbiamo discusso di ciò che l’ha ispirato e del particolare processo di casting di Diana Habibi. È stata una piacevole chiacchierata, grazie anche al fondamentale contributo del traduttore Amir Ravanchi.
Beyond the Wall affronta tematiche complesse che potrebbero portare problemi con le autorità ufficiali; quindi, mi chiedo quale sarà il futuro di questo film in Iran?
Poco tempo fa ho chiesto ufficialmente il permesso al ministero della cultura per proiettare il film in Iran, ma non abbiamo ancora ricevuto una risposta. Mi auguro davvero che le autorità possano capire che il film non è una critica verso l’Iran o i problemi sociali della nazione.
Quale è l’ispirazione dietro le tematiche affrontate e la struttura del film?
È una lunga storia ad essere sinceri. Dopo No Date, No Signature (2017) ho iniziato a cercare nuove idee per il mio film successivo e un giorno mi hanno inviato un file audio di uno dei ricercatori della letteratura Farsi più importanti in Iran: Mohammad-Reza Shafiei Kadkani. Stava parlando ad una classe universitaria e si era messo a implorare gli artisti, i registi e i docenti, di trasmettere speranza a tutte quelle persone che, in questi anni, l’avevano persa. Quindi, ho pensato che dovessi fare anche io qualcosa per la società. Ho iniziato a pensare a tutte le persone che stavano soffrendo e, dentro di me, ho iniziato a vagare per la città e a leggere le scritte sui suoi muri. Una sera sono stato invitato a casa di amici, abbiamo fumato un po’ di sigarette e poi mi sono sdraiato un attimo a leggere delle poesie, improvvisamente mi sono trovato davanti ad un testo di Ali Saleh Ji, uno dei migliori poeti contemporanei che abbiamo in Iran. Ho iniziato a recitare questa poesia ad alta voce una, due, tre, cinquanta volte, la traduzione sarebbe:
restiamo dentro, siamo ancora addormentati,
dicono che una lettera non sia ancora arrivata,
dicono che alcuni di noi non hanno preso il cibo dal nostro tavolo,
parole dai nostri libri, fiori dai nostri ciliegeti, sorrisi dai nostri cari,
ma cosa possono fare con i nostri sogni?
Questo è stato l’inizio di Beyond the Wall, poi le parole, le frasi, mi sono venute in mente facilmente. Ma anche i poemi di Dehlavi Bidel sono stati una fonte di ispirazione, i suoi lavori hanno una certa «follia poetica».
Al giorno d’oggi, Navid Mohammadzadeh è uno dei migliori, se non il migliore, attore in Iran. Ha dato una performance impressionante in Leila’s Brothers di Saeed Roustaee, ma anche nella vostra precedente collaborazione in No Date, No Signature (2017). Mi chiedevo se avessi scritto il personaggio di Ali con Navid in mente.
Abbiamo molti attori talentuosi, ma ogni volta che voglio scrivere un personaggio, ho Navid in mente. Ha una caratteristica peculiare che lo contraddistingue dagli altri, lui «soffre» quando deve interpretare un ruolo, riesce a sopportare e tollerare ogni difficoltà, non perché vuole dimostrare di essere un bravo attore, ma perché vuole diventare, trasformarsi nel personaggio.
Per quanto riguarda il casting di Diana Habibi nel ruolo di Leila invece?
Insegno recitazione in Iran e Diana era una delle mie studentesse, mi ha sempre colpito la sua intelligenza ed emotività, ma era piuttosto inesperta. Quando il corso finì, le chiesi cosa facesse nella vita e lei mi rispose che era un’impiegata, a quel punto le ho chiesto se volesse diventare la mia segretaria. All’inizio non sapeva fare bene il suo lavoro e commetteva parecchi errori (il regista sorride, n.d.r.), ma non mi importava. Ha lavorato con me per diciotto mesi e l’unica cosa che le chiedevo era di andare in giro per la città e creare un personaggio, viverlo, e inventare su di lui una backstory. Lo faceva una volta alla settimana e c’era sempre qualcuno che la riprendeva. Volevo non essere capace di distinguerla dalle altre persone che, ad esempio, vedo tutti i giorni: doveva diventare come queste persone. «Devi imparare a non recitare, devi diventare come chiunque». Le dissi di fidarsi di me e fare quello che dicevo, e lei ha fatto questo straordinario lavoro per diciotto mesi (il regista sorride, n.d.r.). Quando ho scelto di darle il ruolo di Leila, abbiamo (il regista e la produzione, n.d.r.) deciso di smettere di pagarla, le abbiamo detto che non poteva ricevere soldi dalla famiglia. Doveva trovarsi un impiego, ma non un semplice lavoro, qualcosa di manuale. Per sei mesi ha fatto diversi lavori, ha servito sandwich con falafel e ha pure lavorato per realizzare degli oggetti in pelle. Aveva anche il compito di scegliere il bambino che avrebbe interpretato suo figlio, così è andata in questa associazione e ha chiesto il permesso di occuparsi di uno dei bambini per qualche ora del giorno. Diana ha vissuto veramente il personaggio di Leila.
A Venezia No Date No Signature (2017) era stato mostrato nella sezione Orizzonti, mentre quest’anno sei stato selezionato nel Concorso. Hai sentito più pressione su questo nuovo progetto?
Naturalmente ho sentito una certa responsabilità e pressione con Beyond the Wall, ma come qualsiasi altro artista che fa lo step successivo nella sua carriera. Ho dovuto stare più attento e curare nei dettagli ogni singolo dialogo o sequenza che giravo.
Come mai la scelta della cecità nel personaggio di Ali?
I nostri occhi vedono la realtà, ma è la nostra anima che vede la verità. È una metafora, solo quando Ali perde la vista, riesce finalmente a vedere la verità.
È questo il motivo per cui ti sei focalizzato in maniera particolare sul sonoro?
Esatto, nella vita di tutti i giorni vediamo situazioni anormali, ma non le comprendiamo a fondo perché viviamo focalizzati sulla nostra realtà. Quando si perde la vista, gli altri sensi «funzionano» meglio e, come dicevo, si può finalmente vedere la realtà. In questo film i suoni che senti sono un po’ «esagerati» perché assumono una certa importanza per Ali.
Se ti è permesso rispondere, posso chiederti cosa ne pensi dei recenti arresti a Mohammad Rasoulof e Jafar Panahi?
Nessun artista, o comunque un pensatore, dovrebbe essere in prigione. Questo è forse il più grande messaggio che posso dare al governo iraniano.
INT-18
05.01.2023
Nella passata edizione del Festival di Venezia, Beyond the Wall di Vahid Jalilvand è stato uno dei film che ci ha maggiormente sorpreso. La pellicola ha segnato il ritorno del regista iraniano alla manifestazione cinematografica dopo aver presentato, nella sezione Orizzonti, il film No Date, No Signature (2017), con il quale aveva vinto il premio alla miglior regia. La nuova opera di Jalilvand è un notevole dramma che si concentra sulle sofferenze e il dolore che accomunano due persone: Ali, un uomo da poco divenuto cieco che vive isolato all’interno del suo piccolo appartamento, e Leila, una donna ricercata dalla polizia che trova nascondiglio all’interno dell’edificio dove abita Ali. Le ingiustizie subite uniranno i due protagonisti, e Ali cercherà in ogni modo di far ricongiungere Leila con il figlio. Per raccontare questa storia, Jalilvand ha utilizzato un’interessante costruzione ad intreccio dove analizza le due backstory dei personaggi tramite l’utilizzo di vari flashback e flash-forward. Questa struttura suscita una particolare ambiguità, mentre si cerca di ricostruire ciò che ha portato i due protagonisti in quella precisa situazione. Beyond the Wall è un film intenso ed emotivo, dove il cineasta e i suoi due grandi interpreti, Navid Mohammadzadeh e Diana Habibi, riescono a raccontare una storia straziante con un tocco delicato.
Abbiamo avuto l’occasione di intervistare Vahid Jalilvand, con il quale abbiamo discusso di ciò che l’ha ispirato e del particolare processo di casting di Diana Habibi. È stata una piacevole chiacchierata, grazie anche al fondamentale contributo del traduttore Amir Ravanchi.
Beyond the Wall affronta tematiche complesse che potrebbero portare problemi con le autorità ufficiali; quindi, mi chiedo quale sarà il futuro di questo film in Iran?
Poco tempo fa ho chiesto ufficialmente il permesso al ministero della cultura per proiettare il film in Iran, ma non abbiamo ancora ricevuto una risposta. Mi auguro davvero che le autorità possano capire che il film non è una critica verso l’Iran o i problemi sociali della nazione.
Quale è l’ispirazione dietro le tematiche affrontate e la struttura del film?
È una lunga storia ad essere sinceri. Dopo No Date, No Signature (2017) ho iniziato a cercare nuove idee per il mio film successivo e un giorno mi hanno inviato un file audio di uno dei ricercatori della letteratura Farsi più importanti in Iran: Mohammad-Reza Shafiei Kadkani. Stava parlando ad una classe universitaria e si era messo a implorare gli artisti, i registi e i docenti, di trasmettere speranza a tutte quelle persone che, in questi anni, l’avevano persa. Quindi, ho pensato che dovessi fare anche io qualcosa per la società. Ho iniziato a pensare a tutte le persone che stavano soffrendo e, dentro di me, ho iniziato a vagare per la città e a leggere le scritte sui suoi muri. Una sera sono stato invitato a casa di amici, abbiamo fumato un po’ di sigarette e poi mi sono sdraiato un attimo a leggere delle poesie, improvvisamente mi sono trovato davanti ad un testo di Ali Saleh Ji, uno dei migliori poeti contemporanei che abbiamo in Iran. Ho iniziato a recitare questa poesia ad alta voce una, due, tre, cinquanta volte, la traduzione sarebbe:
restiamo dentro, siamo ancora addormentati,
dicono che una lettera non sia ancora arrivata,
dicono che alcuni di noi non hanno preso il cibo dal nostro tavolo,
parole dai nostri libri, fiori dai nostri ciliegeti, sorrisi dai nostri cari,
ma cosa possono fare con i nostri sogni?
Questo è stato l’inizio di Beyond the Wall, poi le parole, le frasi, mi sono venute in mente facilmente. Ma anche i poemi di Dehlavi Bidel sono stati una fonte di ispirazione, i suoi lavori hanno una certa «follia poetica».
Al giorno d’oggi, Navid Mohammadzadeh è uno dei migliori, se non il migliore, attore in Iran. Ha dato una performance impressionante in Leila’s Brothers di Saeed Roustaee, ma anche nella vostra precedente collaborazione in No Date, No Signature (2017). Mi chiedevo se avessi scritto il personaggio di Ali con Navid in mente.
Abbiamo molti attori talentuosi, ma ogni volta che voglio scrivere un personaggio, ho Navid in mente. Ha una caratteristica peculiare che lo contraddistingue dagli altri, lui «soffre» quando deve interpretare un ruolo, riesce a sopportare e tollerare ogni difficoltà, non perché vuole dimostrare di essere un bravo attore, ma perché vuole diventare, trasformarsi nel personaggio.
Per quanto riguarda il casting di Diana Habibi nel ruolo di Leila invece?
Insegno recitazione in Iran e Diana era una delle mie studentesse, mi ha sempre colpito la sua intelligenza ed emotività, ma era piuttosto inesperta. Quando il corso finì, le chiesi cosa facesse nella vita e lei mi rispose che era un’impiegata, a quel punto le ho chiesto se volesse diventare la mia segretaria. All’inizio non sapeva fare bene il suo lavoro e commetteva parecchi errori (il regista sorride, n.d.r.), ma non mi importava. Ha lavorato con me per diciotto mesi e l’unica cosa che le chiedevo era di andare in giro per la città e creare un personaggio, viverlo, e inventare su di lui una backstory. Lo faceva una volta alla settimana e c’era sempre qualcuno che la riprendeva. Volevo non essere capace di distinguerla dalle altre persone che, ad esempio, vedo tutti i giorni: doveva diventare come queste persone. «Devi imparare a non recitare, devi diventare come chiunque». Le dissi di fidarsi di me e fare quello che dicevo, e lei ha fatto questo straordinario lavoro per diciotto mesi (il regista sorride, n.d.r.). Quando ho scelto di darle il ruolo di Leila, abbiamo (il regista e la produzione, n.d.r.) deciso di smettere di pagarla, le abbiamo detto che non poteva ricevere soldi dalla famiglia. Doveva trovarsi un impiego, ma non un semplice lavoro, qualcosa di manuale. Per sei mesi ha fatto diversi lavori, ha servito sandwich con falafel e ha pure lavorato per realizzare degli oggetti in pelle. Aveva anche il compito di scegliere il bambino che avrebbe interpretato suo figlio, così è andata in questa associazione e ha chiesto il permesso di occuparsi di uno dei bambini per qualche ora del giorno. Diana ha vissuto veramente il personaggio di Leila.
A Venezia No Date No Signature (2017) era stato mostrato nella sezione Orizzonti, mentre quest’anno sei stato selezionato nel Concorso. Hai sentito più pressione su questo nuovo progetto?
Naturalmente ho sentito una certa responsabilità e pressione con Beyond the Wall, ma come qualsiasi altro artista che fa lo step successivo nella sua carriera. Ho dovuto stare più attento e curare nei dettagli ogni singolo dialogo o sequenza che giravo.
Come mai la scelta della cecità nel personaggio di Ali?
I nostri occhi vedono la realtà, ma è la nostra anima che vede la verità. È una metafora, solo quando Ali perde la vista, riesce finalmente a vedere la verità.
È questo il motivo per cui ti sei focalizzato in maniera particolare sul sonoro?
Esatto, nella vita di tutti i giorni vediamo situazioni anormali, ma non le comprendiamo a fondo perché viviamo focalizzati sulla nostra realtà. Quando si perde la vista, gli altri sensi «funzionano» meglio e, come dicevo, si può finalmente vedere la realtà. In questo film i suoni che senti sono un po’ «esagerati» perché assumono una certa importanza per Ali.
Se ti è permesso rispondere, posso chiederti cosa ne pensi dei recenti arresti a Mohammad Rasoulof e Jafar Panahi?
Nessun artista, o comunque un pensatore, dovrebbe essere in prigione. Questo è forse il più grande messaggio che posso dare al governo iraniano.