La crisi d’identità del cinema
nell’era dello streaming,
di Rodrigo Mella
TR-24
05.03.2021
INT. BAGNO - MATTINA (C. 2021)
Un ragazzo giovane, sulla ventina, siede sulla tavoletta di un water. Si è svegliato da poco, e mentre dà sfogo ai propri bisogni naturali, scorre il pollice sullo schermo del telefono, intento a recuperare post e avvenimenti persi durante la notte.
POV del giovane. Su Instagram, appare la storia di un vecchio compagno di classe, un video di pochi secondi in cui viene ritratto un cane addormentato su un divano. Il giovane manda avanti, e si sofferma sugli highlights di una partita dei Brooklyn Nets. Poi chiude l’applicazione e va su Facebook, dove uno dei post in evidenza lo avverte dell’uscita del video del nuovo pezzo di Cardi B.
Nuovo cambio d’app – si apre Youtube. Non c’è neanche bisogno di aprire la casella di ricerca, il video è già lì ad aspettarlo. Parte la pubblicità, 5 secondi per poterla saltare. È il nuovo spot della Cadillac, con Timothée Chalamet che interpreta il figlio di Edward mani di forbice. 5, 4, 3, 2, 1. Il giovane lascia scorrere la pubblicità fino alla fine. Poi, finalmente, inizia il video. I versi di Cardi B irrompono sullo schermo tra decine di set sgargianti, ma ormai il film di Tim Burton gli ha invaso la mente, e mosso da una necessità ansiogena, il ragazzo esce da Youtube e apre Netflix.
Entra per sbaglio nell’account della madre – sospiro di rassegnazione. Chiude l’applicazione, e la apre una seconda volta. Questa volta clicca sull’account giusto e poi dritto su cerca: ‘Edward mani di forbice’. Non disponibile. L’ansia a questo punto rischierebbe di sopraffarlo, se non fosse che tra i titoli collegati appare ‘The Mask’. Il giovane rammenta le serate d’infanzia passate di fronte ad Italia 1, quando il sabato in prima serata ‘The Mask’ era praticamente una costante. Mosso dalla nostalgia, e ancora incosciente del rossore che nel frattempo si stava creando tra le sue natiche e la tavoletta, il giovane clicca sulla maschera verde di Jim Carrey e lascia partire il film.
FINE SCENA
Dopo l’uscita di un recente articolo su Fellini realizzato per Harper’s Magazine, Martin Scorsese ha fatto nuovamente parlare di sé. È passato più di un anno dalla polemica scaturita dalle sue dichiarazioni in cui sosteneva che i film della Marvel fossero più facilmente paragonabili ad un parco divertimenti che all’arte cinematografica. Che si tratti di una provocazione o meno, ciò che le parole di Scorsese cercavano di sottolineare è che soprattutto al livello degli studios il cinema sta cambiando volto, tanto da risultare per alcuni praticamente irriconoscibile. Non sorprende dunque che dopo un anno in cui il cinema si è dovuto arrendere, per circostanze eccezionali e non, all’egemonia dello streaming, Scorsese avesse qualcosa da dire al riguardo. L’articolo del regista americano inizia in modo analogo a questo, con la descrizione di una scena in cui un giovane gira per le strade della New York del 1959 e rimane esterrefatto dalle proposte dei vari cartelloni – Ombre di Cassavetes, Tirate sul pianista di Truffaut, 8 ½ di Fellini, e così via. Finita la scena, Scorsese ci catapulta nel presente, nell’era di Netflix e Amazon, dove l’essenza del cinema e la sua definizione sono forse più in discussione che mai.
Esiste un legame inestricabile tra il contenuto artistico, qualsiasi esso sia, e il contesto in cui quest’ultimo viene presentato. E anche se è vero che i graffiti di Basquiat e Banksy non avrebbero senso all’interno di una galleria, e che A Love Supreme andrebbe ascoltato su vinile, non c’è forma d’arte più strettamente legata alla proprio contesto esibizionistico del cinema. Tanta è la giustapposizione tra il cinema e il luogo ad esso dedicato che ci si riferisce ad entrambe le cose con lo stesso termine. Detto ciò, è innegabile che soprattutto nell’ultimo decennio questa sincronia sia andata via via sfasando, fino a raggiungere il punto di rottura in cui ci troviamo attualmente. Ci siamo ormai abituati a guardare film sullo schermo di un portatile, o al massimo in televisione, in un tipo di esperienza visiva ben lontana da quella raccontata da Scorsese. Guardiamo i film sullo stesso schermo in cui vediamo le serie TV, i video su Youtube, le pubblicità, i video sui gatti, e i notiziari. Scorsese si riferisce a questo appiattimento dell’esperienza spettatoriale con l’espressione <<level playing field>>, che in inglese viene usata per descrivere una situazione in cui tutti i partecipanti competono alla pari, ma che in questo caso serve ad interrogare l'illusoria natura democratica dello streaming. E se l’unica differenza tra un film e qualsiasi altro tipo di contenuto visivo è la durata, e conseguentemente la temporalità di consumo invece che la modalità, è possibile che effettivamente non si tratti più di cinema.
Per capire la critica di Scorsese, ha senso fare un ulteriore passo indietro fino agli albori del cinema. Le prime immagini proiettate trovarono il proprio pubblico alla fine del XIX secolo all’interno dei teatri di vaudeville, che proponevano spettacoli composti da una varietà infinita di performance. Tra queste vi erano musicisti, ballerini, comici e animali esotici, e le proiezioni venivano inserite per lo più come intervalli o spezzoni umoristici. La popolarità delle motion pictures crebbe però rapidamente, tanto che nei primi anni del ‘900 iniziarono a comparire negli Stati Uniti i primi spazi dedicati interamente alla loro esibizione– i cosiddetti nickelodeon (dalla parola nichelino, che allora equivaleva al prezzo di un biglietto). Con una sala ed uno schermo interamente dedicato alle proiezioni, i nickelodeon furono a tutti gli effetti i primi veri cinema. La maggior parte dei “film” consisteva in singole scene che ritraevano eventi mondani senza una particolare intenzione narrativa (non poi così diversi dalle miriadi di video che oggi troviamo sui social). Ad esempio, il famoso The Kiss del 1896 durava poco più di trenta secondi e ritraeva una coppia che si baciava. Un biglietto copriva ovviamente più di una riproduzione, e gran parte dell’intrattenimento stava proprio nel vedere la pellicola riavvolgersi prima di ricominciare, visto che nessuno prima di allora aveva mai osservato il tempo scorrere al contrario. Il prezzo stracciato dei nickelodeon spazzò via in poco tempo i teatri di vaudeville, che avendo molti più costi da coprire per le performance non ebbero modo di competere. Questo creò uno spostamento improvviso del capitale verso la produzione cinematografica, che si espanse in maniera esponenziale sia artisticamente che materialmente. Dall’avvento dei nickelodeon, è successo solo altre due volte che l’industria dell’intrattenimento subisse un cambiamento così brusco. La prima con la diffusione della televisione negli anni cinquanta; e la seconda, a cui stiamo assistendo adesso, con l’arrivo dello streaming. Anche tracciando la scomparsa del vaudeville a favore dei nickelodeon, non è chiaro quando sia nato effettivamente il cinema come arte, ed è forse più giusto parlare di un periodo di transizione durato vari anni. Non è dunque da escludere la possibilità che ci troviamo nuovamente in un periodo simile, in cui il cinema sta lentamente svanendo, e si aprono le porte per una nuova era dell’intrattenimento visivo.
Esiste però anche una controargomentazione. Pur trattandosi di un contesto senza precedenti, le considerazioni metafisiche sull’essenza del cinema non sono di certo una novità, e la sua definizione è da sempre stata messa in discussione, soprattutto da chi, come Scorsese, il cinema lo fa. Nel 1958, Bruce Conner realizzò A Movie, uno dei primi cortometraggi ad usare immagini d’archivio in un contesto artistico. L'obiettivo era appunto quello di mettere in discussione l’essenza stessa del cinema, applicando i formalismi di quest’ultimo su del materiale che di per sé non sarebbe stato considerato cinematografico. Così facendo, Conner finì per dar vita ad un qualcosa che meglio non potrebbe essere descritto se non dal titolo del cortometraggio stesso. Una considerazione simile è riconducibile al film realizzato nel 2011 da Jafar Panahi, intitolato appunto This Is Not a Film. Censurato dal governo iraniano, Panahi decise di fare un film sul non poter fare un film. Agli arresti domiciliari e in attesa del risultato dell'appello sulla sua sentenza, il regista recita alcune scene della sceneggiatura che avrebbe voluto realizzare, spiegando passo a passo anche come gli sarebbe piaciuto girarle. Il film venne poi contrabbandato fuori dai confini nazionali in un flash drive nascosto dentro una torta di compleanno, per poi finalmente raggiungere Cannes. Oltre ad essere un incredibile atto di protesta, This Is Not a Film è soprattutto ciò che dichiara di non essere – ossia, un film. I film di Connor e Panahi sono utili a questa riflessione per due motivi: primo, per l’ambizione di voler sovvertire il concetto e la definizione di cinema; e secondo, per volerlo fare attraverso il mezzo cinematografico stesso. Ciò che si deduce da questi due film è che l’unica cosa che conta per fare cinema è l’intenzione stessa. Per quanto il grande schermo sia forse parte imprescindibile di quest’arte, finchè esiste la volontà di fare cinema, il risultato non potrà mai essere niente altro.
L’unica risposta certa è quella che ci sarà data dal tempo, o forse neanche quello servirà a trovarne una definitiva. E in questo senso, il quesito di Scorsese ricorda in parte quello posto dal filosofo George Berkeley. Per mettere in discussione i principi della scienza, Berkeley formulò un interrogativo estremamente complesso nella sua semplicità: se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente, fa rumore? Per Berkeley la risposta era chiara – l’albero non fa rumore, in quanto gli oggetti esistono solo se percepiti. La domanda finì per avere una risonanza enorme sulle teorie di percezione della realtà, e la soluzione rimane tutt’oggi argomento di dibattito. Il punto, tornando al cinema, è che la domanda a volte è più importante della risposta, perché ci spinge a cercarne una. E quindi, se esce un film e nessuno lo va a vedere al cinema, è ancora cinema?
La crisi d’identità del cinema
nell’era dello streaming,
di Rodrigo Mella
TR-24
05.03.2021
INT. BAGNO - MATTINA (C. 2021)
Un ragazzo giovane, sulla ventina, siede sulla tavoletta di un water. Si è svegliato da poco, e mentre dà sfogo ai propri bisogni naturali, scorre il pollice sullo schermo del telefono, intento a recuperare post e avvenimenti persi durante la notte.
POV del giovane. Su Instagram, appare la storia di un vecchio compagno di classe, un video di pochi secondi in cui viene ritratto un cane addormentato su un divano. Il giovane manda avanti, e si sofferma sugli highlights di una partita dei Brooklyn Nets. Poi chiude l’applicazione e va su Facebook, dove uno dei post in evidenza lo avverte dell’uscita del video del nuovo pezzo di Cardi B.
Nuovo cambio d’app – si apre Youtube. Non c’è neanche bisogno di aprire la casella di ricerca, il video è già lì ad aspettarlo. Parte la pubblicità, 5 secondi per poterla saltare. È il nuovo spot della Cadillac, con Timothée Chalamet che interpreta il figlio di Edward mani di forbice. 5, 4, 3, 2, 1. Il giovane lascia scorrere la pubblicità fino alla fine. Poi, finalmente, inizia il video. I versi di Cardi B irrompono sullo schermo tra decine di set sgargianti, ma ormai il film di Tim Burton gli ha invaso la mente, e mosso da una necessità ansiogena, il ragazzo esce da Youtube e apre Netflix.
Entra per sbaglio nell’account della madre – sospiro di rassegnazione. Chiude l’applicazione, e la apre una seconda volta. Questa volta clicca sull’account giusto e poi dritto su cerca: ‘Edward mani di forbice’. Non disponibile. L’ansia a questo punto rischierebbe di sopraffarlo, se non fosse che tra i titoli collegati appare ‘The Mask’. Il giovane rammenta le serate d’infanzia passate di fronte ad Italia 1, quando il sabato in prima serata ‘The Mask’ era praticamente una costante. Mosso dalla nostalgia, e ancora incosciente del rossore che nel frattempo si stava creando tra le sue natiche e la tavoletta, il giovane clicca sulla maschera verde di Jim Carrey e lascia partire il film.
FINE SCENA
Dopo l’uscita di un recente articolo su Fellini realizzato per Harper’s Magazine, Martin Scorsese ha fatto nuovamente parlare di sé. È passato più di un anno dalla polemica scaturita dalle sue dichiarazioni in cui sosteneva che i film della Marvel fossero più facilmente paragonabili ad un parco divertimenti che all’arte cinematografica. Che si tratti di una provocazione o meno, ciò che le parole di Scorsese cercavano di sottolineare è che soprattutto al livello degli studios il cinema sta cambiando volto, tanto da risultare per alcuni praticamente irriconoscibile. Non sorprende dunque che dopo un anno in cui il cinema si è dovuto arrendere, per circostanze eccezionali e non, all’egemonia dello streaming, Scorsese avesse qualcosa da dire al riguardo. L’articolo del regista americano inizia in modo analogo a questo, con la descrizione di una scena in cui un giovane gira per le strade della New York del 1959 e rimane esterrefatto dalle proposte dei vari cartelloni – Ombre di Cassavetes, Tirate sul pianista di Truffaut, 8 ½ di Fellini, e così via. Finita la scena, Scorsese ci catapulta nel presente, nell’era di Netflix e Amazon, dove l’essenza del cinema e la sua definizione sono forse più in discussione che mai.
Esiste un legame inestricabile tra il contenuto artistico, qualsiasi esso sia, e il contesto in cui quest’ultimo viene presentato. E anche se è vero che i graffiti di Basquiat e Banksy non avrebbero senso all’interno di una galleria, e che A Love Supreme andrebbe ascoltato su vinile, non c’è forma d’arte più strettamente legata alla proprio contesto esibizionistico del cinema. Tanta è la giustapposizione tra il cinema e il luogo ad esso dedicato che ci si riferisce ad entrambe le cose con lo stesso termine. Detto ciò, è innegabile che soprattutto nell’ultimo decennio questa sincronia sia andata via via sfasando, fino a raggiungere il punto di rottura in cui ci troviamo attualmente. Ci siamo ormai abituati a guardare film sullo schermo di un portatile, o al massimo in televisione, in un tipo di esperienza visiva ben lontana da quella raccontata da Scorsese. Guardiamo i film sullo stesso schermo in cui vediamo le serie TV, i video su Youtube, le pubblicità, i video sui gatti, e i notiziari. Scorsese si riferisce a questo appiattimento dell’esperienza spettatoriale con l’espressione <<level playing field>>, che in inglese viene usata per descrivere una situazione in cui tutti i partecipanti competono alla pari, ma che in questo caso serve ad interrogare l'illusoria natura democratica dello streaming. E se l’unica differenza tra un film e qualsiasi altro tipo di contenuto visivo è la durata, e conseguentemente la temporalità di consumo invece che la modalità, è possibile che effettivamente non si tratti più di cinema.
Per capire la critica di Scorsese, ha senso fare un ulteriore passo indietro fino agli albori del cinema. Le prime immagini proiettate trovarono il proprio pubblico alla fine del XIX secolo all’interno dei teatri di vaudeville, che proponevano spettacoli composti da una varietà infinita di performance. Tra queste vi erano musicisti, ballerini, comici e animali esotici, e le proiezioni venivano inserite per lo più come intervalli o spezzoni umoristici. La popolarità delle motion pictures crebbe però rapidamente, tanto che nei primi anni del ‘900 iniziarono a comparire negli Stati Uniti i primi spazi dedicati interamente alla loro esibizione– i cosiddetti nickelodeon (dalla parola nichelino, che allora equivaleva al prezzo di un biglietto). Con una sala ed uno schermo interamente dedicato alle proiezioni, i nickelodeon furono a tutti gli effetti i primi veri cinema. La maggior parte dei “film” consisteva in singole scene che ritraevano eventi mondani senza una particolare intenzione narrativa (non poi così diversi dalle miriadi di video che oggi troviamo sui social). Ad esempio, il famoso The Kiss del 1896 durava poco più di trenta secondi e ritraeva una coppia che si baciava. Un biglietto copriva ovviamente più di una riproduzione, e gran parte dell’intrattenimento stava proprio nel vedere la pellicola riavvolgersi prima di ricominciare, visto che nessuno prima di allora aveva mai osservato il tempo scorrere al contrario. Il prezzo stracciato dei nickelodeon spazzò via in poco tempo i teatri di vaudeville, che avendo molti più costi da coprire per le performance non ebbero modo di competere. Questo creò uno spostamento improvviso del capitale verso la produzione cinematografica, che si espanse in maniera esponenziale sia artisticamente che materialmente. Dall’avvento dei nickelodeon, è successo solo altre due volte che l’industria dell’intrattenimento subisse un cambiamento così brusco. La prima con la diffusione della televisione negli anni cinquanta; e la seconda, a cui stiamo assistendo adesso, con l’arrivo dello streaming. Anche tracciando la scomparsa del vaudeville a favore dei nickelodeon, non è chiaro quando sia nato effettivamente il cinema come arte, ed è forse più giusto parlare di un periodo di transizione durato vari anni. Non è dunque da escludere la possibilità che ci troviamo nuovamente in un periodo simile, in cui il cinema sta lentamente svanendo, e si aprono le porte per una nuova era dell’intrattenimento visivo.
Esiste però anche una controargomentazione. Pur trattandosi di un contesto senza precedenti, le considerazioni metafisiche sull’essenza del cinema non sono di certo una novità, e la sua definizione è da sempre stata messa in discussione, soprattutto da chi, come Scorsese, il cinema lo fa. Nel 1958, Bruce Conner realizzò A Movie, uno dei primi cortometraggi ad usare immagini d’archivio in un contesto artistico. L'obiettivo era appunto quello di mettere in discussione l’essenza stessa del cinema, applicando i formalismi di quest’ultimo su del materiale che di per sé non sarebbe stato considerato cinematografico. Così facendo, Conner finì per dar vita ad un qualcosa che meglio non potrebbe essere descritto se non dal titolo del cortometraggio stesso. Una considerazione simile è riconducibile al film realizzato nel 2011 da Jafar Panahi, intitolato appunto This Is Not a Film. Censurato dal governo iraniano, Panahi decise di fare un film sul non poter fare un film. Agli arresti domiciliari e in attesa del risultato dell'appello sulla sua sentenza, il regista recita alcune scene della sceneggiatura che avrebbe voluto realizzare, spiegando passo a passo anche come gli sarebbe piaciuto girarle. Il film venne poi contrabbandato fuori dai confini nazionali in un flash drive nascosto dentro una torta di compleanno, per poi finalmente raggiungere Cannes. Oltre ad essere un incredibile atto di protesta, This Is Not a Film è soprattutto ciò che dichiara di non essere – ossia, un film. I film di Connor e Panahi sono utili a questa riflessione per due motivi: primo, per l’ambizione di voler sovvertire il concetto e la definizione di cinema; e secondo, per volerlo fare attraverso il mezzo cinematografico stesso. Ciò che si deduce da questi due film è che l’unica cosa che conta per fare cinema è l’intenzione stessa. Per quanto il grande schermo sia forse parte imprescindibile di quest’arte, finchè esiste la volontà di fare cinema, il risultato non potrà mai essere niente altro.
L’unica risposta certa è quella che ci sarà data dal tempo, o forse neanche quello servirà a trovarne una definitiva. E in questo senso, il quesito di Scorsese ricorda in parte quello posto dal filosofo George Berkeley. Per mettere in discussione i principi della scienza, Berkeley formulò un interrogativo estremamente complesso nella sua semplicità: se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente, fa rumore? Per Berkeley la risposta era chiara – l’albero non fa rumore, in quanto gli oggetti esistono solo se percepiti. La domanda finì per avere una risonanza enorme sulle teorie di percezione della realtà, e la soluzione rimane tutt’oggi argomento di dibattito. Il punto, tornando al cinema, è che la domanda a volte è più importante della risposta, perché ci spinge a cercarne una. E quindi, se esce un film e nessuno lo va a vedere al cinema, è ancora cinema?