NC-152
06.06.2023
In un pomeriggio di sole, Signe viene coinvolta in un incidente. La sua camicia, le mani, il volto sono completamenti macchiati di sangue. Il sangue non è suo, ma di una donna, una sconosciuta. La signora è entrata nel locale in un cui la ragazza lavora chiedendo aiuto, con la giugulare che zampillava sangue. È stata morsa da un grosso cane, ma questo, in qualche modo, ci sembra poco rilevante. La cosa significativa, invece, è che Signe è stata marchiata dal dolore di qualcun altro, e che per un po’ quel dolore può diventare il suo. Torna a casa a piedi con indosso gli stessi vestiti e il sangue sul viso. I passanti la guardano straniti, qualcuno le chiede se sta bene. Nei giorni parla dell’accaduto con gli amici e con il suo fidanzato, Thomas. Ma l’attenzione degli altri torna presto su di lui, che è un artista concettuale dal futuro promettente. Thomas sta per avere una sua personale in una galleria importante, il suo volto inizia a comparire sulle copertine dei magazine e i professionisti del settore si interessano più che mai al suo lavoro. Come fare dunque a riappropriarsi dell’attenzione degli altri e ricreare così quel piacere che Signe aveva consumato in segreto? Come fare a macchiarsi di nuovo di sangue, ancora e ancora, giorno per giorno?
Sick of Myself (in originale Syk pike), passato fuori concorso alla scorsa edizione di Cannes, è un racconto di raro cinismo. Il suo autore, Kristoffer Borgli, lavora tra Norvegia e Stati Uniti (vive a Los Angeles). Le sue fonti di ispirazione più chiare (e confermate dallo stesso regista) sono David Cronenberg, Ruben Östlund, Arnaud Desplechin: tutti partecipanti, con Borgli, alla stessa edizione di Cannes, nel 2022. Il film – che l’autore considera il suo vero e proprio esordio – è in verità il secondo lungometraggio di Borgli, e costituisce solo un ultimo tassello in una filmografia già costellata da tanti cortometraggi dall’umorismo malato.
I personaggi di Sick of Myself sono dei narcisisti disperati (che hanno persino il coraggio di definirsi altruisti e caritatevoli), delle persone vuote e senza la minima ambizione, se non quella di apparire. Essere famosi per 15 minuti non può bastargli. Bisogna vivere nella propria immagine, farsi notare a tutti i costi. Sempre. Borgli costruisce per la sua protagonista un destino assurdo. Le capita davanti agli occhi un articolo in cui si parla di un farmaco russo ritirato dal mercato per gli effetti degenerativi sul corpo, in particolare sulla pelle. Le foto mostrano volti sfigurati, deformati da piaghe mostruose. Signe si decide in fretta: deve avere quel farmaco.
Sick of Myself è concepito come una commedia nera, ma in cui i generi e le suggestioni si mescolano in una maniera personalissima e imprevedibile. La narrazione segue il decorso di una malattia e le sue conseguenze sul corpo di una giovane donna, ricordando altri film dell’ultimo decennio – l’horror indipendente Contracted, ad esempio. Ma qui la malattia è ambita dalla stessa protagonista, che è insieme padrona e schiava del proprio corpo. Borgli studia a fondo il bisogno patologico di attenzioni e costruisce un’analisi sull’individuo che è al contempo un’analisi sociologica: il sistema tardo capitalista è un sistema deformato e deformante, che manipola i corpi per assoggettarli a uno sterile processo di diversificazione.
L’attenzione per dei corpi mostruosi e soggetti a continue mutazioni rimanda immediatamente al cinema di Cronenberg, ma se in Crimes of the Future le mutazioni si sono fatte sotterranee e interne, Borgli ricerca invece il carattere pornografico della sofferenza. Nel suo film, così come in alcuni lavori precedenti (il cortometraggio The Eer) non è tanto il corpo nella sua totalità ad apparire alterato, ma anzitutto il volto, in quanto luogo principale di riconoscimento del sé e strumento di interfaccia col mondo. In Sick of Myself, Signe viene persino invidiata dai membri del suo gruppo di sostegno: “Mi piacerebbe soffrire della tua condizione. Così pratico! Una malattia visibile, che tutti possono vedere. Sei fortunata.”
L’esplorazione del narcisismo è uno dei moti principali del cinema di Borgli (lo stesso regista si definisce un narcisista e gli piace apparire spesso nelle sue opere). Le deformazioni fisiche che racconta sono sempre accompagnate da deformazioni del pensiero. Signe non si limita a trasformare il suo corpo grazie a un abuso farmacologico, ma spaccia i segni di questa trasformazione per una malattia dalla natura ignota. I medici non riescono a spiegarsi la sua condizione e la ragazza diventa presto unica rappresentante di una malattia personalissima, che inizia a vivere come base fondante della propria esistenza.
L’intuizione più cinica e geniale di Borgli sta nell’inserire un personaggio tanto negativo e disturbato in un contesto di pubblicità alternativa. Il volto di Signe inizia a circolare su tabloid e magazine, nelle edicole e online. Lei è ben disposta a raccontare la propria storia ai giornalisti e presto il mondo della pubblicità si interessa al suo volto. Viene ingaggiata come modella da un’agenzia specializzata nel valorizzare corpi e bellezze alternative: il volto di Signe è per loro bello perché alternativo. Borgli, in una sequenza da antologia, mette a nudo i meccanismi del mercato occidentale e della sua iconografia, sempre in bilico tra valorizzazione e feticizzazione del diverso. Le più recenti idee di inclusività a tutti i costi – nelle mani della società spettacolare – si dispiegano nelle loro connotazioni perverse.
Il concetto di inclusività si scopre come rimaneggiamento del suo contrario, ovvero il ritaglio in un’elite feroce e cinica, ma anche chic e pettinata. In una parola: esclusiva. Sempre in seno a un mondo, quello della moda, che vive di rappresentazioni ma che ormai ben accetta lo strano, il diverso – a patto che non si tratti di qualcosa di troppo strano, di troppo diverso. Essere alternativi, ma solo nella misura in cui si può essere ricondotti a un sistema mercificante e sessualizzante. Se in Triangle of Sadness di Östlund il motto “Everyone’s equal” fa da sfondo a una sfilata di corpi perfetti e sensuali, qui i valori della stranezza e della bruttezza vengono spogliati del loro carattere eversivo e piegati alle logiche del consumo spettacolare. Si è tutti diversi e quindi tutti uguali: sotto la ricerca di un’immagine difforme non si nasconde altro che un processo di opprimente omologazione.
Nell’ultima parte del film, i deliri megalomani della protagonista si fanno tanto invadenti da contaminare la stessa narrazione. Non è la prima volta che il regista norvegese sfrutta diversi piani di realtà per confondere la linearità del racconto e il suo grado di verosimiglianza. Il precedente DRIB, del 2017, era da questo punto di vista ben più complesso, presentandosi come “un film su una storia vera, basata su una bugia.” Ma in Sick of Myself il crollo delle strutture psicopatologiche è talmente violento e spiazzante da abbandonare d’improvviso lo spettatore in un mondo di solitudine e disperazione. È senz’altro un’intuizione vincente quella di raccontare una storia di malattia e cinismo con una regia tanto calorosa e raffinata.
La fotografia in 35mm ha un taglio elegante, naturalistico, che predilige i toni caldi e le luci naturali. In un’intervista, Borgli ha dichiarato: “What I aimed for was creating a beautiful film that portrayed terrible things.” Sick of Myself, come la sua protagonista, si vende per qualcosa che non è. Questo grande film contemporaneo ci sembra attraente, luminoso, divertente. Ma si tratta in definitiva di un viaggio morboso e terrificante in un luogo oscuro, piegato su se stesso e impossibilitato a riprendersi. Un luogo che chiamiamo realtà.
NC-152
06.06.2023
In un pomeriggio di sole, Signe viene coinvolta in un incidente. La sua camicia, le mani, il volto sono completamenti macchiati di sangue. Il sangue non è suo, ma di una donna, una sconosciuta. La signora è entrata nel locale in un cui la ragazza lavora chiedendo aiuto, con la giugulare che zampillava sangue. È stata morsa da un grosso cane, ma questo, in qualche modo, ci sembra poco rilevante. La cosa significativa, invece, è che Signe è stata marchiata dal dolore di qualcun altro, e che per un po’ quel dolore può diventare il suo. Torna a casa a piedi con indosso gli stessi vestiti e il sangue sul viso. I passanti la guardano straniti, qualcuno le chiede se sta bene. Nei giorni parla dell’accaduto con gli amici e con il suo fidanzato, Thomas. Ma l’attenzione degli altri torna presto su di lui, che è un artista concettuale dal futuro promettente. Thomas sta per avere una sua personale in una galleria importante, il suo volto inizia a comparire sulle copertine dei magazine e i professionisti del settore si interessano più che mai al suo lavoro. Come fare dunque a riappropriarsi dell’attenzione degli altri e ricreare così quel piacere che Signe aveva consumato in segreto? Come fare a macchiarsi di nuovo di sangue, ancora e ancora, giorno per giorno?
Sick of Myself (in originale Syk pike), passato fuori concorso alla scorsa edizione di Cannes, è un racconto di raro cinismo. Il suo autore, Kristoffer Borgli, lavora tra Norvegia e Stati Uniti (vive a Los Angeles). Le sue fonti di ispirazione più chiare (e confermate dallo stesso regista) sono David Cronenberg, Ruben Östlund, Arnaud Desplechin: tutti partecipanti, con Borgli, alla stessa edizione di Cannes, nel 2022. Il film – che l’autore considera il suo vero e proprio esordio – è in verità il secondo lungometraggio di Borgli, e costituisce solo un ultimo tassello in una filmografia già costellata da tanti cortometraggi dall’umorismo malato.
I personaggi di Sick of Myself sono dei narcisisti disperati (che hanno persino il coraggio di definirsi altruisti e caritatevoli), delle persone vuote e senza la minima ambizione, se non quella di apparire. Essere famosi per 15 minuti non può bastargli. Bisogna vivere nella propria immagine, farsi notare a tutti i costi. Sempre. Borgli costruisce per la sua protagonista un destino assurdo. Le capita davanti agli occhi un articolo in cui si parla di un farmaco russo ritirato dal mercato per gli effetti degenerativi sul corpo, in particolare sulla pelle. Le foto mostrano volti sfigurati, deformati da piaghe mostruose. Signe si decide in fretta: deve avere quel farmaco.
Sick of Myself è concepito come una commedia nera, ma in cui i generi e le suggestioni si mescolano in una maniera personalissima e imprevedibile. La narrazione segue il decorso di una malattia e le sue conseguenze sul corpo di una giovane donna, ricordando altri film dell’ultimo decennio – l’horror indipendente Contracted, ad esempio. Ma qui la malattia è ambita dalla stessa protagonista, che è insieme padrona e schiava del proprio corpo. Borgli studia a fondo il bisogno patologico di attenzioni e costruisce un’analisi sull’individuo che è al contempo un’analisi sociologica: il sistema tardo capitalista è un sistema deformato e deformante, che manipola i corpi per assoggettarli a uno sterile processo di diversificazione.
L’attenzione per dei corpi mostruosi e soggetti a continue mutazioni rimanda immediatamente al cinema di Cronenberg, ma se in Crimes of the Future le mutazioni si sono fatte sotterranee e interne, Borgli ricerca invece il carattere pornografico della sofferenza. Nel suo film, così come in alcuni lavori precedenti (il cortometraggio The Eer) non è tanto il corpo nella sua totalità ad apparire alterato, ma anzitutto il volto, in quanto luogo principale di riconoscimento del sé e strumento di interfaccia col mondo. In Sick of Myself, Signe viene persino invidiata dai membri del suo gruppo di sostegno: “Mi piacerebbe soffrire della tua condizione. Così pratico! Una malattia visibile, che tutti possono vedere. Sei fortunata.”
L’esplorazione del narcisismo è uno dei moti principali del cinema di Borgli (lo stesso regista si definisce un narcisista e gli piace apparire spesso nelle sue opere). Le deformazioni fisiche che racconta sono sempre accompagnate da deformazioni del pensiero. Signe non si limita a trasformare il suo corpo grazie a un abuso farmacologico, ma spaccia i segni di questa trasformazione per una malattia dalla natura ignota. I medici non riescono a spiegarsi la sua condizione e la ragazza diventa presto unica rappresentante di una malattia personalissima, che inizia a vivere come base fondante della propria esistenza.
L’intuizione più cinica e geniale di Borgli sta nell’inserire un personaggio tanto negativo e disturbato in un contesto di pubblicità alternativa. Il volto di Signe inizia a circolare su tabloid e magazine, nelle edicole e online. Lei è ben disposta a raccontare la propria storia ai giornalisti e presto il mondo della pubblicità si interessa al suo volto. Viene ingaggiata come modella da un’agenzia specializzata nel valorizzare corpi e bellezze alternative: il volto di Signe è per loro bello perché alternativo. Borgli, in una sequenza da antologia, mette a nudo i meccanismi del mercato occidentale e della sua iconografia, sempre in bilico tra valorizzazione e feticizzazione del diverso. Le più recenti idee di inclusività a tutti i costi – nelle mani della società spettacolare – si dispiegano nelle loro connotazioni perverse.
Il concetto di inclusività si scopre come rimaneggiamento del suo contrario, ovvero il ritaglio in un’elite feroce e cinica, ma anche chic e pettinata. In una parola: esclusiva. Sempre in seno a un mondo, quello della moda, che vive di rappresentazioni ma che ormai ben accetta lo strano, il diverso – a patto che non si tratti di qualcosa di troppo strano, di troppo diverso. Essere alternativi, ma solo nella misura in cui si può essere ricondotti a un sistema mercificante e sessualizzante. Se in Triangle of Sadness di Östlund il motto “Everyone’s equal” fa da sfondo a una sfilata di corpi perfetti e sensuali, qui i valori della stranezza e della bruttezza vengono spogliati del loro carattere eversivo e piegati alle logiche del consumo spettacolare. Si è tutti diversi e quindi tutti uguali: sotto la ricerca di un’immagine difforme non si nasconde altro che un processo di opprimente omologazione.
Nell’ultima parte del film, i deliri megalomani della protagonista si fanno tanto invadenti da contaminare la stessa narrazione. Non è la prima volta che il regista norvegese sfrutta diversi piani di realtà per confondere la linearità del racconto e il suo grado di verosimiglianza. Il precedente DRIB, del 2017, era da questo punto di vista ben più complesso, presentandosi come “un film su una storia vera, basata su una bugia.” Ma in Sick of Myself il crollo delle strutture psicopatologiche è talmente violento e spiazzante da abbandonare d’improvviso lo spettatore in un mondo di solitudine e disperazione. È senz’altro un’intuizione vincente quella di raccontare una storia di malattia e cinismo con una regia tanto calorosa e raffinata.
La fotografia in 35mm ha un taglio elegante, naturalistico, che predilige i toni caldi e le luci naturali. In un’intervista, Borgli ha dichiarato: “What I aimed for was creating a beautiful film that portrayed terrible things.” Sick of Myself, come la sua protagonista, si vende per qualcosa che non è. Questo grande film contemporaneo ci sembra attraente, luminoso, divertente. Ma si tratta in definitiva di un viaggio morboso e terrificante in un luogo oscuro, piegato su se stesso e impossibilitato a riprendersi. Un luogo che chiamiamo realtà.