INT-90
21.03.2025
Nel panorama indipendente del cinema americano James Benning rappresenta uno degli autori più particolari e interessanti degli ultimi cinquant'anni anni. Le sue sperimentazioni in campo filmico hanno raggiunto, nel corso del tempo, una sempre più elevata radicalità, che ha contribuito a sviluppare un’idea che rifugge dai classicismi soliti del cinema occidentale (soprattutto quelli riguardanti l’uso di una trama e dello sviluppo di una sceneggiatura).
Il cinema strutturalista di Benning abbraccia, così, gli spazi più reconditi dell’America, terra che, come mostrano molti suoi lungometraggi, è ricca di contraddizioni che il regista non esita ad analizzare, invitando lo spettatore ad esperire il cinema in un modo totalmente nuovo e differente rispetto ai classici grandi “romanzi” americani a cui la cinematografia mainstream ci ha abituato. Quelle create dal regista statunitense sono delle vere e proprie esperienze spettatoriali, che si sostengono soprattutto su una composizione dei quadri molto anomala e particolare, unica nel suo genere e addetta a risvegliare la coscienza di chiunque guardi/osservi il film.
Benning, quest’anno, è ritornato nei lidi della Berlinale - dove aveva già presentato, nella sezione Forum, The United States Of America (2022), e Allensworth (2023) - con un nuovo film, dal titolo little boy (2025). Anch’esso presentato dentro Forum, l’ultimo lavoro del cineasta si pone come un vero e proprio viaggio di crescita attraverso immagini e suoni che riescono a ricreare l’esperienza della sua infanzia, vissuta in quel di Milwaukee.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare James Benning e di farci raccontare i segreti relativi al suo cinema e al suo nuovo film.
little boy (2025)
little boy è stato presentato al Festival di Berlino 2025 nella sezione Forum. Nella descrizione presente sul sito della Berlinale, little boy viene definito come un film “complementare” ad American Dreams (Lost And Found), pellicola del 1984. Qual è, dunque, il collegamento tra queste due opere?
L’analogia più ovvia tra i due film è che entrambi utilizzano dei discorsi registrati e la musica come guida per muoversi nel tempo. La differenza, invece, si trova nelle modalità: American Dreams aggiunge anche un testo che scorre nella parte inferiore dello schermo durante quasi tutto il film. Ed è un film costruito come fosse un surplus continuo di informazioni. Si svolge dal 1953 al 1975 o 1976, gli anni in cui Henry Aaron, un giocatore di baseball nero la cui carriera si è svolta in parte a Milwaukee, dove sono cresciuto, era in squadra. Gran parte di ciò è autobiografico. Le inquadrature sono molto più brevi rispetto a little boy, non includono tutte le registrazioni e nemmeno tutti i brani musicali. American Dreams è stato costruito come una sorta di film di formazione per me stesso. Quelli erano gli anni in cui sono diventato adulto, è una sorta di descrizione della mia crescita e della mia identificazione in Arthur Bremer, provenendo entrambi da Milwaukee. Quindi ci sono queste connessioni. Il nuovo film, invece, nasce dai miei ultimi anni di ricerca su me stesso, ho cercato di ricreare un diario che non ho mai scritto. Ero interessato a queste cose in particolare. Ho svolto una ricerca approfondita in modo da avere una varietà di tipi di musica e discorsi di persone che mi hanno influenzato. Penso che, per me, sia una sorta di avvertimento sulle condizioni odierne del mondo, del fatto che siamo in un momento davvero importante in cui le cose devono essere affrontate.
Questo è molto interessante, perché American Dreams (Lost And Found) rappresenta una vera e propria immagine di un’intera epoca americana. In che modo, in tal proposito, la relazione tra parole, immagini e le storie raccontate ha influenzato e condizionato il tuo modo di fare cinema?
Questa è una domanda molto interessante, perché nessuno si chiede mai in che modo la parola funziona in un film. Che rapporto hanno le parole con le immagini? E con il suono? Io mi auto-definisco un regista “strutturalista”, perché molte volte penso al contenuto dei miei film proprio attraverso la forma che intendo dare loro. Provo sempre a trovare una struttura elegante per dare sfogo alle mie idee attraverso le immagini, dunque ogni film ha una propria identità a seconda di quanto racconta. Alcune volte la parola prevarica l’immagine, altre volte è il contrario, ci sono metodi diversi per ogni film.
Trovo questo fattore molto importante, perché, in un’epoca in cui l’immagine è il vero e proprio “centro” attorno al quale ruota la Settima Arte, tu sposti l’attenzione del tuo cinema sulla componente sonora, in un modo del tutto anti-conformista. A tal proposito, credi che il tuo cinema sia un po’ anti-conformista?
Beh, per quanto mi riguarda la musica rappresenta un fattore e un’arte davvero personale. Un’arte che si rapporta direttamente con le idee presenti all’interno di un film. Più che parlare di scelte anti-conformiste, io parlerei piuttosto di voler fare un cinema completamente “ad personam”. Non uso la musica come fosse una semplice colonna sonora con lo scopo d’intrattenere lo spettatore. Ad esempio, in little boy, inizialmente in sottofondo scorre Willie Nelson, che canta l’amore giovanile, ed è l’esatto esempio di un certo tipo di cultura pop americana. Il brano mi riporta direttamente a ciò che imparavo andando a scuola, quando anch’io ero un “piccolo bambino”. Quindi la canzone in qualche modo si ricollega a ciò di cui parla il film, formando un tutt’uno con il film stesso. Anche le altre canzoni rappresentano, in qualche modo, qualcosa. Fast Car di Tracy Chapman riconduce a materializzare che, se le cose vanno male, la soluzione giusta non è andarsene e ricominciare. Si tratta di una canzone molto potente, che si ricollega direttamente agli abusi di suo padre e a come lei è uscita da questa pessima situazione. Ma la canzone si può anche ricollegare al mondo intero che, oggi come oggi, vive i soprusi di coloro che lo hanno creato.
In un’era in cui il cinema mette l’immagine, in tutta la sua complessità, al di sopra di tutto, nel tuo ultimo film c’è un approccio completamente diverso, in completa contro-tendenza nei confronti del cinema odierno. Come ti poni in relazione a quest’ultimo? E quali sono, secondo te, i registi attuali che più si avvicinano alla tua idea di cinema?
Beh, questa è una domanda davvero difficile per me, perché in realtà non guardo molto cinema odierno. Vedo pochissimi film. Un tempo vedevo molto più cinema contemporaneo grazie al mio corso nella scuola dove insegnavo, che aveva una classe apposita chiamata Film Today. Quando Tom Anderson era un mio collega, portava film davvero straordinari da tutto il mondo, quindi ero più sintonizzato su ciò che stava accadendo. Ora sono giunto a un'età in cui non vedo più molto, quindi non m’importa molto del cinema di oggi. Allo stesso tempo, sono consapevole di far parte di questo mondo e che, quindi, qualsiasi cosa abbia girato può essere paragonata ad altri e nuovi registi. Ma è difficile un paragone, soprattutto con quest’ultimo film, che è estremamente auto-biografico, che si rifà a ciò che sento di aver vissuto, a quello che ho sperimentato e a come, in questo momento della mia vita, ho paura. È una sorta di avvertimento: siamo in un momento in cui dobbiamo riprendere il controllo. E questa, probabilmente, è la parte fondamentale, malgrado tutto, del vivere oggi in America: molti di noi sono spaventati da questa nuova direzione del Governo, completamente fuori controllo. Una direzione che mai avrei immaginato. Ma anche prima, con Obama, di cui ero davvero entusiasta in quanto prima persona di colore a diventare presidente, ebbi una grossa delusione: non ha fatto nulla di quanto promesso, ha aumentato gli attacchi con i droni e la guerra non è cessata, seguendo l’operato di Lyndon B. Johnson. Ad ogni modo, questo rappresenta la mia disillusione nei confronti del mondo, che si riversa anche, purtroppo, nei confronti del cinema di oggi, e rappresenta anche il motivo per il quale faccio davvero molta fatica a connettermi con altri registi, soprattutto con quelli che non si preoccupano di ciò che accade in America. Odio essere così pessimista, ma abbiamo sicuramente bisogno di più onestà in questo mondo e di mantenere viva la passione in questi dibattiti. Non ho molte notizie sul cinema odierno. Conosco molti giovani cineasti che passano per la mia scuola, e mi danno grande speranza per il futuro, per realizzare un cinema capace di ampliare il vocabolario, e non solo di ricreare modelli che portano al successo in termini di botteghino, o qualunque sia il modo in cui si misura il successo nell’arte al giorno d’oggi. Penso che ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di film intelligenti che ci pongano domande, che ci spingano ad affrontare e risolvere veri problemi.
American Dreams (1984)
Parlando proprio di “modelli” nello specifico, dato che li hai menzionati. In little boy, ci sono alcuni modellini in miniatura che possono ricollegarsi, allegoricamente, alle varie fasi di vita che attraversa un bambino. Da che cosa è nata quest’intuizione? Come mai hai utilizzato dei modellini per rappresentare la crescita di un individuo?
Io sono sempre stato appassionato, fin da piccolo, di treni, sia delle costruzioni giocattolo che di quelli reali. Mio padre mi portava spesso alla stazione di Milwaukee per guardarli, ai tempi in cui c'erano ancora le locomotive a vapore, che erano molto spettacolari con tutto quel fumo che usciva. E così, ho sempre amato i treni. Mi piace guardarli. Avevo dei trenini elettrici. Quando ho iniziato a pensare a little boy rapportandomi al progetto come fossi un bambino, ho pensato che il modellismo ferroviario fosse una vera connessione con l'età infantile, o quantomeno con la mia infanzia. Quindi ho deciso di usare dei modelli. I modelli che ho comprato e che ho usato nel film appartengono a un'epoca industriale più antica, quindi sono principalmente edifici industriali vecchi, molto simili alla Industrial Valley di Milwaukee. Ho pensato: “Ecco, questi sono i modellini che rappresentano la mia infanzia”. Da bambino giocavo nella Industrial Valley, saltavo sui treni merci e camminavo sui binari. Ricordo anche che c'era un fiume dove si poteva andare a pescare e fare altre cose. Era davvero un posto speciale, che oggi a Milwaukee è praticamente scomparso: gli edifici sono stati demoliti e stanno iniziando a gentrificare questa zona industriale. Tutti questi ambienti rappresentano tutta la mia infanzia, ma allo stesso tempo volevo collegarli all’attualità, rapportandoli anche all’industria delle armi degli USA. Così ho dato ai modelli nomi di aziende che hanno fatto enormi profitti producendo munizioni e bombe, con l'unico obiettivo di guadagnare denaro, senza preoccuparsi di cosa stessero realmente producendo e del pericolo che questo avrebbe comportato. Quindi, in un certo senso, ho voluto accostare l'innocenza della mia infanzia a qualcosa di decisamente più oscuro.
Restando legati al tuo cinema e uscendo un attimo al di fuori dello spazio di little boy, ho una curiosità meramente tecnica sul tuo approccio filmico. Guardando soprattutto Ruhr (2009), film in cui hai usato per la prima volta supporti in HD per riprendere e in cui, sempre per la prima volta, hai fatto ricorso al digitale, mi sapresti dire come quest’ultimo ha influenzato il tuo lavoro con la cinepresa?
Come hai detto tu stesso Ruhr è stato il primo film che ho realizzato con supporti HD, quindi non avevo ancora molta familiarità con tutte le possibilità che il digitale offre. Però avevo un film molto specifico da girare, che doveva in qualche modo definire cosa fosse quella parte occidentale della Germania, quel luogo industriale. Ho accettato questa sfida perché ho girato principalmente intorno a Duisburg, tra le acciaierie e le industrie pesanti di quella zona. Mi ricordava molto Milwaukee, il Midwest, Gary, Indiana, e tutta l’industria pesante di quei luoghi. Quindi, in un certo senso, era come se conoscessi già quell'ambiente. Non sapevo ancora quale tipo di luce avrebbe funzionato meglio con la mia telecamera, ma alla fine ho girato in autunno, con il cielo grigio e con bassi contrasti, e questa nuova tecnologia si sposava perfettamente con quel tipo di luce. È stato un caso che, per il mio primissimo film in digitale, avessi trovato la luce perfetta per la telecamera. Così ho imparato molto da quelle prime riprese. Abbiamo girato per un paio di settimane e avevo un'assistente che parlava tedesco (cosa che io non sapevo fare) ed era abbastanza convincente da riuscire a farci entrare praticamente ovunque. Questo mi ha dato la libertà di poter filmare dove volevo e con una luce perfetta. Quindi, tutte le preoccupazioni che avevo per le variabili introdotte dal digitale sono svanite: penso di essere stato fortunato. Poi con i successivi film ho imparato sempre di più. All'inizio pensavo che il digitale non mi sarebbe piaciuto, ma dopo alcuni film ho capito che era il mezzo più adatto a quello che faccio. Registra le immagini in alta definizione, ma non in 6K o in una risoluzione eccessivamente nitida. Restituisce ancora un po’ di grana simile a quella della pellicola, senza le caratteristiche che non mi piacciono del digitale. Certo, non ha lo stesso romanticismo, è molto più realistico. Ma mi sento di difenderlo. Sento alcuni registi dire che preferiscono la pellicola, il 35mm, che ha un aspetto migliore: secondo me è pura nostalgia. Naturalmente mi piace girare anche in 16mm, ma mi piace girare anche in digitale e non sono affatto scontento. Anzi, mi ha reso la vita molto più facile: prima ci volevano 30.000 dollari per fare un film di due ore, mentre ora, una volta che hai l’attrezzatura, puoi fare tutto da solo, praticamente non ci sono costi, a parte qualche soldo per la benzina e qualche panino per sopravvivere. Ad esempio, little boy l’ho girato in una settimana, usando solo la luce naturale. Ho girato in un corridoio della mia scuola, aprendo la porta sul retro per far entrare la luce. Ho trovato un posto in cui i modelli e le mani risultavano bene in video. Penso addirittura che oggi i miei film abbiano una forza maggiore, perché le immagini sono più realistiche, rifuggendo da romanticismi ed effetti nostalgia.
Nel 2022, hai curiosamente optato di ritornare sui passi già percorsi nel 1975 in The United States Of America, proponendo un film omonimo. Quali sono le differenze tra il film del 1975 e il film del 2022?
La prima differenza, chiaramente, è l’approccio di ripresa. Il primo è girato su pellicola e con una telecamera fissa sul retro di un'auto. Quindi la telecamera non si muove, ma è la macchina a muoversi, dando l’illusione che la telecamera si stia spostando. In realtà, rispetto a noi seduti in macchina, non si muove affatto. È un film piuttosto giocoso. Attraversiamo tutto il paese senza mai dirci una parola, cosa che ci sembrava interessante, e lasciamo che sia la radio a parlare per noi. Abbiamo scelto un momento importante per girare quel film. Era la primavera del 1975 e stavano accadendo molte cose. La più grande era la caduta del Vietnam del Sud nelle mani del Nord e l’abbandono della guerra da parte degli Stati Uniti. E così, mentre io e Bette attraversiamo il paese, avviene la caduta di Saigon. Poi ci sono altri piccoli eventi: Bobby Fischer che decide di non partecipare al Campionato di scacchi, Patty Hearst che viene catturata dopo essere stata ostaggio e aver aderito all'SLA. E poi la musica: è un buon esempio della musica del 1975, quindi ora quel film è diventato una sorta di capsula del tempo. Quando ho realizzato il “nuovo capitolo”, non aveva nulla a che fare con il primo. È stato girato durante il COVID, e ho pensato di fare un film sugli Stati Uniti. Anche se avessi potuto viaggiare così tanto, non avrei avuto i soldi per andare in tutti e 52 i posti. Sono andato anche a Washington D.C. e in Porto Rico. Ho aggiunto la visita anche in quei luoghi, perché per me entrambi dovrebbero essere Stati degli USA. Ma poi ho pensato: la California è talmente varia che potrei rappresentare l’intero paese semplicemente viaggiando in diversi luoghi dello Stato. Quest’idea mi era già venuta negli anni '80, quando ho vissuto a New York per otto anni. All'epoca volevo girare un film in cui New York rappresentasse tutte le grandi città degli Stati Uniti. Avrei trovato quartieri che somigliassero a Philadelphia, Los Angeles, e avrei detto 'Ecco Philadelphia' o 'Ecco Los Angeles'. Ma quel progetto non l'ho mai realizzato. Così, quando è arrivato il COVID, ho pensato: 'Oh, questa è un’idea interessante'. Mi permetteva di viaggiare e di uscire di casa, ma comunque in modo relativamente sicuro, perché conoscevo già le location in cui sarei andato. È stato un progetto molto divertente, e non ho mai avuto l’intenzione di ingannare il pubblico. Ho sempre saputo che avrei rivelato tutto alla fine. Penso che questo sia stato un aspetto che ha divertito molto le persone: amavano essere ingannate, ma capivano che non era un inganno totale, perché svelavo i trucchi. Credo che in quel periodo avessimo tutti bisogno di un po’ di umorismo, dopo essere stati chiusi in casa così a lungo. L'ho visto proiettato in diversi posti e ha sempre strappato grandi risate. E il titolo? Beh, l’oggetto sono comunque gli USA. Quindi in realtà non ho ingannato nessuno.
American Dreams (1984)
In little boy, American Dreams (Lost And Found) ed altri tuoi film, il suono è uno degli aspetti fondamentali. Quant’è importante la tecnica di registrazione del suono per la buona riuscita di un film e dei suoi intenti?
Direi che è importante per la maggior parte dei registi. Quando ho iniziato a girare, il suono era un fattore molto secondario, lo trattavo quasi come un elemento accessorio. Ma non ci è voluto molto perché mi rendessi conto che il suono è importante quanto l'immagine. È una cosa interessante: se guardo Landscape Suicide oggi e mi ricordo come ho creato quelle tracce audio, penso che il suono creato sia troppo elaborato. Stavo cercando troppo di aggiungere suoni ovunque, li enfatizzavo troppo. Quando guardo quei primi film, mi rendo conto che avrei dovuto attenuare un po’ tutto. Così, man mano che ho realizzato sempre più film, riducevo sempre di più il suono, ma senza renderlo meno importante, anzi lo rendevo più sottile, e proprio nel momento in cui diventava più sottile, diventava anche più significativo per me. Mi ci sono voluti 25-30 anni per arrivare a un punto in cui utilizzo il suono in modo molto più discreto. Probabilmente ora è ancora più importante di prima, perché agli inizi il suono era solo illustrativo e queste illustrazioni erano troppo ovvie. Ora posso inserire un semplice rumore. Per esempio, nel primo fotogramma di little boy (dove c’è un modellino di un T-Rex), ho trovato online una ricostruzione del suono che, secondo gli scienziati, il T-Rex probabilmente emetteva. Ovviamente è solo un'ipotesi, ma basandosi sulla struttura ossea e altri elementi, hanno dedotto che potesse emettere questo tipo di suono. È interessante perché quel suono non assomiglia per niente a quello di Jurassic Park (1993) prodotto da Hollywood. È molto più sottile e, secondo me, molto più spaventoso rispetto al suono esagerato creato da Hollywood. Ma quel suono da solo non mi bastava. Così ho anche registrato l’audio fuori dalla porta accanto al set dove stavo filmando il modellino. Era una porta sul retro che faceva entrare la luce, ma si trovava accanto alla banchina di carico della scuola. Da lì si poteva sentire il traffico dell'autostrada Interstate 5. Ho quindi mescolato quel suono continuo della strada con il verso del T-Rex. A un certo punto, verso la fine della scena, si sente un camion che fa retromarcia, con il classico segnale acustico. Quindi, in quella prima inquadratura, si sente il suono che gli scienziati attribuiscono al T-Rex, ma anche i suoni moderni di autostrade e camion. Ho fatto un mix molto particolare per rendere tutto più evocativo, in modo che quel suono somigliasse a un T-Rex ma allo stesso tempo evocasse la nostra epoca attuale. Mi piace fare questo tipo di giochi con il sonoro.
Guardando American Dreams (Lost And Found), si può notare come quest’ultimo sia fortemente influenzato dal linguaggio artistico della Pop-Art degli anni ’60. Com’è nata quest’influenza? E come ha inciso sulla realizzazione del film?
Beh, è interessante perché le figurine di baseball usate in American Dreams (Lost And Found) ricoprono il periodo dal 1954 al 1976, e il loro design era piuttosto convenzionale all'inizio. Poi, negli anni '60, sono diventate un po' più particolari e bizzarre, in quanto il loro design è stato decisamente influenzato dalla pop art. Quindi sì, c'è un riferimento diretto, graficamente parlando, in quelle figurine, rispecchiano come la pop art stesse entrando anche nella cultura popolare del baseball. Questo aspetto è presente nel film attraverso le carte. Ora, io detto tutti questi collegamenti pop in qualche modo? Assolutamente no. Voglio dire, l’uso del testo, del testo scritto a mano che attraversa il film, in teoria potrebbe essere collegato a una certa pop art che utilizza il testo, quindi si potrebbe pensare in questi termini, dettati sicuramente dall’epoca che racconto. Ma questo elemento emerge da solo, a partire dal design effettivo delle carte. Poi, dopo quel breve periodo di “follia” e di bizzarria che finisce con gli anni ‘70, le carte sono tornate a un tipo di design più convenzionale. Per cui sì, la pop art ha decisamente influenzato molti elementi del film.
Hai già in mente qualche nuovo film per il futuro? Quali sono i tuoi nuovi progetti?
Negli ultimi due anni ho cercato di scrivere questo libro su me stesso, come se stessi tenendo un diario giornaliero di ciò che ho fatto. L’ho detto anche introducendo il mio nuovo film. Inizialmente, pensavo di riuscire a farlo in un mese o due, ma sono passati più di due anni ormai. Questo progetto ha praticamente consumato la mia vita, perché sono diventato ossessivo nel fare ricerche per rendere tutto ciò che ricordavo il più accurato possibile. Mi sono messo a controllare il meteo di quei giorni, a cercare immagini di come apparivano i luoghi in quel momento, tutte queste cose. Questo mi ha davvero aiutato a recuperare la memoria. Ma alla fine, si tratta comunque solo di ricordi, giusto? Da quando sto facendo questo, non riesco a concentrarmi su altro. Ho realizzato alcuni film in questo periodo, ma sono molto minimalisti. little boy è stato fatto piuttosto in fretta. Devo finire questo libro prima di poter davvero dedicarmi ad altro. Sono quasi alla fine. Dopodiché, andrò alla Neugerriemschneider di Berlino, che si trova a Mitte, con questi giovani e famosi artisti vietnamiti. L'intera mostra è nata dalle ricerche che ho fatto per il libro, così come le stesse ricerche hanno portato a little boy. Quindi, in un certo senso, anche se sono stato ossessionato dal libro, questo mi ha comunque portato a realizzare installazioni artistiche e film. Ma il mio prossimo obiettivo immediato è finire di scrivere il libro. Solo dopo averlo concluso, capirò quali saranno i miei prossimi progetti.
INT-90
21.03.2025
Nel panorama indipendente del cinema americano James Benning rappresenta uno degli autori più particolari e interessanti degli ultimi cinquant'anni anni. Le sue sperimentazioni in campo filmico hanno raggiunto, nel corso del tempo, una sempre più elevata radicalità, che ha contribuito a sviluppare un’idea che rifugge dai classicismi soliti del cinema occidentale (soprattutto quelli riguardanti l’uso di una trama e dello sviluppo di una sceneggiatura).
Il cinema strutturalista di Benning abbraccia, così, gli spazi più reconditi dell’America, terra che, come mostrano molti suoi lungometraggi, è ricca di contraddizioni che il regista non esita ad analizzare, invitando lo spettatore ad esperire il cinema in un modo totalmente nuovo e differente rispetto ai classici grandi “romanzi” americani a cui la cinematografia mainstream ci ha abituato. Quelle create dal regista statunitense sono delle vere e proprie esperienze spettatoriali, che si sostengono soprattutto su una composizione dei quadri molto anomala e particolare, unica nel suo genere e addetta a risvegliare la coscienza di chiunque guardi/osservi il film.
Benning, quest’anno, è ritornato nei lidi della Berlinale - dove aveva già presentato, nella sezione Forum, The United States Of America (2022), e Allensworth (2023) - con un nuovo film, dal titolo little boy (2025). Anch’esso presentato dentro Forum, l’ultimo lavoro del cineasta si pone come un vero e proprio viaggio di crescita attraverso immagini e suoni che riescono a ricreare l’esperienza della sua infanzia, vissuta in quel di Milwaukee.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare James Benning e di farci raccontare i segreti relativi al suo cinema e al suo nuovo film.
little boy (2025)
little boy è stato presentato al Festival di Berlino 2025 nella sezione Forum. Nella descrizione presente sul sito della Berlinale, little boy viene definito come un film “complementare” ad American Dreams (Lost And Found), pellicola del 1984. Qual è, dunque, il collegamento tra queste due opere?
L’analogia più ovvia tra i due film è che entrambi utilizzano dei discorsi registrati e la musica come guida per muoversi nel tempo. La differenza, invece, si trova nelle modalità: American Dreams aggiunge anche un testo che scorre nella parte inferiore dello schermo durante quasi tutto il film. Ed è un film costruito come fosse un surplus continuo di informazioni. Si svolge dal 1953 al 1975 o 1976, gli anni in cui Henry Aaron, un giocatore di baseball nero la cui carriera si è svolta in parte a Milwaukee, dove sono cresciuto, era in squadra. Gran parte di ciò è autobiografico. Le inquadrature sono molto più brevi rispetto a little boy, non includono tutte le registrazioni e nemmeno tutti i brani musicali. American Dreams è stato costruito come una sorta di film di formazione per me stesso. Quelli erano gli anni in cui sono diventato adulto, è una sorta di descrizione della mia crescita e della mia identificazione in Arthur Bremer, provenendo entrambi da Milwaukee. Quindi ci sono queste connessioni. Il nuovo film, invece, nasce dai miei ultimi anni di ricerca su me stesso, ho cercato di ricreare un diario che non ho mai scritto. Ero interessato a queste cose in particolare. Ho svolto una ricerca approfondita in modo da avere una varietà di tipi di musica e discorsi di persone che mi hanno influenzato. Penso che, per me, sia una sorta di avvertimento sulle condizioni odierne del mondo, del fatto che siamo in un momento davvero importante in cui le cose devono essere affrontate.
Questo è molto interessante, perché American Dreams (Lost And Found) rappresenta una vera e propria immagine di un’intera epoca americana. In che modo, in tal proposito, la relazione tra parole, immagini e le storie raccontate ha influenzato e condizionato il tuo modo di fare cinema?
Questa è una domanda molto interessante, perché nessuno si chiede mai in che modo la parola funziona in un film. Che rapporto hanno le parole con le immagini? E con il suono? Io mi auto-definisco un regista “strutturalista”, perché molte volte penso al contenuto dei miei film proprio attraverso la forma che intendo dare loro. Provo sempre a trovare una struttura elegante per dare sfogo alle mie idee attraverso le immagini, dunque ogni film ha una propria identità a seconda di quanto racconta. Alcune volte la parola prevarica l’immagine, altre volte è il contrario, ci sono metodi diversi per ogni film.
Trovo questo fattore molto importante, perché, in un’epoca in cui l’immagine è il vero e proprio “centro” attorno al quale ruota la Settima Arte, tu sposti l’attenzione del tuo cinema sulla componente sonora, in un modo del tutto anti-conformista. A tal proposito, credi che il tuo cinema sia un po’ anti-conformista?
Beh, per quanto mi riguarda la musica rappresenta un fattore e un’arte davvero personale. Un’arte che si rapporta direttamente con le idee presenti all’interno di un film. Più che parlare di scelte anti-conformiste, io parlerei piuttosto di voler fare un cinema completamente “ad personam”. Non uso la musica come fosse una semplice colonna sonora con lo scopo d’intrattenere lo spettatore. Ad esempio, in little boy, inizialmente in sottofondo scorre Willie Nelson, che canta l’amore giovanile, ed è l’esatto esempio di un certo tipo di cultura pop americana. Il brano mi riporta direttamente a ciò che imparavo andando a scuola, quando anch’io ero un “piccolo bambino”. Quindi la canzone in qualche modo si ricollega a ciò di cui parla il film, formando un tutt’uno con il film stesso. Anche le altre canzoni rappresentano, in qualche modo, qualcosa. Fast Car di Tracy Chapman riconduce a materializzare che, se le cose vanno male, la soluzione giusta non è andarsene e ricominciare. Si tratta di una canzone molto potente, che si ricollega direttamente agli abusi di suo padre e a come lei è uscita da questa pessima situazione. Ma la canzone si può anche ricollegare al mondo intero che, oggi come oggi, vive i soprusi di coloro che lo hanno creato.
In un’era in cui il cinema mette l’immagine, in tutta la sua complessità, al di sopra di tutto, nel tuo ultimo film c’è un approccio completamente diverso, in completa contro-tendenza nei confronti del cinema odierno. Come ti poni in relazione a quest’ultimo? E quali sono, secondo te, i registi attuali che più si avvicinano alla tua idea di cinema?
Beh, questa è una domanda davvero difficile per me, perché in realtà non guardo molto cinema odierno. Vedo pochissimi film. Un tempo vedevo molto più cinema contemporaneo grazie al mio corso nella scuola dove insegnavo, che aveva una classe apposita chiamata Film Today. Quando Tom Anderson era un mio collega, portava film davvero straordinari da tutto il mondo, quindi ero più sintonizzato su ciò che stava accadendo. Ora sono giunto a un'età in cui non vedo più molto, quindi non m’importa molto del cinema di oggi. Allo stesso tempo, sono consapevole di far parte di questo mondo e che, quindi, qualsiasi cosa abbia girato può essere paragonata ad altri e nuovi registi. Ma è difficile un paragone, soprattutto con quest’ultimo film, che è estremamente auto-biografico, che si rifà a ciò che sento di aver vissuto, a quello che ho sperimentato e a come, in questo momento della mia vita, ho paura. È una sorta di avvertimento: siamo in un momento in cui dobbiamo riprendere il controllo. E questa, probabilmente, è la parte fondamentale, malgrado tutto, del vivere oggi in America: molti di noi sono spaventati da questa nuova direzione del Governo, completamente fuori controllo. Una direzione che mai avrei immaginato. Ma anche prima, con Obama, di cui ero davvero entusiasta in quanto prima persona di colore a diventare presidente, ebbi una grossa delusione: non ha fatto nulla di quanto promesso, ha aumentato gli attacchi con i droni e la guerra non è cessata, seguendo l’operato di Lyndon B. Johnson. Ad ogni modo, questo rappresenta la mia disillusione nei confronti del mondo, che si riversa anche, purtroppo, nei confronti del cinema di oggi, e rappresenta anche il motivo per il quale faccio davvero molta fatica a connettermi con altri registi, soprattutto con quelli che non si preoccupano di ciò che accade in America. Odio essere così pessimista, ma abbiamo sicuramente bisogno di più onestà in questo mondo e di mantenere viva la passione in questi dibattiti. Non ho molte notizie sul cinema odierno. Conosco molti giovani cineasti che passano per la mia scuola, e mi danno grande speranza per il futuro, per realizzare un cinema capace di ampliare il vocabolario, e non solo di ricreare modelli che portano al successo in termini di botteghino, o qualunque sia il modo in cui si misura il successo nell’arte al giorno d’oggi. Penso che ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di film intelligenti che ci pongano domande, che ci spingano ad affrontare e risolvere veri problemi.
American Dreams (1984)
Parlando proprio di “modelli” nello specifico, dato che li hai menzionati. In little boy, ci sono alcuni modellini in miniatura che possono ricollegarsi, allegoricamente, alle varie fasi di vita che attraversa un bambino. Da che cosa è nata quest’intuizione? Come mai hai utilizzato dei modellini per rappresentare la crescita di un individuo?
Io sono sempre stato appassionato, fin da piccolo, di treni, sia delle costruzioni giocattolo che di quelli reali. Mio padre mi portava spesso alla stazione di Milwaukee per guardarli, ai tempi in cui c'erano ancora le locomotive a vapore, che erano molto spettacolari con tutto quel fumo che usciva. E così, ho sempre amato i treni. Mi piace guardarli. Avevo dei trenini elettrici. Quando ho iniziato a pensare a little boy rapportandomi al progetto come fossi un bambino, ho pensato che il modellismo ferroviario fosse una vera connessione con l'età infantile, o quantomeno con la mia infanzia. Quindi ho deciso di usare dei modelli. I modelli che ho comprato e che ho usato nel film appartengono a un'epoca industriale più antica, quindi sono principalmente edifici industriali vecchi, molto simili alla Industrial Valley di Milwaukee. Ho pensato: “Ecco, questi sono i modellini che rappresentano la mia infanzia”. Da bambino giocavo nella Industrial Valley, saltavo sui treni merci e camminavo sui binari. Ricordo anche che c'era un fiume dove si poteva andare a pescare e fare altre cose. Era davvero un posto speciale, che oggi a Milwaukee è praticamente scomparso: gli edifici sono stati demoliti e stanno iniziando a gentrificare questa zona industriale. Tutti questi ambienti rappresentano tutta la mia infanzia, ma allo stesso tempo volevo collegarli all’attualità, rapportandoli anche all’industria delle armi degli USA. Così ho dato ai modelli nomi di aziende che hanno fatto enormi profitti producendo munizioni e bombe, con l'unico obiettivo di guadagnare denaro, senza preoccuparsi di cosa stessero realmente producendo e del pericolo che questo avrebbe comportato. Quindi, in un certo senso, ho voluto accostare l'innocenza della mia infanzia a qualcosa di decisamente più oscuro.
Restando legati al tuo cinema e uscendo un attimo al di fuori dello spazio di little boy, ho una curiosità meramente tecnica sul tuo approccio filmico. Guardando soprattutto Ruhr (2009), film in cui hai usato per la prima volta supporti in HD per riprendere e in cui, sempre per la prima volta, hai fatto ricorso al digitale, mi sapresti dire come quest’ultimo ha influenzato il tuo lavoro con la cinepresa?
Come hai detto tu stesso Ruhr è stato il primo film che ho realizzato con supporti HD, quindi non avevo ancora molta familiarità con tutte le possibilità che il digitale offre. Però avevo un film molto specifico da girare, che doveva in qualche modo definire cosa fosse quella parte occidentale della Germania, quel luogo industriale. Ho accettato questa sfida perché ho girato principalmente intorno a Duisburg, tra le acciaierie e le industrie pesanti di quella zona. Mi ricordava molto Milwaukee, il Midwest, Gary, Indiana, e tutta l’industria pesante di quei luoghi. Quindi, in un certo senso, era come se conoscessi già quell'ambiente. Non sapevo ancora quale tipo di luce avrebbe funzionato meglio con la mia telecamera, ma alla fine ho girato in autunno, con il cielo grigio e con bassi contrasti, e questa nuova tecnologia si sposava perfettamente con quel tipo di luce. È stato un caso che, per il mio primissimo film in digitale, avessi trovato la luce perfetta per la telecamera. Così ho imparato molto da quelle prime riprese. Abbiamo girato per un paio di settimane e avevo un'assistente che parlava tedesco (cosa che io non sapevo fare) ed era abbastanza convincente da riuscire a farci entrare praticamente ovunque. Questo mi ha dato la libertà di poter filmare dove volevo e con una luce perfetta. Quindi, tutte le preoccupazioni che avevo per le variabili introdotte dal digitale sono svanite: penso di essere stato fortunato. Poi con i successivi film ho imparato sempre di più. All'inizio pensavo che il digitale non mi sarebbe piaciuto, ma dopo alcuni film ho capito che era il mezzo più adatto a quello che faccio. Registra le immagini in alta definizione, ma non in 6K o in una risoluzione eccessivamente nitida. Restituisce ancora un po’ di grana simile a quella della pellicola, senza le caratteristiche che non mi piacciono del digitale. Certo, non ha lo stesso romanticismo, è molto più realistico. Ma mi sento di difenderlo. Sento alcuni registi dire che preferiscono la pellicola, il 35mm, che ha un aspetto migliore: secondo me è pura nostalgia. Naturalmente mi piace girare anche in 16mm, ma mi piace girare anche in digitale e non sono affatto scontento. Anzi, mi ha reso la vita molto più facile: prima ci volevano 30.000 dollari per fare un film di due ore, mentre ora, una volta che hai l’attrezzatura, puoi fare tutto da solo, praticamente non ci sono costi, a parte qualche soldo per la benzina e qualche panino per sopravvivere. Ad esempio, little boy l’ho girato in una settimana, usando solo la luce naturale. Ho girato in un corridoio della mia scuola, aprendo la porta sul retro per far entrare la luce. Ho trovato un posto in cui i modelli e le mani risultavano bene in video. Penso addirittura che oggi i miei film abbiano una forza maggiore, perché le immagini sono più realistiche, rifuggendo da romanticismi ed effetti nostalgia.
Nel 2022, hai curiosamente optato di ritornare sui passi già percorsi nel 1975 in The United States Of America, proponendo un film omonimo. Quali sono le differenze tra il film del 1975 e il film del 2022?
La prima differenza, chiaramente, è l’approccio di ripresa. Il primo è girato su pellicola e con una telecamera fissa sul retro di un'auto. Quindi la telecamera non si muove, ma è la macchina a muoversi, dando l’illusione che la telecamera si stia spostando. In realtà, rispetto a noi seduti in macchina, non si muove affatto. È un film piuttosto giocoso. Attraversiamo tutto il paese senza mai dirci una parola, cosa che ci sembrava interessante, e lasciamo che sia la radio a parlare per noi. Abbiamo scelto un momento importante per girare quel film. Era la primavera del 1975 e stavano accadendo molte cose. La più grande era la caduta del Vietnam del Sud nelle mani del Nord e l’abbandono della guerra da parte degli Stati Uniti. E così, mentre io e Bette attraversiamo il paese, avviene la caduta di Saigon. Poi ci sono altri piccoli eventi: Bobby Fischer che decide di non partecipare al Campionato di scacchi, Patty Hearst che viene catturata dopo essere stata ostaggio e aver aderito all'SLA. E poi la musica: è un buon esempio della musica del 1975, quindi ora quel film è diventato una sorta di capsula del tempo. Quando ho realizzato il “nuovo capitolo”, non aveva nulla a che fare con il primo. È stato girato durante il COVID, e ho pensato di fare un film sugli Stati Uniti. Anche se avessi potuto viaggiare così tanto, non avrei avuto i soldi per andare in tutti e 52 i posti. Sono andato anche a Washington D.C. e in Porto Rico. Ho aggiunto la visita anche in quei luoghi, perché per me entrambi dovrebbero essere Stati degli USA. Ma poi ho pensato: la California è talmente varia che potrei rappresentare l’intero paese semplicemente viaggiando in diversi luoghi dello Stato. Quest’idea mi era già venuta negli anni '80, quando ho vissuto a New York per otto anni. All'epoca volevo girare un film in cui New York rappresentasse tutte le grandi città degli Stati Uniti. Avrei trovato quartieri che somigliassero a Philadelphia, Los Angeles, e avrei detto 'Ecco Philadelphia' o 'Ecco Los Angeles'. Ma quel progetto non l'ho mai realizzato. Così, quando è arrivato il COVID, ho pensato: 'Oh, questa è un’idea interessante'. Mi permetteva di viaggiare e di uscire di casa, ma comunque in modo relativamente sicuro, perché conoscevo già le location in cui sarei andato. È stato un progetto molto divertente, e non ho mai avuto l’intenzione di ingannare il pubblico. Ho sempre saputo che avrei rivelato tutto alla fine. Penso che questo sia stato un aspetto che ha divertito molto le persone: amavano essere ingannate, ma capivano che non era un inganno totale, perché svelavo i trucchi. Credo che in quel periodo avessimo tutti bisogno di un po’ di umorismo, dopo essere stati chiusi in casa così a lungo. L'ho visto proiettato in diversi posti e ha sempre strappato grandi risate. E il titolo? Beh, l’oggetto sono comunque gli USA. Quindi in realtà non ho ingannato nessuno.
American Dreams (1984)
In little boy, American Dreams (Lost And Found) ed altri tuoi film, il suono è uno degli aspetti fondamentali. Quant’è importante la tecnica di registrazione del suono per la buona riuscita di un film e dei suoi intenti?
Direi che è importante per la maggior parte dei registi. Quando ho iniziato a girare, il suono era un fattore molto secondario, lo trattavo quasi come un elemento accessorio. Ma non ci è voluto molto perché mi rendessi conto che il suono è importante quanto l'immagine. È una cosa interessante: se guardo Landscape Suicide oggi e mi ricordo come ho creato quelle tracce audio, penso che il suono creato sia troppo elaborato. Stavo cercando troppo di aggiungere suoni ovunque, li enfatizzavo troppo. Quando guardo quei primi film, mi rendo conto che avrei dovuto attenuare un po’ tutto. Così, man mano che ho realizzato sempre più film, riducevo sempre di più il suono, ma senza renderlo meno importante, anzi lo rendevo più sottile, e proprio nel momento in cui diventava più sottile, diventava anche più significativo per me. Mi ci sono voluti 25-30 anni per arrivare a un punto in cui utilizzo il suono in modo molto più discreto. Probabilmente ora è ancora più importante di prima, perché agli inizi il suono era solo illustrativo e queste illustrazioni erano troppo ovvie. Ora posso inserire un semplice rumore. Per esempio, nel primo fotogramma di little boy (dove c’è un modellino di un T-Rex), ho trovato online una ricostruzione del suono che, secondo gli scienziati, il T-Rex probabilmente emetteva. Ovviamente è solo un'ipotesi, ma basandosi sulla struttura ossea e altri elementi, hanno dedotto che potesse emettere questo tipo di suono. È interessante perché quel suono non assomiglia per niente a quello di Jurassic Park (1993) prodotto da Hollywood. È molto più sottile e, secondo me, molto più spaventoso rispetto al suono esagerato creato da Hollywood. Ma quel suono da solo non mi bastava. Così ho anche registrato l’audio fuori dalla porta accanto al set dove stavo filmando il modellino. Era una porta sul retro che faceva entrare la luce, ma si trovava accanto alla banchina di carico della scuola. Da lì si poteva sentire il traffico dell'autostrada Interstate 5. Ho quindi mescolato quel suono continuo della strada con il verso del T-Rex. A un certo punto, verso la fine della scena, si sente un camion che fa retromarcia, con il classico segnale acustico. Quindi, in quella prima inquadratura, si sente il suono che gli scienziati attribuiscono al T-Rex, ma anche i suoni moderni di autostrade e camion. Ho fatto un mix molto particolare per rendere tutto più evocativo, in modo che quel suono somigliasse a un T-Rex ma allo stesso tempo evocasse la nostra epoca attuale. Mi piace fare questo tipo di giochi con il sonoro.
Guardando American Dreams (Lost And Found), si può notare come quest’ultimo sia fortemente influenzato dal linguaggio artistico della Pop-Art degli anni ’60. Com’è nata quest’influenza? E come ha inciso sulla realizzazione del film?
Beh, è interessante perché le figurine di baseball usate in American Dreams (Lost And Found) ricoprono il periodo dal 1954 al 1976, e il loro design era piuttosto convenzionale all'inizio. Poi, negli anni '60, sono diventate un po' più particolari e bizzarre, in quanto il loro design è stato decisamente influenzato dalla pop art. Quindi sì, c'è un riferimento diretto, graficamente parlando, in quelle figurine, rispecchiano come la pop art stesse entrando anche nella cultura popolare del baseball. Questo aspetto è presente nel film attraverso le carte. Ora, io detto tutti questi collegamenti pop in qualche modo? Assolutamente no. Voglio dire, l’uso del testo, del testo scritto a mano che attraversa il film, in teoria potrebbe essere collegato a una certa pop art che utilizza il testo, quindi si potrebbe pensare in questi termini, dettati sicuramente dall’epoca che racconto. Ma questo elemento emerge da solo, a partire dal design effettivo delle carte. Poi, dopo quel breve periodo di “follia” e di bizzarria che finisce con gli anni ‘70, le carte sono tornate a un tipo di design più convenzionale. Per cui sì, la pop art ha decisamente influenzato molti elementi del film.
Hai già in mente qualche nuovo film per il futuro? Quali sono i tuoi nuovi progetti?
Negli ultimi due anni ho cercato di scrivere questo libro su me stesso, come se stessi tenendo un diario giornaliero di ciò che ho fatto. L’ho detto anche introducendo il mio nuovo film. Inizialmente, pensavo di riuscire a farlo in un mese o due, ma sono passati più di due anni ormai. Questo progetto ha praticamente consumato la mia vita, perché sono diventato ossessivo nel fare ricerche per rendere tutto ciò che ricordavo il più accurato possibile. Mi sono messo a controllare il meteo di quei giorni, a cercare immagini di come apparivano i luoghi in quel momento, tutte queste cose. Questo mi ha davvero aiutato a recuperare la memoria. Ma alla fine, si tratta comunque solo di ricordi, giusto? Da quando sto facendo questo, non riesco a concentrarmi su altro. Ho realizzato alcuni film in questo periodo, ma sono molto minimalisti. little boy è stato fatto piuttosto in fretta. Devo finire questo libro prima di poter davvero dedicarmi ad altro. Sono quasi alla fine. Dopodiché, andrò alla Neugerriemschneider di Berlino, che si trova a Mitte, con questi giovani e famosi artisti vietnamiti. L'intera mostra è nata dalle ricerche che ho fatto per il libro, così come le stesse ricerche hanno portato a little boy. Quindi, in un certo senso, anche se sono stato ossessionato dal libro, questo mi ha comunque portato a realizzare installazioni artistiche e film. Ma il mio prossimo obiettivo immediato è finire di scrivere il libro. Solo dopo averlo concluso, capirò quali saranno i miei prossimi progetti.