NC-294
16.04.2025
Per parlare di un film o di un romanzo la scelta più sicura e lineare è iniziare dal titolo. Sarei quasi tentata di citare la definizione da dizionario di UPSHOT, ma un’apertura così banale non si addice a un prodotto che è quanto ti più lontano possibile dalla banalità.
UPSHOT è un cortometraggio di una ventina di minuti realizzato dalla regista palestinese Maha Haj, con una produzione internazionale condivisa tra Palestina, Francia e Italia, rappresentata in questo caso dalla casa di produzione Okta Film.
Intanto, perché tra i tanti inizi possibili ho ritenuto importante soffermarmi sulla produzione? Prima di tutto perché in uno scenario sociopolitico sempre più frammentato a livello internazionale, la cooperazione tra cittadini di paesi diversi crea legami e connessioni che vanno oltre le decisioni dei "piani alti", e anzi forse riusciranno a influenzarle, piano piano, molto lentamente e con molta costanza.
In più, perché vedo nella scelta di Okta Film la decisione di agire quasi da apripista, organizzando, per il lancio in Italia di questo corto di cui tra poco capirete perché consiglio vivamente la visione, una serie di proiezioni nelle sale cinematografiche come si usa per i grandi lungometraggi hollywoodiani.
Il poster del film
Una sequenza di UPSHOT (2025)
I cinema di Firenze, Milano, Bologna e altre città italiane hanno avuto l’audacia di mettere a disposizione le proprie sale alla proiezione di un cortometraggio, una scelta già poco consueta, relegata di solito a momenti speciali come festival e altre manifestazioni simili. Ma la lungimiranza delle sale e della casa di produzione ha permesso di vedere il potenziale di una simile iniziativa.
Queste proiezioni sono organizzate per lasciare spazio a una sessione dedicata all’incontro tra pubblico e regista (o alternativamente, con Maria Nadotti, giornalista dalla vastissima esperienza che per anni si è interessata alla questione palestinese). Incontri che, data la delicatezza e la complessità del tema trattato, rappresentano un’occasione ricchissima per completare il significato del film e inserirlo nel contesto geopolitico di cui ci racconta.
Momenti come questi sono il cuore pulsante che tiene in vita la Settima Arte, e parteciparvi vuol dire giocare un ruolo attivo nella salvaguardia dei cinema in quanto luoghi di cultura e del cinema indipendente in quanto lavoro di ricerca espressiva. Quindi ecco la risposta alla prima domanda: riconoscere finalmente il lavoro di case di produzione indipendenti che fanno scelte audaci come quella di portare in tournée un cortometraggio così pericolosamente ed esplicitamente vero.
La regista Maha Haj fotografata di spalle sul set della pellicola
UPSHOT si potrebbe presentare infatti come un documentario sociopolitico, se non fosse che viene precisato fin dall’inizio che si tratta di un prodotto della fantasia della regista che immagina uno scenario lontano nel tempo, un futuro non precisato, scelto come tempo della storia forse per cominciare ad elaborare il lutto collettivo che si paleserà inevitabilmente nelle vite di tutti coloro – noi compresi – che hanno assistito anche solo a distanza alla tragedia che si sta consumando sul suolo palestinese.
Rispetto a quanto potrebbe emergere in un documentario sul presente della Striscia, comunque necessario e imprescindibile, UPSHOT riporta la disumanità del genocidio di Gaza a una dimensione ancora più ampia, e oserei dire più giusta. Perché a volte ci illudiamo che una volta finiti i bombardamenti potremo lavarci le coscienze e pensare che sia tutto finito e non ci sia più niente di cui occuparsi o semplicemente per cui addolorarsi, anzi spesso ci accontentiamo già solo dell’illusione di una tregua. Invece, citando la rivista Gli Asini, “UPSHOT riesce a farci vedere ciò che non vogliamo vedere”.Rimane un’unica soluzione: illuminare la scena con i fari della macchina. Solo che le strade sono arroccate e strette, e ogni volta che ci fermiamo per un’inquadratura blocchiamo la via principale del paese, che è molto più trafficata di quello che si potrebbe pensare.
Maha Haj ci mostra come il lutto, la sofferenza, la tragedia e il suo trauma continueranno a insediarsi negli animi di chi ne è stato colpito per anni e anni e, nel migliore degli scenari possibili, serviranno comunque intere generazioni per superare le atrocità che stanno accadendo adesso sotto lo sguardo attonito di tutti. Un futuro lontano che viene messo in forse, perché UPSHOT ci mostra una terra in cui il futuro deve essere inventato, perché a quelle generazioni che dovrebbero ricostruire l’intero territorio non è stato permesso di crescere, di avere figli, nipoti, di avere un popolo.
Areen Omari
Questa estrema desolazione, questi “abissi insondabili del dolore”, come li definisce la regista stessa, sono raccontati con delle immagini estremamente poetiche, con una fotografia che ricorda vagamente le simmetrie alla Wes Anderson ma dai contrasti più drammatici, adatti alla solennità di quanto raccontato, mentre lo spettatore è cullato dalle sonorità della lingua araba, sinuose ma allo stesso tempo ruvide, in perfetta armonia con le linee morbide delle colline sullo sfondo e l’asprezza della terra che i due genitori, protagonisti del corto, coltivano.
Questi abissi sono sondati con una prospettiva inedita: quello che si va a sviscerare non sono tanto le dimensioni inimmaginabili di questo dolore, perché sono troppo grandi per essere misurate, ma come lo spirito umano possa resistere a tanta sofferenza, e immaginare comunque un futuro in cui esistere. “UPSHOT è allo stesso tempo un pianto e una testimonianza della forza indomabile dello spirito umano”, dichiara la regista, è la scelta di costruirsi una realtà alternativa quando quella vera non è più accettabile. E arriviamo finalmente al significato del titolo: l’“upshot” è la risoluzione finale, la presa di posizione che arriva dopo una discussione, uno scambio. È la posizione, unita e irrevocabile, che prendono i due genitori di fronte alla realtà troppo crudele, che in questo caso ha il volto di un giornalista (Amer Hlehel).
Una posizione ai confini della realtà che però non è da leggere come un delirio dato da un dolore troppo forte, perché anche nel loro lutto Sulemani (Mohammed Bakri) e Lubna (Areen Omari) si dimostrano perfettamente lucidi e consapevoli.
La loro è una scelta cosciente che portano avanti perché è l’unico modo che hanno per sopravvivere a una tale tragedia. Perché quando la sofferenza è tanta, come si fa a continuare ad accettare la realtà? L’unica soluzione, la risoluzione finale, è un rifiuto, è inventarne un’altra di realtà, lo sforzo sovrumano di due genitori che fanno l’impossibile per continuare a tenere in vita i propri figli.
Mohammad Bakri
Quella che viene mostrata è una vicenda molto specifica e dai connotati storici e politici estremamente ben definiti, ma è anche un racconto universale che potrebbe essere declinato per qualsiasi popolo colpito dalla guerra.
I primi minuti potrebbero mostrare una qualsiasi fattoria in qualsiasi paese del Mediterraneo – non ci scordiamo infatti che la Palestina è un paese mediterraneo come la Spagna e l’Italia, un paese vicino in spazio e cultura – se non fosse per le sonorità della lingua e la linea nera sotto gli occhi di Lubna.
Anche se si tratta di una storia di fantasia, il racconto mantiene comunque una verosimiglianza assoluta e terribile, la verosimiglianza di cui parlava Manzoni che permette al poeta di creare una storia capace di contribuire a scrivere la Storia, di smuovere le coscienze e mostrare la realtà in tutta la sua complessità e profondità.
Opere di questo spessore fortunatamente sono sempre meno rare, ma allo stesso tempo è importante non sottovalutare il bisogno che hanno di essere supportate e di essere godute sugli schermi in momenti di condivisione, come quelli che sono stati dedicati a UPSHOT in Italia a partire dal 10 di aprile.
NC-294
16.04.2025
Per parlare di un film o di un romanzo la scelta più sicura e lineare è iniziare dal titolo. Sarei quasi tentata di citare la definizione da dizionario di UPSHOT, ma un’apertura così banale non si addice a un prodotto che è quanto ti più lontano possibile dalla banalità.
UPSHOT è un cortometraggio di una ventina di minuti realizzato dalla regista palestinese Maha Haj, con una produzione internazionale condivisa tra Palestina, Francia e Italia, rappresentata in questo caso dalla casa di produzione Okta Film.
Intanto, perché tra i tanti inizi possibili ho ritenuto importante soffermarmi sulla produzione? Prima di tutto perché in uno scenario sociopolitico sempre più frammentato a livello internazionale, la cooperazione tra cittadini di paesi diversi crea legami e connessioni che vanno oltre le decisioni dei "piani alti", e anzi forse riusciranno a influenzarle, piano piano, molto lentamente e con molta costanza.
In più, perché vedo nella scelta di Okta Film la decisione di agire quasi da apripista, organizzando, per il lancio in Italia di questo corto di cui tra poco capirete perché consiglio vivamente la visione, una serie di proiezioni nelle sale cinematografiche come si usa per i grandi lungometraggi hollywoodiani.
Una sequenza di UPSHOT (2025)
I cinema di Firenze, Milano, Bologna e altre città italiane hanno avuto l’audacia di mettere a disposizione le proprie sale alla proiezione di un cortometraggio, una scelta già poco consueta, relegata di solito a momenti speciali come festival e altre manifestazioni simili. Ma la lungimiranza delle sale e della casa di produzione ha permesso di vedere il potenziale di una simile iniziativa.
Queste proiezioni sono organizzate per lasciare spazio a una sessione dedicata all’incontro tra pubblico e regista (o alternativamente, con Maria Nadotti, giornalista dalla vastissima esperienza che per anni si è interessata alla questione palestinese). Incontri che, data la delicatezza e la complessità del tema trattato, rappresentano un’occasione ricchissima per completare il significato del film e inserirlo nel contesto geopolitico di cui ci racconta.
Momenti come questi sono il cuore pulsante che tiene in vita la Settima Arte, e parteciparvi vuol dire giocare un ruolo attivo nella salvaguardia dei cinema in quanto luoghi di cultura e del cinema indipendente in quanto lavoro di ricerca espressiva. Quindi ecco la risposta alla prima domanda: riconoscere finalmente il lavoro di case di produzione indipendenti che fanno scelte audaci come quella di portare in tournée un cortometraggio così pericolosamente ed esplicitamente vero.
La regista Maha Haj fotografata di spalle sul set della pellicola
UPSHOT si potrebbe presentare infatti come un documentario sociopolitico, se non fosse che viene precisato fin dall’inizio che si tratta di un prodotto della fantasia della regista che immagina uno scenario lontano nel tempo, un futuro non precisato, scelto come tempo della storia forse per cominciare ad elaborare il lutto collettivo che si paleserà inevitabilmente nelle vite di tutti coloro – noi compresi – che hanno assistito anche solo a distanza alla tragedia che si sta consumando sul suolo palestinese.
Rispetto a quanto potrebbe emergere in un documentario sul presente della Striscia, comunque necessario e imprescindibile, UPSHOT riporta la disumanità del genocidio di Gaza a una dimensione ancora più ampia, e oserei dire più giusta. Perché a volte ci illudiamo che una volta finiti i bombardamenti potremo lavarci le coscienze e pensare che sia tutto finito e non ci sia più niente di cui occuparsi o semplicemente per cui addolorarsi, anzi spesso ci accontentiamo già solo dell’illusione di una tregua. Invece, citando la rivista Gli Asini, “UPSHOT riesce a farci vedere ciò che non vogliamo vedere”.Rimane un’unica soluzione: illuminare la scena con i fari della macchina. Solo che le strade sono arroccate e strette, e ogni volta che ci fermiamo per un’inquadratura blocchiamo la via principale del paese, che è molto più trafficata di quello che si potrebbe pensare.
Maha Haj ci mostra come il lutto, la sofferenza, la tragedia e il suo trauma continueranno a insediarsi negli animi di chi ne è stato colpito per anni e anni e, nel migliore degli scenari possibili, serviranno comunque intere generazioni per superare le atrocità che stanno accadendo adesso sotto lo sguardo attonito di tutti. Un futuro lontano che viene messo in forse, perché UPSHOT ci mostra una terra in cui il futuro deve essere inventato, perché a quelle generazioni che dovrebbero ricostruire l’intero territorio non è stato permesso di crescere, di avere figli, nipoti, di avere un popolo.
Areen Omari
Questa estrema desolazione, questi “abissi insondabili del dolore”, come li definisce la regista stessa, sono raccontati con delle immagini estremamente poetiche, con una fotografia che ricorda vagamente le simmetrie alla Wes Anderson ma dai contrasti più drammatici, adatti alla solennità di quanto raccontato, mentre lo spettatore è cullato dalle sonorità della lingua araba, sinuose ma allo stesso tempo ruvide, in perfetta armonia con le linee morbide delle colline sullo sfondo e l’asprezza della terra che i due genitori, protagonisti del corto, coltivano.
Questi abissi sono sondati con una prospettiva inedita: quello che si va a sviscerare non sono tanto le dimensioni inimmaginabili di questo dolore, perché sono troppo grandi per essere misurate, ma come lo spirito umano possa resistere a tanta sofferenza, e immaginare comunque un futuro in cui esistere. “UPSHOT è allo stesso tempo un pianto e una testimonianza della forza indomabile dello spirito umano”, dichiara la regista, è la scelta di costruirsi una realtà alternativa quando quella vera non è più accettabile. E arriviamo finalmente al significato del titolo: l’“upshot” è la risoluzione finale, la presa di posizione che arriva dopo una discussione, uno scambio. È la posizione, unita e irrevocabile, che prendono i due genitori di fronte alla realtà troppo crudele, che in questo caso ha il volto di un giornalista (Amer Hlehel).
Una posizione ai confini della realtà che però non è da leggere come un delirio dato da un dolore troppo forte, perché anche nel loro lutto Sulemani (Mohammed Bakri) e Lubna (Areen Omari) si dimostrano perfettamente lucidi e consapevoli.
La loro è una scelta cosciente che portano avanti perché è l’unico modo che hanno per sopravvivere a una tale tragedia. Perché quando la sofferenza è tanta, come si fa a continuare ad accettare la realtà? L’unica soluzione, la risoluzione finale, è un rifiuto, è inventarne un’altra di realtà, lo sforzo sovrumano di due genitori che fanno l’impossibile per continuare a tenere in vita i propri figli.
Mohammad Bakri
Quella che viene mostrata è una vicenda molto specifica e dai connotati storici e politici estremamente ben definiti, ma è anche un racconto universale che potrebbe essere declinato per qualsiasi popolo colpito dalla guerra.
I primi minuti potrebbero mostrare una qualsiasi fattoria in qualsiasi paese del Mediterraneo – non ci scordiamo infatti che la Palestina è un paese mediterraneo come la Spagna e l’Italia, un paese vicino in spazio e cultura – se non fosse per le sonorità della lingua e la linea nera sotto gli occhi di Lubna.
Anche se si tratta di una storia di fantasia, il racconto mantiene comunque una verosimiglianza assoluta e terribile, la verosimiglianza di cui parlava Manzoni che permette al poeta di creare una storia capace di contribuire a scrivere la Storia, di smuovere le coscienze e mostrare la realtà in tutta la sua complessità e profondità.
Opere di questo spessore fortunatamente sono sempre meno rare, ma allo stesso tempo è importante non sottovalutare il bisogno che hanno di essere supportate e di essere godute sugli schermi in momenti di condivisione, come quelli che sono stati dedicati a UPSHOT in Italia a partire dal 10 di aprile.