NC-245
25.10.2024
La 19ª edizione della Festa del cinema di Roma, si sta avviando verso la sua conclusione. Grazie alle molteplici sezioni che lo caratterizzano e ai suoi interessanti incontri con svariati artisti della comunità cinematografica internazionale, questo evento risulta sempre un'ottima occasione per “respirare” del buon cinema e dare un’occhiata a qualche proposta tra le più stimolanti della stagione. Oggi cogliamo l’occasione per raccontarvi di alcune visioni che abbiamo recuperato durante la manifestazione.
Nickel Boys, di RaMell Ross
Quali sono le immagini e gli attimi di vita che rimangono più impressi durante l’infanzia? Potrebbero essere le foglie autunnali che cadono, oppure tua nonna che cerca di mostrarti la meraviglia dei piccoli istanti quotidiani e perché no, i primi momenti dove si iniziano a comprendere le varie problematiche che ci circondano o i fenomeni culturali associati al periodo in cui stiamo vivendo. Tutti questi segmenti racchiudono il flusso di coscienza e le memorie dell’adolescente Elwood prima di essere arrestato per un crimine non commesso. Il giovane è uno dei due protagonisti di Nickel Boys, opera seconda di RaMell Ross adattata dall’omonimo romanzo di Colson Whitehead vincitore del premio Pulitzer nel 2020. Ambientato tra il 1962 e il 1988, il film racconta la storia di Elwood e Turner, due ragazzi costretti a vivere nella Nickel Academy, nome fittizio della vera Dozier School, riformatorio che ha discriminato e brutalizzato molti ragazzi di colore. Quello che affascina ad un primo istante è l’approccio con cui Ross decide di raccontare la storia, che in qualche modo si oppone alla tipica narrazione letteraria. Infatti, tramite un romanzo, il lettore può avere una percezione "interna" dei protagonisti, si può capire cosa stiano provando, ma non si è in grado di vedere o percepire in prima persona la loro esperienza. L’operazione di Ross è proprio incentrata su questo: mostrare una forte prospettiva sui due personaggi principali, immergendo lo spettatore e costringendolo a partecipare alla loro "soggettività". Questo coinvolgimento è permesso dall’uso di un punto di vista ottico, gestito abilmente dal direttore della fotografia Jomo Fray, che intende mostrare fino in fondo non solo ciò che Elwood vede, ma anche come vive determinate esperienze tramite il punto di vista di Turner. Il linguaggio cinematografico derivato da questa tecnica risulta radicale per il modo in cui affronta l’argomento del razzismo attraverso la duplice esperienza soggettiva, portando a compiere una riflessione più approfondita sugli anni ‘60 negli Stati Uniti. Immagini di archivio intercorrono durante tutta la durata dell'opera, tra cui i vari discorsi di Martin Luther King e l’arrivo sulla Luna dell'Apollo 8, e risultano fondamentali per capire la posizione temporale di certi avvenimenti all’interno della Nickel. Infatti, Ross opta per una narrativa non lineare, allo scopo di mostrare il lungo periodo di permanenza dei protagonisti nell'istituto correttivo. I cambi temporali, invece, sono spesso messi in risalto dall’uso del time lapse o del freeze frame, che si contrappongono anche ad immagini che mostrano Elwood anni dopo l’uscita dalla Nickel. Queste sequenze seguono una direzione scopica diversa; la camera non rappresenta più lo sguardo del protagonista, è posizionata dietro al suo corpo, ritraendone solo la parte superiore, passando da una soggettiva ad una semi-soggettiva, come se questi attimi volessero celare il doloroso fardello con cui adesso Elwood deve convivere. Nickel Boys è una delle esperienze visive più imponenti dell’anno, un lungometraggio che mette in mostra l’ambizione di un giovane cineasta che decide di affrontare una serie di difficili scelte narrative per modellare l’immagine e sperimentare sulla forma cinematografica. Un film di rara bellezza che è destinato a diventare uno dei caposaldi del cinema indipendente americano nei prossimi decenni.
Milano, di Christina Vandekerckhove
Christina Vandekerckhove, dopo essersi laureata in arti audio-visive presso il KASK, grazie al suo documentario Home Video 53, ha cominciato a lavorare all’interno del cinema e della televisione come regista freelance. Dopo una serie di cortometraggi, esordisce ufficialmente con il documentario Rabot (2017), lavoro in cui riprende gli abitanti di un complesso di case popolari prossime alla demolizione. Grazie a questo film Vandekerckhove vince l'Audience Award al Ghent Film Festival, lo Scam Scenario Award al Millenium Festival di Bruxelles, l'Ensor per il miglior documentario e il Social Film Award. Proprio quest'anno la regista ha compiuto il suo debutto nel lungometraggio di finzione con Milano, passato in Concorso nella sezione Alice nella Città. Un titolo particolare, che si rifà in modo estremamente intelligente ad un canovaccio presente in molti dei titoli usciti negli ultimi anni - tra tutti, vi sono sicuramente Sound Of Metal (2019) e il vincitore dell’Oscar 2020 per il miglior film, CODA (2020).Vandekerckhove costruisce una storia di riscatto ed emancipazione, capace di capovolgere la situazione di diversità che avvolge il protagonista, alle prese con il dramma della sordità. Il risultato è un coming-of-age dai toni estremamente crudi e amari, che ricalca l’isolazionismo tipico dei film di questo genere. Proprio per questo, la regista guarda ad espedienti tecnici e poetici che ricordano i titoli citati precedentemente (soprattutto nell’annullamento frequente, in alcune situazioni, del sonoro in favore di una restituzione della sensorialità e di un’immedesimazione pressoché totale con il protagonista), scegliendo un insieme di soggettive che aumentano l’empatia e fanno vivere sulla pelle dello spettatore il disorientamento crescente del personaggio principale, aiutato solamente da una figura esterna - il suo cane, che diventa lo spirito guida per muoversi adeguatamente all’interno di un universo ostile. Una storia che affonda le radici nel sociale e che offre uno spaccato del contesto familiare belga, ripreso nelle sue contraddizioni primigenie e, soprattutto, nelle sue accezioni più “fataliste” - non è infatti un caso che Vandekerckhove si inerpichi in riprese molto “vive”, filmate da una macchina a mano che riprende il modello realista dei Dardenne. Milano risulta però un'opera sbilanciata, se da una parte trova il suo senso nel raccontare tutte le controversie della società e, soprattutto, la rabbia sottesa dei suoi protagonisti, dall'altro presenta una riflessione fin troppo duale e semplicistica sulla socialità della provincia belga, banalizzando la vicenda con accenti da revenge movie che influiscono negativamente sul risultato finale.
The Dead Don’t Hurt, di Viggo Mortensen
Viggo Mortensen è ormai uno dei nomi più noti del cinema internazionale degli ultimi venticinque anni. Dopo essere stato più volte vicino alla notorietà, grazie alle sue interpretazioni non principali in film di culto come Carlito’s Way (1993) e il bistrattato remake hitchcockiano Psycho (1998), di Gus Van Sant, l’attore newyorkese ha avuto la sua definitiva consacrazione grazie al ruolo di Aragorn nella trilogia de Il Signore Degli Anelli (2001-2003). La fama acquisita grazie alla saga di Peter Jackson ha aperto la strada a Mortensen verso molte importanti collaborazioni con grandi cineasti, da David Cronenberg - A History Of Violence (2005), Eastern Promises (2007), A Dangerous Method (2011), Crimes Of The Future (2022) - e Ed Harris - Appaloosa (2008) - fino a Lisandro Alonso - Jauja (2014), Eureka (2023) - e Hossein Amini - I due volti di Gennaio (2014). Dopo aver esordito alla regia nel 2020 con Falling, presentato al Sundance Film Festival, quest’anno è tornato alla ribalta con il suo secondo film, The Dead Don’t Hurt, presentato al TIFF nel 2023 e passato alla Festa del Cinema di Roma 2024 nella sezione Grand Public. The Dead Don’t Hurt è un western per lunghi tratti decadente e assolato, particolare per come affronta il delicato tema del posizionamento della figura femminile all’interno di un contesto prettamente maschilista. Un film che rifugge qualsiasi tipologia di categorizzazione, che sa essere anti-moderno nelle scelte estetiche - rifugiandosi più e più volte in una regia da camera che sfrutta gli interni per scombinare la cronologia del montaggio e la consequenzialità delle azioni su schermo - e moderno allo stesso tempo - in quanto fa ricorso ad una rappresentazione decisamente più “dolente” e raffinata di una protagonista (una bravissima Vicky Krieps) che si caratterizza attraverso la sua determinazione nell'affrontare le angherie di un microcosmo che non ne tollera la presenza e la centralità. La scelta di rifuggire dalle logiche di spettacolarizzazione odierne, sottacendo la tensione per la maggior parte del tempo per poi lasciarla esplodere nell’ultimo atto, si rivela estremamente appropriata, in quanto permette di alternare bene le nature classiche e moderne che co-esistono all’interno della storia facendone così una pellicola in grado di rispettare, soprattutto linguisticamente e stilisticamente, la tradizione, inglobandola però in un tessuto prettamente odierno che tiene conto, anche e soprattutto, della mutazione genetica di un genere che sembra sempre ad un passo dalla scomparsa definitiva, ma che alla fine risorge dalle sue ceneri in quanto tessuto inscalfibile della tradizione cinematografica americana.
Rabia, di Mareike Engelhardt
Mareike Engelhardt è un nome che a molti sarà sconosciuto, ma che in realtà nasconde un legame profondo con alcune entità che hanno segnato la storia della Settima Arte, anche quella attuale. La regista tedesca, infatti, ha cominciato la sua avventura nel mondo cinematografico come assistente alla regia di J'aime regarder les filles (2011) di Frederic Louf, per poi approdare subito dopo sul set di un gigante del cinema mondiale come Roman Polanski, con cui ha collaborato da seconda assistente alla regia per Carnage (2011). Un bel biglietto da visita per la regista di origine tedesca, che l'ha portata su svariati set set, tra cui La nuit a dévoré le monde (2018), particolarissimo zombie-movie francese con protagonista il caratterista Denis Lavant. Dopo vari corti e dopo aver diretto cinque episodi della serie tedesca Ollewitz (2022), Engelhardt ha ufficialmente esordito con il suo primo lungometraggio, dal titolo Rabia, presentato in anteprima al Festival du film francophone d'Angoulême e alla Festa del Cinema di Roma. Nel raccontare tra documentario e racconto finzionale la vicenda di Jessica (interpretata dalla brava Megan Northam), ragazza partita dalla Siria per unirsi al DAESH - epiteto usato per identificare lo Stato islamico - che si ritroverà faccia a faccia con una realtà molto più autoritaria di quanto pronosticato, la regista parla soprattutto di una dialettica tossica, a metà tra dominio e sottomissione, che si sviluppa tra le due protagoniste principali. Allegoria che serve soprattutto a mostrare la chiusura di alcuni sistemi orientali e, contemporaneamente, a ribadire come la strada alternativa all’occidentalismo sia fatta di dolori, sacrifici e violenza. Mareike Engelhardt dipinge l’Islam come un vero e proprio regime (ribadendolo anche attraverso le didascalie iniziali e finali del film e attraverso alcune battute pronunciate dalle varie protagoniste della storia) e usa una grammatica molto semplice, basata perlopiù su campi/controcampi e usi di campi medi, i quali si avvalgono di una fotografia molto cupa e particolare, per sviluppare la tensione che preme sul racconto e mettere in evidenza l’anima distorta del terrorismo e i continui tentativi di manipolazione che i regimi offrono nei confronti dei loro seguaci. Nonostante un’intenzione sicuramente nobile, però, Rabia non riesce mai a convincere del tutto, preferendo spostare l’attenzione sulla violenza (psicologica e fisica) che la situazione descritta porta inevitabilmente con sé e ponendo tutto il peso del racconto sull'interpretazione della bravissima Lubna Azabal, che malgrado porti sul suo viso e tramite le sue espressioni facciali tutte le cicatrici di una guerra di potere la quale crea solamente macerie e vuoto (come mostrato dalla sequenza finale), non riesce a garantire al film quel “plus” che lo faccia scostare dal semplice messaggio politico.
A Real Pain, di Jesse Eisenberg
Dopo aver diretto il suo primo lungometraggio, la deludente dramedy When You Finish Saving the World (2022), Jessie Eisenberg ritorna alla regia con A Real Pain - uno dei primi titoli presentati nel corso di Alice nella Città - un toccante racconto su due cugini che ormai hanno perso il forte legame che li univa in gioventù per via delle diverse strade intraprese. David (Eisenberg), afflitto dalla propria quotidianità e da un disturbo ossessivo compulsivo, decide di accompagnare l’eccentrico cugino Benji (Kieran Culkin) in Polonia per onorare la memoria della nonna e soprattutto per ripercorrere le proprie origini ebraiche e comprendere appieno il trauma dell’Olocausto. Quello che segue è un film dallo sviluppo piuttosto semplice, dove il viaggio assume un significato più profondo del previsto per i due protagonisti, che riusciranno a riconoscere i loro problemi e cercare aiuto reciproco. Il tutto viene raccontato con un tono altalenante che alterna classici momenti quirky tipici delle commedie indipendenti statunitensi ad istanti più drammatici, soprattutto quando cerca di approfondire la depressione di Benji. Questo mix purtroppo è la pecca principale di A Real Pain; non sempre l’umorismo funziona appieno, mentre la rappresentazione della malattia di quest’ultimo è approssimativa, poichè vengono mostrati solo gli estremi di essa. Questa scelta è probabilmente dettata dal fatto che la storia è filtrata dal punto di vista di David, ma rimane pur sempre una scelta frustrante che limita non solo il grande potenziale del personaggio, ma anche l’interpretazione di Kieran Culkin. Ci sono attimi dove si può intravedere una grande prova da parte dell'attore, che purtroppo si trova incastrato in un ruolo che sembra una copia del Roman Roy di Succession che l’ha reso così famoso. La messa in scena di Eisenberg denota ancora delle problematiche che caratterizzano certi registi esordienti, come l’uso spropositato della musica e la mancanza di gestione nei momenti di silenzio, o anche la sovraesposizione di certe motivazioni dei personaggi, come ad esempio in uno struggente monologo di David nella seconda parte del film. A Real Pain è un film che presenta lacune sotto molti punti di vista, ma risulta comunque una visione piacevole e a tratti toccante.
The Outrun, di Nora Fingscheidt
Dopo la prima presentazione ufficiale al Sundance Film Festival, seguita da una premiere europea alla Berlinale di quest’anno, The Outrun di Nora Fingscheidt ha raggiunto anche il nostro Paese, dove è stato selezionato nella sezione Alice nella Città. Il quarto lungometraggio della regista tedesca, e secondo in lingua inglese, è un adattamento basato sulle memorie di Amy Liptrot e segue le vicende di Rona (Saoirse Ronan), una donna sulla trentina con una dipendenza dall’alcol che sta cercando di rimettere insieme la propria vita e disintossicarsi. Per fare ciò, abbandona la vita urbana e caotica della capitale inglese spostandosi sulle coste scozzesi in cerca di una pace interiore. Già dalla prima sequenza si denota il tono a tratti moralistico dell’opera, dove la regista immerge lo spettatore nei fondali marini per mostrarci una foca solitaria, mettendo in risalto una delle tante allegorie piuttosto superflue sul percorso verso la sobrietà presenti nel film. A reinforzare l’approccio semplice con cui Fingscheidt affronta l’argomento della dipendenza è la struttura stessa dell'opera: le sequenze che presentano le difficoltà della protagonista vengono messe in opposizione ai momenti che mostrano i suoi periodi più bui. Questa scelta riflette in qualche modo il flusso di coscienza di Rona, che cerca di ricordare con lucidità quei momenti per trovare la forza di non ricadere nella dipendenza. I flashback appaiono però troppo sopra le righe - come se l’intento della cineasta fosse semplicemente quello di scioccare lo spettatore - e l’uso della camera a mano, che mette in risalto lo stato di ebrezza della giovane, risulta piuttosto banale. Queste problematiche penalizzano anche l’interpretazione di Saoirse Ronan, il cui drunk acting risulta stucchevole già dopo un paio di scene dimostrando come non sia facile regalare una grande interpretazione esclusivamente composta da urla isteriche e pianti - a dimostrare ciò, basti pensare all’eccellente lavoro che hanno svolto Daniel Craig in Queer (2024) o Lilith Stangenberg in Sterben (2024). D’altro canto, Ronan mostra la sua bravura nelle scene ambientate nel presente, dove con un approccio più minimalista e intimo è in grado di mostrare le difficoltà della protagonista con una certa onestà. Nonostante ciò, l’attrice irlandese non è in grado di salvare un film scontato e abbastanza retrogrado, che sembra avere l'obbiettivo di ricreare un prodotto audiovisivo tipico degli anni novanta per veicolare l’attrice protagonista verso i premi più prestigiosi dell’anno.
Flow, di Gints Zibalodis
Negli ultimi anni, Gints Zilbalodis sta presentando al pubblico di tutto il mondo il suo particolare approccio all'animazione. Il regista lettone è infatti indissolubilmente legato ad un universo cinematografico totalmente primordiale, dove la bellezza di fare cinema è connessa essenzialmente al raccontare delle storie, e dove lui stesso ricopre un ruolo da “self-made man”. Infatti, lui stesso è autore, regista, animatore, produttore, sceneggiatore e montatore delle sue opere, che si caratterizzano soprattutto per essere dei veri e propri orizzonti di sperimentazione, sia visiva che concettuale. Zilbalodis, infatti, rifiuta fortemente ogni approccio legato ad uno storyboard o ad una trama, preferendo piuttosto lavorare su semplici canovacci sui quali costruisce veri e propri mondi avulsi dalla dimensione terrena, in cui elementi fantastici e realistici si fondono per dare vita a storie d’avventura che prendono ispirazione da riferimenti extra-filmici. Questo è il caso di Flow (2024), primo lungometraggio del cineasta ad essere presentato al Festival di Cannes 2024 nella sezione Un Certain Regard. Il racconto si concentra su un gatto solitario che, dopo un’alluvione, è costretto a trovare rifugio insieme ad altri animali su una barca. Su questo spunto Zilbalodis costruisce una metafora sulla bellezza della diversità, incarnata dalla zattera/arca di Noè costruita dai protagonisti, che racchiude in sé specie diverse e, soprattutto, modi di intendere il mondo radicalmente opposti. L’animazione adoperata dal regista riporta alla mente il concetto transmediale, l’uso dell’open world e alcune poligonalità tipiche dei videogiochi targati Team ICO - su tutti vi è sicuramente The Last Guardian, anche per via della cooperazione tra specie diverse. Un contesto all’interno del quale Zilbalodis inserisce una notevole componente foto-realistica, in grado di restituire al pubblico un’estetica simil-naturale, di esaltare i colori della natura selvaggia e di riprodurre la visione dell’occhio umano grazie al dinamismo della macchina da presa, quasi sempre in avanti e alla ricerca del nuovo, dell’incontaminato e di una policromia che dà corpo al fantastico e lo sottopone allo sguardo dello spettatore, lasciandolo meravigliato e desideroso di scoprire una parte di mondo altrimenti rimasta sepolta.
Ghostlight, di Kelly O'Sullivan e Alex Thompson
Dopo la tragica scomparsa di un membro della famiglia, i Mueller non sono ancora in grado di superare l’enorme perdita e faticano ad articolare le proprie emozioni, nascondendo il dolore dietro ad una maschera. Tra questi c’è Dan (Keith Kumpferer), costruttore edile che, dopo una reazione piuttosto violenta sul posto di lavoro, verrà costretto a dimettersi. Proprio in quegli istanti sarà avvicinato da Rita (Dolly De Leon), gestrice di una comunità teatrale che lo inviterà ad unirsi alla troupe. L’incertezza dell’uomo svanirà presto, e tramite quest’esperienza inizierà ad affrontare il lutto che lo affligge e comprenderà come aiutare la moglie Sharon (Tara Mallen) e la figlia Daisy (Katherine Mallen Kumpferer). Ghostlight è una toccante storia dove il mondo del teatro assume una funzione terapeutica e gli spettacoli inscenati, più nello specifico Romeo e Giulietta, riflettono la condizione vulnerabile dei personaggi che li interpretano. Con questo approccio che mescola il palcoscenico alla vita e viceversa, Kelly O’Sullivan e Alex Thompson dirigono un’opera delicata ed autentica che trova il giusto equilibrio tra commedia e dramma, anche se la connotazione melodrammatica, in certe sequenze, stona con il resto dell’opera. Di certo, l’operazione compiuta dai due cineasti non raggiunge gli apici delle opere di Jacques Rivette e Ryusuke Hamaguchi, due grandi maestri del cinema “teatrale”, ma Ghostlight rimane comunque un film piuttosto solido e forse uno dei migliori presentati nella sezione Progressive Cinema. Il punto di forza risiede nell’interpretazione centrale di Keith Kumpferer, tra le migliori del festival, che riesce a racchiudere il dolore e il fardello emotivo che l’uomo porta con sé da tempo; l’approccio minimalista, che non si ritrova solo nella mimica facciale, ma anche nella postura e nella gesticolazione dell’attore, mette in risalto ancora di più il viaggio emotivo che il personaggio sta compiendo.
Janet Planet, di Annie Baker
Annie Baker è una delle drammaturghe più influenti della storia recente del teatro americano, le sue opere sono state acclamate in tutto il Paese. La sua prima pièce Body Awareness (2008), è stata prodotta dall'Atlantic Theater Company ed è andata in scena per la prima volta nell'aprile del 2008 nell'Off Broadway. Dopo aver messo in scena i drammi Circle Mirror Transformation (2009) e The Aliens (2010), Baker ha curato un nuovo adattamento della celebre opera di Anton Čechov, Zio Vanja (2012). Ma il vero successo arriva due anni dopo, grazie a The Flick (2013), che debutta nell’Off Broadway e vince il prestigioso Premio Pulitzer per la drammaturgia. Una vittoria che spalanca le porte del successo alla Baker, che comincia a mettersi alla prova sei anni dopo, co-dirigendo insieme a Chloe Lamford la prima londinese di The Antipodes (2019). Il trionfo dello spettacolo convince la drammaturga a passare dietro la macchina da presa con il film Janet Planet (2023). La pellicola conferma un po’ tutti i punti di forza e le caratteristiche peculiari di Baker, puntando molto ad un contrasto tra dramma e commedia, ma soprattutto mettendo in risalto una certa tendenza a slegare molto il racconto, a sfilacciarlo in modo tale da dare corpo alla nostalgia. Nel raccontare le vicende dell’undicenne Lacy (una bravissima Zoe Ziegler), alle prese con le vacanze estive passate da sola insieme a sua madre Janet (Julianne Nicholson), la regista ci conduce in un universo totalmente nuovo, per molti versi un oggetto alieno in cui lo spettatore è chiamato a scoprire e sperimentare insieme alla piccola protagonista. Un’ossessione che rifugge dalla logica contemporanea, e proprio per questo Janet Planet è un film a tratti ostico, soprattutto per via del ritmo bucolico (accentuato anche attraverso inquadrature statiche e larghe) che ricorda da vicino i racconti rurali che imperversavano negli USA tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio dei '2000, ricalcandone l’intimità e l’affezione per storie di vita quotidiana i cui affreschi risultano molto intimi, riportando alla mente prodotti come Mysterious Skin (2004) o i film di Sean Baker - impossibile non pensare al rapporto tra madre e figlia visualizzato all’interno di The Florida Project (2017). Tutto questo concorre all’impianto fortemente nostalgico di un film che ha soprattutto il merito di staccarsi dall’estetica tipica della A24 per perseguirne una del tutto personale, differente dai canoni indie a cui il cinema ci ha abituato in epoca recente.
Es geht um Luis, di Lucia Chiarla
Presentato nella sezione Progressive Cinema, Es geht um Luis narra il difficile periodo che Jens (Max Riemelt) e Costanze (Natalia Rudziewicz) stanno vivendo per via di alcuni atti di bullismo perpetrati nei confronti del figlio Luis. La seconda opera di Lucia Chiarla è un dramma piuttosto perspicace che indaga il problema del bullismo con uno sguardo intimo e piuttosto originale. Infatti la cineasta italiana non mostra quasi mai il bambino all’interno del film e si concentra per lo più su come i genitori stiano affrontando la vicenda. Da questo incipit, Chiarla prende spunto per approfondire anche la tematica sociale legata alla condizione economica instabile di certi nuclei familiari. Nonostante l’amore incondizionato che i genitori provano per Luis, spesso questi risultano assenti nella vita del figlio per via dei vari impegni lavorativi. È forse questa negligenza la causa dei problemi del ragazzo? Chiarla abilmente mostra molteplici punti di vista sulla vicenda e come spesso la colpa ricada prima sui genitori, poi sulle istituzioni scolastiche e infine sulle vittime stesse. Con una durata che supera a malapena l’ora e mezza, Es geht um Luis risulta una visione intrigante che pone diversi quesiti allo spettatore su come la nostra società non sia in grado di aiutare i ragazzi per quanto riguarda i casi di bullismo. La pellicola delude leggermente nell’ultima parte, dove la tensione accumulata non porta ad un finale soddisfacente. Malgrado questo, le due interpretazioni centrali e il modo in cui la regista gestisce l’ambiguità di fondo della storia, che riflette la visione offuscata dei genitori sulla vicenda, risultano degne di nota.
NC-245
25.10.2024
La 19ª edizione della Festa del cinema di Roma, si sta avviando verso la sua conclusione. Grazie alle molteplici sezioni che lo caratterizzano e ai suoi interessanti incontri con svariati artisti della comunità cinematografica internazionale, questo evento risulta sempre un'ottima occasione per “respirare” del buon cinema e dare un’occhiata a qualche proposta tra le più stimolanti della stagione. Oggi cogliamo l’occasione per raccontarvi di alcune visioni che abbiamo recuperato durante la manifestazione.
Nickel Boys, di RaMell Ross
Quali sono le immagini e gli attimi di vita che rimangono più impressi durante l’infanzia? Potrebbero essere le foglie autunnali che cadono, oppure tua nonna che cerca di mostrarti la meraviglia dei piccoli istanti quotidiani e perché no, i primi momenti dove si iniziano a comprendere le varie problematiche che ci circondano o i fenomeni culturali associati al periodo in cui stiamo vivendo. Tutti questi segmenti racchiudono il flusso di coscienza e le memorie dell’adolescente Elwood prima di essere arrestato per un crimine non commesso. Il giovane è uno dei due protagonisti di Nickel Boys, opera seconda di RaMell Ross adattata dall’omonimo romanzo di Colson Whitehead vincitore del premio Pulitzer nel 2020. Ambientato tra il 1962 e il 1988, il film racconta la storia di Elwood e Turner, due ragazzi costretti a vivere nella Nickel Academy, nome fittizio della vera Dozier School, riformatorio che ha discriminato e brutalizzato molti ragazzi di colore. Quello che affascina ad un primo istante è l’approccio con cui Ross decide di raccontare la storia, che in qualche modo si oppone alla tipica narrazione letteraria. Infatti, tramite un romanzo, il lettore può avere una percezione "interna" dei protagonisti, si può capire cosa stiano provando, ma non si è in grado di vedere o percepire in prima persona la loro esperienza. L’operazione di Ross è proprio incentrata su questo: mostrare una forte prospettiva sui due personaggi principali, immergendo lo spettatore e costringendolo a partecipare alla loro "soggettività". Questo coinvolgimento è permesso dall’uso di un punto di vista ottico, gestito abilmente dal direttore della fotografia Jomo Fray, che intende mostrare fino in fondo non solo ciò che Elwood vede, ma anche come vive determinate esperienze tramite il punto di vista di Turner. Il linguaggio cinematografico derivato da questa tecnica risulta radicale per il modo in cui affronta l’argomento del razzismo attraverso la duplice esperienza soggettiva, portando a compiere una riflessione più approfondita sugli anni ‘60 negli Stati Uniti. Immagini di archivio intercorrono durante tutta la durata dell'opera, tra cui i vari discorsi di Martin Luther King e l’arrivo sulla Luna dell'Apollo 8, e risultano fondamentali per capire la posizione temporale di certi avvenimenti all’interno della Nickel. Infatti, Ross opta per una narrativa non lineare, allo scopo di mostrare il lungo periodo di permanenza dei protagonisti nell'istituto correttivo. I cambi temporali, invece, sono spesso messi in risalto dall’uso del time lapse o del freeze frame, che si contrappongono anche ad immagini che mostrano Elwood anni dopo l’uscita dalla Nickel. Queste sequenze seguono una direzione scopica diversa; la camera non rappresenta più lo sguardo del protagonista, è posizionata dietro al suo corpo, ritraendone solo la parte superiore, passando da una soggettiva ad una semi-soggettiva, come se questi attimi volessero celare il doloroso fardello con cui adesso Elwood deve convivere. Nickel Boys è una delle esperienze visive più imponenti dell’anno, un lungometraggio che mette in mostra l’ambizione di un giovane cineasta che decide di affrontare una serie di difficili scelte narrative per modellare l’immagine e sperimentare sulla forma cinematografica. Un film di rara bellezza che è destinato a diventare uno dei caposaldi del cinema indipendente americano nei prossimi decenni.
Milano, di Christina Vandekerckhove
Christina Vandekerckhove, dopo essersi laureata in arti audio-visive presso il KASK, grazie al suo documentario Home Video 53, ha cominciato a lavorare all’interno del cinema e della televisione come regista freelance. Dopo una serie di cortometraggi, esordisce ufficialmente con il documentario Rabot (2017), lavoro in cui riprende gli abitanti di un complesso di case popolari prossime alla demolizione. Grazie a questo film Vandekerckhove vince l'Audience Award al Ghent Film Festival, lo Scam Scenario Award al Millenium Festival di Bruxelles, l'Ensor per il miglior documentario e il Social Film Award. Proprio quest'anno la regista ha compiuto il suo debutto nel lungometraggio di finzione con Milano, passato in Concorso nella sezione Alice nella Città. Un titolo particolare, che si rifà in modo estremamente intelligente ad un canovaccio presente in molti dei titoli usciti negli ultimi anni - tra tutti, vi sono sicuramente Sound Of Metal (2019) e il vincitore dell’Oscar 2020 per il miglior film, CODA (2020).Vandekerckhove costruisce una storia di riscatto ed emancipazione, capace di capovolgere la situazione di diversità che avvolge il protagonista, alle prese con il dramma della sordità. Il risultato è un coming-of-age dai toni estremamente crudi e amari, che ricalca l’isolazionismo tipico dei film di questo genere. Proprio per questo, la regista guarda ad espedienti tecnici e poetici che ricordano i titoli citati precedentemente (soprattutto nell’annullamento frequente, in alcune situazioni, del sonoro in favore di una restituzione della sensorialità e di un’immedesimazione pressoché totale con il protagonista), scegliendo un insieme di soggettive che aumentano l’empatia e fanno vivere sulla pelle dello spettatore il disorientamento crescente del personaggio principale, aiutato solamente da una figura esterna - il suo cane, che diventa lo spirito guida per muoversi adeguatamente all’interno di un universo ostile. Una storia che affonda le radici nel sociale e che offre uno spaccato del contesto familiare belga, ripreso nelle sue contraddizioni primigenie e, soprattutto, nelle sue accezioni più “fataliste” - non è infatti un caso che Vandekerckhove si inerpichi in riprese molto “vive”, filmate da una macchina a mano che riprende il modello realista dei Dardenne. Milano risulta però un'opera sbilanciata, se da una parte trova il suo senso nel raccontare tutte le controversie della società e, soprattutto, la rabbia sottesa dei suoi protagonisti, dall'altro presenta una riflessione fin troppo duale e semplicistica sulla socialità della provincia belga, banalizzando la vicenda con accenti da revenge movie che influiscono negativamente sul risultato finale.
The Dead Don’t Hurt, di Viggo Mortensen
Viggo Mortensen è ormai uno dei nomi più noti del cinema internazionale degli ultimi venticinque anni. Dopo essere stato più volte vicino alla notorietà, grazie alle sue interpretazioni non principali in film di culto come Carlito’s Way (1993) e il bistrattato remake hitchcockiano Psycho (1998), di Gus Van Sant, l’attore newyorkese ha avuto la sua definitiva consacrazione grazie al ruolo di Aragorn nella trilogia de Il Signore Degli Anelli (2001-2003). La fama acquisita grazie alla saga di Peter Jackson ha aperto la strada a Mortensen verso molte importanti collaborazioni con grandi cineasti, da David Cronenberg - A History Of Violence (2005), Eastern Promises (2007), A Dangerous Method (2011), Crimes Of The Future (2022) - e Ed Harris - Appaloosa (2008) - fino a Lisandro Alonso - Jauja (2014), Eureka (2023) - e Hossein Amini - I due volti di Gennaio (2014). Dopo aver esordito alla regia nel 2020 con Falling, presentato al Sundance Film Festival, quest’anno è tornato alla ribalta con il suo secondo film, The Dead Don’t Hurt, presentato al TIFF nel 2023 e passato alla Festa del Cinema di Roma 2024 nella sezione Grand Public. The Dead Don’t Hurt è un western per lunghi tratti decadente e assolato, particolare per come affronta il delicato tema del posizionamento della figura femminile all’interno di un contesto prettamente maschilista. Un film che rifugge qualsiasi tipologia di categorizzazione, che sa essere anti-moderno nelle scelte estetiche - rifugiandosi più e più volte in una regia da camera che sfrutta gli interni per scombinare la cronologia del montaggio e la consequenzialità delle azioni su schermo - e moderno allo stesso tempo - in quanto fa ricorso ad una rappresentazione decisamente più “dolente” e raffinata di una protagonista (una bravissima Vicky Krieps) che si caratterizza attraverso la sua determinazione nell'affrontare le angherie di un microcosmo che non ne tollera la presenza e la centralità. La scelta di rifuggire dalle logiche di spettacolarizzazione odierne, sottacendo la tensione per la maggior parte del tempo per poi lasciarla esplodere nell’ultimo atto, si rivela estremamente appropriata, in quanto permette di alternare bene le nature classiche e moderne che co-esistono all’interno della storia facendone così una pellicola in grado di rispettare, soprattutto linguisticamente e stilisticamente, la tradizione, inglobandola però in un tessuto prettamente odierno che tiene conto, anche e soprattutto, della mutazione genetica di un genere che sembra sempre ad un passo dalla scomparsa definitiva, ma che alla fine risorge dalle sue ceneri in quanto tessuto inscalfibile della tradizione cinematografica americana.
Rabia, di Mareike Engelhardt
Mareike Engelhardt è un nome che a molti sarà sconosciuto, ma che in realtà nasconde un legame profondo con alcune entità che hanno segnato la storia della Settima Arte, anche quella attuale. La regista tedesca, infatti, ha cominciato la sua avventura nel mondo cinematografico come assistente alla regia di J'aime regarder les filles (2011) di Frederic Louf, per poi approdare subito dopo sul set di un gigante del cinema mondiale come Roman Polanski, con cui ha collaborato da seconda assistente alla regia per Carnage (2011). Un bel biglietto da visita per la regista di origine tedesca, che l'ha portata su svariati set set, tra cui La nuit a dévoré le monde (2018), particolarissimo zombie-movie francese con protagonista il caratterista Denis Lavant. Dopo vari corti e dopo aver diretto cinque episodi della serie tedesca Ollewitz (2022), Engelhardt ha ufficialmente esordito con il suo primo lungometraggio, dal titolo Rabia, presentato in anteprima al Festival du film francophone d'Angoulême e alla Festa del Cinema di Roma. Nel raccontare tra documentario e racconto finzionale la vicenda di Jessica (interpretata dalla brava Megan Northam), ragazza partita dalla Siria per unirsi al DAESH - epiteto usato per identificare lo Stato islamico - che si ritroverà faccia a faccia con una realtà molto più autoritaria di quanto pronosticato, la regista parla soprattutto di una dialettica tossica, a metà tra dominio e sottomissione, che si sviluppa tra le due protagoniste principali. Allegoria che serve soprattutto a mostrare la chiusura di alcuni sistemi orientali e, contemporaneamente, a ribadire come la strada alternativa all’occidentalismo sia fatta di dolori, sacrifici e violenza. Mareike Engelhardt dipinge l’Islam come un vero e proprio regime (ribadendolo anche attraverso le didascalie iniziali e finali del film e attraverso alcune battute pronunciate dalle varie protagoniste della storia) e usa una grammatica molto semplice, basata perlopiù su campi/controcampi e usi di campi medi, i quali si avvalgono di una fotografia molto cupa e particolare, per sviluppare la tensione che preme sul racconto e mettere in evidenza l’anima distorta del terrorismo e i continui tentativi di manipolazione che i regimi offrono nei confronti dei loro seguaci. Nonostante un’intenzione sicuramente nobile, però, Rabia non riesce mai a convincere del tutto, preferendo spostare l’attenzione sulla violenza (psicologica e fisica) che la situazione descritta porta inevitabilmente con sé e ponendo tutto il peso del racconto sull'interpretazione della bravissima Lubna Azabal, che malgrado porti sul suo viso e tramite le sue espressioni facciali tutte le cicatrici di una guerra di potere la quale crea solamente macerie e vuoto (come mostrato dalla sequenza finale), non riesce a garantire al film quel “plus” che lo faccia scostare dal semplice messaggio politico.
A Real Pain, di Jesse Eisenberg
Dopo aver diretto il suo primo lungometraggio, la deludente dramedy When You Finish Saving the World (2022), Jessie Eisenberg ritorna alla regia con A Real Pain - uno dei primi titoli presentati nel corso di Alice nella Città - un toccante racconto su due cugini che ormai hanno perso il forte legame che li univa in gioventù per via delle diverse strade intraprese. David (Eisenberg), afflitto dalla propria quotidianità e da un disturbo ossessivo compulsivo, decide di accompagnare l’eccentrico cugino Benji (Kieran Culkin) in Polonia per onorare la memoria della nonna e soprattutto per ripercorrere le proprie origini ebraiche e comprendere appieno il trauma dell’Olocausto. Quello che segue è un film dallo sviluppo piuttosto semplice, dove il viaggio assume un significato più profondo del previsto per i due protagonisti, che riusciranno a riconoscere i loro problemi e cercare aiuto reciproco. Il tutto viene raccontato con un tono altalenante che alterna classici momenti quirky tipici delle commedie indipendenti statunitensi ad istanti più drammatici, soprattutto quando cerca di approfondire la depressione di Benji. Questo mix purtroppo è la pecca principale di A Real Pain; non sempre l’umorismo funziona appieno, mentre la rappresentazione della malattia di quest’ultimo è approssimativa, poichè vengono mostrati solo gli estremi di essa. Questa scelta è probabilmente dettata dal fatto che la storia è filtrata dal punto di vista di David, ma rimane pur sempre una scelta frustrante che limita non solo il grande potenziale del personaggio, ma anche l’interpretazione di Kieran Culkin. Ci sono attimi dove si può intravedere una grande prova da parte dell'attore, che purtroppo si trova incastrato in un ruolo che sembra una copia del Roman Roy di Succession che l’ha reso così famoso. La messa in scena di Eisenberg denota ancora delle problematiche che caratterizzano certi registi esordienti, come l’uso spropositato della musica e la mancanza di gestione nei momenti di silenzio, o anche la sovraesposizione di certe motivazioni dei personaggi, come ad esempio in uno struggente monologo di David nella seconda parte del film. A Real Pain è un film che presenta lacune sotto molti punti di vista, ma risulta comunque una visione piacevole e a tratti toccante.
The Outrun, di Nora Fingscheidt
Dopo la prima presentazione ufficiale al Sundance Film Festival, seguita da una premiere europea alla Berlinale di quest’anno, The Outrun di Nora Fingscheidt ha raggiunto anche il nostro Paese, dove è stato selezionato nella sezione Alice nella Città. Il quarto lungometraggio della regista tedesca, e secondo in lingua inglese, è un adattamento basato sulle memorie di Amy Liptrot e segue le vicende di Rona (Saoirse Ronan), una donna sulla trentina con una dipendenza dall’alcol che sta cercando di rimettere insieme la propria vita e disintossicarsi. Per fare ciò, abbandona la vita urbana e caotica della capitale inglese spostandosi sulle coste scozzesi in cerca di una pace interiore. Già dalla prima sequenza si denota il tono a tratti moralistico dell’opera, dove la regista immerge lo spettatore nei fondali marini per mostrarci una foca solitaria, mettendo in risalto una delle tante allegorie piuttosto superflue sul percorso verso la sobrietà presenti nel film. A reinforzare l’approccio semplice con cui Fingscheidt affronta l’argomento della dipendenza è la struttura stessa dell'opera: le sequenze che presentano le difficoltà della protagonista vengono messe in opposizione ai momenti che mostrano i suoi periodi più bui. Questa scelta riflette in qualche modo il flusso di coscienza di Rona, che cerca di ricordare con lucidità quei momenti per trovare la forza di non ricadere nella dipendenza. I flashback appaiono però troppo sopra le righe - come se l’intento della cineasta fosse semplicemente quello di scioccare lo spettatore - e l’uso della camera a mano, che mette in risalto lo stato di ebrezza della giovane, risulta piuttosto banale. Queste problematiche penalizzano anche l’interpretazione di Saoirse Ronan, il cui drunk acting risulta stucchevole già dopo un paio di scene dimostrando come non sia facile regalare una grande interpretazione esclusivamente composta da urla isteriche e pianti - a dimostrare ciò, basti pensare all’eccellente lavoro che hanno svolto Daniel Craig in Queer (2024) o Lilith Stangenberg in Sterben (2024). D’altro canto, Ronan mostra la sua bravura nelle scene ambientate nel presente, dove con un approccio più minimalista e intimo è in grado di mostrare le difficoltà della protagonista con una certa onestà. Nonostante ciò, l’attrice irlandese non è in grado di salvare un film scontato e abbastanza retrogrado, che sembra avere l'obbiettivo di ricreare un prodotto audiovisivo tipico degli anni novanta per veicolare l’attrice protagonista verso i premi più prestigiosi dell’anno.
Flow, di Gints Zibalodis
Negli ultimi anni, Gints Zilbalodis sta presentando al pubblico di tutto il mondo il suo particolare approccio all'animazione. Il regista lettone è infatti indissolubilmente legato ad un universo cinematografico totalmente primordiale, dove la bellezza di fare cinema è connessa essenzialmente al raccontare delle storie, e dove lui stesso ricopre un ruolo da “self-made man”. Infatti, lui stesso è autore, regista, animatore, produttore, sceneggiatore e montatore delle sue opere, che si caratterizzano soprattutto per essere dei veri e propri orizzonti di sperimentazione, sia visiva che concettuale. Zilbalodis, infatti, rifiuta fortemente ogni approccio legato ad uno storyboard o ad una trama, preferendo piuttosto lavorare su semplici canovacci sui quali costruisce veri e propri mondi avulsi dalla dimensione terrena, in cui elementi fantastici e realistici si fondono per dare vita a storie d’avventura che prendono ispirazione da riferimenti extra-filmici. Questo è il caso di Flow (2024), primo lungometraggio del cineasta ad essere presentato al Festival di Cannes 2024 nella sezione Un Certain Regard. Il racconto si concentra su un gatto solitario che, dopo un’alluvione, è costretto a trovare rifugio insieme ad altri animali su una barca. Su questo spunto Zilbalodis costruisce una metafora sulla bellezza della diversità, incarnata dalla zattera/arca di Noè costruita dai protagonisti, che racchiude in sé specie diverse e, soprattutto, modi di intendere il mondo radicalmente opposti. L’animazione adoperata dal regista riporta alla mente il concetto transmediale, l’uso dell’open world e alcune poligonalità tipiche dei videogiochi targati Team ICO - su tutti vi è sicuramente The Last Guardian, anche per via della cooperazione tra specie diverse. Un contesto all’interno del quale Zilbalodis inserisce una notevole componente foto-realistica, in grado di restituire al pubblico un’estetica simil-naturale, di esaltare i colori della natura selvaggia e di riprodurre la visione dell’occhio umano grazie al dinamismo della macchina da presa, quasi sempre in avanti e alla ricerca del nuovo, dell’incontaminato e di una policromia che dà corpo al fantastico e lo sottopone allo sguardo dello spettatore, lasciandolo meravigliato e desideroso di scoprire una parte di mondo altrimenti rimasta sepolta.
Ghostlight, di Kelly O'Sullivan e Alex Thompson
Dopo la tragica scomparsa di un membro della famiglia, i Mueller non sono ancora in grado di superare l’enorme perdita e faticano ad articolare le proprie emozioni, nascondendo il dolore dietro ad una maschera. Tra questi c’è Dan (Keith Kumpferer), costruttore edile che, dopo una reazione piuttosto violenta sul posto di lavoro, verrà costretto a dimettersi. Proprio in quegli istanti sarà avvicinato da Rita (Dolly De Leon), gestrice di una comunità teatrale che lo inviterà ad unirsi alla troupe. L’incertezza dell’uomo svanirà presto, e tramite quest’esperienza inizierà ad affrontare il lutto che lo affligge e comprenderà come aiutare la moglie Sharon (Tara Mallen) e la figlia Daisy (Katherine Mallen Kumpferer). Ghostlight è una toccante storia dove il mondo del teatro assume una funzione terapeutica e gli spettacoli inscenati, più nello specifico Romeo e Giulietta, riflettono la condizione vulnerabile dei personaggi che li interpretano. Con questo approccio che mescola il palcoscenico alla vita e viceversa, Kelly O’Sullivan e Alex Thompson dirigono un’opera delicata ed autentica che trova il giusto equilibrio tra commedia e dramma, anche se la connotazione melodrammatica, in certe sequenze, stona con il resto dell’opera. Di certo, l’operazione compiuta dai due cineasti non raggiunge gli apici delle opere di Jacques Rivette e Ryusuke Hamaguchi, due grandi maestri del cinema “teatrale”, ma Ghostlight rimane comunque un film piuttosto solido e forse uno dei migliori presentati nella sezione Progressive Cinema. Il punto di forza risiede nell’interpretazione centrale di Keith Kumpferer, tra le migliori del festival, che riesce a racchiudere il dolore e il fardello emotivo che l’uomo porta con sé da tempo; l’approccio minimalista, che non si ritrova solo nella mimica facciale, ma anche nella postura e nella gesticolazione dell’attore, mette in risalto ancora di più il viaggio emotivo che il personaggio sta compiendo.
Janet Planet, di Annie Baker
Annie Baker è una delle drammaturghe più influenti della storia recente del teatro americano, le sue opere sono state acclamate in tutto il Paese. La sua prima pièce Body Awareness (2008), è stata prodotta dall'Atlantic Theater Company ed è andata in scena per la prima volta nell'aprile del 2008 nell'Off Broadway. Dopo aver messo in scena i drammi Circle Mirror Transformation (2009) e The Aliens (2010), Baker ha curato un nuovo adattamento della celebre opera di Anton Čechov, Zio Vanja (2012). Ma il vero successo arriva due anni dopo, grazie a The Flick (2013), che debutta nell’Off Broadway e vince il prestigioso Premio Pulitzer per la drammaturgia. Una vittoria che spalanca le porte del successo alla Baker, che comincia a mettersi alla prova sei anni dopo, co-dirigendo insieme a Chloe Lamford la prima londinese di The Antipodes (2019). Il trionfo dello spettacolo convince la drammaturga a passare dietro la macchina da presa con il film Janet Planet (2023). La pellicola conferma un po’ tutti i punti di forza e le caratteristiche peculiari di Baker, puntando molto ad un contrasto tra dramma e commedia, ma soprattutto mettendo in risalto una certa tendenza a slegare molto il racconto, a sfilacciarlo in modo tale da dare corpo alla nostalgia. Nel raccontare le vicende dell’undicenne Lacy (una bravissima Zoe Ziegler), alle prese con le vacanze estive passate da sola insieme a sua madre Janet (Julianne Nicholson), la regista ci conduce in un universo totalmente nuovo, per molti versi un oggetto alieno in cui lo spettatore è chiamato a scoprire e sperimentare insieme alla piccola protagonista. Un’ossessione che rifugge dalla logica contemporanea, e proprio per questo Janet Planet è un film a tratti ostico, soprattutto per via del ritmo bucolico (accentuato anche attraverso inquadrature statiche e larghe) che ricorda da vicino i racconti rurali che imperversavano negli USA tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio dei '2000, ricalcandone l’intimità e l’affezione per storie di vita quotidiana i cui affreschi risultano molto intimi, riportando alla mente prodotti come Mysterious Skin (2004) o i film di Sean Baker - impossibile non pensare al rapporto tra madre e figlia visualizzato all’interno di The Florida Project (2017). Tutto questo concorre all’impianto fortemente nostalgico di un film che ha soprattutto il merito di staccarsi dall’estetica tipica della A24 per perseguirne una del tutto personale, differente dai canoni indie a cui il cinema ci ha abituato in epoca recente.
Es geht um Luis, di Lucia Chiarla
Presentato nella sezione Progressive Cinema, Es geht um Luis narra il difficile periodo che Jens (Max Riemelt) e Costanze (Natalia Rudziewicz) stanno vivendo per via di alcuni atti di bullismo perpetrati nei confronti del figlio Luis. La seconda opera di Lucia Chiarla è un dramma piuttosto perspicace che indaga il problema del bullismo con uno sguardo intimo e piuttosto originale. Infatti la cineasta italiana non mostra quasi mai il bambino all’interno del film e si concentra per lo più su come i genitori stiano affrontando la vicenda. Da questo incipit, Chiarla prende spunto per approfondire anche la tematica sociale legata alla condizione economica instabile di certi nuclei familiari. Nonostante l’amore incondizionato che i genitori provano per Luis, spesso questi risultano assenti nella vita del figlio per via dei vari impegni lavorativi. È forse questa negligenza la causa dei problemi del ragazzo? Chiarla abilmente mostra molteplici punti di vista sulla vicenda e come spesso la colpa ricada prima sui genitori, poi sulle istituzioni scolastiche e infine sulle vittime stesse. Con una durata che supera a malapena l’ora e mezza, Es geht um Luis risulta una visione intrigante che pone diversi quesiti allo spettatore su come la nostra società non sia in grado di aiutare i ragazzi per quanto riguarda i casi di bullismo. La pellicola delude leggermente nell’ultima parte, dove la tensione accumulata non porta ad un finale soddisfacente. Malgrado questo, le due interpretazioni centrali e il modo in cui la regista gestisce l’ambiguità di fondo della storia, che riflette la visione offuscata dei genitori sulla vicenda, risultano degne di nota.