di Omar Franini
NC-177
06.12.2023
Nelle scorse settimane si è svolta la 29esima edizione del MedFilm Festival, manifestazione cinematografica italiana che promuove un dialogo interculturale tra l’Europa e i paesi della sponda Sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Dopo aver approfondito Yurt di Nehir Tuna e About Dry Grasses di Nuri Bilge Ceylan, oggi andremo a consigliarvi quattro film che ci hanno particolarmente colpito per il loro modo di analizzare le dinamiche politiche e socio-culturali di diverse nazioni, e come queste influenzino, a volte involontariamente, la vita quotidiana di alcune persone.
Endless Borders, di Abbas Amini
L’amore e la libertà, o meglio la ricerca e la negazione di essi, sono le due tematiche chiave del quinto lungometraggio di Abbas Amini, un’opera che analizza le tensioni politiche che condizionano gli abitanti di un remoto villaggio al confine tra Iran e Afghanistan. Il protagonista del film è Ahmad, un professore esiliato per ragioni politiche che, nonostante abbia il divieto di svolgere il proprio lavoro, inizierà ad insegnare a dei ragazzi di etnia hazara e a creare un legame particolare con una famiglia il cui patriarca è vicino alla morte per via della mancanza di medicinali. Ahmad, oltre a trovarsi invischiato in una dinamica familiare caratterizzata da scomode verità, cercherà di portare un po’ di pace e di stabilità nella piccola comunità. Endless Borders è stato uno dei film più complessi a livello tematico del festival, soprattutto per via di come vengono analizzate le varie contraddizioni morali che caratterizzano il protagonista, un uomo che pretende molto da se stesso e le cui buone intenzioni, spesso, si infrangono contro la difficile realtà che sta vivendo. La scrittura multisfaccettata di questo personaggio, interpretato egregiamente da Pouria Rahimi Sam, ci ha impressionato e fatto comprendere il perché di alcune scelte moralmente discutibili. Endless Borders è l’ennesimo, memorabile, film iraniano. Un lungometraggio che ci auguriamo venga distribuito presto nelle sale italiane.
Backstage, di Afef Ben Mahmoud e Khalil Benkirane
L’opera prima della coppia di registi marocchini Afef Ben Mahmoud e Khalil Benkirane - che si incentra su una compagnia di ballo durante una tournée - mette in scena, metaforicamente e non, le intricate relazioni che coinvolgono un gruppo di persone che vivono a stretto contatto. Analizzando nel dettaglio le dinamiche di dei danzatori, prima sul palcoscenico e poi nel dietro le quinte, Backstage è in grado di creare e trasmettere quell’atmosfera, caotica e vibrante, che può condizionare la buona riuscita di uno spettacolo. È interessante vedere come il duo di registi si focalizzi, già nei primi minuti, sullo stato di tensione tra i ballerini attraverso una brillante sequenza che mostra la coreografia principale del loro show. Durante questa scena, infatti, l’agitazione tra Aida (interpretata dalla regista Atef Ben Mahmoud) e il compagno Hedi porta ad una tragica disattenzione che causa un infortunio alla donna. Pur di non annullare gli spettacoli seguenti, la compagnia si mette alla ricerca di un dottore ma, durante lo spostamento, il pullman su cui viaggiano buca due ruote lasciandoli a piedi. Nella speranza di giungere in un centro abitato, il gruppo si ritroverà a vagare in una selva dall’aspetto misterioso. Le sequenze che si svolgono in questo ambiente naturale occupano la maggior parte della durata dell'opera, ed è da lodare il modo in cui il duo di registi sfrutta la foresta allo scopo di creare una dimensione insidiosa, che metta in mostra le tensioni politiche e amorose tra i personaggi e, al tempo stesso, che rappresenti un luogo “fatato”, onirico, una via di fuga nel quale i protagonisti possono immaginare un futuro migliore. Nonostante ci abbia catturato per le varie sequenze di danza e lo sviluppo degli archi narrativi di alcuni personaggi, Backstage non è esente da difetti. La struttura corale poteva essere sfruttata meglio, soprattutto se si considera che la storia di alcuni characters viene solo accennata e che il background multiculturale del cast poteva portare a situazioni di conflitto ancor più interessanti.
The Mother of All Lies, di Asmae El Moudir
Dopo aver vinto il premio per la miglior regia al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, il nuovo lungometraggio della cineasta marocchina Asmae El Moudir si è aggiudicato due premi anche al MedFilm Festival: quello per la miglior espressione artistica e quello del lungometraggio più creativo. Due vittorie più che meritate, prendendo in considerazione che l’operazione compiuta da El Moudir è una delle più innovative dell’intera annata. Infatti, la peculiarità dell’opera consiste nell’utilizzo di bambole fatte a mano e altre miniature, con le quali la regista cerca di scoprire cosa sia successo alla sua famiglia durante le rivolte del 1981. Queste bambole, create da El Moudir e il padre, permettono a varie persone di ricreare, e inscenare, eventi traumatici mettendo in risalto i diversi, e contraddittori, punti di vista che nel tempo hanno sgretolato il nucleo familiare della cineasta. Tramite questa operazione, El Moudir riesce anche a trovare un interessante paragone tra gli avvenimenti del 1981 e la propria esperienza personale.The Mother of All Lies è uno dei migliori documentari dell’anno e l’approccio, personale e terapeutico, con cui la regista analizza la storia della propria famiglia ci ha particolarmente toccato…a visione conclusa sarà difficile dimenticare la struggente sequenza dove il padre racconta del suo periodo in prigione.
The Vanishing Soldier, di Dani Rosenberg
Presentato già in Agosto al Festival di Locarno, il secondo lungometraggio di Dani Rosenberg è stata una delle visioni più piacevoli del MedFilm Festival. Ambientato in un futuro non lontano dai nostri tempi, il film segue le vicende, o meglio, ventiquattr'ore della vita di Shlomi, un soldato israeliano diciottenne che decide improvvisamente di abbandonare la missione militare a cui sta prendendo parte. Il motivo della sua fuga è piuttosto semplice e non sembra avere connotazioni politiche: il ragazzo vuole passare del tempo con la sua fidanzata in quanto lei è in procinto di lasciare il paese. Rosenberg dirige un’opera affascinante sotto vari punti di vista. Il sottotesto politico che riguarda la fuga di Shlomi è stato affrontato in maniera arguta e a tratti satirica, sfruttando l’ossessione e lo stato di ansia con il quale la popolazione vede il conflitto arabo-israeliano. Infatti, questa fuga è vista dai media e dall’organo militare come un possibile rapimento da parte del nemico piuttosto che come una disertazione. Il film è pervaso da una costante tensione, caratteristica messa in risalto dall’uso predominante della camera a mano e una colonna sonora ritmata che accompagna il viaggio tragicomico del protagonista. The Vanishing Soldier, però, non funzionerebbe senza la presenza di Ido Tako, il carismatico attore che interpreta Shlomi e che permette al pubblico di empatizzare con la condizione del personaggio e sperare nella sua fuga miracolosa. Dani Rosenberg, che aveva già stupito in precedenza con il suo primo lungometraggio The Death of Cinema and My Father Too (2020), confeziona un’altra opera convincente, dimostrando di essere uno dei talenti israeliani più interessanti dell’attuale panorama cinematografico mondiale.
di Omar Franini
NC-177
06.12.2023
Nelle scorse settimane si è svolta la 29esima edizione del MedFilm Festival, manifestazione cinematografica italiana che promuove un dialogo interculturale tra l’Europa e i paesi della sponda Sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Dopo aver approfondito Yurt di Nehir Tuna e About Dry Grasses di Nuri Bilge Ceylan, oggi andremo a consigliarvi quattro film che ci hanno particolarmente colpito per il loro modo di analizzare le dinamiche politiche e socio-culturali di diverse nazioni, e come queste influenzino, a volte involontariamente, la vita quotidiana di alcune persone.
Endless Borders, di Abbas Amini
L’amore e la libertà, o meglio la ricerca e la negazione di essi, sono le due tematiche chiave del quinto lungometraggio di Abbas Amini, un’opera che analizza le tensioni politiche che condizionano gli abitanti di un remoto villaggio al confine tra Iran e Afghanistan. Il protagonista del film è Ahmad, un professore esiliato per ragioni politiche che, nonostante abbia il divieto di svolgere il proprio lavoro, inizierà ad insegnare a dei ragazzi di etnia hazara e a creare un legame particolare con una famiglia il cui patriarca è vicino alla morte per via della mancanza di medicinali. Ahmad, oltre a trovarsi invischiato in una dinamica familiare caratterizzata da scomode verità, cercherà di portare un po’ di pace e di stabilità nella piccola comunità. Endless Borders è stato uno dei film più complessi a livello tematico del festival, soprattutto per via di come vengono analizzate le varie contraddizioni morali che caratterizzano il protagonista, un uomo che pretende molto da se stesso e le cui buone intenzioni, spesso, si infrangono contro la difficile realtà che sta vivendo. La scrittura multisfaccettata di questo personaggio, interpretato egregiamente da Pouria Rahimi Sam, ci ha impressionato e fatto comprendere il perché di alcune scelte moralmente discutibili. Endless Borders è l’ennesimo, memorabile, film iraniano. Un lungometraggio che ci auguriamo venga distribuito presto nelle sale italiane.
Backstage, di Afef Ben Mahmoud e Khalil Benkirane
L’opera prima della coppia di registi marocchini Afef Ben Mahmoud e Khalil Benkirane - che si incentra su una compagnia di ballo durante una tournée - mette in scena, metaforicamente e non, le intricate relazioni che coinvolgono un gruppo di persone che vivono a stretto contatto. Analizzando nel dettaglio le dinamiche di dei danzatori, prima sul palcoscenico e poi nel dietro le quinte, Backstage è in grado di creare e trasmettere quell’atmosfera, caotica e vibrante, che può condizionare la buona riuscita di uno spettacolo. È interessante vedere come il duo di registi si focalizzi, già nei primi minuti, sullo stato di tensione tra i ballerini attraverso una brillante sequenza che mostra la coreografia principale del loro show. Durante questa scena, infatti, l’agitazione tra Aida (interpretata dalla regista Atef Ben Mahmoud) e il compagno Hedi porta ad una tragica disattenzione che causa un infortunio alla donna. Pur di non annullare gli spettacoli seguenti, la compagnia si mette alla ricerca di un dottore ma, durante lo spostamento, il pullman su cui viaggiano buca due ruote lasciandoli a piedi. Nella speranza di giungere in un centro abitato, il gruppo si ritroverà a vagare in una selva dall’aspetto misterioso. Le sequenze che si svolgono in questo ambiente naturale occupano la maggior parte della durata dell'opera, ed è da lodare il modo in cui il duo di registi sfrutta la foresta allo scopo di creare una dimensione insidiosa, che metta in mostra le tensioni politiche e amorose tra i personaggi e, al tempo stesso, che rappresenti un luogo “fatato”, onirico, una via di fuga nel quale i protagonisti possono immaginare un futuro migliore. Nonostante ci abbia catturato per le varie sequenze di danza e lo sviluppo degli archi narrativi di alcuni personaggi, Backstage non è esente da difetti. La struttura corale poteva essere sfruttata meglio, soprattutto se si considera che la storia di alcuni characters viene solo accennata e che il background multiculturale del cast poteva portare a situazioni di conflitto ancor più interessanti.
The Mother of All Lies, di Asmae El Moudir
Dopo aver vinto il premio per la miglior regia al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, il nuovo lungometraggio della cineasta marocchina Asmae El Moudir si è aggiudicato due premi anche al MedFilm Festival: quello per la miglior espressione artistica e quello del lungometraggio più creativo. Due vittorie più che meritate, prendendo in considerazione che l’operazione compiuta da El Moudir è una delle più innovative dell’intera annata. Infatti, la peculiarità dell’opera consiste nell’utilizzo di bambole fatte a mano e altre miniature, con le quali la regista cerca di scoprire cosa sia successo alla sua famiglia durante le rivolte del 1981. Queste bambole, create da El Moudir e il padre, permettono a varie persone di ricreare, e inscenare, eventi traumatici mettendo in risalto i diversi, e contraddittori, punti di vista che nel tempo hanno sgretolato il nucleo familiare della cineasta. Tramite questa operazione, El Moudir riesce anche a trovare un interessante paragone tra gli avvenimenti del 1981 e la propria esperienza personale.The Mother of All Lies è uno dei migliori documentari dell’anno e l’approccio, personale e terapeutico, con cui la regista analizza la storia della propria famiglia ci ha particolarmente toccato…a visione conclusa sarà difficile dimenticare la struggente sequenza dove il padre racconta del suo periodo in prigione.
The Vanishing Soldier, di Dani Rosenberg
Presentato già in Agosto al Festival di Locarno, il secondo lungometraggio di Dani Rosenberg è stata una delle visioni più piacevoli del MedFilm Festival. Ambientato in un futuro non lontano dai nostri tempi, il film segue le vicende, o meglio, ventiquattr'ore della vita di Shlomi, un soldato israeliano diciottenne che decide improvvisamente di abbandonare la missione militare a cui sta prendendo parte. Il motivo della sua fuga è piuttosto semplice e non sembra avere connotazioni politiche: il ragazzo vuole passare del tempo con la sua fidanzata in quanto lei è in procinto di lasciare il paese. Rosenberg dirige un’opera affascinante sotto vari punti di vista. Il sottotesto politico che riguarda la fuga di Shlomi è stato affrontato in maniera arguta e a tratti satirica, sfruttando l’ossessione e lo stato di ansia con il quale la popolazione vede il conflitto arabo-israeliano. Infatti, questa fuga è vista dai media e dall’organo militare come un possibile rapimento da parte del nemico piuttosto che come una disertazione. Il film è pervaso da una costante tensione, caratteristica messa in risalto dall’uso predominante della camera a mano e una colonna sonora ritmata che accompagna il viaggio tragicomico del protagonista. The Vanishing Soldier, però, non funzionerebbe senza la presenza di Ido Tako, il carismatico attore che interpreta Shlomi e che permette al pubblico di empatizzare con la condizione del personaggio e sperare nella sua fuga miracolosa. Dani Rosenberg, che aveva già stupito in precedenza con il suo primo lungometraggio The Death of Cinema and My Father Too (2020), confeziona un’altra opera convincente, dimostrando di essere uno dei talenti israeliani più interessanti dell’attuale panorama cinematografico mondiale.