INT-77
29.10.2024
“Hai mai sognato una versione migliore di te? Più bella, più giovane, più perfetta. Una sola iniezione sblocca il tuo DNA, che produrrà un’altra versione di te. Tutto questo è The Substance.”
Il secondo lungometraggio di Coralie Fargeat trasporta lo spettatore nel mondo di Elisabeth Sparkle (Demi Moore), ex star di Hollywood che alla soglia della cinquantina inizia a intravedere il capolinea della sua carriera. Tutto cambia quando entra in contatto con The Substance, la soluzione perfetta per soddisfare le proprie ambizioni ed ossessioni estetiche dettate dalla società. Ci sono solo delle semplici regole da rispettare e un delicato equilibrio da stabilire, in caso contrario ci saranno conseguenze irreversibili.
Dopo la prima presentazione avvenuta al Festival di Cannes 2024, dove il film ha trionfato con il premio alla miglior sceneggiatura, The Substance è stato presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, prima di raggiungere, da domani, 30 ottobre, i nostri cinema grazie alla distribuzione di I Wonder Pictures e Wise Pictures.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Coralie Fargeat, che ci ha introdotto al suo personale punto di vista e raccontato del casting di Demi Moore e delle principali fonti d’ispirazione cinematografiche che hanno dato vita all’opera.
Innanzitutto vorrei congratularmi per The Substance e cominciare questa conversazione chiedendoti come sia stato presentare il film per la prima volta davanti ad un pubblico.
È stato qualcosa di impressionante, soprattutto emotivamente (la regista ride, n.d.r.). Presentare il film per la prima volta in competizione al Festival di Cannes è stato il miglior risultato che potevamo ottenere. Inoltre era la prima volta che un mio progetto veniva selezionato a Cannes e, avere un film così impegnativo (la regista sogghigna, n.d.r.), rischioso e che mette alla prova lo spettatore, ed essere presente con il cast dentro al Grand Théâtre Lumière è stato davvero emozionante. Percepisci l’aura e una certa atmosfera, ti senti sopraffatto, ma in senso positivo.
Puoi approfondire meglio il tuo legame con il body horror?
È un genere che ho sempre amato, sono cresciuta guardando certi film. Questo tipo di cinema mi permette di dare sfogo alla mia immaginazione e di esprimere quella “fantasia” dove siamo in grado di modificare e cambiare il nostro corpo, permettendoci di scappare da questo in qualche modo, ma alla fine, finisce quasi sempre male (la regista ride, n.d.r.). Come dicevo, ci sono film e registi che hanno avuto una grande influenza su di me, come ad esempio David Lynch, David Cronenberg, Paul Verhoeven o John Carpenter. Quello che accomuna il cinema di questi autori sono quesiti del tipo: “Come possiamo cambiare noi stessi? Come possiamo evolverci e compiere una metamorfosi?” In poche parole: come possiamo scappare dal nostro corpo?
Hai citato grandi registi come Cronenberg e Carpenter, quindi volevo chiederti quanto fosse stato difficile allontanarti da quelle reference, porre una certa distanza e quindi creare il tuo stile.
Di solito cerco di essere il più onesta possibile durante la fase di scrittura, sono conscia che il mio cinema è infuso di diverse reference che mi hanno aiutato a crescere come regista, ma quando scrivo, cerco di non pensare ad esse. So che sono dentro di me, ma alla fine sono in grado di metterle da parte e creare il mio stile. Ovviamente tutti, alla fine, sono in grado di “digerire” quello che vedono e cercare di ricrearlo, ma bisogna prima disintegrarlo, macellarlo ovunque (la regista ride, n.d.r.).
Un aspetto che mi ha impressionato è il modo in cui gestisci i lunghi momenti senza dialoghi, come ad esempio quando, all’inizio del film, seguiamo la routine quotidiana del personaggio di Elisabeth Sparkle. In quella sequenza ti focalizzi per lo più sul sound design e sull’aspetto estetico e, in qualche modo, metodico del film. Volevo chiederti se potevi descrivere a parole il processo creativo che hai intrapreso per The Substance e, soprattutto, per quel tipo di scena che ho citato.
Queste sequenze che citi sono un po’ caratteristiche del mio cinema, prendi ad esempio il mio primo lungometraggio, Revenge (2017), dove per la maggior parte del film non ci sono dialoghi. Di solito, durante il processo di scrittura, penso per lo più all’immagine, a come costruire il sound design e la musica che voglio attorno ad essa, solo in seguito posso imbastire la narrazione. Questo è il modo con cui costruisco la storia, ed è fondamentale anche perché mi occupo personalmente del montaggio. Quindi cerco sempre di pensare al ritmo e all’atmosfera di certe sequenze mentre le scrivo, in poche parole devo prima trovare l’universo visivo del film. È importante avere una storia avvincente e dei personaggi ben caratterizzati, ma secondo me la parte visiva ha lo stesso peso, tutti e tre sono fattori fondamentali per la buona riuscita di un film. All’inizio del processo creativo di solito faccio dei fascicoli dove raccolgo le varie reference e trovo divertente guardarli dopo aver completato i film, giusto per vedere quanto la visione originale che avevo sia diversa dal risultato finale.
Avevi già in mente Demi Moore e Margaret Qualley mentre scrivevi i ruoli di Elisabeth e Sue, o hai fatto dei casting?
C’è stato un processo di casting. Ho scritto il film dal nulla, volevo disconnettermi dalla realtà cinematografica e non pensare alla produzione o al casting, volevo avere piena libertà creativa prima di proporre il progetto a qualcuno o cercare possibili collaboratori. Ma allo stesso tempo, sin dall’inizio pensavo a chi potesse dar vita a questa storia e a questi personaggi. Sapevo benissimo che una delle sfide più impegnative del film sarebbe stata quella di trovare la giusta attrice per interpretare Elisabeth, qualcuno che abbia quella potenza simbolica, o meglio, confidenza per affrontare un ruolo che la metta a confronto con le fobie e le insicurezze della sua generazione. Mi avevano detto che Demi aveva letto ed amato la sceneggiatura, e ho pensato potesse essere una grande scelta per quello che rappresenta, anche al di fuori di questo progetto. Il film è molto allegorico, simbolico, e anche lei stessa rappresenta un simbolo all’interno di esso. Questo ha influito sul film, e avere Margaret Qualley come co-protagonista ha creato un contrasto davvero affascinante. Margaret ha già partecipato a diversi film di genere, ed essendo di un’altra generazione ho cercato di sfruttare il suo essere più sfrontata ed istintiva, ha portato una certa energia che mi ha ispirato. Avere l’occasione di lavorare con queste due attrici mi ha permesso di creare qualcosa di speciale e diverso, soprattutto per quello che rappresentano in questa fase della loro carriera e il modo in cui sono riuscite ad incanalare la giusta energia per rappresentare i loro personaggi.
Rimanendo su Demi Moore, vorrei chiederti di approfondire meglio il discorso su di lei, soprattutto perché hai detto che il suo casting rappresenta qualcosa anche al di fuori del contesto del film, cosa volevi intendere con questo? Perché credo tutti sappiano che la Moore era una delle attrici “commerciali” di punta di Hollywood negli anni ‘90. Inoltre, com'è stato lavorare con lei? C’è stata qualche scena dove hai dovuto spronarla per superare le sue incertezze?
Sono cresciuta negli anni 90’ e in quel periodo Demi rappresentava appieno cosa significava avere successo, avere le attenzioni e gli occhi di tutti su di te, e come questo sia legato alla propria apparenza e all'aspetto fisico, oltre ai ruoli in cui reciti. Sai bene anche tu come funziona Hollywood, o almeno puoi avere un’idea di quello che è; percepisci quando sei all’apice e hai tutto e ti rendi conto di quando devi iniziare a ridimensionare le tue aspettative nella situazione opposta. Demi è stata un’attrice coraggiosa in quel periodo, ha cercato di scegliere ruoli piuttosto diversi e ha preso anche qualche rischio. Ha dimostrato questa sua volontà anche in The Substance, non si è mai sentita intimorita e abbiamo parlato a lungo prima di iniziare le riprese. Le avevo scritto e spiegato nei minimi dettagli come sarebbero state certe sequenze. Questo ha aiutato molto e, una volta sul set, abbiamo avuto conversazioni più specifiche su quello che avrei girato, in modo da metterla più a suo agio e instaurare un rapporto di fiducia. Una volta creata una confidenza reciproca e imbastito un safe space, abbiamo cercato di sperimentare e spingerci oltre i nostri limiti.
The Substance si può definire come una “favola”, ambientata a Los Angeles e con al centro Hollywood. Quanto è stato importante scegliere di ambientare il film in quel contesto?
Per me, il film è più legato a come certe istituzioni, Hollywood ad esempio, cercano di raccontare le esperienze che noi abbiamo vissuto. Per questo non ho voluto cercare di ricreare una versione realistica di Hollywood, ma una che comunque rispecchia inconsciamente lo spirito di essa, l’idea che ci siamo fatti di quell’ambiente anche se tecnicamente non ci siamo mai stati. Con questo approccio sono stata in grado di analizzare il passato, il presente e il futuro in maniera simbolica. Hollywood in qualche modo rappresenta l’estremo di questo concetto, ma una situazione del genere potrebbe accadere in ogni altro luogo. Ed è proprio come le favole, che sono queste "reincarnazioni" di racconti veritieri, basati su esperienze umane. Abbiamo iniziato a raccontare queste favole sin dall’antichità e forse Hollywood è la più grande di queste (la regista ride, n.d.r.).
Dopo il successo di Revenge (2017) hai sentito il bisogno di espatriare per continuare a raccontare ed evolvere la tua identità cinematografica?
Più o meno. Ho deciso di intraprendere la carriera cinematografica perché mi sentivo “inadatta” alla vita reale. Ben presto, mi sono sentita nello stesso modo all’interno dell’industria francese e portare avanti i miei progetti stava diventando piuttosto difficile. Ma ho capito che il modo con cui strutturo o giro un film è irrimediabilmente influenzato dalla scuola francese. Il mio processo creativo non trova riscontro con quello statunitense e ho cercato di preservare la mia identità per mantenere intatto quel processo. Come ad esempio il lavoro di ricerca e di sperimentazione, che occupa un lungo lasso di tempo prima delle riprese. Quello che ha aiutato la produzione di The Substance è stata la combinazione di alcuni elementi conformanti con l’industria francese e altri con quella anglosassone, come se il film stesso fosse una specie di Monstro (la regista ride, n.d.r.). Avere la completa libertà creativa era essenziale per il film. Sono molto fiera del prodotto finale e, in qualche modo, questo processo ha funzionato.
Cosa ne pensi della concezione di “bellezza” e di eterna giovinezza all’interno dell’industria cinematografica e nella società contemporanea?
Se sei una donna vieni esposta a certe pressioni sin dalla tenera età. Quando ero più giovane, vedevo tutte queste supermodelle nei magazine dall’aspetto perfetto, ed era impossibile non fare un paragone con me stessa. Quando vedi determinate imperfezioni, inizi a pensare che ci sia qualcosa di sbagliato in te perché il tuo aspetto non è conforme a quello di certi canoni di bellezza. Oggi è diverso però, siamo nell’era dei social media, con Instagram e altre piattaforme… siamo sempre esposti a determinati contenuti e ad un certo punto inizi a sentirti a disagio. Quando non ci sarà più questo problema, l’umanità compirà un passo in avanti. Ma questa problematica riguarda ogni livello della nostra società e come questa organizza e impone certi standard. Credo che tutti noi siamo un po’ schizofrenici su questo argomento, una parte di noi vuole questo tipo di esposizione, l’altra odia l’attenzione. È come una prigionia, ma allo stesso tempo traiamo un po’ di piacere nel torturare noi stessi. Alcune volte non abbiamo un’alternativa, è come se il nostro istinto di sopravvivenza prendesse il predominio. Ed è anche un modo per esistere, trovare la propria voce e il nostro posto nel mondo. È una discussione piuttosto complessa.
Per questo hai deciso di affrontare la storia con un tono satirico? Soprattutto se prendiamo in considerazione Sue, che è appunto l’estremo di questo concetto.
Esatto. Lei rappresenta questa prigionia, o meglio, lei è la prigione stessa. Anche se ti senti perfetto, c’è comunque qualcosa di imperfetto che vuoi migliorare ed è quello che succede a Sue, che quando inizia a “perdere” la sua bellezza si vede costretta a creare una versione migliore di se stessa. Lei rappresenta la metafora di questa ricerca infinita, qualcosa che non possiamo prevaricare o raggiungere e, a volte, bisogna imparare a convivere con questo. L’ambiente circostante spesso ci impone questa “ricerca” di chi siamo, cosa siamo e come siamo. Allo stesso tempo, è un viaggio interiore che dobbiamo compiere, soprattutto perché dobbiamo convivere con noi stessi. Tutto ciò è comunque connesso con il mondo esteriore, entrambi hanno influenza sull’altro, sono una cosa sola.
Vorrei concludere questa conversazione chiedendoti di uno degli aspetti più peculiari dell’ultima parte del film, Monstro ElisaSue. Mi chiedevo se avessi avuto già in mente i vari dettagli di questa creatura durante la fase di scrittura o se hai seguito consigli da parte dei truccatori o di altri tecnici in seguito.
Avevo un’idea specifica di come Monstro doveva essere ed è stato piuttosto difficile creare le varie protesi. Ma gli artisti con cui ho lavorato sono stati bravissimi, hanno capito quello che volevo e hanno dato vita alla mia visione. Sapevo di volere una creatura dall’aspetto mostruoso e terrificante, ma al tempo stesso doveva avere qualcosa di tenero ed emotivo…
Come in The Elephant Man (1980) di David Lynch?
Esatto. Come se avessimo di fronte questa creatura debole ed indifesa. Riuscire a trovare il giusto equilibrio tra queste due caratteristiche è stata la parte più difficile, soprattutto perché volevo osare il più che potevo con gli effetti speciali. Ma ci sono diverse cose che bisogna prendere in considerazione, come il fatto che non puoi fare certe sequenze perché c’è una persona all’interno del costume. Gli effetti speciali hanno aiutato parzialmente, ma abbiamo sempre cercato di creare qualcosa di reale, volevamo porre enfasi sulla “carne” (flesh, n.d.r.). Anche perché il film è incentrato su questo, sul corpo e la nostra concezione di esso. Questo riguarda principalmente Monstro, ed è stato importante far sentire e vedere il senso di questa crescita “smisurata”. È stato un processo lungo ed impegnativo, ma alla fine eravamo così fieri di quello a cui avevamo dato vita (la regista ride, n.d.r.).
INT-77
29.10.2024
“Hai mai sognato una versione migliore di te? Più bella, più giovane, più perfetta. Una sola iniezione sblocca il tuo DNA, che produrrà un’altra versione di te. Tutto questo è The Substance.”
Il secondo lungometraggio di Coralie Fargeat trasporta lo spettatore nel mondo di Elisabeth Sparkle (Demi Moore), ex star di Hollywood che alla soglia della cinquantina inizia a intravedere il capolinea della sua carriera. Tutto cambia quando entra in contatto con The Substance, la soluzione perfetta per soddisfare le proprie ambizioni ed ossessioni estetiche dettate dalla società. Ci sono solo delle semplici regole da rispettare e un delicato equilibrio da stabilire, in caso contrario ci saranno conseguenze irreversibili.
Dopo la prima presentazione avvenuta al Festival di Cannes 2024, dove il film ha trionfato con il premio alla miglior sceneggiatura, The Substance è stato presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, prima di raggiungere, da domani, 30 ottobre, i nostri cinema grazie alla distribuzione di I Wonder Pictures e Wise Pictures.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Coralie Fargeat, che ci ha introdotto al suo personale punto di vista e raccontato del casting di Demi Moore e delle principali fonti d’ispirazione cinematografiche che hanno dato vita all’opera.
Innanzitutto vorrei congratularmi per The Substance e cominciare questa conversazione chiedendoti come sia stato presentare il film per la prima volta davanti ad un pubblico.
È stato qualcosa di impressionante, soprattutto emotivamente (la regista ride, n.d.r.). Presentare il film per la prima volta in competizione al Festival di Cannes è stato il miglior risultato che potevamo ottenere. Inoltre era la prima volta che un mio progetto veniva selezionato a Cannes e, avere un film così impegnativo (la regista sogghigna, n.d.r.), rischioso e che mette alla prova lo spettatore, ed essere presente con il cast dentro al Grand Théâtre Lumière è stato davvero emozionante. Percepisci l’aura e una certa atmosfera, ti senti sopraffatto, ma in senso positivo.
Puoi approfondire meglio il tuo legame con il body horror?
È un genere che ho sempre amato, sono cresciuta guardando certi film. Questo tipo di cinema mi permette di dare sfogo alla mia immaginazione e di esprimere quella “fantasia” dove siamo in grado di modificare e cambiare il nostro corpo, permettendoci di scappare da questo in qualche modo, ma alla fine, finisce quasi sempre male (la regista ride, n.d.r.). Come dicevo, ci sono film e registi che hanno avuto una grande influenza su di me, come ad esempio David Lynch, David Cronenberg, Paul Verhoeven o John Carpenter. Quello che accomuna il cinema di questi autori sono quesiti del tipo: “Come possiamo cambiare noi stessi? Come possiamo evolverci e compiere una metamorfosi?” In poche parole: come possiamo scappare dal nostro corpo?
Hai citato grandi registi come Cronenberg e Carpenter, quindi volevo chiederti quanto fosse stato difficile allontanarti da quelle reference, porre una certa distanza e quindi creare il tuo stile.
Di solito cerco di essere il più onesta possibile durante la fase di scrittura, sono conscia che il mio cinema è infuso di diverse reference che mi hanno aiutato a crescere come regista, ma quando scrivo, cerco di non pensare ad esse. So che sono dentro di me, ma alla fine sono in grado di metterle da parte e creare il mio stile. Ovviamente tutti, alla fine, sono in grado di “digerire” quello che vedono e cercare di ricrearlo, ma bisogna prima disintegrarlo, macellarlo ovunque (la regista ride, n.d.r.).
Un aspetto che mi ha impressionato è il modo in cui gestisci i lunghi momenti senza dialoghi, come ad esempio quando, all’inizio del film, seguiamo la routine quotidiana del personaggio di Elisabeth Sparkle. In quella sequenza ti focalizzi per lo più sul sound design e sull’aspetto estetico e, in qualche modo, metodico del film. Volevo chiederti se potevi descrivere a parole il processo creativo che hai intrapreso per The Substance e, soprattutto, per quel tipo di scena che ho citato.
Queste sequenze che citi sono un po’ caratteristiche del mio cinema, prendi ad esempio il mio primo lungometraggio, Revenge (2017), dove per la maggior parte del film non ci sono dialoghi. Di solito, durante il processo di scrittura, penso per lo più all’immagine, a come costruire il sound design e la musica che voglio attorno ad essa, solo in seguito posso imbastire la narrazione. Questo è il modo con cui costruisco la storia, ed è fondamentale anche perché mi occupo personalmente del montaggio. Quindi cerco sempre di pensare al ritmo e all’atmosfera di certe sequenze mentre le scrivo, in poche parole devo prima trovare l’universo visivo del film. È importante avere una storia avvincente e dei personaggi ben caratterizzati, ma secondo me la parte visiva ha lo stesso peso, tutti e tre sono fattori fondamentali per la buona riuscita di un film. All’inizio del processo creativo di solito faccio dei fascicoli dove raccolgo le varie reference e trovo divertente guardarli dopo aver completato i film, giusto per vedere quanto la visione originale che avevo sia diversa dal risultato finale.
Avevi già in mente Demi Moore e Margaret Qualley mentre scrivevi i ruoli di Elisabeth e Sue, o hai fatto dei casting?
C’è stato un processo di casting. Ho scritto il film dal nulla, volevo disconnettermi dalla realtà cinematografica e non pensare alla produzione o al casting, volevo avere piena libertà creativa prima di proporre il progetto a qualcuno o cercare possibili collaboratori. Ma allo stesso tempo, sin dall’inizio pensavo a chi potesse dar vita a questa storia e a questi personaggi. Sapevo benissimo che una delle sfide più impegnative del film sarebbe stata quella di trovare la giusta attrice per interpretare Elisabeth, qualcuno che abbia quella potenza simbolica, o meglio, confidenza per affrontare un ruolo che la metta a confronto con le fobie e le insicurezze della sua generazione. Mi avevano detto che Demi aveva letto ed amato la sceneggiatura, e ho pensato potesse essere una grande scelta per quello che rappresenta, anche al di fuori di questo progetto. Il film è molto allegorico, simbolico, e anche lei stessa rappresenta un simbolo all’interno di esso. Questo ha influito sul film, e avere Margaret Qualley come co-protagonista ha creato un contrasto davvero affascinante. Margaret ha già partecipato a diversi film di genere, ed essendo di un’altra generazione ho cercato di sfruttare il suo essere più sfrontata ed istintiva, ha portato una certa energia che mi ha ispirato. Avere l’occasione di lavorare con queste due attrici mi ha permesso di creare qualcosa di speciale e diverso, soprattutto per quello che rappresentano in questa fase della loro carriera e il modo in cui sono riuscite ad incanalare la giusta energia per rappresentare i loro personaggi.
Rimanendo su Demi Moore, vorrei chiederti di approfondire meglio il discorso su di lei, soprattutto perché hai detto che il suo casting rappresenta qualcosa anche al di fuori del contesto del film, cosa volevi intendere con questo? Perché credo tutti sappiano che la Moore era una delle attrici “commerciali” di punta di Hollywood negli anni ‘90. Inoltre, com'è stato lavorare con lei? C’è stata qualche scena dove hai dovuto spronarla per superare le sue incertezze?
Sono cresciuta negli anni 90’ e in quel periodo Demi rappresentava appieno cosa significava avere successo, avere le attenzioni e gli occhi di tutti su di te, e come questo sia legato alla propria apparenza e all'aspetto fisico, oltre ai ruoli in cui reciti. Sai bene anche tu come funziona Hollywood, o almeno puoi avere un’idea di quello che è; percepisci quando sei all’apice e hai tutto e ti rendi conto di quando devi iniziare a ridimensionare le tue aspettative nella situazione opposta. Demi è stata un’attrice coraggiosa in quel periodo, ha cercato di scegliere ruoli piuttosto diversi e ha preso anche qualche rischio. Ha dimostrato questa sua volontà anche in The Substance, non si è mai sentita intimorita e abbiamo parlato a lungo prima di iniziare le riprese. Le avevo scritto e spiegato nei minimi dettagli come sarebbero state certe sequenze. Questo ha aiutato molto e, una volta sul set, abbiamo avuto conversazioni più specifiche su quello che avrei girato, in modo da metterla più a suo agio e instaurare un rapporto di fiducia. Una volta creata una confidenza reciproca e imbastito un safe space, abbiamo cercato di sperimentare e spingerci oltre i nostri limiti.
The Substance si può definire come una “favola”, ambientata a Los Angeles e con al centro Hollywood. Quanto è stato importante scegliere di ambientare il film in quel contesto?
Per me, il film è più legato a come certe istituzioni, Hollywood ad esempio, cercano di raccontare le esperienze che noi abbiamo vissuto. Per questo non ho voluto cercare di ricreare una versione realistica di Hollywood, ma una che comunque rispecchia inconsciamente lo spirito di essa, l’idea che ci siamo fatti di quell’ambiente anche se tecnicamente non ci siamo mai stati. Con questo approccio sono stata in grado di analizzare il passato, il presente e il futuro in maniera simbolica. Hollywood in qualche modo rappresenta l’estremo di questo concetto, ma una situazione del genere potrebbe accadere in ogni altro luogo. Ed è proprio come le favole, che sono queste "reincarnazioni" di racconti veritieri, basati su esperienze umane. Abbiamo iniziato a raccontare queste favole sin dall’antichità e forse Hollywood è la più grande di queste (la regista ride, n.d.r.).
Dopo il successo di Revenge (2017) hai sentito il bisogno di espatriare per continuare a raccontare ed evolvere la tua identità cinematografica?
Più o meno. Ho deciso di intraprendere la carriera cinematografica perché mi sentivo “inadatta” alla vita reale. Ben presto, mi sono sentita nello stesso modo all’interno dell’industria francese e portare avanti i miei progetti stava diventando piuttosto difficile. Ma ho capito che il modo con cui strutturo o giro un film è irrimediabilmente influenzato dalla scuola francese. Il mio processo creativo non trova riscontro con quello statunitense e ho cercato di preservare la mia identità per mantenere intatto quel processo. Come ad esempio il lavoro di ricerca e di sperimentazione, che occupa un lungo lasso di tempo prima delle riprese. Quello che ha aiutato la produzione di The Substance è stata la combinazione di alcuni elementi conformanti con l’industria francese e altri con quella anglosassone, come se il film stesso fosse una specie di Monstro (la regista ride, n.d.r.). Avere la completa libertà creativa era essenziale per il film. Sono molto fiera del prodotto finale e, in qualche modo, questo processo ha funzionato.
Cosa ne pensi della concezione di “bellezza” e di eterna giovinezza all’interno dell’industria cinematografica e nella società contemporanea?
Se sei una donna vieni esposta a certe pressioni sin dalla tenera età. Quando ero più giovane, vedevo tutte queste supermodelle nei magazine dall’aspetto perfetto, ed era impossibile non fare un paragone con me stessa. Quando vedi determinate imperfezioni, inizi a pensare che ci sia qualcosa di sbagliato in te perché il tuo aspetto non è conforme a quello di certi canoni di bellezza. Oggi è diverso però, siamo nell’era dei social media, con Instagram e altre piattaforme… siamo sempre esposti a determinati contenuti e ad un certo punto inizi a sentirti a disagio. Quando non ci sarà più questo problema, l’umanità compirà un passo in avanti. Ma questa problematica riguarda ogni livello della nostra società e come questa organizza e impone certi standard. Credo che tutti noi siamo un po’ schizofrenici su questo argomento, una parte di noi vuole questo tipo di esposizione, l’altra odia l’attenzione. È come una prigionia, ma allo stesso tempo traiamo un po’ di piacere nel torturare noi stessi. Alcune volte non abbiamo un’alternativa, è come se il nostro istinto di sopravvivenza prendesse il predominio. Ed è anche un modo per esistere, trovare la propria voce e il nostro posto nel mondo. È una discussione piuttosto complessa.
Per questo hai deciso di affrontare la storia con un tono satirico? Soprattutto se prendiamo in considerazione Sue, che è appunto l’estremo di questo concetto.
Esatto. Lei rappresenta questa prigionia, o meglio, lei è la prigione stessa. Anche se ti senti perfetto, c’è comunque qualcosa di imperfetto che vuoi migliorare ed è quello che succede a Sue, che quando inizia a “perdere” la sua bellezza si vede costretta a creare una versione migliore di se stessa. Lei rappresenta la metafora di questa ricerca infinita, qualcosa che non possiamo prevaricare o raggiungere e, a volte, bisogna imparare a convivere con questo. L’ambiente circostante spesso ci impone questa “ricerca” di chi siamo, cosa siamo e come siamo. Allo stesso tempo, è un viaggio interiore che dobbiamo compiere, soprattutto perché dobbiamo convivere con noi stessi. Tutto ciò è comunque connesso con il mondo esteriore, entrambi hanno influenza sull’altro, sono una cosa sola.
Vorrei concludere questa conversazione chiedendoti di uno degli aspetti più peculiari dell’ultima parte del film, Monstro ElisaSue. Mi chiedevo se avessi avuto già in mente i vari dettagli di questa creatura durante la fase di scrittura o se hai seguito consigli da parte dei truccatori o di altri tecnici in seguito.
Avevo un’idea specifica di come Monstro doveva essere ed è stato piuttosto difficile creare le varie protesi. Ma gli artisti con cui ho lavorato sono stati bravissimi, hanno capito quello che volevo e hanno dato vita alla mia visione. Sapevo di volere una creatura dall’aspetto mostruoso e terrificante, ma al tempo stesso doveva avere qualcosa di tenero ed emotivo…
Come in The Elephant Man (1980) di David Lynch?
Esatto. Come se avessimo di fronte questa creatura debole ed indifesa. Riuscire a trovare il giusto equilibrio tra queste due caratteristiche è stata la parte più difficile, soprattutto perché volevo osare il più che potevo con gli effetti speciali. Ma ci sono diverse cose che bisogna prendere in considerazione, come il fatto che non puoi fare certe sequenze perché c’è una persona all’interno del costume. Gli effetti speciali hanno aiutato parzialmente, ma abbiamo sempre cercato di creare qualcosa di reale, volevamo porre enfasi sulla “carne” (flesh, n.d.r.). Anche perché il film è incentrato su questo, sul corpo e la nostra concezione di esso. Questo riguarda principalmente Monstro, ed è stato importante far sentire e vedere il senso di questa crescita “smisurata”. È stato un processo lungo ed impegnativo, ma alla fine eravamo così fieri di quello a cui avevamo dato vita (la regista ride, n.d.r.).