TR-88
11.11.2023
Per analizzare e discutere degli enormi cambiamenti che il cinema ha attraversato in quasi 150 anni di storia, molto spesso occorre partire dal passato, da quell’indispensabile “cinema classico” che ha poi plasmato tutto ciò che è diventata la Settima Arte al giorno d’oggi. La potenza di ciò che si è alternato sullo schermo non può prescindere da una delle più grandi menti esistite “al di là” dello schermo cinematografico, ovvero Billy Wilder. Uno dei più grandi registi di sempre che ha dato prova, nel corso della sua carriera, di quanto la natura del cinema sia di per sé polimorfica, adatta a scomporsi e ricomporsi a piacimento a seconda delle storie raccontate. Una natura che, grazie alle sue stratificazioni, ha portato uno dei cineasti più importanti di tutti i tempi a mettere a soqquadro il suo Stato “d’appoggio”, ovvero gli USA. La cosa davvero interessante di Wilder è il modo in cui quest’indagine avviene.
Nel suo cinema, infatti, non c’è mai spazio per un genere di riferimento. Wilder è sempre stato uno dei profili più eclettici di una Hollywood che, all’epoca, prediligeva uno spazio classico, uno spazio in cui la rottura delle convenzioni dell’arte visiva non era contemplata. Così, Wilder resta uno dei pochi ad aver rivoltato come un calzino un intero sistema cinematografico, ad aver avuto la forza di sabotarlo dall’interno e rendere manifeste tutte le contraddizioni dell’America tramite lo strumento che il regista più amava: la rottura dei canoni di genere e l’impossibilità di ingabbiare un qualsiasi artefatto cinematografico all’interno di limiti imposti dalle convenzioni.
Per molto tempo, Wilder è stato considerato un regista prevalentemente di “commedie e noir”. La definizione risulta però fuorviante, in quanto, al genere, il regista accompagnava sempre una forza a dir poco prorompente, che è diventata, nel corso degli anni, un vero e proprio tratto distintivo del suo cinema e della trasformazione della commedia di costume negli USA. Stiamo parlando della forza dell’anticonformismo, della rottura delle regole tipiche di un certo modo di intendere non solo il cinema, ma anche la vita stessa. Per Wilder il cinema diventava veicolo, strumento per esprimere la sua sferzante e tagliente critica sociale nelle sue forme più disparate, mantenendo però inalterata l’eleganza della forma e trovando, il più delle volte, un equilibrio quasi miracoloso che gli ha permesso di affrontare argomenti molto diversi e di trovare sempre il bandolo della matassa in modo puntuale e preciso, mettendo il pubblico di fronte alle stranezze dell’umanità e alle sue stesse contraddizioni.
L’esordio, Mauvaise Graine (Amore che redime, 1934), nonostante lo scarso successo e la regia divisa con Alexander Esway, ha già il merito di porre in evidenza la fusione tra i generi, l’incursione del comico all’interno del tragico, ma soprattutto l’intuizione di ricorrere alla farsa come metodo di critica sociale nei confronti delle storture del suo Stato di riferimento, ovvero quello statunitense. Un sistema che appare già notevolmente più collaudato nel suo successivo The Major And The Minor (Frutto proibito, 1942), il suo esordio in solitaria, in cui Wilder sfrutta proprio gli equivoci per smascherare molti dei tabù della società occidentale tutta, a partire dalla presunta chiusura mentale degli americani e la loro schiavitù nei confronti delle rigide convenzioni sociali che non sono mai superate, ma che, anzi, favoriscono l’inasprirsi della “cultura del sospetto” e dell’intolleranza, soprattutto alla vigilia di un evento così infausto quale la seconda guerra mondiale.
Il racconto è quello di un' America ingabbiata all’interno della sua stessa burocrazia e del conformismo. È interessante notare come Wilder si concentri con forza sulla rottura dei tabù (dal travestimento alla copulazione con minori, grazie a una strepitosa prova di Ginger Rogers) e, soprattutto, su un racconto completamente libertario, senza possibilità di limiti né di incasellamenti. Dopo questo esordio esplosivo, il ritorno a un film dalla produzione più tradizionale, quale Five Graves To Cairo (I cinque segreti del deserto, 1943), rappresenta quindi un passo indietro, in cui si nota l’intervento massiccio della Paramount che per l’appunto limita le scorribande libertine del regista; nondimeno, Wilder riesce comunque a costruire un registro da commedia avventurosa degno del suo nome e a piegare il tema del travestimento, ancora una volta, alle proprie esigenze filmiche.
Con The Major And The Minor, Wilder svela subito uno dei punti cardine della propria poetica: il travestimento. Sempre più spesso, negli anni successivi e nello sviluppo della sua filmografia, il regista partirà da un assunto prettamente sociale, che vede l’uomo spogliarsi della propria identità e dismettere i panni da “essere vivente” per diventare ingranaggio perfetto di una macchina, quale quella statale, che ne spolpa l’essenza e ne sottrae la dimensione privata, relegandolo a uno stadio in cui il capitalismo diventa giudice, giuria e boia dei desideri dei propri protagonisti: lo si può constatare soprattutto in quello che è uno degli apici della filmografia wilderiana e del cinema hollywoodiano di tutti i tempi, ovvero The Apartment (L’Appartamento, 1960). Tornando a The Major And The Minor, Ginger Rogers, mediante il travestimento, diventa lo strumento per mano del quale cadrà la moralità del ferreo Ray Milland, alle prese con una differenza d’età significativa e quindi proprietario di un dubbio che Wilder usa per mettere alla gogna, ambiguamente, i tabù della società americana dell’epoca.
Il travestimento è usato da Wilder come smascheramento per far cadere le certezze di un'America pressoché borghese, ingessata nelle proprie convenzioni e incapace di superarle, di pensare “al di là del proprio giardino di casa”. Ed è interessante vedere come, di volta in volta, il regista austriaco trovi sempre gli strumenti giusti per far crollare miseramente gli archetipi attorno ai quali la stessa società americana si erge. In Double Indemnity (La fiamma del peccato, 1944), storia noir tratta dall'oscuro romanzo di James M. Cain, The Postman Always Ring Twice, i soldi e il materialismo in generale, questa volta presenti nella loro accezione sessuale come da genere, diventano non solo il motore dell’azione umana, in una declinazione molto pessimistica della società occidentale, ma addirittura i protagonisti assoluti della storia e del Male legato all’uomo, incapace di resistere ai vizi di cui la stessa borghesia è succube.
La polivalenza di Wilder gli permette di mutare più volte la forma e far rimanere inalterata la sostanza. Fatta eccezione per The Emperor Waltz (Il valzer dell’imperatore, 1948), esempio poco riuscito di ibridazione tra satira di sistema, film in costume e musical, nel corso del tempo la critica sociale di Wilder si va affinando e diventa capace di adattarsi ai più disparati generi, indagando ambiti reconditi del sistema americano. Se The Lost Weekend (Giorni perduti, 1946) è una chiara presa di posizione contro gli strascichi del proibizionismo e A Foreign Affair (Scandalo Internazionale, 1948) un’accusa nei confronti dell’America e della sua presunta superiorità nei confronti degli altri Stati, negli anni ’50 assistiamo alla definitiva esplosione “wilderiana” contro gli USA, con le enormi sfaccettature che essa comporta.
Qui Wilder diventa pienamente padrone del suo cinema e ufficializza le sue doti da trasformista, intrecciando rapporti simbiotici che si muovono da film a film e lasciando intatta la qualità dei suoi prodotti. Un decennio che si apre e si chiude con due dei suoi massimi capolavori, ovvero Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950) e Some Like It Hot (A qualcuno piace caldo, 1959), entrambi esempi di come il regista utilizzi le storie e i generi più disparati per corrodere il sistema cinematografico americano, mandandolo in tilt dall’interno ed evidenziandone la tossicità (soprattutto in Sunset Boulevard).
Wilder si rende tremendamente attuale nel terremotare ambiti fondamentali della società, come il giornalismo e la giustizia - in Ace In The Hole (L’asso nella manica, 1951) e Witness For the Prosecution (Testimone d’accusa, 1957) - e, in seconda battuta, rende manifesto il suo amore per le maschere. Maschere che portano sullo schermo una fluidità di genere e di racconto, in cui ogni personaggio può essere intercambiabile con un altro - come la Kim Novak di Kiss Me, Stupid (Baciami, stupido, 1964) o il Jack Lemmon di Some Like It Hot - e che permette al regista di mischiare registro aulico e popolare - soprattutto in Sabrina (1954) e Love In The Afternoon (Arianna, 1957), forme più sentimentali e leggere delle sue commedie, aiutato anche dalla presenza di una diva anti-divistica come Audrey Hepburn - giocando sempre sul contrasto morale tra retrogrado e poetico e tra vita di coppia e matrimonio, il quale raggiunge il suo zenit in Irma La Douce (Irma la dolce, 1963).
Nel film del 1963, la tradizionale irriverenza del cineasta risulta ancora più pungente, rovesciando radicalmente i rapporti tra uomo e donna. Qui i classici temi di Wilder diventano degli specchi per le allodole, laddove un nuovo “oggetto immorale” (in questo caso identificabile nel personaggio interpretato da Shirley MacLaine) scardina, ancora una volta, le ipocrisie della società sui tabù legati al matrimonio. Irma La Douce, in tal modo, aggiorna il precedente The Major And The Minor, mettendo nuovamente in evidenza il perbenismo di una Hollywood ancora acerba e non pronta per un cambiamento così tanto drastico nella narrazione. Rispetto al passato, però, nello sguardo del regista si nota una maggiore dolcezza, in un film costruito sulla contrapposizione tra due protagonisti e due caratteri completamente diversi che ammicca anche a un certo tipo di cinema (quello francese della Nouvelle Vague, nello specifico) che di lì a poco avrebbe spopolato definitivamente.
Si tratta di una riflessione sulla cultura e sui codici della società tradizionale americana che continua a fiorire in Kiss Me Stupid e, soprattutto, in The Front Page (Prima pagina, 1974), vero e proprio canto del cigno della poetica wilderiana. Se in Kiss Me Stupid il travestimento diviene direttamente “sostituzione”, da parte della stessa Kim Novak che di fatto rimpiazza completamente la moglie di Spooner/Ray Walston, in The Front Page il travestimento avviene a un livello ben più alto e teorico. Sfruttando lo scenario della stampa, già utilizzato nel precedente Ace In The Hole, Wilder tratta di una nuova trasformazione/sostituzione: quella dei media e del medium, che diventano sempre più cinici e avvezzi a un certo tipo di arrivismo e che perdono, di fatto, la loro funzione informativa.
Segno dei tempi che corrono e che passano, ma restano attaccati sempre allo stesso obiettivo: quello di mettere in evidenza il trasformismo della borghesia e la sua imbattibilità. Rispetto all’irriverenza dell’inizio della sua carriera, però, Wilder vede con occhio non poco pessimista questa deriva del mondo. Oltre che nel film del 1974, questa visione apocalittica si può notare soprattutto nel penultimo Fedora (1978), vero e proprio “viale del tramonto” del regista che meglio di tutti gli altri ha lavorato tra le pieghe dello Stato americano, con cui lo stesso Wilder si consegna agli effetti del tempo, alla caducità della vita e a una lotta, quella nei confronti della società americana, sostanzialmente persa.
Prima di finire definitivamente il proprio “libro”, però, c’è tempo per un ultimo capitolo, con il senile Buddy Buddy (1981). Questo rappresenta l’ultimo tentativo da parte del regista di intrecciare noir e commedia mettendo entrambi a soqquadro e demolendoli dall’interno in maniera alquanto divertita, con l’aria di chi ormai non ha più nulla da perdere e che, pur avendo combattuto per una vita intera per rendere manifesta l’ipocrisia della nazione più conosciuta del mondo, riesce comunque a strappare un’ultima amara risata al suo pubblico, consapevole di avergli mostrato le infinite potenzialità di quel mezzo chiamato cinema.
TR-88
11.11.2023
Per analizzare e discutere degli enormi cambiamenti che il cinema ha attraversato in quasi 150 anni di storia, molto spesso occorre partire dal passato, da quell’indispensabile “cinema classico” che ha poi plasmato tutto ciò che è diventata la Settima Arte al giorno d’oggi. La potenza di ciò che si è alternato sullo schermo non può prescindere da una delle più grandi menti esistite “al di là” dello schermo cinematografico, ovvero Billy Wilder. Uno dei più grandi registi di sempre che ha dato prova, nel corso della sua carriera, di quanto la natura del cinema sia di per sé polimorfica, adatta a scomporsi e ricomporsi a piacimento a seconda delle storie raccontate. Una natura che, grazie alle sue stratificazioni, ha portato uno dei cineasti più importanti di tutti i tempi a mettere a soqquadro il suo Stato “d’appoggio”, ovvero gli USA. La cosa davvero interessante di Wilder è il modo in cui quest’indagine avviene.
Nel suo cinema, infatti, non c’è mai spazio per un genere di riferimento. Wilder è sempre stato uno dei profili più eclettici di una Hollywood che, all’epoca, prediligeva uno spazio classico, uno spazio in cui la rottura delle convenzioni dell’arte visiva non era contemplata. Così, Wilder resta uno dei pochi ad aver rivoltato come un calzino un intero sistema cinematografico, ad aver avuto la forza di sabotarlo dall’interno e rendere manifeste tutte le contraddizioni dell’America tramite lo strumento che il regista più amava: la rottura dei canoni di genere e l’impossibilità di ingabbiare un qualsiasi artefatto cinematografico all’interno di limiti imposti dalle convenzioni.
Per molto tempo, Wilder è stato considerato un regista prevalentemente di “commedie e noir”. La definizione risulta però fuorviante, in quanto, al genere, il regista accompagnava sempre una forza a dir poco prorompente, che è diventata, nel corso degli anni, un vero e proprio tratto distintivo del suo cinema e della trasformazione della commedia di costume negli USA. Stiamo parlando della forza dell’anticonformismo, della rottura delle regole tipiche di un certo modo di intendere non solo il cinema, ma anche la vita stessa. Per Wilder il cinema diventava veicolo, strumento per esprimere la sua sferzante e tagliente critica sociale nelle sue forme più disparate, mantenendo però inalterata l’eleganza della forma e trovando, il più delle volte, un equilibrio quasi miracoloso che gli ha permesso di affrontare argomenti molto diversi e di trovare sempre il bandolo della matassa in modo puntuale e preciso, mettendo il pubblico di fronte alle stranezze dell’umanità e alle sue stesse contraddizioni.
L’esordio, Mauvaise Graine (Amore che redime, 1934), nonostante lo scarso successo e la regia divisa con Alexander Esway, ha già il merito di porre in evidenza la fusione tra i generi, l’incursione del comico all’interno del tragico, ma soprattutto l’intuizione di ricorrere alla farsa come metodo di critica sociale nei confronti delle storture del suo Stato di riferimento, ovvero quello statunitense. Un sistema che appare già notevolmente più collaudato nel suo successivo The Major And The Minor (Frutto proibito, 1942), il suo esordio in solitaria, in cui Wilder sfrutta proprio gli equivoci per smascherare molti dei tabù della società occidentale tutta, a partire dalla presunta chiusura mentale degli americani e la loro schiavitù nei confronti delle rigide convenzioni sociali che non sono mai superate, ma che, anzi, favoriscono l’inasprirsi della “cultura del sospetto” e dell’intolleranza, soprattutto alla vigilia di un evento così infausto quale la seconda guerra mondiale.
Il racconto è quello di un' America ingabbiata all’interno della sua stessa burocrazia e del conformismo. È interessante notare come Wilder si concentri con forza sulla rottura dei tabù (dal travestimento alla copulazione con minori, grazie a una strepitosa prova di Ginger Rogers) e, soprattutto, su un racconto completamente libertario, senza possibilità di limiti né di incasellamenti. Dopo questo esordio esplosivo, il ritorno a un film dalla produzione più tradizionale, quale Five Graves To Cairo (I cinque segreti del deserto, 1943), rappresenta quindi un passo indietro, in cui si nota l’intervento massiccio della Paramount che per l’appunto limita le scorribande libertine del regista; nondimeno, Wilder riesce comunque a costruire un registro da commedia avventurosa degno del suo nome e a piegare il tema del travestimento, ancora una volta, alle proprie esigenze filmiche.
Con The Major And The Minor, Wilder svela subito uno dei punti cardine della propria poetica: il travestimento. Sempre più spesso, negli anni successivi e nello sviluppo della sua filmografia, il regista partirà da un assunto prettamente sociale, che vede l’uomo spogliarsi della propria identità e dismettere i panni da “essere vivente” per diventare ingranaggio perfetto di una macchina, quale quella statale, che ne spolpa l’essenza e ne sottrae la dimensione privata, relegandolo a uno stadio in cui il capitalismo diventa giudice, giuria e boia dei desideri dei propri protagonisti: lo si può constatare soprattutto in quello che è uno degli apici della filmografia wilderiana e del cinema hollywoodiano di tutti i tempi, ovvero The Apartment (L’Appartamento, 1960). Tornando a The Major And The Minor, Ginger Rogers, mediante il travestimento, diventa lo strumento per mano del quale cadrà la moralità del ferreo Ray Milland, alle prese con una differenza d’età significativa e quindi proprietario di un dubbio che Wilder usa per mettere alla gogna, ambiguamente, i tabù della società americana dell’epoca.
Il travestimento è usato da Wilder come smascheramento per far cadere le certezze di un'America pressoché borghese, ingessata nelle proprie convenzioni e incapace di superarle, di pensare “al di là del proprio giardino di casa”. Ed è interessante vedere come, di volta in volta, il regista austriaco trovi sempre gli strumenti giusti per far crollare miseramente gli archetipi attorno ai quali la stessa società americana si erge. In Double Indemnity (La fiamma del peccato, 1944), storia noir tratta dall'oscuro romanzo di James M. Cain, The Postman Always Ring Twice, i soldi e il materialismo in generale, questa volta presenti nella loro accezione sessuale come da genere, diventano non solo il motore dell’azione umana, in una declinazione molto pessimistica della società occidentale, ma addirittura i protagonisti assoluti della storia e del Male legato all’uomo, incapace di resistere ai vizi di cui la stessa borghesia è succube.
La polivalenza di Wilder gli permette di mutare più volte la forma e far rimanere inalterata la sostanza. Fatta eccezione per The Emperor Waltz (Il valzer dell’imperatore, 1948), esempio poco riuscito di ibridazione tra satira di sistema, film in costume e musical, nel corso del tempo la critica sociale di Wilder si va affinando e diventa capace di adattarsi ai più disparati generi, indagando ambiti reconditi del sistema americano. Se The Lost Weekend (Giorni perduti, 1946) è una chiara presa di posizione contro gli strascichi del proibizionismo e A Foreign Affair (Scandalo Internazionale, 1948) un’accusa nei confronti dell’America e della sua presunta superiorità nei confronti degli altri Stati, negli anni ’50 assistiamo alla definitiva esplosione “wilderiana” contro gli USA, con le enormi sfaccettature che essa comporta.
Qui Wilder diventa pienamente padrone del suo cinema e ufficializza le sue doti da trasformista, intrecciando rapporti simbiotici che si muovono da film a film e lasciando intatta la qualità dei suoi prodotti. Un decennio che si apre e si chiude con due dei suoi massimi capolavori, ovvero Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950) e Some Like It Hot (A qualcuno piace caldo, 1959), entrambi esempi di come il regista utilizzi le storie e i generi più disparati per corrodere il sistema cinematografico americano, mandandolo in tilt dall’interno ed evidenziandone la tossicità (soprattutto in Sunset Boulevard).
Wilder si rende tremendamente attuale nel terremotare ambiti fondamentali della società, come il giornalismo e la giustizia - in Ace In The Hole (L’asso nella manica, 1951) e Witness For the Prosecution (Testimone d’accusa, 1957) - e, in seconda battuta, rende manifesto il suo amore per le maschere. Maschere che portano sullo schermo una fluidità di genere e di racconto, in cui ogni personaggio può essere intercambiabile con un altro - come la Kim Novak di Kiss Me, Stupid (Baciami, stupido, 1964) o il Jack Lemmon di Some Like It Hot - e che permette al regista di mischiare registro aulico e popolare - soprattutto in Sabrina (1954) e Love In The Afternoon (Arianna, 1957), forme più sentimentali e leggere delle sue commedie, aiutato anche dalla presenza di una diva anti-divistica come Audrey Hepburn - giocando sempre sul contrasto morale tra retrogrado e poetico e tra vita di coppia e matrimonio, il quale raggiunge il suo zenit in Irma La Douce (Irma la dolce, 1963).
Nel film del 1963, la tradizionale irriverenza del cineasta risulta ancora più pungente, rovesciando radicalmente i rapporti tra uomo e donna. Qui i classici temi di Wilder diventano degli specchi per le allodole, laddove un nuovo “oggetto immorale” (in questo caso identificabile nel personaggio interpretato da Shirley MacLaine) scardina, ancora una volta, le ipocrisie della società sui tabù legati al matrimonio. Irma La Douce, in tal modo, aggiorna il precedente The Major And The Minor, mettendo nuovamente in evidenza il perbenismo di una Hollywood ancora acerba e non pronta per un cambiamento così tanto drastico nella narrazione. Rispetto al passato, però, nello sguardo del regista si nota una maggiore dolcezza, in un film costruito sulla contrapposizione tra due protagonisti e due caratteri completamente diversi che ammicca anche a un certo tipo di cinema (quello francese della Nouvelle Vague, nello specifico) che di lì a poco avrebbe spopolato definitivamente.
Si tratta di una riflessione sulla cultura e sui codici della società tradizionale americana che continua a fiorire in Kiss Me Stupid e, soprattutto, in The Front Page (Prima pagina, 1974), vero e proprio canto del cigno della poetica wilderiana. Se in Kiss Me Stupid il travestimento diviene direttamente “sostituzione”, da parte della stessa Kim Novak che di fatto rimpiazza completamente la moglie di Spooner/Ray Walston, in The Front Page il travestimento avviene a un livello ben più alto e teorico. Sfruttando lo scenario della stampa, già utilizzato nel precedente Ace In The Hole, Wilder tratta di una nuova trasformazione/sostituzione: quella dei media e del medium, che diventano sempre più cinici e avvezzi a un certo tipo di arrivismo e che perdono, di fatto, la loro funzione informativa.
Segno dei tempi che corrono e che passano, ma restano attaccati sempre allo stesso obiettivo: quello di mettere in evidenza il trasformismo della borghesia e la sua imbattibilità. Rispetto all’irriverenza dell’inizio della sua carriera, però, Wilder vede con occhio non poco pessimista questa deriva del mondo. Oltre che nel film del 1974, questa visione apocalittica si può notare soprattutto nel penultimo Fedora (1978), vero e proprio “viale del tramonto” del regista che meglio di tutti gli altri ha lavorato tra le pieghe dello Stato americano, con cui lo stesso Wilder si consegna agli effetti del tempo, alla caducità della vita e a una lotta, quella nei confronti della società americana, sostanzialmente persa.
Prima di finire definitivamente il proprio “libro”, però, c’è tempo per un ultimo capitolo, con il senile Buddy Buddy (1981). Questo rappresenta l’ultimo tentativo da parte del regista di intrecciare noir e commedia mettendo entrambi a soqquadro e demolendoli dall’interno in maniera alquanto divertita, con l’aria di chi ormai non ha più nulla da perdere e che, pur avendo combattuto per una vita intera per rendere manifesta l’ipocrisia della nazione più conosciuta del mondo, riesce comunque a strappare un’ultima amara risata al suo pubblico, consapevole di avergli mostrato le infinite potenzialità di quel mezzo chiamato cinema.