Il cinema di Alain Resnais
e il ricordo come gioco combinatorio,
di Antonio Orrico
TR-107
31.07.2024
Nel finale di Mon Oncle D’Amerique (Mio zio d’America, 1980), Henri Laborit declama un monologo sull’importanza della Storia all’interno del contesto della vita, del ricordo di eventi come linea guida che ogni essere umano segue per dare corpo alla propria identità. L’uomo si forma tramite ciò che conosce e che apprende, mediante qualsiasi aspetto che la memoria permetta di immagazzinare e di utilizzare, poi, nell’esistenza. Per Alain Resnais il ricordo è dunque un evento da collettivizzare, che dismette i suoi panni di semplice essenza mnemonica per indossare, piuttosto, quelli di un’entità scherzosa, di un gioco combinatorio che permette di affrontare, con molta più leggerezza, il percorso del proprio io e di viverlo con maggiore spensieratezza rispetto al passato.
Resnais è stato uno dei più grandi cantori del vuoto esistenziale che affliggeva l’Europa dopo l’apocalisse dovuta alle due Guerre Mondiali. Un’Europa totalmente da ricomporre, la cui ricalibratura passava forzatamente attraverso il faccia a faccia con il trauma appena trascorso. Rispetto agli altri cineasti della Nouvelle Vague, che proprio in quegli anni fioriva in Francia, Resnais si è decisamente discostato. Se gli scrittori dei Cahiers guardavano soprattutto alla rottura degli ordini costituiti e alla ribellione come forma di antidoto nei confronti del passato, l’operazione del cineasta di Vannes si presentava come molto più ardita e poco consona anche ai gusti del pubblico.
Nel capolavoro Hiroshima Mon Amour (1959), primo lungometraggio di Resnais, l’elaborazione del lutto da parte di Emmanuelle Riva coincide con l’elaborazione del passato da parte dello spettatore dell’epoca, i cui fantasmi bellici erano ancora vivi. Il ricordo, dunque, è l’esplicazione dell’incolmabilità, in cui il malessere generale di coloro che vivevano la realtà dell’epoca viene manifestato attraverso l’impossibilità di un sentimento che, in altre circostanze, sarebbe stato molto meno complesso da provare.
Nelle varie opere di Resnais, il ricordo è vissuto come un elemento in grado di compenetrare l’attualità, di far sentire l’incompiutezza da parte dell’individuo stesso. Dunque, è uno dei cardini fondamentali su cui si fonderà, poi, il cinema moderno e contemporaneo, in grado di scandagliare per bene gli animi tormentati dell’uomo novecentesco. Questa non-linearità del racconto e l’astrazione melodrammatica diverranno elementi cardine perfino di un certo cinema europeo odierno, attratto dallo storytelling e da una struttura narrativa che decostruisce l’entità temporale del racconto, frammentandola - come avviene nell’opera di Manoel De Oliveira e nel cinema portoghese contemporaneo, attraverso autori come Pedro Costa, Miguel Gomes e João Canijo.
Il distacco dal classico si capitalizza anche attraverso questa novità, avvenuta in un decennio fondamentale per le sorti del cinema moderno. I prodromi della Nouvelle Vague francese, infatti, nascono anche da quell’intersezione tra verità e fiction che, inevitabilmente, si forma con l’avvento di nuovi tipi di linguaggi, i quali eliminano il classicismo e l’attualità e si occupano, piuttosto, di elaborare i grandi temi traumatici del passato.
Sicuramente, nell’ottica della poetica resnaisiana, l’atto del ricordare non ricopre solamente un ruolo fisso, ma piuttosto appare come un’entità metamorfica, in grado di cambiare la propria natura attraverso i decenni e le ere. Proprio per questo, cambiano anche gli strumenti con cui quest’ultimo è rappresentato. In Hiroshima Mon Amour e in Nuit Et Brouillard (Notte e nebbia, 1956), vera e propria dimostrazione di cosa abbia rappresentato il nazismo nell’epoca della Seconda Guerra Mondiale e su cosa sia stato l’Olocausto, il regista francese preferisce adoperare quelli che sono gli strumenti del cinema classico per trattare la materia del ricordo. L’utilizzo preponderante delle dissolvenze incrociate serve soprattutto a consentire il gioco alternato di presenza/assenza da parte di uomini il cui ruolo all’interno della società è quello di essere, contemporaneamente, testimoni della chiusura e dell’incomunicabilità del post-guerra e, dall’altro lato, di essere fantasmi, imprigionati nel passato e impossibilitati a vivere sia l’attualità che il futuro.
Un chiaro “paletto” che indica come il rapporto con il tempo, per Resnais, sia inossidabile fin dall’inizio. L’aspetto più interessante di questo connubio è, certamente, il progressivo scostamento del ruolo della quarta dimensione all’interno del racconto dei film. Je T’Aime, Je T’Aime (1968), in questo senso, è forse il primo vero turning point del regista francese. Per la prima volta Resnais pone esplicitamente la tragedia in funzione del tempo, rendendola un elemento variabile a seconda della falsificazione e della percezione dello strumento mnemonico stesso, dettato soprattutto da stacchi bruschi di montaggio, atti a creare flussi narrativi che si intrecciano tra di loro, e grazie alla presenza di elementi diegetici, quali gli specchi - già presenti e fondamentali in L'Année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, 1961) - i quali garantiscono un “formato illusionistico” dell’immagine, atto a confondere lo spettatore, che si riscopre coinvolto in prima persona a dover risolvere l’enigma che attanaglia Claude Rich. Dunque, rispetto ai suoi primi film, il ricordo è reso in funzione satirica, come fosse un gioco combinatorio, il quale diventa il primo passo di Alain Resnais verso la sperimentazione molto più aggressiva, cervellotica e divertita che attuerà soprattutto a partire dagli anni ’80 in poi.
Film come Stavisky… (1974) e La Guerre Est Finie (La guerra è finita, 1966) rappresentano ed esemplificano meglio la ricerca del primo periodo di Resnais, indubbiamente influenzato in modo molto pesante dai “fantasmi storici”, in cui la ricerca dello stile e delle combinazioni possibili sul racconto filmico vengono messe al servizio di una narrativa che si occupa, in modo accentuato, di raccontare i cambiamenti dell’epoca.
Se ne La Guerre Est Finie, la memoria è sfruttata per parlare del presente rivoluzionario e di un'umanità la cui voglia di futuro si dissolve progressivamente sotto il peso delle incertezze politico/ideologiche, anche in rapporto all'imminente rivoluzione sociale che nel 1968 si compì ovunque, Stavisky segna il canto del cigno di un’epoca e di un modo di fare cinema che si era sapientemente sviluppato in Francia. Qui Resnais apre il suo registro a possibilità d’ironie e surrealismi che catalizzano l’attenzione dello spettatore. Inoltre, il fascino del racconto sul mistero relativo al giallo e sulla struttura “wellesiana” della vicenda, portano il film ad essere, inevitabilmente, rapportato a Citizen Kane (Quarto potere, 1941), concludendo, di fatto, la sua visione nostalgica, e incanalandola sui binari dello sperimentalismo già a partire dal successivo Providence (1977).
Providence segna un cambio di corso nella poetica del regista e disvela la sua seconda anima: quella legata all’assurdo, che fonde i temi tipici della sua filmografia con un rinnovato “Lubitsch touch”, intrecciando sempre più spesso realtà e fantasia e non ragionando più in piccolo, ma in grande. La narrazione e i ricordi - ancora una volta al centro del film - cambiano il loro piano emotivo, dove Resnais non smette di guardare con aria divertita il suo cinema per parlare, per la prima volta, al presente e al futuro. Futuro che, per il regista, significa anche sperimentare non solo più sul racconto, ma anche sulla forma con cui quest’ultimo è presentato.
L’esempio di Melò (1986) e I Want To Go Home (Voglio tornare a casa, 1989) prima, e Smoking/No Smoking (1993) poi, apre l’orizzonte ad un regista mai visto prima, che mette a frutto una ricerca sulla forma che diventerà preponderante soprattutto nei suoi film a noi più vicini. Resnais porta in scena un gioco ancora più estremo, privilegia la costruzione scenica rispetto al contenuto, che diventa estremamente anti-cinematografico - si pensi alle conversazioni al tavolo in Melò, filmate tutte in piano sequenza, le quali privilegiano una regia costituita praticamente solo da interni, o anche alle movenze animate e alle intromissioni parodistiche di I Want To Go Home, che ricalcano Who Framed Roger Rabbit (Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988) di Robert Zemeckis - e concentra tutto sul paradosso della forma, sulla sperimentazione e sull’introiettamento di linguaggi liminali a quello cinematografico all’interno della materia, con un risultato davvero stupefacente.
In questo modo, attraverso la narrazione combinatoria, che pure coinvolge il tempo e che si occupa soprattutto di far percepire allo spettatore i paradossi insiti nella Settima Arte, il regista francese crea dei veri e propri film-puzzle che hanno il compito di divertire il pubblico e fargli riscoprire la meraviglia del cinema, puntando soprattutto su una commistione tra vero e trasognato che gli permette di fare perno su quello che è il nuovo oggetto della sua ricerca: il gioco e le combinazioni derivanti dalle possibilità espresse dalla narrazione. In Smoking/No Smoking (1993), speculare opera divisa in due parti, Resnais propone un gioco di specchi, in cui la combinazione, per la prima volta, non è diretta più al passato e a ciò che si è vissuto, ma a ciò che si sarebbe potuto vivere in alternativa.
Se si pensa ai tempi cinematografici odierni, in cui veri e propri universi mediali sono fondati da zero proprio sull’asse portante della narrativa parallela, si scopre il grandissimo lavoro compiuto da Resnais: anticipare il cinema interattivo degli anni 2000, costringendo il tempo bergsoniano del racconto non più ad una divisione tra linearità e non-linearità, bensì ad una narrativa binaria ben più riconducibile al linguaggio di un computer, dando ulteriormente prova della grande capacità di attualizzare i suoi temi. L’autore non si interroga più sulla storicizzazione della memoria, ma sulla sua presenza e non presenza, e, soprattutto, sulle possibilità che queste possono offrire per la creazione di storie diverse compresenti all’interno dello stesso prodotto e come questo possa influenzarne i percorsi. Un ragionamento che il regista espande poi a tutto ciò che concerne gli elementi filmici.
Così, dal ’93 in poi, con film come On Connait La Chanson (Parole, parole, parole…,1997) e Pas Sur La Bouche (Mai sulla bocca, 2003), il regista riaggiorna le combinazioni narrative, optando per una sperimentazione che coinvolge l’alternanza tra diegesi ed extra-diegesi, visibile soprattutto nel film del ’97 - tramite delle scene musicali che risultano costruite totalmente in modo artificioso ed irrealistico - attraverso la scelta dell’uso del play-back, che mostra benissimo quanto sia attuale e potente il corto circuito che si crea tra realtà e finzione all’interno della Settima Arte e quanto il cinema sia sempre meno attaccato alla verità.
Si può parlare, dunque, di una riscoperta del concetto di post-verità nella filmografia resnaisiana, che cambia la visione del cinema finora adottata e la riassembla, in modo velatamente pessimista, come una concatenazione d’eventi governati dal caos in cui è possibile solamente prendere atto della distruzione della forma mnemonica - non a caso, in Les Herbes Folles (Gli amori folli, 2009) assistiamo, tramite delle sovrimpressioni di montaggio, alla materializzazione dell’interiorità del personaggio di André Dussollier, che vedrà i propri pensieri prendere vita all’interno di uno specchietto di un auto.
L’ultimo Resnais scomoda il cinema di Max Ophüls, nel suo tentativo di creare delle rondes che estremizzano il proprio percorso, e che, nel ripetere continuamente le proprie traiettorie - soprattutto in Coeurs (Cuori, 2006), dove vi sono veri e propri pezzi di conversazione che si duplicano, recitati da personaggi diversi, e in Vous N’Avez Encore Rien Vu (2012), dove a riprodursi sono invece le immagini - si scontra con il weird, strumento utilizzato soprattutto in chiave post-moderna per banalizzare i rimpianti della nostalgia e relegare la memoria ad uno stadio completamente fantasmatico, quasi inesistente - in Pas Sur La Bouche, Resnais sceglie addirittura delle dissolvenze incrociate per regalare l’uscita di scena ai suoi attori, come fossero spettri dei tempi che furono - e ad una rappresentazione che, dal peso grave della Storia e dalla sua estrema importanza, è lentamente scivolata in un oblio eterno.
Proprio per questo motivo, nel suo film più funereo, Aimer, boire et chanter (2014), al regista francese non resta che commemorare, con notevole nostalgia (e con l’ausilio dei suoi “compagni di vita” Sabine Azéma e Hippolyte Girardot), ciò che è stato, e accettare, con tutta la serenità dovuta, il trapasso, laddove le combinazioni che animavano gli altri film arrivano qui alla loro fine e laddove il gioco combinatorio che ha sempre governato il suo cinema conosce, finalmente, il suo risultato definitivo.
Il cinema di Alain Resnais
e il ricordo come gioco combinatorio,
di Antonio Orrico
TR-107
31.07.2024
Nel finale di Mon Oncle D’Amerique (Mio zio d’America, 1980), Henri Laborit declama un monologo sull’importanza della Storia all’interno del contesto della vita, del ricordo di eventi come linea guida che ogni essere umano segue per dare corpo alla propria identità. L’uomo si forma tramite ciò che conosce e che apprende, mediante qualsiasi aspetto che la memoria permetta di immagazzinare e di utilizzare, poi, nell’esistenza. Per Alain Resnais il ricordo è dunque un evento da collettivizzare, che dismette i suoi panni di semplice essenza mnemonica per indossare, piuttosto, quelli di un’entità scherzosa, di un gioco combinatorio che permette di affrontare, con molta più leggerezza, il percorso del proprio io e di viverlo con maggiore spensieratezza rispetto al passato.
Resnais è stato uno dei più grandi cantori del vuoto esistenziale che affliggeva l’Europa dopo l’apocalisse dovuta alle due Guerre Mondiali. Un’Europa totalmente da ricomporre, la cui ricalibratura passava forzatamente attraverso il faccia a faccia con il trauma appena trascorso. Rispetto agli altri cineasti della Nouvelle Vague, che proprio in quegli anni fioriva in Francia, Resnais si è decisamente discostato. Se gli scrittori dei Cahiers guardavano soprattutto alla rottura degli ordini costituiti e alla ribellione come forma di antidoto nei confronti del passato, l’operazione del cineasta di Vannes si presentava come molto più ardita e poco consona anche ai gusti del pubblico.
Nel capolavoro Hiroshima Mon Amour (1959), primo lungometraggio di Resnais, l’elaborazione del lutto da parte di Emmanuelle Riva coincide con l’elaborazione del passato da parte dello spettatore dell’epoca, i cui fantasmi bellici erano ancora vivi. Il ricordo, dunque, è l’esplicazione dell’incolmabilità, in cui il malessere generale di coloro che vivevano la realtà dell’epoca viene manifestato attraverso l’impossibilità di un sentimento che, in altre circostanze, sarebbe stato molto meno complesso da provare.
Nelle varie opere di Resnais, il ricordo è vissuto come un elemento in grado di compenetrare l’attualità, di far sentire l’incompiutezza da parte dell’individuo stesso. Dunque, è uno dei cardini fondamentali su cui si fonderà, poi, il cinema moderno e contemporaneo, in grado di scandagliare per bene gli animi tormentati dell’uomo novecentesco. Questa non-linearità del racconto e l’astrazione melodrammatica diverranno elementi cardine perfino di un certo cinema europeo odierno, attratto dallo storytelling e da una struttura narrativa che decostruisce l’entità temporale del racconto, frammentandola - come avviene nell’opera di Manoel De Oliveira e nel cinema portoghese contemporaneo, attraverso autori come Pedro Costa, Miguel Gomes e João Canijo.
Il distacco dal classico si capitalizza anche attraverso questa novità, avvenuta in un decennio fondamentale per le sorti del cinema moderno. I prodromi della Nouvelle Vague francese, infatti, nascono anche da quell’intersezione tra verità e fiction che, inevitabilmente, si forma con l’avvento di nuovi tipi di linguaggi, i quali eliminano il classicismo e l’attualità e si occupano, piuttosto, di elaborare i grandi temi traumatici del passato.
Sicuramente, nell’ottica della poetica resnaisiana, l’atto del ricordare non ricopre solamente un ruolo fisso, ma piuttosto appare come un’entità metamorfica, in grado di cambiare la propria natura attraverso i decenni e le ere. Proprio per questo, cambiano anche gli strumenti con cui quest’ultimo è rappresentato. In Hiroshima Mon Amour e in Nuit Et Brouillard (Notte e nebbia, 1956), vera e propria dimostrazione di cosa abbia rappresentato il nazismo nell’epoca della Seconda Guerra Mondiale e su cosa sia stato l’Olocausto, il regista francese preferisce adoperare quelli che sono gli strumenti del cinema classico per trattare la materia del ricordo. L’utilizzo preponderante delle dissolvenze incrociate serve soprattutto a consentire il gioco alternato di presenza/assenza da parte di uomini il cui ruolo all’interno della società è quello di essere, contemporaneamente, testimoni della chiusura e dell’incomunicabilità del post-guerra e, dall’altro lato, di essere fantasmi, imprigionati nel passato e impossibilitati a vivere sia l’attualità che il futuro.
Un chiaro “paletto” che indica come il rapporto con il tempo, per Resnais, sia inossidabile fin dall’inizio. L’aspetto più interessante di questo connubio è, certamente, il progressivo scostamento del ruolo della quarta dimensione all’interno del racconto dei film. Je T’Aime, Je T’Aime (1968), in questo senso, è forse il primo vero turning point del regista francese. Per la prima volta Resnais pone esplicitamente la tragedia in funzione del tempo, rendendola un elemento variabile a seconda della falsificazione e della percezione dello strumento mnemonico stesso, dettato soprattutto da stacchi bruschi di montaggio, atti a creare flussi narrativi che si intrecciano tra di loro, e grazie alla presenza di elementi diegetici, quali gli specchi - già presenti e fondamentali in L'Année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, 1961) - i quali garantiscono un “formato illusionistico” dell’immagine, atto a confondere lo spettatore, che si riscopre coinvolto in prima persona a dover risolvere l’enigma che attanaglia Claude Rich. Dunque, rispetto ai suoi primi film, il ricordo è reso in funzione satirica, come fosse un gioco combinatorio, il quale diventa il primo passo di Alain Resnais verso la sperimentazione molto più aggressiva, cervellotica e divertita che attuerà soprattutto a partire dagli anni ’80 in poi.
Film come Stavisky… (1974) e La Guerre Est Finie (La guerra è finita, 1966) rappresentano ed esemplificano meglio la ricerca del primo periodo di Resnais, indubbiamente influenzato in modo molto pesante dai “fantasmi storici”, in cui la ricerca dello stile e delle combinazioni possibili sul racconto filmico vengono messe al servizio di una narrativa che si occupa, in modo accentuato, di raccontare i cambiamenti dell’epoca.
Se ne La Guerre Est Finie, la memoria è sfruttata per parlare del presente rivoluzionario e di un'umanità la cui voglia di futuro si dissolve progressivamente sotto il peso delle incertezze politico/ideologiche, anche in rapporto all'imminente rivoluzione sociale che nel 1968 si compì ovunque, Stavisky segna il canto del cigno di un’epoca e di un modo di fare cinema che si era sapientemente sviluppato in Francia. Qui Resnais apre il suo registro a possibilità d’ironie e surrealismi che catalizzano l’attenzione dello spettatore. Inoltre, il fascino del racconto sul mistero relativo al giallo e sulla struttura “wellesiana” della vicenda, portano il film ad essere, inevitabilmente, rapportato a Citizen Kane (Quarto potere, 1941), concludendo, di fatto, la sua visione nostalgica, e incanalandola sui binari dello sperimentalismo già a partire dal successivo Providence (1977).
Providence segna un cambio di corso nella poetica del regista e disvela la sua seconda anima: quella legata all’assurdo, che fonde i temi tipici della sua filmografia con un rinnovato “Lubitsch touch”, intrecciando sempre più spesso realtà e fantasia e non ragionando più in piccolo, ma in grande. La narrazione e i ricordi - ancora una volta al centro del film - cambiano il loro piano emotivo, dove Resnais non smette di guardare con aria divertita il suo cinema per parlare, per la prima volta, al presente e al futuro. Futuro che, per il regista, significa anche sperimentare non solo più sul racconto, ma anche sulla forma con cui quest’ultimo è presentato.
L’esempio di Melò (1986) e I Want To Go Home (Voglio tornare a casa, 1989) prima, e Smoking/No Smoking (1993) poi, apre l’orizzonte ad un regista mai visto prima, che mette a frutto una ricerca sulla forma che diventerà preponderante soprattutto nei suoi film a noi più vicini. Resnais porta in scena un gioco ancora più estremo, privilegia la costruzione scenica rispetto al contenuto, che diventa estremamente anti-cinematografico - si pensi alle conversazioni al tavolo in Melò, filmate tutte in piano sequenza, le quali privilegiano una regia costituita praticamente solo da interni, o anche alle movenze animate e alle intromissioni parodistiche di I Want To Go Home, che ricalcano Who Framed Roger Rabbit (Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988) di Robert Zemeckis - e concentra tutto sul paradosso della forma, sulla sperimentazione e sull’introiettamento di linguaggi liminali a quello cinematografico all’interno della materia, con un risultato davvero stupefacente.
In questo modo, attraverso la narrazione combinatoria, che pure coinvolge il tempo e che si occupa soprattutto di far percepire allo spettatore i paradossi insiti nella Settima Arte, il regista francese crea dei veri e propri film-puzzle che hanno il compito di divertire il pubblico e fargli riscoprire la meraviglia del cinema, puntando soprattutto su una commistione tra vero e trasognato che gli permette di fare perno su quello che è il nuovo oggetto della sua ricerca: il gioco e le combinazioni derivanti dalle possibilità espresse dalla narrazione. In Smoking/No Smoking (1993), speculare opera divisa in due parti, Resnais propone un gioco di specchi, in cui la combinazione, per la prima volta, non è diretta più al passato e a ciò che si è vissuto, ma a ciò che si sarebbe potuto vivere in alternativa.
Se si pensa ai tempi cinematografici odierni, in cui veri e propri universi mediali sono fondati da zero proprio sull’asse portante della narrativa parallela, si scopre il grandissimo lavoro compiuto da Resnais: anticipare il cinema interattivo degli anni 2000, costringendo il tempo bergsoniano del racconto non più ad una divisione tra linearità e non-linearità, bensì ad una narrativa binaria ben più riconducibile al linguaggio di un computer, dando ulteriormente prova della grande capacità di attualizzare i suoi temi. L’autore non si interroga più sulla storicizzazione della memoria, ma sulla sua presenza e non presenza, e, soprattutto, sulle possibilità che queste possono offrire per la creazione di storie diverse compresenti all’interno dello stesso prodotto e come questo possa influenzarne i percorsi. Un ragionamento che il regista espande poi a tutto ciò che concerne gli elementi filmici.
Così, dal ’93 in poi, con film come On Connait La Chanson (Parole, parole, parole…,1997) e Pas Sur La Bouche (Mai sulla bocca, 2003), il regista riaggiorna le combinazioni narrative, optando per una sperimentazione che coinvolge l’alternanza tra diegesi ed extra-diegesi, visibile soprattutto nel film del ’97 - tramite delle scene musicali che risultano costruite totalmente in modo artificioso ed irrealistico - attraverso la scelta dell’uso del play-back, che mostra benissimo quanto sia attuale e potente il corto circuito che si crea tra realtà e finzione all’interno della Settima Arte e quanto il cinema sia sempre meno attaccato alla verità.
Si può parlare, dunque, di una riscoperta del concetto di post-verità nella filmografia resnaisiana, che cambia la visione del cinema finora adottata e la riassembla, in modo velatamente pessimista, come una concatenazione d’eventi governati dal caos in cui è possibile solamente prendere atto della distruzione della forma mnemonica - non a caso, in Les Herbes Folles (Gli amori folli, 2009) assistiamo, tramite delle sovrimpressioni di montaggio, alla materializzazione dell’interiorità del personaggio di André Dussollier, che vedrà i propri pensieri prendere vita all’interno di uno specchietto di un auto.
L’ultimo Resnais scomoda il cinema di Max Ophüls, nel suo tentativo di creare delle rondes che estremizzano il proprio percorso, e che, nel ripetere continuamente le proprie traiettorie - soprattutto in Coeurs (Cuori, 2006), dove vi sono veri e propri pezzi di conversazione che si duplicano, recitati da personaggi diversi, e in Vous N’Avez Encore Rien Vu (2012), dove a riprodursi sono invece le immagini - si scontra con il weird, strumento utilizzato soprattutto in chiave post-moderna per banalizzare i rimpianti della nostalgia e relegare la memoria ad uno stadio completamente fantasmatico, quasi inesistente - in Pas Sur La Bouche, Resnais sceglie addirittura delle dissolvenze incrociate per regalare l’uscita di scena ai suoi attori, come fossero spettri dei tempi che furono - e ad una rappresentazione che, dal peso grave della Storia e dalla sua estrema importanza, è lentamente scivolata in un oblio eterno.
Proprio per questo motivo, nel suo film più funereo, Aimer, boire et chanter (2014), al regista francese non resta che commemorare, con notevole nostalgia (e con l’ausilio dei suoi “compagni di vita” Sabine Azéma e Hippolyte Girardot), ciò che è stato, e accettare, con tutta la serenità dovuta, il trapasso, laddove le combinazioni che animavano gli altri film arrivano qui alla loro fine e laddove il gioco combinatorio che ha sempre governato il suo cinema conosce, finalmente, il suo risultato definitivo.