Il cinema di protesta
contemporaneo di Hong Kong,
di Aureliana Bontempo
TR-53
10.03.2022
Nel sud del Regno di Mezzo, dell’Impero Celeste, o della più conosciuta Repubblica Popolare Cinese, sulle coste della provincia del Guangdong, si trova una città che vive tra il ricordo di un passato glorioso e la malinconia per il proprio presente. Il suo skyline fatto di altissimi grattacieli, complessi residenziali e lunghi ponti che collegano le diverse isole da cui è composta racconta una storia di colonizzazione inglese durata più di 160 anni che l’ha portata, sul finire dello scorso secolo, a diventare una delle capitali mondiali del sistema capitalistico.
Hong Kong, letteralmente in cantonese il “Porto Profumato” (香港), è la “città-stato” che i cinefili di tutto il mondo hanno conosciuto grazie al cinema di Wong Kar-wai o alle pellicole con protagonisti Bruce Lee e Jackie Chan.
Il cinema di questo territorio, come sostenuto dallo storico David Bordwell all’inizio degli anni 2000, è stato uno dei casi di maggior successo nella storia del cinema, secondo solo agli Stati Uniti per numero di pellicole esportate. Con esso l’industria cinematografica internazionale, in particolar modo quella statunitense, ha un debito che deve ripagare. Al cinema hongkonghese, infatti, hanno attinto per decenni alcuni dei più famosi autori come Quentin Tarantino, Martin Scorsese, Barry Jenkins e molti altri, che non solo hanno saputo accogliere le lezioni registiche di nomi come il sopracitato Wong Kar-wai o John Woo, ma li hanno soprattutto emulati, consci della quasi impossibilità da parte del pubblico di massa di cogliere quelle citazioni.
Il mercato hongkonghese, che ha conquistato i maggiori festival cinematografici occidentali all’inizio del nuovo millennio, ha innescato, tuttavia, un declino inesorabile da cui non si è più ripreso. Il suo cinema non è solo cambiato rispetto ai tratti che lo avevano reso celebre ma, come sostiene la critica Perry Lam, “è svanito per sempre".
Per comprendere a fondo le cause di questa perdita è necessario capire quello che è stato l’inizio della fine per Hong Kong: l’handover, cioè il passaggio della città, nel luglio del 1997, dalle mani inglesi a quelle cinesi. La doppia valenza semantica del termine handover racchiude una duplice visione di questo evento: da una parte, infatti, significa “passaggio di consegna”, dall’altra, invece, “ritorno”. Quest’ultimo significato rispecchia la percezione cinese del riappropriarsi, dopo più di un secolo e mezzo, di un territorio ormai profondamente diverso dalla sua madrepatria per identità, sembianze e assetto politico.
L’affermazione del regista Tsui Hark nel 1998, secondo cui“presto o tardi il cinema di Hong Kong diventerà parte del cinema cinese”, preannunciava quello che di lì a pochi anni sarebbe accaduto. Nel 2003 la cinematografia della città vede il suo ultimo splendore grazie alla celebre trilogia poliziesca Infernal Affairs (2002-2003), diretta da Andrew Lau e Alan Mak, a seguito della quale vengono firmati gli accordi CEPA (Closer Economic Partnership Arrangement) con la Cina, che sanciscono la liberalizzazione del commercio di merci e servizi, permettendo così ai film hongkonghesi di essere considerati come film cinesi senza dover superare il vaglio cinese sui film stranieri. Questo cambiamento è stato accolto positivamente dai produttori hongkonghesi che avevano sempre guardato alla Cina come un vasto mercato a cui puntare e desideravano tornare ai fasti originari del cinema di Hong Kong che, al tempo della major Shaw Brothers, tra gli anni Quaranta e Settanta, era diventato uno dei territori con il maggior numero di film distribuiti in tutto il Sud-est asiatico.
Prendono piede, così, numerose co-produzioni che alimentano l’economia della regione e diventano il mezzo primario con il quale le produzioni internazionali possono farsi avanti per entrare di petto nel mercato cinese. Purtroppo gli aspetti positivi devono lasciare subito spazio alla consapevolezza delle inevitabili conseguenze. Dapprima, infatti, si presenta la questione della censura cinese, che costringe gli autori a una “censura preventiva”, evitando così qualsiasi riferimento esplicito a tematiche politiche e morali in contraddizione con quelle siniche; poi, da una parte, viene soppiantato il cantonese (lingua ufficiale della città) facendo tornare in auge l’uso del mandarino nelle produzioni locali e, dall’altra, i produttori della città tentano di globalizzare il locale, cercando di rendere più appetibili i generi tipici del cinema hongkonghese agli occhi di un pubblico internazionale, ormai sempre più abituato a tecnologie come la CGI.
Come abbiamo detto sopra, il Porto Profumato nel 1997 passa dall’essere una potenza mondiale, centro nevralgico dell’economia dell'Estremo Oriente, a semplice Special Administrative Region, con la promessa da parte del nuovo sovrano di mantenere il suo assetto governativo e le varie “prerogative capitalistiche", edificate durante il controllo britannico, fino al 2046, anno in cui ogni diritto speciale concessogli cesserà di esistere. Questo vincolo etico, tuttavia, è venuto meno a partire dal continuo rinvio ingiustificato dell’introduzione del suffragio universale, menzionato come uno degli obiettivi primari della Basic Law, la piccola costituzione entrata in vigore nel 1997. La mancanza di questo diritto ha condotto alla cosiddetta “Rivoluzione degli Ombrelli” del 2014, che prende il nome dagli ombrelli utilizzati dai manifestanti per proteggersi dai lacrimogeni della polizia. L’Occupy Central with Love and Peace, il movimento di protesta pacifica fondato dai due professori universitari Benny Tai e Chan Kin-man e dal reverendo cristiano Chu Yiu-ming, ha portato in massa al blocco del centro urbano per circa tre mesi, in nome della democrazia attraverso elezioni politiche libere. Terminate nel dicembre di quello stesso anno, le proteste sono state una delusione per molti, portando i giovani partecipanti a convincersi di dover fare ricorso ad azioni più dure contro la polizia; così, nel giugno del 2019, dopo che ad inizio anno il governo aveva proposto il disegno di legge della Legge sull'estradizione per i latitanti criminali, dando così la possibilità alla Cina di arrestare i dissidenti politici a Hong Kong, sono scesi in piazza circa due milioni di cittadini hongkonghesi per chiedere il ritiro della proposta di legge e le dimissioni di Carrie Lam, lo Chief Executive di Hong Kong. Oltre a lunghe marce e sit-in silenziosi, le immagini che hanno fatto il giro del mondo hanno mostrato accesi scontri con la polizia antisommossa.
Proprio come avvenne con la Rivolta coreana di Gwangju (1980) o La protesta di piazza Tienanmen (1989), così anche Hong Kong ha visto il coinvolgimento di migliaia di studenti, adolescenti molto spesso non ancora maggiorenni, pronti a battersi in prima linea per diversi mesi contro la polizia pur di non perdere i propri diritti e lottare per il proprio futuro. Senza alcun leader a capo del movimento, questi ragazzi hanno dimostrato al mondo quanto fosse forte il loro sentimento di libertà e ostilità verso le ostentazioni di potere da parte della polizia, pressata a sua volta dal governo cinese.
In questo contesto il cinema, ormai sotto l’occhio del Grande Fratello Cinese in termini di censura pre-produttiva e distributiva, non è riuscito a rielaborare il presente in storie autoriali permeate dell’identità culturale di Hong Kong e non ha permesso che emergessero nuovi giovani cineasti che riportassero in alto il famoso marchio “Made in Hong Kong” che aveva caratterizzato le pellicole del secolo scorso.
L’unico filone che riesce a opporsi all’esequie del cinema hongkonghese è quello del genere documentario che vogliamo qui definire "re-documentary", in cui re intende sia il termine revolt (rivolta), sia quello di reconstruction, inteso come una ricostruzione degli eventi a partire dall’utilizzo del found footage video dei dispositivi dei partecipanti alle proteste.
Questi film, prodotti a partire dal 2014/2015, sfruttano qualsiasi mezzo di ripresa e qualsiasi momento per raccontare lo spaccato di una generazione di giovani che lottano per il proprio futuro e i propri diritti. Alcuni dei titoli in questione sono corti come Comrades (Kanas Liu, 2020), Never Rest/Unrest (Tiffany Sia, 2020), Last Night in Sham Shui Po (Andrew Lang, 2020), Tugging Diary (Yan Wai Yin, 2021), Do Not Circulate (Tiffany Sia, 2021), Night is Young (Zune Kwok, 2020), ma anche lungometraggi come Yellowing (Chan Tze-Woon, 2016), Umbrella Diaries: The First Umbrella (James Leong, 2018), We have Boots (Evans Chan, 2020), The Taste of Youth (Cheung King-Wai, 2016), Faceless (Jennifer Ngo, 2021).
La particolarità di ognuno di essi è che spesso vengono firmati da un generico “Hong Kong Documentary Filmmakers”, per proteggere l’identità dei partecipanti al progetto o del regista stesso, come nel caso di Inside the Red Brick Wall (2020) o di Revolution of Our Times (2021). Quest’ultimo è il film che più di tutti racchiude questa tendenza. Si tratta dell’ultimo film del regista Kiwi Chow, presentato a Cannes in gran segreto in un’unica proiezione - a cui noi di ODG magazine abbiamo preso parte -, nel tentativo di evitare qualsiasi interferenza cinese.
Fin dalle prime immagini, il documentario dichiara implicitamente di voler tralasciare qualsiasi ricerca artistica favorendo invece una testimonianza più giornalistica da reportage di guerra. La vera caratteristica del film è la palpabile e costante presenza fisica del regista e del suo punto di vista: Chow, infatti, umanizzando la cinepresa attraverso il costante utilizzo della camera a mano, tenta di raccontare le storie dei giovani manifestanti in una prospettiva di forte empatizzazione con questi ultimi. I protagonisti sono ragazzi in età adolescenziale, talvolta anche infantile, che, come in tanti piccoli nidi, vivono tutti insieme, accuditi dai più grandi dei vari gruppi che si fanno chiamare mamma o papà. Quasi nessuno di loro utilizza un nome vero in modo tale da proteggere la propria identità in caso che qualcuno di loro venga seviziato dalla polizia e sia costretto a fare i nomi dei compagni. Attraverso un sistema di turni e comunicazioni con gli altri partecipanti mediante gruppi Telegram, si danno il cambio tra una discesa in strada e l’altra e si comunicano la posizione della polizia per scappare in tempo. Il racconto di questa rivolta “senza volto” si traduce anche nella scelta registica di spostare lo sguardo della macchina da presa ogniqualvolta il regista ne abbia la possibilità, senza mai soffermarsi troppo su un unico partecipante per evitare di catalizzare l’attenzione dello spettatore su singoli individui e rendere compatto l’insieme di una generazione che lotta per non diventare perduta.
Di rilevanza è la vittoria di Revolution of Our Times come miglior documentario ai Golden Horse Film Festival del 2021, importanti premi cinematografici che si svolgono ogni anno a Taiwan, dove è stato accolto da grandi applausi e grida che riprendevano la frase del film “Liberate Hong Kong, Revolution of our times!”, slogan di protesta che è stato reso illegale dalla Legge sulla Sicurezza Nazionale (National Security Law), che estende il potere della polizia di Hong Kong e definisce criminali e terroristiche le azioni politiche di protesta. Gli spettatori taiwanesi, così facendo, si mostrano sempre più lontani dalla loro vicina Cina, individuando in Hong Kong un alleato al fianco del quale intraprendere un’azione unitaria contro le pretese politiche della Repubblica Popolare Cinese.
È dunque chiaro che sono ormai lontani i tempi in cui nel cinema di Hong Kong regnava uno star system di nomi importanti, protagonisti indiscussi di pellicole prettamente action, come Bruce Lee, Andy Lau, Jackie Chan, Tony Leung e così via. Oggi l’action si traduce in una presa di posizione anti-cinese evitando storie di singoli e considerando gli hongkonghesi come un’unica essenza, cuore della città.
Un interessantissimo ibrido tra fiction e documentario che riesce a inserirsi tra i suddetti re-documentary, riadattando filmati video girati durante le proteste del giugno 2019, nel tentativo di dare l’illusione di aver girato in quello stesso periodo, è il film May You Stay Forever Young (2021) di Lam Sum e Rex Ren, che è stato presentato lo scorso novembre ai The 58th Golden Horse Awards a Taipei dove ha ricevuto una nomination per Best New Director e Best Editing Awards. L’opera, che è stata bannata da Hong Kong per motivi politici ed è stata prodotta con appena 60.000 euro di budget, racconta la corsa contro il tempo per cercare di salvare Lai Ka-Yan, una ragazza di 17 anni che, dopo essere stata arrestata dalla polizia, cade in un vortice emotivo che la induce a volersi suicidare come atto di denuncia dei soprusi del governo. A cercarla per le strade di Hong Kong per impedirle di compiere tale gesto, il film presenta, con il costante utilizzo della camera a mano - nel tentativo di coinvolgere maggiormente lo spettatore -, un gruppo di ragazzi venutosi a creare sotto la spinta di un giovane di nome Nam, che la protagonista aveva conosciuto la notte prima in caserma.
Come sostenuto dalla Professoressa Gina Marchetti dell’Hong Kong University, sebbene la storia di May You Stay Forever Young abbia un arco narrativo che si conclude prima del sopraggiungere del COVID-19 e della National Security Law, il film coglie perfettamente “il senso di alienazione politica e disperazione ancora palpabile tra molti a Hong Kong”. La curva dei casi di suicidio ha infatti avuto un’impennata nella città a partire dal 2018, per poi accentuarsi in questi ultimi anni a seguito della protesta. Il senso di disperazione provato dai giovani di questo territorio, perseguitato dalle autorità e dai sostenitori del governo cinese, fanno da base narrativa per questa storia fittizia, ma estremamente radicata nella realtà locale.
L’incontro tra sceneggiatura e libertà stilistica - come in alcune sequenze di riscotruzione delle proteste -, insieme a un clima di tensione causato dalle riprese non autorizzate, concede ai non-attori del film di trasformare i personaggi per avvicinarli a loro stessi, soprattutto per quanto concerne le interazioni verbali. In questo modo, ognuno dei volti dei giovani coperti da fazzoletti e berretti neri, che venivano indossati per non farsi riconoscere e e che sono stati mostrati nei sopracitati documentari, vengono qui tolti da un anonimato visivo, con l’obiettivo di creare una maggiore empatia attraverso le potenzialità dalla fiction.
A conclusione del presente ritratto del nuovo cinema contemporaneo di Hong Kong, possiamo osservare come la Cina guardi a Hong Kong pronunciando la formula “un paese, due sistemi”. A questa il cinema di protesta della città aggiunge però un inciso metaforico, un “quasi” che evidenzia sia l’indifferenza da parte della Repubblica Popolare Cinese nei confronti della promessa fatta nel 1984, sia l’impossibilità di lasciare spazio alla definizione di “una nazione, due culture”.
In ultima analisi, ci auguriamo che il nebbioso futuro prossimo di Hong Kong continui ancora per molti altri anni a essere il soggetto primario del cinema della città. Si tratta in fondo del coraggioso tentativo da parte di quest’ultimo - come del resto hanno sempre fatto tutte le cinematografie internazionali in ogni circostanza storica difficile - di azzardare una riflessione che conduca alla consapevolezza internazionale del dramma che sta attraversando. È il grido di un piccolo angolo di mondo che è da sempre la giuntura tra mondi e culture diverse, tra antico e moderno, tra Oriente ed Occidente, incarnato dalla risposta che hanno dato i due registi di May You Stay Forever Young alla domanda “Dove vedete il futuro del cinema di Hong Kong?”: “Vivi per sempre o muori provandoci”!
NB: Al momento May You Stay Forever Young e Revolution of Our Times non sono disponibili in Italia, ma verranno presentati questo mese all’Hong Kong Film Festival in Gran Bretagna (potete trovare il programma completo del festival a questo link). Ci auguriamo che questi splendidi film vengano presto presentati anche ad altri festival italiani.
Il cinema di protesta
contemporaneo di Hong Kong,
di Aureliana Bontempo
TR-53
10.03.2022
Nel sud del Regno di Mezzo, dell’Impero Celeste, o della più conosciuta Repubblica Popolare Cinese, sulle coste della provincia del Guangdong, si trova una città che vive tra il ricordo di un passato glorioso e la malinconia per il proprio presente. Il suo skyline fatto di altissimi grattacieli, complessi residenziali e lunghi ponti che collegano le diverse isole da cui è composta racconta una storia di colonizzazione inglese durata più di 160 anni che l’ha portata, sul finire dello scorso secolo, a diventare una delle capitali mondiali del sistema capitalistico.
Hong Kong, letteralmente in cantonese il “Porto Profumato” (香港), è la “città-stato” che i cinefili di tutto il mondo hanno conosciuto grazie al cinema di Wong Kar-wai o alle pellicole con protagonisti Bruce Lee e Jackie Chan.
Il cinema di questo territorio, come sostenuto dallo storico David Bordwell all’inizio degli anni 2000, è stato uno dei casi di maggior successo nella storia del cinema, secondo solo agli Stati Uniti per numero di pellicole esportate. Con esso l’industria cinematografica internazionale, in particolar modo quella statunitense, ha un debito che deve ripagare. Al cinema hongkonghese, infatti, hanno attinto per decenni alcuni dei più famosi autori come Quentin Tarantino, Martin Scorsese, Barry Jenkins e molti altri, che non solo hanno saputo accogliere le lezioni registiche di nomi come il sopracitato Wong Kar-wai o John Woo, ma li hanno soprattutto emulati, consci della quasi impossibilità da parte del pubblico di massa di cogliere quelle citazioni.
Il mercato hongkonghese, che ha conquistato i maggiori festival cinematografici occidentali all’inizio del nuovo millennio, ha innescato, tuttavia, un declino inesorabile da cui non si è più ripreso. Il suo cinema non è solo cambiato rispetto ai tratti che lo avevano reso celebre ma, come sostiene la critica Perry Lam, “è svanito per sempre".
Per comprendere a fondo le cause di questa perdita è necessario capire quello che è stato l’inizio della fine per Hong Kong: l’handover, cioè il passaggio della città, nel luglio del 1997, dalle mani inglesi a quelle cinesi. La doppia valenza semantica del termine handover racchiude una duplice visione di questo evento: da una parte, infatti, significa “passaggio di consegna”, dall’altra, invece, “ritorno”. Quest’ultimo significato rispecchia la percezione cinese del riappropriarsi, dopo più di un secolo e mezzo, di un territorio ormai profondamente diverso dalla sua madrepatria per identità, sembianze e assetto politico.
L’affermazione del regista Tsui Hark nel 1998, secondo cui“presto o tardi il cinema di Hong Kong diventerà parte del cinema cinese”, preannunciava quello che di lì a pochi anni sarebbe accaduto. Nel 2003 la cinematografia della città vede il suo ultimo splendore grazie alla celebre trilogia poliziesca Infernal Affairs (2002-2003), diretta da Andrew Lau e Alan Mak, a seguito della quale vengono firmati gli accordi CEPA (Closer Economic Partnership Arrangement) con la Cina, che sanciscono la liberalizzazione del commercio di merci e servizi, permettendo così ai film hongkonghesi di essere considerati come film cinesi senza dover superare il vaglio cinese sui film stranieri. Questo cambiamento è stato accolto positivamente dai produttori hongkonghesi che avevano sempre guardato alla Cina come un vasto mercato a cui puntare e desideravano tornare ai fasti originari del cinema di Hong Kong che, al tempo della major Shaw Brothers, tra gli anni Quaranta e Settanta, era diventato uno dei territori con il maggior numero di film distribuiti in tutto il Sud-est asiatico.
Prendono piede, così, numerose co-produzioni che alimentano l’economia della regione e diventano il mezzo primario con il quale le produzioni internazionali possono farsi avanti per entrare di petto nel mercato cinese. Purtroppo gli aspetti positivi devono lasciare subito spazio alla consapevolezza delle inevitabili conseguenze. Dapprima, infatti, si presenta la questione della censura cinese, che costringe gli autori a una “censura preventiva”, evitando così qualsiasi riferimento esplicito a tematiche politiche e morali in contraddizione con quelle siniche; poi, da una parte, viene soppiantato il cantonese (lingua ufficiale della città) facendo tornare in auge l’uso del mandarino nelle produzioni locali e, dall’altra, i produttori della città tentano di globalizzare il locale, cercando di rendere più appetibili i generi tipici del cinema hongkonghese agli occhi di un pubblico internazionale, ormai sempre più abituato a tecnologie come la CGI.
Come abbiamo detto sopra, il Porto Profumato nel 1997 passa dall’essere una potenza mondiale, centro nevralgico dell’economia dell'Estremo Oriente, a semplice Special Administrative Region, con la promessa da parte del nuovo sovrano di mantenere il suo assetto governativo e le varie “prerogative capitalistiche", edificate durante il controllo britannico, fino al 2046, anno in cui ogni diritto speciale concessogli cesserà di esistere. Questo vincolo etico, tuttavia, è venuto meno a partire dal continuo rinvio ingiustificato dell’introduzione del suffragio universale, menzionato come uno degli obiettivi primari della Basic Law, la piccola costituzione entrata in vigore nel 1997. La mancanza di questo diritto ha condotto alla cosiddetta “Rivoluzione degli Ombrelli” del 2014, che prende il nome dagli ombrelli utilizzati dai manifestanti per proteggersi dai lacrimogeni della polizia. L’Occupy Central with Love and Peace, il movimento di protesta pacifica fondato dai due professori universitari Benny Tai e Chan Kin-man e dal reverendo cristiano Chu Yiu-ming, ha portato in massa al blocco del centro urbano per circa tre mesi, in nome della democrazia attraverso elezioni politiche libere. Terminate nel dicembre di quello stesso anno, le proteste sono state una delusione per molti, portando i giovani partecipanti a convincersi di dover fare ricorso ad azioni più dure contro la polizia; così, nel giugno del 2019, dopo che ad inizio anno il governo aveva proposto il disegno di legge della Legge sull'estradizione per i latitanti criminali, dando così la possibilità alla Cina di arrestare i dissidenti politici a Hong Kong, sono scesi in piazza circa due milioni di cittadini hongkonghesi per chiedere il ritiro della proposta di legge e le dimissioni di Carrie Lam, lo Chief Executive di Hong Kong. Oltre a lunghe marce e sit-in silenziosi, le immagini che hanno fatto il giro del mondo hanno mostrato accesi scontri con la polizia antisommossa.
Proprio come avvenne con la Rivolta coreana di Gwangju (1980) o La protesta di piazza Tienanmen (1989), così anche Hong Kong ha visto il coinvolgimento di migliaia di studenti, adolescenti molto spesso non ancora maggiorenni, pronti a battersi in prima linea per diversi mesi contro la polizia pur di non perdere i propri diritti e lottare per il proprio futuro. Senza alcun leader a capo del movimento, questi ragazzi hanno dimostrato al mondo quanto fosse forte il loro sentimento di libertà e ostilità verso le ostentazioni di potere da parte della polizia, pressata a sua volta dal governo cinese.
In questo contesto il cinema, ormai sotto l’occhio del Grande Fratello Cinese in termini di censura pre-produttiva e distributiva, non è riuscito a rielaborare il presente in storie autoriali permeate dell’identità culturale di Hong Kong e non ha permesso che emergessero nuovi giovani cineasti che riportassero in alto il famoso marchio “Made in Hong Kong” che aveva caratterizzato le pellicole del secolo scorso.
L’unico filone che riesce a opporsi all’esequie del cinema hongkonghese è quello del genere documentario che vogliamo qui definire "re-documentary", in cui re intende sia il termine revolt (rivolta), sia quello di reconstruction, inteso come una ricostruzione degli eventi a partire dall’utilizzo del found footage video dei dispositivi dei partecipanti alle proteste.
Questi film, prodotti a partire dal 2014/2015, sfruttano qualsiasi mezzo di ripresa e qualsiasi momento per raccontare lo spaccato di una generazione di giovani che lottano per il proprio futuro e i propri diritti. Alcuni dei titoli in questione sono corti come Comrades (Kanas Liu, 2020), Never Rest/Unrest (Tiffany Sia, 2020), Last Night in Sham Shui Po (Andrew Lang, 2020), Tugging Diary (Yan Wai Yin, 2021), Do Not Circulate (Tiffany Sia, 2021), Night is Young (Zune Kwok, 2020), ma anche lungometraggi come Yellowing (Chan Tze-Woon, 2016), Umbrella Diaries: The First Umbrella (James Leong, 2018), We have Boots (Evans Chan, 2020), The Taste of Youth (Cheung King-Wai, 2016), Faceless (Jennifer Ngo, 2021).
La particolarità di ognuno di essi è che spesso vengono firmati da un generico “Hong Kong Documentary Filmmakers”, per proteggere l’identità dei partecipanti al progetto o del regista stesso, come nel caso di Inside the Red Brick Wall (2020) o di Revolution of Our Times (2021). Quest’ultimo è il film che più di tutti racchiude questa tendenza. Si tratta dell’ultimo film del regista Kiwi Chow, presentato a Cannes in gran segreto in un’unica proiezione - a cui noi di ODG magazine abbiamo preso parte -, nel tentativo di evitare qualsiasi interferenza cinese.
Fin dalle prime immagini, il documentario dichiara implicitamente di voler tralasciare qualsiasi ricerca artistica favorendo invece una testimonianza più giornalistica da reportage di guerra. La vera caratteristica del film è la palpabile e costante presenza fisica del regista e del suo punto di vista: Chow, infatti, umanizzando la cinepresa attraverso il costante utilizzo della camera a mano, tenta di raccontare le storie dei giovani manifestanti in una prospettiva di forte empatizzazione con questi ultimi. I protagonisti sono ragazzi in età adolescenziale, talvolta anche infantile, che, come in tanti piccoli nidi, vivono tutti insieme, accuditi dai più grandi dei vari gruppi che si fanno chiamare mamma o papà. Quasi nessuno di loro utilizza un nome vero in modo tale da proteggere la propria identità in caso che qualcuno di loro venga seviziato dalla polizia e sia costretto a fare i nomi dei compagni. Attraverso un sistema di turni e comunicazioni con gli altri partecipanti mediante gruppi Telegram, si danno il cambio tra una discesa in strada e l’altra e si comunicano la posizione della polizia per scappare in tempo. Il racconto di questa rivolta “senza volto” si traduce anche nella scelta registica di spostare lo sguardo della macchina da presa ogniqualvolta il regista ne abbia la possibilità, senza mai soffermarsi troppo su un unico partecipante per evitare di catalizzare l’attenzione dello spettatore su singoli individui e rendere compatto l’insieme di una generazione che lotta per non diventare perduta.
Di rilevanza è la vittoria di Revolution of Our Times come miglior documentario ai Golden Horse Film Festival del 2021, importanti premi cinematografici che si svolgono ogni anno a Taiwan, dove è stato accolto da grandi applausi e grida che riprendevano la frase del film “Liberate Hong Kong, Revolution of our times!”, slogan di protesta che è stato reso illegale dalla Legge sulla Sicurezza Nazionale (National Security Law), che estende il potere della polizia di Hong Kong e definisce criminali e terroristiche le azioni politiche di protesta. Gli spettatori taiwanesi, così facendo, si mostrano sempre più lontani dalla loro vicina Cina, individuando in Hong Kong un alleato al fianco del quale intraprendere un’azione unitaria contro le pretese politiche della Repubblica Popolare Cinese.
È dunque chiaro che sono ormai lontani i tempi in cui nel cinema di Hong Kong regnava uno star system di nomi importanti, protagonisti indiscussi di pellicole prettamente action, come Bruce Lee, Andy Lau, Jackie Chan, Tony Leung e così via. Oggi l’action si traduce in una presa di posizione anti-cinese evitando storie di singoli e considerando gli hongkonghesi come un’unica essenza, cuore della città.
Un interessantissimo ibrido tra fiction e documentario che riesce a inserirsi tra i suddetti re-documentary, riadattando filmati video girati durante le proteste del giugno 2019, nel tentativo di dare l’illusione di aver girato in quello stesso periodo, è il film May You Stay Forever Young (2021) di Lam Sum e Rex Ren, che è stato presentato lo scorso novembre ai The 58th Golden Horse Awards a Taipei dove ha ricevuto una nomination per Best New Director e Best Editing Awards. L’opera, che è stata bannata da Hong Kong per motivi politici ed è stata prodotta con appena 60.000 euro di budget, racconta la corsa contro il tempo per cercare di salvare Lai Ka-Yan, una ragazza di 17 anni che, dopo essere stata arrestata dalla polizia, cade in un vortice emotivo che la induce a volersi suicidare come atto di denuncia dei soprusi del governo. A cercarla per le strade di Hong Kong per impedirle di compiere tale gesto, il film presenta, con il costante utilizzo della camera a mano - nel tentativo di coinvolgere maggiormente lo spettatore -, un gruppo di ragazzi venutosi a creare sotto la spinta di un giovane di nome Nam, che la protagonista aveva conosciuto la notte prima in caserma.
Come sostenuto dalla Professoressa Gina Marchetti dell’Hong Kong University, sebbene la storia di May You Stay Forever Young abbia un arco narrativo che si conclude prima del sopraggiungere del COVID-19 e della National Security Law, il film coglie perfettamente “il senso di alienazione politica e disperazione ancora palpabile tra molti a Hong Kong”. La curva dei casi di suicidio ha infatti avuto un’impennata nella città a partire dal 2018, per poi accentuarsi in questi ultimi anni a seguito della protesta. Il senso di disperazione provato dai giovani di questo territorio, perseguitato dalle autorità e dai sostenitori del governo cinese, fanno da base narrativa per questa storia fittizia, ma estremamente radicata nella realtà locale.
L’incontro tra sceneggiatura e libertà stilistica - come in alcune sequenze di riscotruzione delle proteste -, insieme a un clima di tensione causato dalle riprese non autorizzate, concede ai non-attori del film di trasformare i personaggi per avvicinarli a loro stessi, soprattutto per quanto concerne le interazioni verbali. In questo modo, ognuno dei volti dei giovani coperti da fazzoletti e berretti neri, che venivano indossati per non farsi riconoscere e e che sono stati mostrati nei sopracitati documentari, vengono qui tolti da un anonimato visivo, con l’obiettivo di creare una maggiore empatia attraverso le potenzialità dalla fiction.
A conclusione del presente ritratto del nuovo cinema contemporaneo di Hong Kong, possiamo osservare come la Cina guardi a Hong Kong pronunciando la formula “un paese, due sistemi”. A questa il cinema di protesta della città aggiunge però un inciso metaforico, un “quasi” che evidenzia sia l’indifferenza da parte della Repubblica Popolare Cinese nei confronti della promessa fatta nel 1984, sia l’impossibilità di lasciare spazio alla definizione di “una nazione, due culture”.
In ultima analisi, ci auguriamo che il nebbioso futuro prossimo di Hong Kong continui ancora per molti altri anni a essere il soggetto primario del cinema della città. Si tratta in fondo del coraggioso tentativo da parte di quest’ultimo - come del resto hanno sempre fatto tutte le cinematografie internazionali in ogni circostanza storica difficile - di azzardare una riflessione che conduca alla consapevolezza internazionale del dramma che sta attraversando. È il grido di un piccolo angolo di mondo che è da sempre la giuntura tra mondi e culture diverse, tra antico e moderno, tra Oriente ed Occidente, incarnato dalla risposta che hanno dato i due registi di May You Stay Forever Young alla domanda “Dove vedete il futuro del cinema di Hong Kong?”: “Vivi per sempre o muori provandoci”!
NB: Al momento May You Stay Forever Young e Revolution of Our Times non sono disponibili in Italia, ma verranno presentati questo mese all’Hong Kong Film Festival in Gran Bretagna (potete trovare il programma completo del festival a questo link). Ci auguriamo che questi splendidi film vengano presto presentati anche ad altri festival italiani.