INT-81
19.12.2024
Ambientato sull’isola del Borneo, Sauvages racconta la storia di Keria, un’undicenne che vive ai margini di un’immensa foresta tropicale. Un giorno trova un cucciolo di orangotango, rimasto solo dopo che la madre è stata uccisa dagli addetti alla deforestazione, e decide di prendersene cura. Nel frattempo, il cugino più piccolo Selaï si trasferisce momentaneamente a casa di Kéria per sfuggire al grave conflitto sorto tra la sua famiglia nomade e le compagnie di legname. I due bambini, insieme all’orango Oshi, inizieranno così un’avventura per salvare la foresta dalla distruzione dettata dalle varie industrie agroalimentari.
Sauvages è stato mostrato per la prima volta al Festival di Cannes e da allora ha girato il panorama cinematografico festivaliero mondiale, facendo tappa anche a Roma, dove ha avuto la sua première italiana in occasione della Festa del Cinema. L’opera seconda del regista svizzero è stata accolta piuttosto positivamente e candidata per il premio di miglior film d’animazione agli European Film Awards.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare da remoto Claude Barras, con il quale abbiamo potuto approfondire alcuni dei punti chiave di Sauvages, come la creazione di certi movimenti dell’animazione stop-motion e il suo, fondamentale, messaggio ambientalista.
Vorrei cominciare chiedendoti quale sia stato il punto di partenza di Sauvages.
Tutto è iniziato nel 2016 quando ho letto un articolo sulla possibile estinzione degli orangotanghi nel 2035. Riassumendo la questione con alcune cifre, agli inizi del Novecento ce n’erano circa un milione, mentre nel 2000 solo centomila. Quell’articolo riportava inoltre che nel 2016 c’erano solo trentamila esemplari di quella specie e spiegava come la deforestazione fosse un fattore importante in questa decrescita. Ho iniziato a fare ricerche sulla tematica e ho pensato di girare un film che potesse portare un po’ di consapevolezza in un pubblico più giovane. Inoltre, questa problematica riguarda anche, e inevitabilmente, l’industria agroalimentare e il consumo dell’olio di palma. Questo viene sfruttato per i biocarburanti ed ha un forte impatto sull’ambiente. Tutte queste riflessioni sono state il punto di partenza per il film.
Esiste qualche connessione più personale che ti lega a questa storia?
Sono cresciuto in un paesino di montagna con i miei nonni. Loro erano dei contadini, nati nel 1905 e 1908, e avevano una forte connessione con l’ambiente naturale e la fauna circostante. Mi hanno raccontato nel dettaglio la loro vita di quando erano più giovani facendomi comprendere quanto la natura fosse stata importante per loro. Sono sempre stato affascinato da questo legame e dalle persone che continuano a vivere in questo modo, nonostante i tempi siano cambiati.
È stata creata una campagna online per rendere le persone più consapevoli su queste importanti tematiche ambientali. Puoi dirmi qualcosa in più a riguardo?
Abbiamo creato questo sito (sauvage-lefilm.com) con cinque organizzazioni allo scopo di informare la gente sull’impatto naturale della produzione dell’olio di palma, la sua massiccia produzione sta danneggiando gravemente l’ambiente circostante. Siccome si può produrre facilmente e in grandi quantità, le industrie agroalimentari abbattono molte foreste per costruire le piantagioni. È una grossa problematica per l’ambiente e per le persone che vivono in queste foreste. I contadini europei sono svantaggiati allo stesso modo poiché non sono in grado di competere con le industrie e i loro metodi. Stiamo conducendo questa campagna con diverse associazioni, sia ambientaliste che per la proiezione degli orangotango, oltre ad alcune tribù indigene del Borneo. Sul sito si possono trovare diversi documenti che illustrano bene la situazione sulla deforestazione, l’intento è quello di informare il pubblico il più possibile. Con il film invece, volevo solamente introdurre certe tematiche e svilupparle senza spiegare troppo nel dettaglio. Altrimenti sarebbe stato complicato. Sauvages è per lo più incentrato sul rapporto che hanno le persone con queste foreste e spero davvero che qualcuno si unisca alla causa proprio grazie al film.
Cosa ti affascina dell’animazione stop-motion? Sei interessato a sviluppare racconti attraverso altre forme in futuro?
Questo tipo di animazione è una sorta di forma di resistenza contro la digitalizzazione di tutte le professioni. Lavorando in questo ambito, non ti trovi costretto a stare dietro allo schermo di un computer per otto ore. Inoltre, da un punto di vista cinematografico, è un’arte che coinvolge vari reparti, perché bisogna pur sempre creare una storia, lavorare con gli attori sul voice acting e, soprattutto, dedicarsi alle miniature, dare forma ai personaggi e creare i vari set. Tutto ciò spesso è sottovalutato, ma alla fine anche con l’animazione stop-motion bisogna curare le luci, la posizione della camera e altro. Comunque, rispetto ad altre forme di animazione, ha un aspetto artigianale che mi affascina e credo che continuerò a lavorare in questo ambito per molto tempo.
Entrando più nel dettaglio, quanto tempo ci vuole a creare il “movimento” nei personaggi? Per fare un’esempio, in un giorno, quanti secondi o fotogrammi del film siete riusciti a creare?
All’inizio cinquanta o sessanta fotogrammi al giorno. Ma ci siamo resi conto che con questo ritmo ci avremmo messo quattro anni a finire il film, quindi abbiamo deciso di collaborare con diversi studi e animatori per accelerare la produzione. Ogni miniatura dei personaggi principali è stata replicata dieci volte, così ogni studio poteva lavorare su diverse scene contemporaneamente.
Quale è stata la scena più difficile da animare?
Il momento in cui Keria cade nel fiume, quello in cui sta per annegare e viene salvata dalla pantera. È stato piuttosto difficile gestire i movimenti dell’acqua con quelli del pupazzetto del personaggio, anche perché la scena è piuttosto emotiva e non potevo permettermi di sbagliarla. Spesso, le sequenze che tecnicamente sembrano più difficili, tipo quelle di azione, risultano le più semplici, mentre quelle dove bisogna ricercare certe sfaccettature a livello emotivo sono le più complesse. Nonostante le varie difficoltà, quando sono andato sul set e ho visto che gli animatori avevano trovato una soluzione per quella scena, mi sono emozionato. Sono felice che alla fine tutto abbia funzionato.
Sia in Sauvages che in Ma vie de courgette (La mia vita da zucchina, 2016) esplori la tematica della famiglia scelta, mostrando come i personaggi creino una forte connessione anche senza un legame parentale.
Entrambi i miei genitori provenivano da famiglie tradizionali di campagna e le loro vite ruotavano attorno alla routine nei campi o in alpeggio. Ho ereditato la loro stessa visione del concetto di famiglia, anche se devo ammettere che durante l’adolescenza mi sono emancipato, credevo fortemente che questo stile di vita avesse un impatto “negativo” su di me. Ho lasciato quei paesaggi e mi sono trasferito in città, dove di fatto è iniziato un periodo “punk” per me. Frequentavo diversi artisti e studiavo cinema, ma dentro di me sentivo il bisogno di riavvicinarmi a quel mondo rurale che avevo precedentemente evitato. Ho cercato di costruire un certo equilibrio tra i due mondi e ho anche iniziato a domandarmi se quel concetto di “famiglia” con cui sono cresciuto fosse cambiato o no nel corso degli anni. Ora c’è una visione più moderna di quella parola. Per questo ho voluto approfondire leggermente l’argomento in Ma vie de courgette e poi più chiaramente in Sauvages. Questa visione moderna permette a una persona di vivere più liberamente e, allo stesso tempo, di condizionare il proprio futuro. Questa libertà ovviamente non sempre ha un impatto positivo e può anche portare a dei momenti di crisi.
Rimanendo sul discorso della modernità, ho apprezzato come in Sauvages tu abbia rappresentato, in maniera estremamente veritiera, il rapporto tra gli indigeni e la modernità. Dico questo perché spesso si crede che queste popolazioni non conoscano la tecnologia e che siano davvero isolate, quando solo raramente accade.
Concordo e ne ero a conoscenza, ma ho dovuto fare lo stesso delle ricerche. Però, al giorno d’oggi, viviamo nell'era della disinformazione, dove figure come Donald Trump e Elon Musk hanno sfruttato questo periodo per trarre potere, come ben sai. Comunque anche se a volte sono contro la modernità e la tecnologia, soprattutto lo stile di vita condizionato da quest’ultima, noi non possiamo vivere senza. Pensa a questa conversazione che stiamo avendo, è possibile grazie a dei computer, alla comunicazione per mail e così via. Ed è proprio grazie ad alcuni archivi trovati in rete che ho potuto fare delle ricerche sugli indigeni del Borneo. Nel 2018 sono anche andato a conoscere varie persone appartenenti a queste popolazioni e ho notato che non rifiutano l’aspetto moderno della tecnologia. Per farti un esempio, ascoltano la musica su Spotify come facciamo tutti noi e, inoltre, Internet è per loro un buon mezzo per essere consapevoli di ciò che sta accadendo nel mondo. Utilizzano dei dispositivi per comunicare e salvaguardare il loro territorio, scattando fotografie quando qualcuno cerca di fare attività illegali sul loro territorio per usarle come prove in tribunale. Con Sauvages volevo mostrare le diverse sfaccettature di queste persone per annullare i pregiudizi verso di loro.
Cosa puoi dirmi del cast che dà le voci ai vari personaggi?
Sauvages è stata una co-produzione internazionale, in quanto abbiamo creato i pupazzi in Francia, abbiamo girato in Svizzera ed infine fatto la post-production e registrato il voice acting in Belgio. Quest’ultima fase è durata circa tre settimane e dovevamo cercare di trovare l’intonazione giusta per i personaggi che rispecchiasse l’atmosfera del film. È stato un periodo piacevole dove abbiamo sperimentato, e in qualche modo giocato, con le sfaccettature dei personaggi. Per il casting mi sono affidato a Michaël Bier, che mi ha proposto dieci possibili scelte per i due giovani protagonisti. Abbiamo provato vari abbinamenti perché volevamo due voci piuttosto differenti e inoltre cercavamo la coppia che avesse più chimica e che non pensasse troppo a recitare, ma vivere e giocare con i personaggi. Per quanto riguarda Benoît Poelvoorde, siamo riusciti a stringere un accordo grazie al produttore belga e, all’inizio, gli avevo assegnato il ruolo del villain, ma poi ho pensato fosse più adatto ad interpretare il ruolo del padre di Keria. Ed infine, Laetitia Dosch. La conoscevo un pochino per il suo lavoro a teatro e nella stand-up comedy. Mi ricordo che aveva fatto questo show esilarante con un cavallo dove parlava in maniera perspicace del rapporto tra l’uomo, la natura e il mondo animale. Da lì avevo capito il suo interesse per determinate tematiche, ha accettato di collaborare ed è stato davvero piacevole lavorare con lei.
INT-81
19.12.2024
Ambientato sull’isola del Borneo, Sauvages racconta la storia di Keria, un’undicenne che vive ai margini di un’immensa foresta tropicale. Un giorno trova un cucciolo di orangotango, rimasto solo dopo che la madre è stata uccisa dagli addetti alla deforestazione, e decide di prendersene cura. Nel frattempo, il cugino più piccolo Selaï si trasferisce momentaneamente a casa di Kéria per sfuggire al grave conflitto sorto tra la sua famiglia nomade e le compagnie di legname. I due bambini, insieme all’orango Oshi, inizieranno così un’avventura per salvare la foresta dalla distruzione dettata dalle varie industrie agroalimentari.
Sauvages è stato mostrato per la prima volta al Festival di Cannes e da allora ha girato il panorama cinematografico festivaliero mondiale, facendo tappa anche a Roma, dove ha avuto la sua première italiana in occasione della Festa del Cinema. L’opera seconda del regista svizzero è stata accolta piuttosto positivamente e candidata per il premio di miglior film d’animazione agli European Film Awards.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare da remoto Claude Barras, con il quale abbiamo potuto approfondire alcuni dei punti chiave di Sauvages, come la creazione di certi movimenti dell’animazione stop-motion e il suo, fondamentale, messaggio ambientalista.
Vorrei cominciare chiedendoti quale sia stato il punto di partenza di Sauvages.
Tutto è iniziato nel 2016 quando ho letto un articolo sulla possibile estinzione degli orangotanghi nel 2035. Riassumendo la questione con alcune cifre, agli inizi del Novecento ce n’erano circa un milione, mentre nel 2000 solo centomila. Quell’articolo riportava inoltre che nel 2016 c’erano solo trentamila esemplari di quella specie e spiegava come la deforestazione fosse un fattore importante in questa decrescita. Ho iniziato a fare ricerche sulla tematica e ho pensato di girare un film che potesse portare un po’ di consapevolezza in un pubblico più giovane. Inoltre, questa problematica riguarda anche, e inevitabilmente, l’industria agroalimentare e il consumo dell’olio di palma. Questo viene sfruttato per i biocarburanti ed ha un forte impatto sull’ambiente. Tutte queste riflessioni sono state il punto di partenza per il film.
Esiste qualche connessione più personale che ti lega a questa storia?
Sono cresciuto in un paesino di montagna con i miei nonni. Loro erano dei contadini, nati nel 1905 e 1908, e avevano una forte connessione con l’ambiente naturale e la fauna circostante. Mi hanno raccontato nel dettaglio la loro vita di quando erano più giovani facendomi comprendere quanto la natura fosse stata importante per loro. Sono sempre stato affascinato da questo legame e dalle persone che continuano a vivere in questo modo, nonostante i tempi siano cambiati.
È stata creata una campagna online per rendere le persone più consapevoli su queste importanti tematiche ambientali. Puoi dirmi qualcosa in più a riguardo?
Abbiamo creato questo sito (sauvage-lefilm.com) con cinque organizzazioni allo scopo di informare la gente sull’impatto naturale della produzione dell’olio di palma, la sua massiccia produzione sta danneggiando gravemente l’ambiente circostante. Siccome si può produrre facilmente e in grandi quantità, le industrie agroalimentari abbattono molte foreste per costruire le piantagioni. È una grossa problematica per l’ambiente e per le persone che vivono in queste foreste. I contadini europei sono svantaggiati allo stesso modo poiché non sono in grado di competere con le industrie e i loro metodi. Stiamo conducendo questa campagna con diverse associazioni, sia ambientaliste che per la proiezione degli orangotango, oltre ad alcune tribù indigene del Borneo. Sul sito si possono trovare diversi documenti che illustrano bene la situazione sulla deforestazione, l’intento è quello di informare il pubblico il più possibile. Con il film invece, volevo solamente introdurre certe tematiche e svilupparle senza spiegare troppo nel dettaglio. Altrimenti sarebbe stato complicato. Sauvages è per lo più incentrato sul rapporto che hanno le persone con queste foreste e spero davvero che qualcuno si unisca alla causa proprio grazie al film.
Cosa ti affascina dell’animazione stop-motion? Sei interessato a sviluppare racconti attraverso altre forme in futuro?
Questo tipo di animazione è una sorta di forma di resistenza contro la digitalizzazione di tutte le professioni. Lavorando in questo ambito, non ti trovi costretto a stare dietro allo schermo di un computer per otto ore. Inoltre, da un punto di vista cinematografico, è un’arte che coinvolge vari reparti, perché bisogna pur sempre creare una storia, lavorare con gli attori sul voice acting e, soprattutto, dedicarsi alle miniature, dare forma ai personaggi e creare i vari set. Tutto ciò spesso è sottovalutato, ma alla fine anche con l’animazione stop-motion bisogna curare le luci, la posizione della camera e altro. Comunque, rispetto ad altre forme di animazione, ha un aspetto artigianale che mi affascina e credo che continuerò a lavorare in questo ambito per molto tempo.
Entrando più nel dettaglio, quanto tempo ci vuole a creare il “movimento” nei personaggi? Per fare un’esempio, in un giorno, quanti secondi o fotogrammi del film siete riusciti a creare?
All’inizio cinquanta o sessanta fotogrammi al giorno. Ma ci siamo resi conto che con questo ritmo ci avremmo messo quattro anni a finire il film, quindi abbiamo deciso di collaborare con diversi studi e animatori per accelerare la produzione. Ogni miniatura dei personaggi principali è stata replicata dieci volte, così ogni studio poteva lavorare su diverse scene contemporaneamente.
Quale è stata la scena più difficile da animare?
Il momento in cui Keria cade nel fiume, quello in cui sta per annegare e viene salvata dalla pantera. È stato piuttosto difficile gestire i movimenti dell’acqua con quelli del pupazzetto del personaggio, anche perché la scena è piuttosto emotiva e non potevo permettermi di sbagliarla. Spesso, le sequenze che tecnicamente sembrano più difficili, tipo quelle di azione, risultano le più semplici, mentre quelle dove bisogna ricercare certe sfaccettature a livello emotivo sono le più complesse. Nonostante le varie difficoltà, quando sono andato sul set e ho visto che gli animatori avevano trovato una soluzione per quella scena, mi sono emozionato. Sono felice che alla fine tutto abbia funzionato.
Sia in Sauvages che in Ma vie de courgette (La mia vita da zucchina, 2016) esplori la tematica della famiglia scelta, mostrando come i personaggi creino una forte connessione anche senza un legame parentale.
Entrambi i miei genitori provenivano da famiglie tradizionali di campagna e le loro vite ruotavano attorno alla routine nei campi o in alpeggio. Ho ereditato la loro stessa visione del concetto di famiglia, anche se devo ammettere che durante l’adolescenza mi sono emancipato, credevo fortemente che questo stile di vita avesse un impatto “negativo” su di me. Ho lasciato quei paesaggi e mi sono trasferito in città, dove di fatto è iniziato un periodo “punk” per me. Frequentavo diversi artisti e studiavo cinema, ma dentro di me sentivo il bisogno di riavvicinarmi a quel mondo rurale che avevo precedentemente evitato. Ho cercato di costruire un certo equilibrio tra i due mondi e ho anche iniziato a domandarmi se quel concetto di “famiglia” con cui sono cresciuto fosse cambiato o no nel corso degli anni. Ora c’è una visione più moderna di quella parola. Per questo ho voluto approfondire leggermente l’argomento in Ma vie de courgette e poi più chiaramente in Sauvages. Questa visione moderna permette a una persona di vivere più liberamente e, allo stesso tempo, di condizionare il proprio futuro. Questa libertà ovviamente non sempre ha un impatto positivo e può anche portare a dei momenti di crisi.
Rimanendo sul discorso della modernità, ho apprezzato come in Sauvages tu abbia rappresentato, in maniera estremamente veritiera, il rapporto tra gli indigeni e la modernità. Dico questo perché spesso si crede che queste popolazioni non conoscano la tecnologia e che siano davvero isolate, quando solo raramente accade.
Concordo e ne ero a conoscenza, ma ho dovuto fare lo stesso delle ricerche. Però, al giorno d’oggi, viviamo nell'era della disinformazione, dove figure come Donald Trump e Elon Musk hanno sfruttato questo periodo per trarre potere, come ben sai. Comunque anche se a volte sono contro la modernità e la tecnologia, soprattutto lo stile di vita condizionato da quest’ultima, noi non possiamo vivere senza. Pensa a questa conversazione che stiamo avendo, è possibile grazie a dei computer, alla comunicazione per mail e così via. Ed è proprio grazie ad alcuni archivi trovati in rete che ho potuto fare delle ricerche sugli indigeni del Borneo. Nel 2018 sono anche andato a conoscere varie persone appartenenti a queste popolazioni e ho notato che non rifiutano l’aspetto moderno della tecnologia. Per farti un esempio, ascoltano la musica su Spotify come facciamo tutti noi e, inoltre, Internet è per loro un buon mezzo per essere consapevoli di ciò che sta accadendo nel mondo. Utilizzano dei dispositivi per comunicare e salvaguardare il loro territorio, scattando fotografie quando qualcuno cerca di fare attività illegali sul loro territorio per usarle come prove in tribunale. Con Sauvages volevo mostrare le diverse sfaccettature di queste persone per annullare i pregiudizi verso di loro.
Cosa puoi dirmi del cast che dà le voci ai vari personaggi?
Sauvages è stata una co-produzione internazionale, in quanto abbiamo creato i pupazzi in Francia, abbiamo girato in Svizzera ed infine fatto la post-production e registrato il voice acting in Belgio. Quest’ultima fase è durata circa tre settimane e dovevamo cercare di trovare l’intonazione giusta per i personaggi che rispecchiasse l’atmosfera del film. È stato un periodo piacevole dove abbiamo sperimentato, e in qualche modo giocato, con le sfaccettature dei personaggi. Per il casting mi sono affidato a Michaël Bier, che mi ha proposto dieci possibili scelte per i due giovani protagonisti. Abbiamo provato vari abbinamenti perché volevamo due voci piuttosto differenti e inoltre cercavamo la coppia che avesse più chimica e che non pensasse troppo a recitare, ma vivere e giocare con i personaggi. Per quanto riguarda Benoît Poelvoorde, siamo riusciti a stringere un accordo grazie al produttore belga e, all’inizio, gli avevo assegnato il ruolo del villain, ma poi ho pensato fosse più adatto ad interpretare il ruolo del padre di Keria. Ed infine, Laetitia Dosch. La conoscevo un pochino per il suo lavoro a teatro e nella stand-up comedy. Mi ricordo che aveva fatto questo show esilarante con un cavallo dove parlava in maniera perspicace del rapporto tra l’uomo, la natura e il mondo animale. Da lì avevo capito il suo interesse per determinate tematiche, ha accettato di collaborare ed è stato davvero piacevole lavorare con lei.