NC-71
09.11.2021
«Considero Days come un invito agli spettatori a entrare nella mia personale galleria d’arte». Con queste parole la scorsa domenica il regista Tsai Ming-liang ha presentato in videochiamata il suo ultimo film al Cinema Beltrade di Milano. «Negli ultimi cent’anni il cinema si è concentrato sulla trama» - ha proseguito l’autore Leone d’oro nel 1994 per Vive L’Amour - «io vorrei esprimere l’estetica del tempo e dell’immagine attraverso ricerche differenti». In concorso alla Berlinale del 2020 e oggi meritoriamente distribuito in Italia da Double Line, Days (Rizi) porta all’estremo l’ormai quasi trentennale poetica rarefatta e silenziosa del suo autore, ponendo in maniera sempre più radicale nella composizione pittorica delle inquadrature, nell’analisi della grande solitudine contemporanea e nella conflittuale relazione fra autenticità e rappresentazione il senso della sua riflessione artistica. Il film, realizzato in quattro anni con un budget molto ristretto, prende spunto dall’osservazione di fatti reali e dalla conoscenza del regista con i due protagonisti. «Il mio attore feticcio (Lee Kang-sheng, n.d.r.) era infermo per dei forti dolori alla schiena» - ha spiegato il regista taiwanese - «così ho iniziato a riprendere la sua riabilitazione tra massaggi e trattamenti. Poi ho incontrato l’altro ragazzo (Anong Houngheuangsy, n.d.r.) e mi sono appassionato alla sua vita di migrante dal Laos in Thailandia. Pensavo fosse interessante filmare anche lui e allora ho cercato il modo di unire le due storie».
Il risultato è un’opera ostica, composta da appena quarantasei piani in oltre due ore di girato, che indaga la natura di un cinema in cui l’immagine sovrasta la parola e il dispositivo filmico si annulla tra le pieghe di una realtà dolente, il cui peso quotidiano va sostenuto da chi la osserva nella stessa misura di chi la vive. Days è dunque un allenamento dello sguardo a cui siamo disabituati, uno sforzo della visione che mette in discussione il concetto basilare di come si può narrare una storia, attraverso quali mezzi espressivi e puntando quali obiettivi. È un film sulla sofferenza, fisica ed emotiva, ma anche sulla cura e la consolazione che si può generare dall’incontro fra due corpi emarginati, due umanità sopraffatte in grado di riconoscersi nello stesso smarrimento scambiandosi salvifici attimi di compassione.
«L’ambiente è molto importante» - ha concluso il regista, rispondendo a chi gli chiedeva se fosse possibile nascondere l’artificio del film senza cadere in una retorica pretesa di realismo - «cerco di mettere i miei attori nel loro ambiente, di farli affrontare la loro realtà, filmare scene profondamente legate alla verità dei personaggi». La casa del cinema di Tsai Ming-liang è invece in continuo spostamento, seppur sulla stessa linea di navigazione, oltre i confini definiti dal sistema industriale e dalle convenzioni del linguaggio cinematografico occidentale. La sua opera è uno sprofondo nel tempo inteso come durata, nella materia di una vita che il cinema può solo catturare come lento accadere, scorrere di attese e gesti spogliati di ogni spettacolarità. Un esperimento estremo, un provocatorio elogio del silenzio in un mondo che corre e urla, e più corre e più urla più si irrigidisce, dimentico della sensibilità che ci separa dalle rocce e che Days elegge a causa, tregua e unico possibile rimedio per i nostri tormenti.
NC-71
09.11.2021
«Considero Days come un invito agli spettatori a entrare nella mia personale galleria d’arte». Con queste parole la scorsa domenica il regista Tsai Ming-liang ha presentato in videochiamata il suo ultimo film al Cinema Beltrade di Milano. «Negli ultimi cent’anni il cinema si è concentrato sulla trama» - ha proseguito l’autore Leone d’oro nel 1994 per Vive L’Amour - «io vorrei esprimere l’estetica del tempo e dell’immagine attraverso ricerche differenti». In concorso alla Berlinale del 2020 e oggi meritoriamente distribuito in Italia da Double Line, Days (Rizi) porta all’estremo l’ormai quasi trentennale poetica rarefatta e silenziosa del suo autore, ponendo in maniera sempre più radicale nella composizione pittorica delle inquadrature, nell’analisi della grande solitudine contemporanea e nella conflittuale relazione fra autenticità e rappresentazione il senso della sua riflessione artistica. Il film, realizzato in quattro anni con un budget molto ristretto, prende spunto dall’osservazione di fatti reali e dalla conoscenza del regista con i due protagonisti. «Il mio attore feticcio (Lee Kang-sheng, n.d.r.) era infermo per dei forti dolori alla schiena» - ha spiegato il regista taiwanese - «così ho iniziato a riprendere la sua riabilitazione tra massaggi e trattamenti. Poi ho incontrato l’altro ragazzo (Anong Houngheuangsy, n.d.r.) e mi sono appassionato alla sua vita di migrante dal Laos in Thailandia. Pensavo fosse interessante filmare anche lui e allora ho cercato il modo di unire le due storie».
Il risultato è un’opera ostica, composta da appena quarantasei piani in oltre due ore di girato, che indaga la natura di un cinema in cui l’immagine sovrasta la parola e il dispositivo filmico si annulla tra le pieghe di una realtà dolente, il cui peso quotidiano va sostenuto da chi la osserva nella stessa misura di chi la vive. Days è dunque un allenamento dello sguardo a cui siamo disabituati, uno sforzo della visione che mette in discussione il concetto basilare di come si può narrare una storia, attraverso quali mezzi espressivi e puntando quali obiettivi. È un film sulla sofferenza, fisica ed emotiva, ma anche sulla cura e la consolazione che si può generare dall’incontro fra due corpi emarginati, due umanità sopraffatte in grado di riconoscersi nello stesso smarrimento scambiandosi salvifici attimi di compassione.
«L’ambiente è molto importante» - ha concluso il regista, rispondendo a chi gli chiedeva se fosse possibile nascondere l’artificio del film senza cadere in una retorica pretesa di realismo - «cerco di mettere i miei attori nel loro ambiente, di farli affrontare la loro realtà, filmare scene profondamente legate alla verità dei personaggi». La casa del cinema di Tsai Ming-liang è invece in continuo spostamento, seppur sulla stessa linea di navigazione, oltre i confini definiti dal sistema industriale e dalle convenzioni del linguaggio cinematografico occidentale. La sua opera è uno sprofondo nel tempo inteso come durata, nella materia di una vita che il cinema può solo catturare come lento accadere, scorrere di attese e gesti spogliati di ogni spettacolarità. Un esperimento estremo, un provocatorio elogio del silenzio in un mondo che corre e urla, e più corre e più urla più si irrigidisce, dimentico della sensibilità che ci separa dalle rocce e che Days elegge a causa, tregua e unico possibile rimedio per i nostri tormenti.