TR-49
22.01.2022
L’uscita nelle sale del nuovo capitolo di Scream ha riportato in auge le gesta di una delle saghe più celebri del genere horror a distanza di poco più di 25 anni dalla sua fondazione e a poco più di 10 dalla sua più recente apparizione, questo nonostante nel mentre si siano rispettivamente verificate la morte di Wes Craven (regista e nume tutelare di tutti e quattro i film della saga) e l’esplosione del caso Harvey Weinstein (ingombrante produttore degli Scream con la sua Dimension Films), senza dimenticare il tentativo di riassestamento televisivo dello Scream seriale andato in onda su MTV, il quale pur avendo il suo discreto seguito non è riuscito a rilanciare con efficacia una mitologia squisitamente cinematografica.
Nulla di tutto ciò ha bloccato le intenzioni di tornare sul luogo del delitto da parte di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, duo di giovani registi precedentemente noti sotto il monicker Radio Silence (insieme a Chad Villella) che si sono presi l’onere e l’onore di mettere mano a un progetto che ha la difficile missione di dire qualcosa di nuovo e differente per poterne giustificare la realizzazione a fronte dei 4 film che lo precedono.
Dopo aver presieduto i progetti V/H/S e Southbound, interessanti nel loro integrare gli sforzi creativi di differenti autori del genere horror entro i confini dei film a episodi, i due hanno ottenuto credito grazie alla regia dell’apprezzato Ready or Not, il quale già a suo modo suonava come una candidatura al trono vacante di Craven per via della sua spiccata autoironia e commistione di toni fra il divertito e il grottesco, ad ammantare la struttura nativa di survival movie.
Quella lasciata da Wes Craven è un’eredità pesantissima non solo perché la perspicacia, la maestria nella messa in scena e l’acume satirico ma mai moralista del regista di Nightmare erano perfettamente riconoscibili nella maggior parte dei suoi film (spesso anche in quelli martoriati dalle produzioni), ma anche perché fino ad ora ogni capitolo della saga di Scream aveva autogiustificato la propria esistenza escogitando volta per volta delle ragioni sufficientemente interessanti e stimolanti per proseguire col franchise, senza mai avere la sensazione che la filiera industriale e hollywoodiana avesse sopraffatto totalmente la creatività e la sagacia dei film.
Senza scavallare su un crinale che vede il parere soggettivo del singolo spettatore preferire questo o quel film, è abbastanza pacifico notare come la tenuta media della saga di Scream sia ottima (specie se confrontata con le altre del genere horror) e che, a conti fatti, non ne esista uno che getti una cattiva luce su tutto l’apparato metacinematografico ideato in partenza da Kevin Williamson.
Proprio a partire dallo script di colui che poi sarebbe diventato ancora più celebre come lo showrunner di Dawson’s Creek, Wes Craven è stato capace di dare vita ad un'ammirabile operazione auto-riflessiva e analitica: nel 1996, il primo Scream si assumeva la responsabilità di rilanciare un genere che in quegli anni era in difficoltà perché sottoposto alla malizia di un pubblico sempre meno capace di cadere in tentazione e poco propenso a lasciarsi andare di fronte a quell’atto di fede richiesto dall’immagine orrorifica.
La storia è ambientata nella cittadina di Woodsboro e vede come protagonista Sidney Prescott (Neve Campbell), una teenager americana che si trova ad assistere ad una sequela di omicidi perpetrati dalla lama di un killer travestito di nero, dalla voce camuffata e con una maschera ispirata all’urlo di Munch (solo successivamente lo si denominerà convenzionalmente Ghostface), il quale telefona alle proprie vittime per terrorizzarle e testarne le competenze cinefile prima di accoltellarle barbaramente.
Fin dall’iconica sequenza iniziale, Scream gioca apertamente con le aspettative di chi guarda, trasgredendo alle regole dello stardom, le quali vorrebbero Drew Barrymore sana, salva e protagonista del film che stiamo per vedere, dichiarando che l’impianto ludico e citazionista sarà quello che ci aspetta per tutto il resto della pellicola.
Nell’esplicitazione di quelle che sono convenzioni del genere horror (e in particolare slasher), Scream si rende oggetto consapevole di sé stesso e del proprio funzionamento, ironico ma altrettanto macabro nel suo ricorrere teorico e spudorato al cliché e alla citazione più o meno colta, ma non perde mai di vista l’aderenza al proprio filone, lo destruttura senza per questo renderlo innocuo, o almeno non nell’immediato.
Genera una nuova tendenza, quella del teen-horror, una nuova final girl da ascrivere al lungo elenco di predecessore, Sidney Prescott, e un nuovo villain, Ghostface, il quale pur venendo poi di volta in volta impersonato da individui diversi e pur non afferendo per caratteristiche alla sfera del sovrannaturale come i vari Freddie Krueger, Jason Voorhees, Michael Myers, Pinhead, risulta non di meno iconico e inquietante.
Il successo del film garantisce l’opportunità di esplorare nuovi orizzonti metalinguistici permettendo a Craven e Williamson di salire senza freni alla giostra citazionista lungo il corso dei sequel che, come detto, inventano situazioni sempre a cavallo fra l’aderenza al canone e la contemporanea dicitura e riscrittura delle regole in corso, servendosi di personaggi che si riterrebbero più intelligenti delle loro controparti filmiche perché proprio dagli errori di queste dovrebbero imparare cosa fare o non fare su un set dell’orrore, ma che sistematicamente cadono nei medesimi errori quando arriva il momento di salvarsi la pelle.
Uscito un anno dopo, Scream 2 non può dunque che concentrarsi su cosa ci si aspetta da un sequel: come riuscire a fare meglio del precedente? A detta di Randy, personaggio che fin dal primo capitolo riveste il ruolo di vero e proprio facilitatore del congegno meta, ponte di collegamento diegetico fra il disvelamento dello scheletro del film e lo spettatore più o meno smaliziato, il seguito richiede più morte, più sangue, più elaborazione negli omicidi per poter ritenersi degno di nota.
Poste tali premesse, ciò che riesce senz’altro a Craven (e che non verrà mai meno) è la creatività nel mettere in scena gli omicidi e nel generare tensione (alcune sequenze singole sono fra gli apici dell’intera saga), però nel complesso il film appare meno fluido nel suo incedere e non totalmente a fuoco nella gestione della risoluzione del whodunit.
La riflessione teorica, in questo caso, è altrettanto sofisticatamente piccata e inaugura lo stratagemma del film nel film attraverso Stab, saga cinematografica che nasce a partire dagli avvenimenti della prima strage, e si rivolge ancora una volta al pubblico cercando di captarne e ridiscuterne vizi, preconcetti, convinzioni sullo statuto della violenza cinematografica. Facendo tutto ciò però mette anche le mani avanti, certo consapevolmente, sulle caratteristiche dei sequel che spesso tradiscono le attese, e a mo’ di profezia che si autoavvera non si rivela tanto potente quando l’originale.
Non senza qualche scossone, vedasi le nuove restrizioni in tema di violenza entrate in atto a seguito del massacro della Columbine High School e il momento abbandono di Williamson in sede di sceneggiatura, nel 2000 Scream 3 prova a chiudere i conti destinando le proprie riflessioni alla chiusura del cerchio che ci si attende da ogni capitolo finale di una trilogia.
Tornare all’inizio per scoprire un qualcosa di cui prima non si era a conoscenza: il film usa questo espediente, quello del passato che ritorna, per convincerci a partecipare nuovamente al gioco al massacro inscenato da un nuovo Ghostface decide di alzare ancora in più la posta in palio sulla propria natura metatestuale e fare ciò che Craven aveva già similmente sperimentato nel suo New Nightmare, ovvero rendere il set dentro il set (Stab 3 dentro Scream 3) il luogo del ritrovato incubo di Sidney Prescott, in un capitolo più allucinatorio ma anche più teso a incursioni umoristiche da sempre presenti ma qui più preponderanti e al mettere alla berlina causticamente il sistema produttivo hollywoodiano.
Se la risoluzione, come nel secondo capitolo, torna a non convincere del tutto e a lasciare un po’ di amaro in bocca per via di una retcon preannunciata dalle regole del gioco ma un tantino ingiusta verso la storia del primo film, Scream 3 ha dalla sua il bellissimo epilogo finale in cui Craven dà sfoggio delle sue doti di narratore tout court regalando tramite poche inquadrature e un paio di stacchi tutto il senso liberatorio sprigionato da una porta non più destinata a doversi chiudere per ripararsi dalle minacce incombenti.
Passano ben 11 anni prima che Scream 4 rimetta in moto la macchina, sempre con Craven alla regia ma col ritorno di Williamson alla sceneggiatura e l’importante aggiunta di un cast di nuove leve (Emma Roberts, Rory Culkin, Hayden Panettiere) volti a rappresentare la nuova generazione di divi da lanciare e da affiancare ai cavalli di ritorno Neve Campbell, Courteney Cox, David Arquette. Da sempre attenta all’effetto dei media sulle persone e ai dispositivi che ne regolano lo sguardo, la saga di Scream non si fa sfuggire l’occasione di trattare della nuova era entrata in vigore durante la lunga ellissi fra un film e l’altro: quella degli smartphone, dei social media, della costante presenza online e di una fama tanto effimera quanto ricercata.
Stavolta è la pratica del remake a essere posta sotto la lente dissacrante e cinica dei vari metalivelli ormai consueti ma sempre arguti nel riproporre il meccanismo di svelamento e trasgressione delle regole autoesplicitate. Che ci si creda o meno, a distanza di anni il film si rivela essere forse il capitolo più riuscito della saga dopo il primo, dimostrandosi perfettamente a fuoco nel bilanciamento del variegato cast, nell’aggiornamento dell’apparato metacritico e della mitologia del franchise, nella feroce satira della società della vanità e dell’iper-connessione, nel continuare dopo anni a divertire, stupire e mettere splendidamente in scena l’innesco e il disinnesco del terrore.
Alla luce di quanto detto per Scream 4, le attese per il nuovo Scream erano onestamente non delle più esaltanti proprio perché si faticava a scorgere quale potesse essere il rinnovato spunto di partenza per giustificare un nuovo film, specie senza poter più contare su Wes Craven. Ebbene, Bettinelli-Olpin e Gillett centrano questo primo obiettivo, dimostrando che in effetti con uno sguardo attento alle pratiche e alle tendenze in atto si può fare di Scream un format potenzialmente infinito, di volta in volta parodistico del trend in corso.
Scream (che volutamente non viene chiamato Scream 5) si inserisce allora criticamente nel filone dei requel, effettuando un’operazione di ripartenza e di riscrittura, di quelle che esaltano alcuni fan per delle ragioni ma ne allertano altri per altre, e che di conseguenza non può essere totale, pena il disconoscimento da parte della fanbase ancorata stolidamente alla mitologia e ai volti storici del franchise di cui conoscono morte e miracoli.
Un nuovo cast sembra inizialmente aver del tutto rimpiazzato il precedente (reboot), nuovi omicidi si verificano a Woodsboro, ma l’appearance di Ghostface e soprattutto i ritorni dei tre moschettieri originali (Sidney, Dewey e Gale) sono attesi e inevitabili (sequel), tanto quanto quelli di Han, Leia e Luke nella nuova trilogia di Star Wars.
L’idea appare vincente sulla carta, inquadra un costume produttivo sempre più in voga (vi è anche l’esempio dei nuovi Halloween) ed è perfettamente craveniana nel porre in modo sprezzante di fronte allo specchio l’ottusità dello spettatore tifoso, ricattabile quando asservito alle logiche del fan service, irragionevole e irascibile verso le deviazioni drastiche e le riletture quando troppo intimamente legato all’oggetto del suo affetto.
Nonostante ciò, l’impressione è che i due registi allievi si siano concentrati di più sull’elemento più evidente da replicare, ovvero quello metatestuale, mancando però il bersaglio quando si trattava di rendere il film davvero diverso e più efficace rispetto ai requel coevi, tutti insipidi nelle fondamenta perché probabilmente incerti su quale strada effettivamente percorrere, senza contare che lo smarcamento da quanto già ottimamente affermato da Scream 4 sembra inconsistente.
Un po’ come avvenuto per Scream 2 ma con meno punti a favore in quanto a gusto per la messa in scena e a solennità dei momenti clou (tranne il climax mediano, sicuramente carico emotivamente) e con alcune scelte di casting e narrative francamente rivedibili, il nuovo Scream paga dazio quando si dimostra visivamente poco potente e non all’altezza del discorso che pone in atto, quasi alzando le mani in segno di resa avvenuta in partenza.
Come ampiamente testato per tutte le altre saghe che hanno sperimentato questo rinnovo e simultaneo ritorno, un solo istante coi vecchi personaggi vale più di qualsiasi altro con i nuovi, se in questi non vengono infusi lo stesso carisma e rinnovate ambizioni, ma seguendo la linea del film si può lasciar spazio alla possibilità che tali critiche siano proprio vaneggiamenti da fan tradito.
Tuttavia, la realizzazione che l’horror esteticamente sofisticato degli Aster, Eggers e Kent di turno venga tirato in ballo senza che poi vi si riesca a contrapporre un’alternativa credibile non fa altro che decretare un loro predominio sulla scena quasi meritato per forfait e lascia l’amaro in bocca a quelli che auspicavano il ritorno di uno sguardo altrettanto fresco ma meno prosopopeico e supponente.
TR-49
22.01.2022
L’uscita nelle sale del nuovo capitolo di Scream ha riportato in auge le gesta di una delle saghe più celebri del genere horror a distanza di poco più di 25 anni dalla sua fondazione e a poco più di 10 dalla sua più recente apparizione, questo nonostante nel mentre si siano rispettivamente verificate la morte di Wes Craven (regista e nume tutelare di tutti e quattro i film della saga) e l’esplosione del caso Harvey Weinstein (ingombrante produttore degli Scream con la sua Dimension Films), senza dimenticare il tentativo di riassestamento televisivo dello Scream seriale andato in onda su MTV, il quale pur avendo il suo discreto seguito non è riuscito a rilanciare con efficacia una mitologia squisitamente cinematografica.
Nulla di tutto ciò ha bloccato le intenzioni di tornare sul luogo del delitto da parte di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, duo di giovani registi precedentemente noti sotto il monicker Radio Silence (insieme a Chad Villella) che si sono presi l’onere e l’onore di mettere mano a un progetto che ha la difficile missione di dire qualcosa di nuovo e differente per poterne giustificare la realizzazione a fronte dei 4 film che lo precedono.
Dopo aver presieduto i progetti V/H/S e Southbound, interessanti nel loro integrare gli sforzi creativi di differenti autori del genere horror entro i confini dei film a episodi, i due hanno ottenuto credito grazie alla regia dell’apprezzato Ready or Not, il quale già a suo modo suonava come una candidatura al trono vacante di Craven per via della sua spiccata autoironia e commistione di toni fra il divertito e il grottesco, ad ammantare la struttura nativa di survival movie.
Quella lasciata da Wes Craven è un’eredità pesantissima non solo perché la perspicacia, la maestria nella messa in scena e l’acume satirico ma mai moralista del regista di Nightmare erano perfettamente riconoscibili nella maggior parte dei suoi film (spesso anche in quelli martoriati dalle produzioni), ma anche perché fino ad ora ogni capitolo della saga di Scream aveva autogiustificato la propria esistenza escogitando volta per volta delle ragioni sufficientemente interessanti e stimolanti per proseguire col franchise, senza mai avere la sensazione che la filiera industriale e hollywoodiana avesse sopraffatto totalmente la creatività e la sagacia dei film.
Senza scavallare su un crinale che vede il parere soggettivo del singolo spettatore preferire questo o quel film, è abbastanza pacifico notare come la tenuta media della saga di Scream sia ottima (specie se confrontata con le altre del genere horror) e che, a conti fatti, non ne esista uno che getti una cattiva luce su tutto l’apparato metacinematografico ideato in partenza da Kevin Williamson.
Proprio a partire dallo script di colui che poi sarebbe diventato ancora più celebre come lo showrunner di Dawson’s Creek, Wes Craven è stato capace di dare vita ad un'ammirabile operazione auto-riflessiva e analitica: nel 1996, il primo Scream si assumeva la responsabilità di rilanciare un genere che in quegli anni era in difficoltà perché sottoposto alla malizia di un pubblico sempre meno capace di cadere in tentazione e poco propenso a lasciarsi andare di fronte a quell’atto di fede richiesto dall’immagine orrorifica.
La storia è ambientata nella cittadina di Woodsboro e vede come protagonista Sidney Prescott (Neve Campbell), una teenager americana che si trova ad assistere ad una sequela di omicidi perpetrati dalla lama di un killer travestito di nero, dalla voce camuffata e con una maschera ispirata all’urlo di Munch (solo successivamente lo si denominerà convenzionalmente Ghostface), il quale telefona alle proprie vittime per terrorizzarle e testarne le competenze cinefile prima di accoltellarle barbaramente.
Fin dall’iconica sequenza iniziale, Scream gioca apertamente con le aspettative di chi guarda, trasgredendo alle regole dello stardom, le quali vorrebbero Drew Barrymore sana, salva e protagonista del film che stiamo per vedere, dichiarando che l’impianto ludico e citazionista sarà quello che ci aspetta per tutto il resto della pellicola.
Nell’esplicitazione di quelle che sono convenzioni del genere horror (e in particolare slasher), Scream si rende oggetto consapevole di sé stesso e del proprio funzionamento, ironico ma altrettanto macabro nel suo ricorrere teorico e spudorato al cliché e alla citazione più o meno colta, ma non perde mai di vista l’aderenza al proprio filone, lo destruttura senza per questo renderlo innocuo, o almeno non nell’immediato.
Genera una nuova tendenza, quella del teen-horror, una nuova final girl da ascrivere al lungo elenco di predecessore, Sidney Prescott, e un nuovo villain, Ghostface, il quale pur venendo poi di volta in volta impersonato da individui diversi e pur non afferendo per caratteristiche alla sfera del sovrannaturale come i vari Freddie Krueger, Jason Voorhees, Michael Myers, Pinhead, risulta non di meno iconico e inquietante.
Il successo del film garantisce l’opportunità di esplorare nuovi orizzonti metalinguistici permettendo a Craven e Williamson di salire senza freni alla giostra citazionista lungo il corso dei sequel che, come detto, inventano situazioni sempre a cavallo fra l’aderenza al canone e la contemporanea dicitura e riscrittura delle regole in corso, servendosi di personaggi che si riterrebbero più intelligenti delle loro controparti filmiche perché proprio dagli errori di queste dovrebbero imparare cosa fare o non fare su un set dell’orrore, ma che sistematicamente cadono nei medesimi errori quando arriva il momento di salvarsi la pelle.
Uscito un anno dopo, Scream 2 non può dunque che concentrarsi su cosa ci si aspetta da un sequel: come riuscire a fare meglio del precedente? A detta di Randy, personaggio che fin dal primo capitolo riveste il ruolo di vero e proprio facilitatore del congegno meta, ponte di collegamento diegetico fra il disvelamento dello scheletro del film e lo spettatore più o meno smaliziato, il seguito richiede più morte, più sangue, più elaborazione negli omicidi per poter ritenersi degno di nota.
Poste tali premesse, ciò che riesce senz’altro a Craven (e che non verrà mai meno) è la creatività nel mettere in scena gli omicidi e nel generare tensione (alcune sequenze singole sono fra gli apici dell’intera saga), però nel complesso il film appare meno fluido nel suo incedere e non totalmente a fuoco nella gestione della risoluzione del whodunit.
La riflessione teorica, in questo caso, è altrettanto sofisticatamente piccata e inaugura lo stratagemma del film nel film attraverso Stab, saga cinematografica che nasce a partire dagli avvenimenti della prima strage, e si rivolge ancora una volta al pubblico cercando di captarne e ridiscuterne vizi, preconcetti, convinzioni sullo statuto della violenza cinematografica. Facendo tutto ciò però mette anche le mani avanti, certo consapevolmente, sulle caratteristiche dei sequel che spesso tradiscono le attese, e a mo’ di profezia che si autoavvera non si rivela tanto potente quando l’originale.
Non senza qualche scossone, vedasi le nuove restrizioni in tema di violenza entrate in atto a seguito del massacro della Columbine High School e il momento abbandono di Williamson in sede di sceneggiatura, nel 2000 Scream 3 prova a chiudere i conti destinando le proprie riflessioni alla chiusura del cerchio che ci si attende da ogni capitolo finale di una trilogia.
Tornare all’inizio per scoprire un qualcosa di cui prima non si era a conoscenza: il film usa questo espediente, quello del passato che ritorna, per convincerci a partecipare nuovamente al gioco al massacro inscenato da un nuovo Ghostface decide di alzare ancora in più la posta in palio sulla propria natura metatestuale e fare ciò che Craven aveva già similmente sperimentato nel suo New Nightmare, ovvero rendere il set dentro il set (Stab 3 dentro Scream 3) il luogo del ritrovato incubo di Sidney Prescott, in un capitolo più allucinatorio ma anche più teso a incursioni umoristiche da sempre presenti ma qui più preponderanti e al mettere alla berlina causticamente il sistema produttivo hollywoodiano.
Se la risoluzione, come nel secondo capitolo, torna a non convincere del tutto e a lasciare un po’ di amaro in bocca per via di una retcon preannunciata dalle regole del gioco ma un tantino ingiusta verso la storia del primo film, Scream 3 ha dalla sua il bellissimo epilogo finale in cui Craven dà sfoggio delle sue doti di narratore tout court regalando tramite poche inquadrature e un paio di stacchi tutto il senso liberatorio sprigionato da una porta non più destinata a doversi chiudere per ripararsi dalle minacce incombenti.
Passano ben 11 anni prima che Scream 4 rimetta in moto la macchina, sempre con Craven alla regia ma col ritorno di Williamson alla sceneggiatura e l’importante aggiunta di un cast di nuove leve (Emma Roberts, Rory Culkin, Hayden Panettiere) volti a rappresentare la nuova generazione di divi da lanciare e da affiancare ai cavalli di ritorno Neve Campbell, Courteney Cox, David Arquette. Da sempre attenta all’effetto dei media sulle persone e ai dispositivi che ne regolano lo sguardo, la saga di Scream non si fa sfuggire l’occasione di trattare della nuova era entrata in vigore durante la lunga ellissi fra un film e l’altro: quella degli smartphone, dei social media, della costante presenza online e di una fama tanto effimera quanto ricercata.
Stavolta è la pratica del remake a essere posta sotto la lente dissacrante e cinica dei vari metalivelli ormai consueti ma sempre arguti nel riproporre il meccanismo di svelamento e trasgressione delle regole autoesplicitate. Che ci si creda o meno, a distanza di anni il film si rivela essere forse il capitolo più riuscito della saga dopo il primo, dimostrandosi perfettamente a fuoco nel bilanciamento del variegato cast, nell’aggiornamento dell’apparato metacritico e della mitologia del franchise, nella feroce satira della società della vanità e dell’iper-connessione, nel continuare dopo anni a divertire, stupire e mettere splendidamente in scena l’innesco e il disinnesco del terrore.
Alla luce di quanto detto per Scream 4, le attese per il nuovo Scream erano onestamente non delle più esaltanti proprio perché si faticava a scorgere quale potesse essere il rinnovato spunto di partenza per giustificare un nuovo film, specie senza poter più contare su Wes Craven. Ebbene, Bettinelli-Olpin e Gillett centrano questo primo obiettivo, dimostrando che in effetti con uno sguardo attento alle pratiche e alle tendenze in atto si può fare di Scream un format potenzialmente infinito, di volta in volta parodistico del trend in corso.
Scream (che volutamente non viene chiamato Scream 5) si inserisce allora criticamente nel filone dei requel, effettuando un’operazione di ripartenza e di riscrittura, di quelle che esaltano alcuni fan per delle ragioni ma ne allertano altri per altre, e che di conseguenza non può essere totale, pena il disconoscimento da parte della fanbase ancorata stolidamente alla mitologia e ai volti storici del franchise di cui conoscono morte e miracoli.
Un nuovo cast sembra inizialmente aver del tutto rimpiazzato il precedente (reboot), nuovi omicidi si verificano a Woodsboro, ma l’appearance di Ghostface e soprattutto i ritorni dei tre moschettieri originali (Sidney, Dewey e Gale) sono attesi e inevitabili (sequel), tanto quanto quelli di Han, Leia e Luke nella nuova trilogia di Star Wars.
L’idea appare vincente sulla carta, inquadra un costume produttivo sempre più in voga (vi è anche l’esempio dei nuovi Halloween) ed è perfettamente craveniana nel porre in modo sprezzante di fronte allo specchio l’ottusità dello spettatore tifoso, ricattabile quando asservito alle logiche del fan service, irragionevole e irascibile verso le deviazioni drastiche e le riletture quando troppo intimamente legato all’oggetto del suo affetto.
Nonostante ciò, l’impressione è che i due registi allievi si siano concentrati di più sull’elemento più evidente da replicare, ovvero quello metatestuale, mancando però il bersaglio quando si trattava di rendere il film davvero diverso e più efficace rispetto ai requel coevi, tutti insipidi nelle fondamenta perché probabilmente incerti su quale strada effettivamente percorrere, senza contare che lo smarcamento da quanto già ottimamente affermato da Scream 4 sembra inconsistente.
Un po’ come avvenuto per Scream 2 ma con meno punti a favore in quanto a gusto per la messa in scena e a solennità dei momenti clou (tranne il climax mediano, sicuramente carico emotivamente) e con alcune scelte di casting e narrative francamente rivedibili, il nuovo Scream paga dazio quando si dimostra visivamente poco potente e non all’altezza del discorso che pone in atto, quasi alzando le mani in segno di resa avvenuta in partenza.
Come ampiamente testato per tutte le altre saghe che hanno sperimentato questo rinnovo e simultaneo ritorno, un solo istante coi vecchi personaggi vale più di qualsiasi altro con i nuovi, se in questi non vengono infusi lo stesso carisma e rinnovate ambizioni, ma seguendo la linea del film si può lasciar spazio alla possibilità che tali critiche siano proprio vaneggiamenti da fan tradito.
Tuttavia, la realizzazione che l’horror esteticamente sofisticato degli Aster, Eggers e Kent di turno venga tirato in ballo senza che poi vi si riesca a contrapporre un’alternativa credibile non fa altro che decretare un loro predominio sulla scena quasi meritato per forfait e lascia l’amaro in bocca a quelli che auspicavano il ritorno di uno sguardo altrettanto fresco ma meno prosopopeico e supponente.