La storia di Douglas Sirk,
il maestro del melodramma hollywoodiano,
di Alberto de Carolis Villars
TR-81
03.06.2023
Una cascata di diamanti discende su uno sfondo nero colmando tutto il perimetro dello schermo, mentre la melodica voce di Earl Grant intona con convinzione:
What is love without the giving,
Without love you're only living an imitation,
An imitation, of life.
Skies above in flaming color without
Love they're so much duller,
A false creation an imitation of life.
Il film è Imitation of life (Lo specchio della vita, 1959), l’ultima opera americana di Douglas Sirk, e queste parole, che accompagnano gli opening titles, sembrano scritte appositamente per descrivere l’universo del suo regista: una dimensione dove i movimenti della macchina da presa, le inquadrature, la musica, le luci e l’interazione tra corpo e scenografia, acquisiscono un significato che cela, sotto la sua elegante patina, un essenziale simbolismo. Come ci ricorda lo storico del cinema Yann Tobin, il caso di Sirk è unico nel suo genere: «Un intellettuale europeo che diventa regista a Hollywood, e, all’apice del successo, lascia gli Stati Uniti per tornare in Europa - e diventare, anche qui, un prestigioso regista teatrale- a differenza di altri stranieri, come Fritz Lang, Jacques Tourneur, Robert Siodmak o Edgar Ulmer, che invece la abbandonano alla fine della loro carriera, o di Jean Renoir e Max Ophüls che, a parte una breve parentesi, non vi si adattano mai». Ma fermiamoci un attimo. Per capire al meglio un autore dallo stile così complesso ed emblematico bisogna spostarsi, geograficamente e temporalmente, alla Germania del primo dopo guerra.
Hans Detlef Sierck è un studente - prima di Filosofia, e poi di Storia dell’Arte e Arti Plastiche - nato ad Amburgo nel 1897 da padre danese e madre tedesca. Sono gli anni dell’esperimento della Repubblica sovietica bavarese (1918-1919) e Sierck viene travolto dal clima di fermento culturale che impazza in tutta la Nazione. Giovanissimo diviene allievo di Erwin Panofsky, influente storico dell’arte, frequenta personaggi come Max Brod - scrittore boemo e intimo amico di Franz Kafka - e segue le lezioni sulla Teoria della relatività di Einstein. Inoltre si dedica alla pittura - pratica che risulterà di estrema importanza nell’equilibrio estetico delle sue immagini cinematografiche - e cura una traduzione in tedesco dei sonetti di Shakespeare, un’attività che lo spinge verso l’ambiente teatrale. A parte una breve esperienza come scenografo per il cinema, nel 1923, i primi anni di Sierck sono dedicati interamente al palcoscenico, alla traduzione di classici teatrali e alla drammaturgia.
Dopo il debutto a Chemnitz comincia un pellegrinaggio per la Germania che lo porterà a occuparsi dell'organizzazione creativa dei teatri di Brema, Lipsia - nello splendido Altes, un antico teatro rococò frequentato, a suo tempo, da Goethe - e Berlino. Fu proprio durante gli anni Venti, in piena Repubblica di Weimar (1918-1933), che il giovane Hans diverrà uno dei registi teatrali più celebri di tutto il Paese. Le sue curate rappresentazioni di opere di autori come Strindberg, Ibsen, Shaw, Brecht, Schiller, e il già citato Shakespeare, lo avvicineranno ad uno stile che trascende la realtà ed erige la messa in scena come espressione delle relazioni tra i personaggi. La deriva verso il nazismo che la Germania stava prendendo verso la fine del decennio lo portò a sviluppare, come osserva Jon Halliday, «una capacità di inscenare personaggi ambigui e dilaniati sui quali in seguito provò sempre a incentrare il suo cinema. Quest’attrazione nei confronti dell’ambiguità è stata probabilmente accentuata dal fatto che molti suoi amici e colleghi più stretti divennero nazisti».
Di fatto la situazione diventava di giorno in giorno sempre più incandescente, tanto che il regista ricorderà quegli anni come un periodo di estrema tensione. Nel 1930, dopo la decisione di portare in scena a Lipsia e Berlino, Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Bertolt Brecht e Kurt Weill - testo con un chiaro messaggio anti-dittatoriale - Sierck cominciò sempre più a scatenare le ire di gruppi estremisti, che si recavano alle rappresentazioni per intimidire gli attori e disturbare lo svolgimento degli spettacoli. Il giornale del partito nazista Völkischer Beobachter prenderà di mira molti dei lavori del regista che, dopo l’instaurazione del regime (1933), cominciò ad avere sempre più problemi. La Gestapo, che lo considerava un sovversivo, iniziò a tenerlo sotto controllo, e la sua prima moglie, l’attrice Lydia Brincken, fanatica nazionalista, riuscì a ottenere dal tribunale un’ingiunzione restrittiva che vietava a Sierck di incontrare Klaus, figlio della coppia e, dal 1935 al 1942, giovane attore del cinema nazista. Inoltre, il suo secondo matrimonio con l’attrice ebrea Hilde Jary, aggravava una già fragile situazione.
Bisognava scegliere: andarsene o cercare un modo per sopravvivere in quella società ogni giorno più ostile? Per quel momento Sierck decise di restare, allontanandosi dal teatro e avvicinandosi al cinema. Mimetizzandosi nell’industria cinematografica sarebbe riuscito a sfuggire meglio alla censura che lo stava, letteralmente, perseguitando. Grazie ad una reputazione che lo precedeva, e al successo riscontrato con l’allestimento di La dodicesima notte - il suo ultimo spettacolo - riuscì ad ottenere un contratto come regista cinematografico per l’UFA, la più importante casa di produzione tedesca. Durante la celebre conversazione che il cineasta intraprese con Jon Halliday, alla domanda dello scrittore su come fosse stato possibile ottenere un posto del genere in un momento tanto delicato, Sierck rispose: «Per quanto possa sembrare strano l’UFA non era ancora invischiata nel regime. Era un’azienda privata, e non c’erano nazisti a quell’epoca - non era necessario, perché tutti quelli che circondavano Alfred Hugenberg, presidente dell’UFA, erano comunque molto di destra. Nel 1934 -1935 la situazione dell’industria cinematografica era migliore di quella del teatro. L’altro aspetto positivo è che all’UFA i lavoratori e i tecnici erano per la maggior parte anti-nazisti, molto più di quanto non lo fossero gli intellettuali».
Girando i cortometraggi Zwei Genies (1934), Dreimal Ehe (1934) e Der eingebildete Kranke (1935) - una riduzione del Malato immaginario di Molière - riuscì a dimostrare un grande talento anche dietro la macchina da presa, talento che lo portò, dopo poco più di un anno dall’inizio della sua attività cinematografica, a realizzare il suo primo lungometraggio: April, April (1935). A distanza di pochi mesi l’instancabile Sierck girò anche Das Mädchen vom Moorhof (La ragazza di Moorhof, 1935), tratto da un romanzo della svedese Selma Lagerlöf. Oltre a mostrare già delle peculiarità stilistiche riconoscibili - geniale è la sequenza dove la macchina da presa in movimento si concentra sull’eroina che subisce gli sguardi indiscreti di una cittadina ostile, un’inquadratura che verrà riproposta diciotto anni dopo in All I Desire (Desiderio di donna, 1953) - la pellicola inquadra perfettamente quella che sarà una delle tematiche preponderanti in gran parte delle sue opere: l’accanimento del pregiudizio sociale sul libero arbitrio degli individui. Con il successivo Stützen des Gesellschaft (I pilastri della società, 1935) Sierck attinse dai suoi amati classici teatrali per trasporre su pellicola un celebre dramma di Ibsen. In seguito, proprio riguardo all’esperienza sul set di quel film, ebbe a dire: «Fu li che capii che le angolazioni di ripresa sono i pensieri del regista, l’illuminazione la sua filosofia».
La qualità della sua manifattura, e la sua cura del dettaglio, lo resero molto popolare all’UFA, permettendogli di avere sempre più libertà creativa. Nonostante i suoi lungometraggi avessero, fino a quel momento, riscosso un discreto clamore, il grande successo arrivò con Schlußakkord (La nona sinfonia, 1936). Schlußakkord può essere considerato come il primo, e totalmente risolto, capolavoro di Sierck. L’opera con cui il regista matura la sua griffa cinematografica, raggiungendo quella formula che lo accompagnerà per tutto il resto della sua carriera. Di fatto, non a caso, anni dopo dichiarò: «Durante le riprese intuii che doveva esserci un filo conduttore tra la recitazione, l’illuminazione e così via…questa connessione è molto importante, John Ford aveva questo dono, e a mio avviso anche Howard Hawks. È con Schlußakkord che sono arrivato per la prima volta al mio stile. Ma già prima ne avevo avute alcune intuizioni».
Staccandosi definitivamente dalla tendenza ad attingere in maniera diretta dalla prosa teatrale, e di conseguenza letteraria, Sierck comprese che il cinema era un mezzo con una voce a sé stante. Nella visione del regista, da Schlußakkord in poi, la macchina da presa e i suoi movimenti diventano il mezzo primario per produrre emozione e descrivere gli stati d’animo dei personaggi. Attraverso la sua toccante storia di una madre che deve fingersi, a causa di un errore commesso in passato, governante del suo stesso figlio - adottato da un celebre direttore d’orchestra e dalla sua infelice moglie - e con il suo uso delle musiche strettamente connesse alle immagini e alla narrazione, il film rappresenta uno degli esempi più riusciti di melodramma cinematografico, genere in cui Sierck eccellerà per tutta la sua carriera. In Schlußakkord i simboli fondamentali del suo cinema - i riflessi degli specchi come espressione della dualità e dei turbamenti esistenziali dei characters, lo spazio domestico ripreso come una prigione borghese, il lirismo dell’azione scenica amplificato dall’illuminazione e dal soundtrack, l’ossessiva precisione nella direzione degli interpreti - prendono una definitiva e compiuta forma. Il lungometraggio fu un trionfo al botteghino e venne presentato alla 4ª Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, un’edizione prospera di importanti autori come Josef von Sternberg, Rajaram Vankudre Shantaram, René Clair, William Dieterle, Marcel L’Herbier, Frank Capra e i già citati Max Ophüls e John Ford.
A Schlußakkord seguirono Das Hofkonzert (Il concerto di corte, 1936) - girato anche in una versione francese per la distribuzione estera - e Zu Neuen Ufern (La prigioniera di Sidney, 1937). Zu Neuen Ufern è un film estremamente stratificato, esempio perfetto di come Sierck adoperi magistralmente il genere melodrammatico per parlare, tra le pieghe dei suoi significati, esclusivamente di ciò che lo interessa. Raccontando la vicenda di una cantante di metà Ottocento che per proteggere il proprio amante si autoaccusa di una truffa venendo condannata ai lavori forzati in Australia, l’opera si trasforma pian piano in un feroce attacco alla classe dirigente, tracciando, con fine cinismo, le sottili distinzioni sociali tra l’aristocrazia in declino e i vecchi e nuovi capitalisti. Come nel successivo Habanera (La Habanera, 1937) le canzoni all’interno della narrazione giocano un ruolo fondamentale, facendosi portavoci delle immagini. Venendo adoperate in senso puramente brechtiano, esse stimolano il pubblico ad un atteggiamento reattivo e pensante. Questo stratagemma di derivazione teatrale fu confermato dal regista stesso: «Si, è uno stile brechtiano, o forse dovremmo dire weilliano. Perché Weill fu estremamente importante in tutti i lavori che lui e Brecht fecero assieme. Nessuno lo aveva mai fatto prima di allora. Le canzoni della protagonista all’interno dei due film sono canzoni morali all’interno di dei drammi. Non c’ è dubbio che per Zu Neuen Ufern e Habanera avessi preso spunto da Brecht e Weill».
Con l’ulteriore trionfo dei suoi ultimi due lavori, Sierck tronava ad essere un personaggio al centro dell’attenzione, uno status che poteva rappresentare un’arma a doppio taglio. Le sue predizioni si erano rivelate sbagliate, e la situazione politica non era migliorata. Oltre ad essere incapacitato ad andarsene, poiché senza passaporto - il regime glielo aveva confiscato nei suoi ultimi anni come regista teatrale - Douglas aveva esitato a partire a causa della situazione con Klaus. Non potendo avere un rapporto con il figlio, si recava in sala per vederlo recitare in quel cinema propagandistico che detestava. L’atmosfera si fece però decisamente pericolosa quando, come era accaduto in precedenza a Fritz Lang - all’epoca già scappato dalla Germania - gli alti componenti del Reich cominciarono a prenderlo in considerazione come un potenziale “rappresentante artistico” della cinematografia nazista, “carica” che sarà poi ricoperta dal cineasta Veit Harlan. Il regista si sentiva in trappola, doveva prendere una decisione perentoria, e cercare di fuggire il prima possibile:
«Dopo Zu Neuen Ufern proposi di girare Habanera a Tenerife. Ormai ero un regista piuttosto influente, e per questo il mio suggerimento venne immediatamente accolto. Mi misi al lavoro, definendo ogni singolo dettaglio del film, e dieci giorni prima della partenza andai a trovare Ernst Correll, il direttore dell’UFA, riuscendo ad ottenere un passaporto provvisorio di due mesi. Una volta a Tenerife gli scrissi chiedendo una proroga di sei mesi per rigirare, nell’eventualità, alcune sequenze. Durante le riprese, proprio tramite quel passaporto, riuscii a richiedere i documenti necessari per andare in America, e nel frattempo tornai in Germania per lavorare al montaggio del film. Lascai poi il Paese, sempre con il permesso dell’UFA, per cercare le location di quello che sarebbe dovuto essere il mio lavoro successivo. Mia moglie era già a Roma, e la raggiunsi li. I nazisti le avevano dato un passaporto qualche tempo prima, sapendo che era ebrea, sperando che se ne andasse e che io chiedessi il divorzio. Loro erano molto interessati a me perché il mio Schlußakkord aveva incassato più di qualsiasi altra produzione UFA della storia. Mi dicevano sempre: Abbiamo bisogno di lei, è un bravissimo regista, se solo divorziasse da sua moglie ecc. ecc... Così andai a Roma, e feci finta di ammalarmi. Cercavo di capire cosa fare. A ogni modo seppi che uno dei produttori dell’ UFA sarebbe venuto a incontrarmi. Chiedemmo aiuto al proprietario dell’albergo dove alloggiavamo, e lui ci portò dalla cugina di sua moglie, che era una monaca. In compagnia delle consorelle mi sistemarono in una stanza d’ospedale e mi dissero di mettere una bottiglia di acqua calda sotto le coperte, in maniera che, durante la stretta di mano, la mia temperatura corporea sarebbe risultata alta. Il piano funzionò, ebbi davvero fortuna perché il produttore era venuto con un volo speciale da Berlino, con due agenti della polizia pronti a riportarmi indietro. Dopo quel fatto, visto che l’Italia era in pieno fascismo e avevano fatto accordi con Hitler, pensai che le cose potevano mettersi davvero male. Immediatamente prenotai per me e la signora Sierck due biglietti d’aereo per la Svizzera, scrissi una lettera d’addio al dottor Correll e la spedii un attimo prima di partire».
Una volta arrivato a Zurigo Sierck incontrò Chiel Weissman, il distributore svizzero di Schlußakkord, che gli propose di lavorare a un film di co-produzione francese. Giunto a Parigi girò così Accord Final (1938), pellicola firmata sotto uno pseudonimo. L’UFA gli aveva fatto causa per aver infranto il contratto, e lui doveva procurarsi le risorse economiche sufficienti per sopravvivere. La breve parentesi francese lo portò anche a rifiutare di terminare Partie de campagne (Una gita in campagna, 1936) la celebre opera incompiuta di Jean Renoir, un autore di cui, anni dopo, Sierck rivendicherà l’influenza: «Il suo lavoro di regia ebbe un grande impatto su di me, e questo sin dal mio periodo teatrale, Renoir ha un tocco mozartiano. Quando vidi il suo Nanà (1926) pensai che fosse la cosa più bella del mondo». Dal momento che l’autore viveva in una sorta di clandestinità, decise di accettare di scrivere, e dirigere, un film in Olanda. Nacque in questo modo Boefje (1939), tratto da un celebre romanzo di narrativa infantile. Per quanto questo lungometraggio, come anche Accord Final, risulti un’opera di passaggio, la fine ambientazione di inizio Novecento e il tono dickensiano della narrazione ne fanno un piccolo gioiello dimenticato. Sierck non riuscì mai a visionarne il montaggio conclusivo, poiché emigrò dall’Europa il giorno della fine delle riprese, imbarcandosi sulla Staatendam, l’ultima nave olandese in rotta per gli Stati Uniti.
Appena giunto nel nuovo continente firmò un contratto con la Warner Brothers, che voleva realizzare un remake americano del suo Zu Neuen Ufern. Sierck ne riscrisse anche una nuova sceneggiatura, ma con lo scoppio della guerra in Europa, e il conseguente inasprimento dei rapporti tra USA e Germania, l’idea di girare la nuova versione di un grande successo tedesco non sembrava più essere praticabile. Di fatto gli anni Quaranta non furono una decade facile per il regista, che dovette affrontare delusioni e progetti falliti. Il suo accordo con la Warner si concluse nel 1940, dopo pochi mesi dal suo arrivo e, a causa dell’attacco a Pearl Harbor (1941), Sierck vide anche sfumare l’occasione di dirigere una nuova compagnia per il Teatro dell’Opera di San Francisco. L’unica cosa che riuscì a realizzare tra il 1940 e il 1941 fu un documentario, girato su incarico di un amico, su un monastero di frati che producevano vino. Per tirare avanti comprò una fattoria nella San Fernando Valley dove, per breve tempo, coltivò erba medica e allevò polli.
Con l’entrata degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, Hollywood si era mobilitata cominciando a realizzare film di aperta propaganda politica: un fatto che offrì al cineasta l’occasione di rimettersi in carreggiata. Gli scrittori Emil Ludwig e Albrecht Joseph stavano scrivendo una sceneggiatura che si focalizzava sulla figura del gerarca Reinhard Heydrich, uno degli uomini più pericolosi del Terzo Reich. Il film, che sarebbe stato interamente prodotto da un gruppo di emigrati tedeschi, doveva mostrare, attraverso la patina hollywoodiana, le atrocità del nazismo. Grazie alla fama tra i suoi compatrioti Sierck venne confermato alla regia. Hitler’s Madman (Il pazzo di Hitler, 1943) fu girato in indipendenza dai grandi Studios, con un piccolo budget e in tempi molto ristretti. Per renderlo maggiormente crudo, Sierck lo filmò in uno stile documentario: con assoluta chiarezza e decisa presa di posizione.
Hitler’s Madman aveva una responsabilità morale e doveva incarnare i sentimenti di un intera generazione messa a tacere. I personaggi rappresentavano dei concetti più che delle personalità, e la storia si astraeva dal semplice racconto, fino a diventare, come nel finale, una sorta di proclama. Nel suo primo lungometraggio americano il regista sfoga tutta la rabbia verso coloro che lo hanno obbligato a scappare dal suo paese e da un intero mondo intellettuale: «Era necessario dichiaralo ad alta voce da dove si veniva, e descrivere quell'inferno dantesco dal quale eravamo riusciti miracolosamente a fuggire». Louis B. Mayer - impressionato dalla potenza del lungometraggio dopo una visione in anteprima - decise di rilevare il film e di distribuirlo sotto il nome della Metro Goldwyn Mayer, un fatto del tutto eccezionale per le case di produzione di allora. Fu proprio in quel momento che Hans Detlef Sierck americanizzò il suo nome in Douglas Sirk.
Il successo del film, però, giovò solo in parte al suo autore, che dovette rifiutare un contratto proprio con la MGM poiché già scritturato dalla Columbia. I cattivi rapporti con Harry Cohn - capo dello Studio - rallentarono la scalata al successo di Sirk. Cohn “prestava” il suo regista esclusivamente a case di produzione minori o lo costringeva, per determinati periodi, all’inattività. Summer Storm (Temporale d’estate, 1944), lungometraggio ambientato nella Russia zarista e tratto da una novella di Anton Čechov, riscontrò un grande successo di critica e pubblico. Il regista riuscì a dimostrare tutta la sua raffinata sensibilità di autore del vecchio continente, perseguendo la sua indagine sul «disadattamento sociale e la strumentalizzazione sessuale».
Sirk scrisse, in collaborazione con lo scrittore James. M. Caine e l’inglese Rowland Leich, un’arguta sceneggiatura che, a differenza dello scritto di Čechov, allungava la narrazione alla Russia post-rivoluzionaria per mostrare, con non pochi riferimenti alla situazione politica del momento, l’ineluttabile ciclicità della storia umana. Fu anche l’occasione per inaugurare un felice sodalizio con George Sanders, attore che reciterà, con beffardo cinismo, anche in A Scandal in Paris (Uno scandalo a Parigi, 1946), picaresca, elegante, e a tratti surreale biografia del ladro settecentesco François Vidocq, e Lured (Lo sparviero di Londra, 1947), intelligente pellicola ispirata ad un film francese di Robert Siodmak, che mescola «l'atmosfera del thriller anglosassone, le suggestioni dell’horror e i toni della commedia giallorosa». Questi lungometraggi, contraddistinti da uno stile ancora molto “europeo”, segnano tre ottimi risultati nel primo periodo statunitense del cineasta.
Quando si parla di Sirk rispetto ad altri grandi registi del contesto hollywoodiano di quel periodo, bisogna innanzitutto tenere a mente il fatto che egli fu un autore che operò in circostanze estremamente restrittive. Gli anni sotto la “dittatura” di Harry Cohn lo costrinsero a lavorare con capitali ridotti, tempi stringenti, e limiti sulla durata del girato. Anche quando raggiunse una grande popolarità, Sirk ebbe comunque poche occasioni di scegliere personalmente i soggetti dei propri film. È così che il suo lavoro va valutato tramite la selezione delle inquadrature, il montaggio, i toni cromatici e musicali, le scelte di come rappresentare determinate situazioni, le interazioni tra i personaggi: decisioni che personalizzavano drasticamente la storia che era chiamato a filmare. Il regista esprimeva il suo “modo di vedere” attraverso una totale appropriazione del materiale che aveva, in quel momento, a sua disposizione. Se si osserva la sua opera da questa prospettiva, degli esempi perfetti risultano essere il thriller Sleep, My Love (Donne e veleni, 1948), la commedia musicale Slightly French (Amanti Crudeli, 1949), o Schockproof (Fiori nel fango, 1949), piccolo capolavoro del noir tratto da un soggetto di Samuel Fuller.
L’arrivo del nuovo decennio rappresentò una grande svolta per Sirk che, stanco del trattamento subito, annullò l’accordo con Cohn e tornò per quasi un anno in Germania. Al suo arrivo trovò un paese drasticamente cambiato. L’UFA era stata sciolta dagli americani e l’industria cinematografica tedesca vergeva in una terribile situazione, motivo per cui era impossibile pensare di riprendere a lavorare in quel contesto. Il regista passò inoltre gran parte del suo tempo a cercare, senza successo, delle tracce del figlio scomparso. Solo in seguito verrà a conoscenza della sua prematura morte - a soli 19 anni - sul fronte di guerra, un dolore che lo tormenterà per il resto della vita.
Rientrato ad Hollywood girò, con fondi indipendenti, The first Legion (1951), un interessante dramma religioso ambientato in un seminario di gesuiti, che adopera gli angusti spazi dell’ambientazione per esprimere i tormenti spirituali dei protagonisti. Fu a seguito della realizzazione di questo film che il regista accettò di firmare un contratto con la Universal, decisione che finalmente si rivelerà vincente. Dopo lo spionistico Mystery Submarine (Il sottomarino fantasma, 1950) e il solido giallo Thunder on the Hill (La campana del convento, 1951), si aprirono gli anni delle commedie sulla “piccola America”: lungometraggi dove Sirk analizza, con arguta ironia, i costumi e le usanze della provincia. The Lady Pays Off (Elena paga il debito, 1951), Weekend with Father (Vedovo cerca moglie, 1951), No Room for the Groom (Non c’è posto per lo sposo, 1952), Has Anibody Seen My Gal? (Il capitalista, 1952), Meet me at the Fair (Incontriamoci alla fiera, 1952) e Take Me to Town (Portami in città, 1953) sono lievi “ballate” sull'identità di un popolo, sui suoi rapporti con il denaro, la religione e la storia. Attraverso i suoi occhi da europeo, Sirk setaccia la società statunitense con sagace perspicacia, mettendone minuziosamente in risalto le paranoie, i vizi nascosti, le differenze sociali, il sistema di valori e i rapporti tra i sessi.
Rimanendo nell’ambito della “cronaca di provincia”, l’autore girò anche All I Desire (Desiderio di donna, 1953), il primo dei suoi grandi melodrammi degli anni Cinquanta. La storia racconta di una madre (Barbara Stanwyck) che si ricongiunge con i suoi familiari - il marito e i tre figli - dopo averli abbandonati per inseguire una carriera da attrice di vaudeville. Gli elementi sirkiani ci sono tutti: dalla curata ambientazione, in questo caso di inizio Novecento, alla tematica del singolo contro una piccola e ostile cittadina. Inoltre, proprio in questi anni - da The First Legion, Thunder on the Hill e All I Desire in poi - avverrà una sempre maggiore radicalizzazione degli elementi scenografici, impiegati per equilibrare esteticamente la resa delle immagini ed esprimere il senso di “soffocamento sociale” dei protagonisti. In questo modo gli spazi, e gli oggetti contenuti in essi, svolgono un ruolo bilanciante e allo stesso tempo drammaturgico, divenendo espressione di disagio ed emarginazione emotiva. Ad esempio: le scale, con i bordi geometrici e le loro linee rette, suddividono lo schermo, donando ordine ai frame e aiutando il plot ad esprimere le “altalenanti” emozioni dei protagonisti - non a caso i climax dei conflitti dei personaggi sirkiani avvengono, molto spesso, su, o in prossimità, di esse.
Volendo spingersi sempre più nell’analisi culturale del paese che lo ospitava, Sirk arrivò a toccare anche il genere americano per eccellenza: il western. Realizzò così Taza, Son of Cochise (Il figlio di Kociss,1954) che, come si era prefissato, riuscì a girare interamente in esterni. Il film rappresentò la sua seconda esperienza con Rock Hudson. L’attore venne infatti completamente plasmato da Sirk - i due realizzarono insieme otto lungometraggi - che lo portò ad essere il divo più redditizio della Universal. Già all’UFA il cineasta aveva mostrato le sua capacità di trasformare degli sconosciuti in interpreti di prima grandezza - la svedese Zarah Leander diventò, grazie al regista, una delle attrici tedesche più celebri della fine degli anni Trenta - quindi in America venne spesso usato per formare nuove star o rinvigorire la carriera di grandi nomi in declino, come nel caso di Barbara Stanwyck, Charles Boyer, Jane Wyman, Fred MacMurrey, Joan Bennet o Ann Sheridan.
Il successivo Magnificent Obsession (Magnifica Ossessione, 1954) rappresenta uno degli apici della carriera di Sirk: la soap opera che incontra lo schema della tragedia greca. Quando il produttore Ross Hunter gli propose il romanzo di un pastore luterano di nome Loyd C. Douglas, il regista rimase inizialmente sconcertato: «Era il libro più confuso che si potesse immaginare; era così astratto che non capivo come si potesse trarne un film». La storia ruota attorno a una vedova (Jane Wyman) che, rimasta cieca, si innamora di colui (Rock Hudson) che ha involontariamente causato la morte del marito. Ebbene avvenne un prodigio: il regista riuscì a trasformare il melenso e sconclusionato testo di Loyd in una pellicola folle e allo stesso tempo geniale. Invece di limitare le emozioni, Sirk preme il piede sull’acceleratore, e adopera la grottesca trama per caricare il film di un'emotività ribollente ed elegiaca. Attraverso l’uso di un'illuminazione straniante, di architetture razionaliste, di sottotesti religiosi, e di una musica che, nei momenti più intensi, raggiunge un delirio spirituale, diede vita ad un melodramma edipico e febbrile.
Una volta, a proposito di Magnificent Obsession, disse: «Bisogna fare del proprio meglio per odiare una storia, ma anche per amarla. Nonostante tutto in quel testo c’era qualcosa di irrazionale che mi attraeva. Qualcosa di ossessivo, perché è una delle storie più assurde che siano mai state scritte. L’ironia del tutto, non ironia nel senso ordinario del termine, ma come elemento strutturale, come elemento di un'antinomia. Il marito della protagonista muore perché un altro possa vivere. È un’ironia euripidea, è il tema dell’Alcesti: una persona placa la morte prendendo il posto di un'altra. Tra l'arte e la spazzatura c'è pochissima distanza, e la spazzatura che contiene un grano di pazzia è per questo molto più vicina all’arte di quanto crediamo».
L’enorme successo che il film riscosse portò la Universal a offrire a Sirk di dirigere nuovamente la coppia Jane Wyman/Rock Hudson. Il risultato fu ancora più straordinario del precedente. All That Heaven Allows (Secondo amore, 1955) è un’opera sublime che, sotto la sua ineccepibile forma, nasconde una spietata critica alla borghesia americana. Essa indaga «gli impulsi più oscuri che si celano sotto la solare moralità provinciale degli anni Cinquanta, mostrando in maniera sibillina le insicurezze che quella stessa moralità cerca di reprimere». Al centro della storia ci sono sempre una piccola città ed una vedova: la benestante Cary Scott. Cary si innamora, ricambiata, di Ron, un giovane giardiniere considerato, a differenza del defunto marito pilastro di quel piccolo centro, un outsider. Da quel momento in poi la pregiudiziosa comunità tenterà, in nome del buon gusto e della decenza, di separare in ogni modo la coppia. La paranoia del diverso, si può dire che sia questo il filo conduttore di una pellicola che descrive, con agghiacciante lucidità, una società sempre più ricca e allo stesso tempo incerta di sé. Di fatto il conflitto della storia non si genera tra i due innamorati, ma tra Cary e la realtà che la circonda - rappresentata dai figli egoisti, dall’amica non sciocca ma troppo borghese, dalle conoscenti pettegole e dal club di “soli soci” - che la vorrebbe relegata al ruolo di madre e vedova. La donna, trasgredendo le mansioni che la società patriarcale le ha imposto, viene cacciata dall’eden borghese.
All That Heaven Allows è un film a specchio, dove il vorace puritanesimo è raccontato attraverso la castigazione dell’immagine e l’incatenamento del corpo femminile nello spazio. Per definire la condizione della protagonista sarebbe perfetta una citazione da una poesia di Sylvia Plath: «Quello che voglio indietro è ciò che ero prima che il letto, prima che il coltello, prima che la spilla e l’unguento mi inchiodassero in questa parentesi». Come in tutta l’opera di Sirk, la solitudine di Cary è costantemente riflessa attraverso gli oggetti che arredano la sua grande casa - lo specchio della toletta, il pianoforte, il televisore regalatole dai figli per farle “compagnia” - mentre le sue incertezze vengono esplicitate tramite il geniale uso del technicolor. Nella sequenza in cui gli amanti discutono del loro futuro insieme, l’illuminazione muta continuamente: quando il tono è disteso e l’amore trionfa, la luce calda del caminetto ne abbaglia i corpi, ma quando la realtà penetra nei loro discorsi, i toni invernali, che si diffondono dalla grande finestra, prevalgono gelando l’immagine.
La collaborazione con Hudson continuò con Captain Lightfoot (Il ribelle d’Irlanda, 1955), pellicola in costume ambientata nell’Irlanda del Settecento, e girata in loco. L’elegante confezione del film - che racchiude in sé delle trovate estetiche veramente ispirate - contribuì a regalare a Sirk un altro grande trionfo. Seppur in maniera minore, anche Captain Lightfoot, come i precedenti Taza e Sign of the Pagan (Il re dei barbari, 1954), o il successivo Battle Hymn (Inno di battaglia, 1957), non è esente dall’armamentario simbolico del regista. Lo studio che questi film compiono su personaggi irrisolti e divisi è un leitmotiv costante nell’opera di Sirk. L’irresoluzione è anche il tema cardine di There's Always Tomorrow (Quella che avrei dovuto sposare, 1956), lungometraggio in cui lo splendido bianco e nero viene adoperato in forma puramente espressionistica. Torna la rappresentazione della famiglia come prigione, che ingabbia l’essere umano in un mondo suburbano, alienante ed artificiale.
La vicenda del direttore di una ditta di giocattoli (Fred MacMurrey) che, sentendosi insoddisfatto nel ruolo di padre e marito si riavvicina a un vecchio amore del passato, ha il gusto di un melodramma sulla deriva esistenziale e sull’impossibilità, tutta borghese, di provare sentimenti autentici. Il “sogno americano" viene distrutto dalla consapevolezza di un presente vuoto e dettato da meccanici rituali che non lasciano spazio alla vita reale. Emblematica è la sequenza in cui il protagonista, ripreso di spalle, guarda fuori dalla finestra mentre un piccolo robot giocattolo - chiara metafora del personaggio - gli si allontana tramite movimenti vacui e ripetitivi. Le barriere morali dei personaggi divengono anche fisiche, essi sono costantemente ripresi attraverso superfici materiali - come grate, reti, colonne e vetri - che fanno assomigliare gli spazi a oscure prigioni o inquietanti confessionali: ognuno affronta la propria emarginazione in solitudine. L’unico spiraglio di luce in questa realtà gelida viene rappresentato dai personaggi della moglie (Joan Bennet) e dell’amante (Barbara Stanwyck), figure femminili che, a differenza del fatuo protagonista, sono capaci di perdonare e trovare la forza di vivere nella menzogna.
Il successivo Written on the Wind (Come le foglie al vento, 1956), è ad oggi una delle opere più ricordate e studiate di Sirk. Anche qui la tragedia euripidea fa la sua irruzione, fondendosi con una storia di milionari alcolizzati, disfunzionali e irrimediabilmente infelici. La trama segue le vicende di Kyle Hadley (Robert Stack), un ricco rampollo che decide di sposare l’umile segretaria Lucy (Lauren Bacall). La donna, giunta nella magione di famiglia, entrerà in conflitto con la viziosa e sregolata Marylee (Dorothy Malone), sorella del marito. A complicare questa già difficile situazione sarà Mitch (Rock Hudson), migliore amico di Kyle e oggetto del desiderio di Marylee, che, innamoratosi di Lucy, innescherà la catastrofe. Gianni Volpi una volta scrisse: «Il film mette in scena la fine, per autodistruttiva nevrosi, dei figli dei costruttori di imperi texani e petroliferi, ed è un corposo dramma di forti passioni, di pulsioni di morte, bisogni frustrati, in cui però si avverte un che di più intellettuale ed europeo, una visione morale accurata che li rapporta alla decadenza di un mondo e del suo stile di vita. In Sirk il mélo è estremo, ma più che mai gli appare un archetipo di ogni forma narrativa d’arte. Cosciente della forza che hanno le cose condannate, il regista va fino in fondo a se stesso, lasciando un’impressione di nera bellezza dello sfacelo».
Written on the Wind è un prodotto colmo di metafore visive - come gli specchi in cui i personaggi vengono riflessi assieme suggerendo, in questo modo, le dinamiche che avverranno in seguito tra loro, o il convulso montaggio-alternato delle sequenze che permette di accostare determinate situazioni - che quasi si distaccano dalla vicenda per raccontare una sotto-trama che compone, ed esplicita, il non-detto dei protagonisti. Il colore sgargiante, come anche le inquadrature, spesso oblique e dal basso, vanno a formare un insieme di tableau vivant di velázqueziana memoria. Impossibilitata dalle logiche degli studios a terminare nel dramma, la pellicola presenta l’ennesimo, fasullo, happy end sirkiano. Mentre Kyle muore a causa dei suoi eccessi, e Lucy e Mitch possono finalmente coronare il loro sogno d’amore, Marylee si dispera. Così viene descritta nella sequenza finale da un appassionato François Truffaut: «Fasciata in uno stretto tailleur, e seduta al posto di comando che fu di suo padre, la ninfomane accarezza, con le dita sottili, il modellino di una torre petrolifera in oro, simbolo delle sue nuove preoccupazioni. Sgorgherà l’oro (e non più lo sperma) ma Edipo sarà sempre là».
Dopo l’enfatico Interlude (Interludio, 1957), Sirk girò i suoi ultimi capolavori. The Tarnished Angels (Il trapezio della vita, 1958), A Time to Love and a Time to Die (Tempo di vivere, 1958) e Imitation of Life (Lo specchio della vita, 1959) sono fondamentalmente delle commedie umane, opere in cui l’autore si serve di tutti gli strumenti del melodramma per analizzare la tragica, e allo stesso tempo grottesca, condizione dell’individuo. Tutti i personaggi, nessuno escluso, sono sconfitti in principio, ognuno vittima delle circostanze e di una realtà dalla quale non c’è via di scampo. Con The Tarnished Angels - adattamento di Pylon (Pilone, 1935), romanzo scritto da William Faulkner - Sirk ritorna a un universo senza colore, ma, a differenza del deciso bianco e nero usato in There's Always Tomorrow, vira su toni argentei e sfocati per sottolineare il tono crepuscolare della narrazione.
La pellicola narra di Burke Devlin (Rock Hudson), squattrinato cronista di un giornale di provincia che si avvicina a un gruppo di “acrobati dell’aria” - interpretati da Dorothy Malone, Robert Stack e Jack Carson - durante il periodo della Grande depressione americana. La visione straniante e ovattata di Sirk si fa in questo caso maggiormente realista, in essa sembrano confluire tutto il pathos e la disperazione, di quell’oscuro “romanticismo culturale” della sua patria natia. Una storia, insomma, di «precarietà esistenziale», che decanta le utopie e gli ideali infranti di una società degradata. Una dimensione dove ogni cosa è «un falso movimento, in contrasto con l’azione strepitosa della cinepresa». Il magistrale utilizzo del formato cinemascope rende tutto più “aereo”, «ma è lo spazio di un impressionante film di solitudine e paura».
Con A Time to Love and a Time to Die - che rappresenta uno dei pochi casi, insieme a The Tarnished Angels, in cui il regista ebbe l’opportunità di scegliere il soggetto di un suo film - Sirk tornò al colore e continuò ad attingere dalla grande letteratura del Novecento ispirandosi all’omonimo libro di Erich Maria Remarque. Con la sua vicenda di uno sfortunato amore tra due giovani - interpretati da Liselotte Pulver e John Gavin - nella Germania della Seconda Guerra Mondiale, il film fu estremamente sentito dal cineasta. Forse perché tramite quella storia di innocenza infranta poteva finalmente parlare del suo dolore, il dolore di vedere la propria casa in fiamme, il dolore di scorgere, in quei ragazzini innamorati, il candore perduto del figlio Klaus. Il tema della purezza, sacrificata sul perverso altare della guerra, ci viene mostrato fin dai titoli di testa, accompagnati dall’immagine dei rami di un albero in fiore resi lentamente spogli dal vento. Di fatto, nel lungometraggio, l’uso espressivo della messa in scena ricopre una grande importanza per descrivere la fine di un'epoca, e la violenza insita nell’essere umano.
Perfetto nel suo far combaciare l’ottima ricostruzione storica - rara per il contesto cinematografico americano del periodo - e quel tripudio emozionale ed estetico tipico del suo regista, A Time to Love and a Time to Die è una delle opere più poetiche prodotte dalla Hollywood di fine anni Cinquanta. Jean-Luc Godard, rimanendo estasiato dalla visione del film, ne scrisse così sui Cahiers du cinéma: «Chi non ha mai visto o amato Liselotte Pulver correre sulla riva di non so più quale Reno o Danubio, abbassarsi bruscamente per passare sotto lo steccato, poi sollevarsi, hop, con un colpo di reni, chi non ha visto a questo punto la grossa Mitchell (tipologia di cinepresa professionale) di Douglas Sirk abbassarsi contemporaneamente poi, hop, risollevarsi con lo stesso morbido movimento di gambe, ebbene costui non ha mai visto niente, o semplicemente non sa cosa sia la bellezza».
Agli inizi del 1958 Ross Hunter propose a Sirk quello che sarebbe stato il suo ultimo lavoro negli Stati Uniti: Imitation of Life (Lo specchio della vita, 1959). La sceneggiatura, tratta da un romanzo di Frannie Hurst e già portata sullo schermo da John M. Stahl nel 1934, si focalizzava sui rapporti che due madri, una bianca e una nera, intrattenevano con le rispettive figlie. Nella storia le quattro donne vivono assieme: la bianca, Lora Meredith (interpretata da Lana Turner), è un'attrice teatrale di successo, la nera, Annie Johnson (resa splendidamente da Juanita Moore), è la governante di casa. Le figlie, poco più che adolescenti e cresciute entrambe senza padre, stanno vivendo un momento di crisi: Susy (Sandra Dee), la figlia di Lora, comincia a fare i conti con la rabbia scaturita da una madre assente e dal desiderio provato per Steve, pretendente dell’attrice, mentre Sara Jane (Susan Kohner), nata con una pigmentazione chiara, rifiuta il colore della pelle di sua madre.
A differenza della prima versione di Stahl, l'Imitation of Life di Sirk non è semplicemente un film sulle conseguenze morali del razzismo, ma un’opera che parla di identità, intesa come ricerca costante del proprio sé. Tutte le protagoniste della pellicola sono, di fatto, incomplete: chi come genitrice incapace di ricoprire il proprio ruolo, che questo sia negato o non voluto, chi come figlia che cerca di costruirsi un’identità separata dal nido familiare o culturale. Anche qui la casa - con i suoi specchi, le sue scale, e i suoi colori accesi - è palcoscenico di una serie di scontri psicologici, battaglie di sentimenti che racchiudono in loro una molteplicità infinita di significati. In Imitation of Life si mostra tutta la durezza, la crudeltà e il pregiudizio della società occidentale, ed è proprio nella ribelle Sarah Jane che si “rispecchiano” le contraddizioni degli altri personaggi. Solo il sontuoso funerale di Annie nel finale - scenograficamente barocco, e accompagnato da uno struggente canto soul - sarà percepito dagli altri protagonisti come un’oscura presa di coscienza della loro condizione.
Imitation of Life fu uno dei più grandi incassi del 1959 ma, nonostante tutto, Sirk decise di lasciare per sempre la mecca del cinema: «Credo che avessi in mente di lasciare Hollywood anche prima di fare questo film. Ne avevo abbastanza. Quelli della Universal provarono a fermarmi. In un certo senso non fu per me una partenza felice, perché erano diventati degli amici. Mi dicevano: sei arrivato all'apice della tua carriera e molli tutto. Di sicuro, prima di allora, non era mai accaduto niente di simile a Hollywood, dove il successo è tutto. Nessuno capì il mio gesto». Tornato in Europa paventò di girare un film - sceneggiato da Eugène Ionesco e finanziato da una piccola casa di produzione francese - sul pittore Maurice Utrillo, ma, ammalatosi gravemente, dovette rinunciare al progetto. Si stabilì così a Lugano, in Svizzera, dove riprese, girando anche per l’Europa, la sua attività di regista teatrale.
Tornò al cinema solo negli anni Settanta, realizzando tre splendidi cortometraggi - Sprich zu mir wie der Regen (1975), Silvesternacht, Ein Dialog (1978) e Bourbon street blues (1978) - assieme agli studenti della Scuola di cinema e TV di Monaco. Continuò, tramite le sue letture e i suoi scritti, a saziare la sua costante fame di cultura, fin quando non si spense il 14 Gennaio del 1987. Venerato da Werner Rainer Fassbinder - che rivendicò chiaramente nei suoi film lo stile estetico e “mentale” dei melodrammi del maestro - e omaggiato da Todd Haynes - ne sono esempio lampante Far from Heaven (2002) e Carol (2015) - Hans Detlef Sierck ha lasciato un'impronta indelebile nel profondo, e insondabile, significato dell'immagine.
La storia di Douglas Sirk,
il maestro del melodramma hollywoodiano,
di Alberto de Carolis Villars
TR-81
03.06.2023
Una cascata di diamanti discende su uno sfondo nero colmando tutto il perimetro dello schermo, mentre la melodica voce di Earl Grant intona con convinzione:
What is love without the giving,
Without love you're only living an imitation,
An imitation, of life.
Skies above in flaming color without
Love they're so much duller,
A false creation an imitation of life.
Il film è Imitation of life (Lo specchio della vita, 1959), l’ultima opera americana di Douglas Sirk, e queste parole, che accompagnano gli opening titles, sembrano scritte appositamente per descrivere l’universo del suo regista: una dimensione dove i movimenti della macchina da presa, le inquadrature, la musica, le luci e l’interazione tra corpo e scenografia, acquisiscono un significato che cela, sotto la sua elegante patina, un essenziale simbolismo. Come ci ricorda lo storico del cinema Yann Tobin, il caso di Sirk è unico nel suo genere: «Un intellettuale europeo che diventa regista a Hollywood, e, all’apice del successo, lascia gli Stati Uniti per tornare in Europa - e diventare, anche qui, un prestigioso regista teatrale- a differenza di altri stranieri, come Fritz Lang, Jacques Tourneur, Robert Siodmak o Edgar Ulmer, che invece la abbandonano alla fine della loro carriera, o di Jean Renoir e Max Ophüls che, a parte una breve parentesi, non vi si adattano mai». Ma fermiamoci un attimo. Per capire al meglio un autore dallo stile così complesso ed emblematico bisogna spostarsi, geograficamente e temporalmente, alla Germania del primo dopo guerra.
Hans Detlef Sierck è un studente - prima di Filosofia, e poi di Storia dell’Arte e Arti Plastiche - nato ad Amburgo nel 1897 da padre danese e madre tedesca. Sono gli anni dell’esperimento della Repubblica sovietica bavarese (1918-1919) e Sierck viene travolto dal clima di fermento culturale che impazza in tutta la Nazione. Giovanissimo diviene allievo di Erwin Panofsky, influente storico dell’arte, frequenta personaggi come Max Brod - scrittore boemo e intimo amico di Franz Kafka - e segue le lezioni sulla Teoria della relatività di Einstein. Inoltre si dedica alla pittura - pratica che risulterà di estrema importanza nell’equilibrio estetico delle sue immagini cinematografiche - e cura una traduzione in tedesco dei sonetti di Shakespeare, un’attività che lo spinge verso l’ambiente teatrale. A parte una breve esperienza come scenografo per il cinema, nel 1923, i primi anni di Sierck sono dedicati interamente al palcoscenico, alla traduzione di classici teatrali e alla drammaturgia.
Dopo il debutto a Chemnitz comincia un pellegrinaggio per la Germania che lo porterà a occuparsi dell'organizzazione creativa dei teatri di Brema, Lipsia - nello splendido Altes, un antico teatro rococò frequentato, a suo tempo, da Goethe - e Berlino. Fu proprio durante gli anni Venti, in piena Repubblica di Weimar (1918-1933), che il giovane Hans diverrà uno dei registi teatrali più celebri di tutto il Paese. Le sue curate rappresentazioni di opere di autori come Strindberg, Ibsen, Shaw, Brecht, Schiller, e il già citato Shakespeare, lo avvicineranno ad uno stile che trascende la realtà ed erige la messa in scena come espressione delle relazioni tra i personaggi. La deriva verso il nazismo che la Germania stava prendendo verso la fine del decennio lo portò a sviluppare, come osserva Jon Halliday, «una capacità di inscenare personaggi ambigui e dilaniati sui quali in seguito provò sempre a incentrare il suo cinema. Quest’attrazione nei confronti dell’ambiguità è stata probabilmente accentuata dal fatto che molti suoi amici e colleghi più stretti divennero nazisti».
Di fatto la situazione diventava di giorno in giorno sempre più incandescente, tanto che il regista ricorderà quegli anni come un periodo di estrema tensione. Nel 1930, dopo la decisione di portare in scena a Lipsia e Berlino, Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Bertolt Brecht e Kurt Weill - testo con un chiaro messaggio anti-dittatoriale - Sierck cominciò sempre più a scatenare le ire di gruppi estremisti, che si recavano alle rappresentazioni per intimidire gli attori e disturbare lo svolgimento degli spettacoli. Il giornale del partito nazista Völkischer Beobachter prenderà di mira molti dei lavori del regista che, dopo l’instaurazione del regime (1933), cominciò ad avere sempre più problemi. La Gestapo, che lo considerava un sovversivo, iniziò a tenerlo sotto controllo, e la sua prima moglie, l’attrice Lydia Brincken, fanatica nazionalista, riuscì a ottenere dal tribunale un’ingiunzione restrittiva che vietava a Sierck di incontrare Klaus, figlio della coppia e, dal 1935 al 1942, giovane attore del cinema nazista. Inoltre, il suo secondo matrimonio con l’attrice ebrea Hilde Jary, aggravava una già fragile situazione.
Bisognava scegliere: andarsene o cercare un modo per sopravvivere in quella società ogni giorno più ostile? Per quel momento Sierck decise di restare, allontanandosi dal teatro e avvicinandosi al cinema. Mimetizzandosi nell’industria cinematografica sarebbe riuscito a sfuggire meglio alla censura che lo stava, letteralmente, perseguitando. Grazie ad una reputazione che lo precedeva, e al successo riscontrato con l’allestimento di La dodicesima notte - il suo ultimo spettacolo - riuscì ad ottenere un contratto come regista cinematografico per l’UFA, la più importante casa di produzione tedesca. Durante la celebre conversazione che il cineasta intraprese con Jon Halliday, alla domanda dello scrittore su come fosse stato possibile ottenere un posto del genere in un momento tanto delicato, Sierck rispose: «Per quanto possa sembrare strano l’UFA non era ancora invischiata nel regime. Era un’azienda privata, e non c’erano nazisti a quell’epoca - non era necessario, perché tutti quelli che circondavano Alfred Hugenberg, presidente dell’UFA, erano comunque molto di destra. Nel 1934 -1935 la situazione dell’industria cinematografica era migliore di quella del teatro. L’altro aspetto positivo è che all’UFA i lavoratori e i tecnici erano per la maggior parte anti-nazisti, molto più di quanto non lo fossero gli intellettuali».
Girando i cortometraggi Zwei Genies (1934), Dreimal Ehe (1934) e Der eingebildete Kranke (1935) - una riduzione del Malato immaginario di Molière - riuscì a dimostrare un grande talento anche dietro la macchina da presa, talento che lo portò, dopo poco più di un anno dall’inizio della sua attività cinematografica, a realizzare il suo primo lungometraggio: April, April (1935). A distanza di pochi mesi l’instancabile Sierck girò anche Das Mädchen vom Moorhof (La ragazza di Moorhof, 1935), tratto da un romanzo della svedese Selma Lagerlöf. Oltre a mostrare già delle peculiarità stilistiche riconoscibili - geniale è la sequenza dove la macchina da presa in movimento si concentra sull’eroina che subisce gli sguardi indiscreti di una cittadina ostile, un’inquadratura che verrà riproposta diciotto anni dopo in All I Desire (Desiderio di donna, 1953) - la pellicola inquadra perfettamente quella che sarà una delle tematiche preponderanti in gran parte delle sue opere: l’accanimento del pregiudizio sociale sul libero arbitrio degli individui. Con il successivo Stützen des Gesellschaft (I pilastri della società, 1935) Sierck attinse dai suoi amati classici teatrali per trasporre su pellicola un celebre dramma di Ibsen. In seguito, proprio riguardo all’esperienza sul set di quel film, ebbe a dire: «Fu li che capii che le angolazioni di ripresa sono i pensieri del regista, l’illuminazione la sua filosofia».
La qualità della sua manifattura, e la sua cura del dettaglio, lo resero molto popolare all’UFA, permettendogli di avere sempre più libertà creativa. Nonostante i suoi lungometraggi avessero, fino a quel momento, riscosso un discreto clamore, il grande successo arrivò con Schlußakkord (La nona sinfonia, 1936). Schlußakkord può essere considerato come il primo, e totalmente risolto, capolavoro di Sierck. L’opera con cui il regista matura la sua griffa cinematografica, raggiungendo quella formula che lo accompagnerà per tutto il resto della sua carriera. Di fatto, non a caso, anni dopo dichiarò: «Durante le riprese intuii che doveva esserci un filo conduttore tra la recitazione, l’illuminazione e così via…questa connessione è molto importante, John Ford aveva questo dono, e a mio avviso anche Howard Hawks. È con Schlußakkord che sono arrivato per la prima volta al mio stile. Ma già prima ne avevo avute alcune intuizioni».
Staccandosi definitivamente dalla tendenza ad attingere in maniera diretta dalla prosa teatrale, e di conseguenza letteraria, Sierck comprese che il cinema era un mezzo con una voce a sé stante. Nella visione del regista, da Schlußakkord in poi, la macchina da presa e i suoi movimenti diventano il mezzo primario per produrre emozione e descrivere gli stati d’animo dei personaggi. Attraverso la sua toccante storia di una madre che deve fingersi, a causa di un errore commesso in passato, governante del suo stesso figlio - adottato da un celebre direttore d’orchestra e dalla sua infelice moglie - e con il suo uso delle musiche strettamente connesse alle immagini e alla narrazione, il film rappresenta uno degli esempi più riusciti di melodramma cinematografico, genere in cui Sierck eccellerà per tutta la sua carriera. In Schlußakkord i simboli fondamentali del suo cinema - i riflessi degli specchi come espressione della dualità e dei turbamenti esistenziali dei characters, lo spazio domestico ripreso come una prigione borghese, il lirismo dell’azione scenica amplificato dall’illuminazione e dal soundtrack, l’ossessiva precisione nella direzione degli interpreti - prendono una definitiva e compiuta forma. Il lungometraggio fu un trionfo al botteghino e venne presentato alla 4ª Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, un’edizione prospera di importanti autori come Josef von Sternberg, Rajaram Vankudre Shantaram, René Clair, William Dieterle, Marcel L’Herbier, Frank Capra e i già citati Max Ophüls e John Ford.
A Schlußakkord seguirono Das Hofkonzert (Il concerto di corte, 1936) - girato anche in una versione francese per la distribuzione estera - e Zu Neuen Ufern (La prigioniera di Sidney, 1937). Zu Neuen Ufern è un film estremamente stratificato, esempio perfetto di come Sierck adoperi magistralmente il genere melodrammatico per parlare, tra le pieghe dei suoi significati, esclusivamente di ciò che lo interessa. Raccontando la vicenda di una cantante di metà Ottocento che per proteggere il proprio amante si autoaccusa di una truffa venendo condannata ai lavori forzati in Australia, l’opera si trasforma pian piano in un feroce attacco alla classe dirigente, tracciando, con fine cinismo, le sottili distinzioni sociali tra l’aristocrazia in declino e i vecchi e nuovi capitalisti. Come nel successivo Habanera (La Habanera, 1937) le canzoni all’interno della narrazione giocano un ruolo fondamentale, facendosi portavoci delle immagini. Venendo adoperate in senso puramente brechtiano, esse stimolano il pubblico ad un atteggiamento reattivo e pensante. Questo stratagemma di derivazione teatrale fu confermato dal regista stesso: «Si, è uno stile brechtiano, o forse dovremmo dire weilliano. Perché Weill fu estremamente importante in tutti i lavori che lui e Brecht fecero assieme. Nessuno lo aveva mai fatto prima di allora. Le canzoni della protagonista all’interno dei due film sono canzoni morali all’interno di dei drammi. Non c’ è dubbio che per Zu Neuen Ufern e Habanera avessi preso spunto da Brecht e Weill».
Con l’ulteriore trionfo dei suoi ultimi due lavori, Sierck tronava ad essere un personaggio al centro dell’attenzione, uno status che poteva rappresentare un’arma a doppio taglio. Le sue predizioni si erano rivelate sbagliate, e la situazione politica non era migliorata. Oltre ad essere incapacitato ad andarsene, poiché senza passaporto - il regime glielo aveva confiscato nei suoi ultimi anni come regista teatrale - Douglas aveva esitato a partire a causa della situazione con Klaus. Non potendo avere un rapporto con il figlio, si recava in sala per vederlo recitare in quel cinema propagandistico che detestava. L’atmosfera si fece però decisamente pericolosa quando, come era accaduto in precedenza a Fritz Lang - all’epoca già scappato dalla Germania - gli alti componenti del Reich cominciarono a prenderlo in considerazione come un potenziale “rappresentante artistico” della cinematografia nazista, “carica” che sarà poi ricoperta dal cineasta Veit Harlan. Il regista si sentiva in trappola, doveva prendere una decisione perentoria, e cercare di fuggire il prima possibile:
«Dopo Zu Neuen Ufern proposi di girare Habanera a Tenerife. Ormai ero un regista piuttosto influente, e per questo il mio suggerimento venne immediatamente accolto. Mi misi al lavoro, definendo ogni singolo dettaglio del film, e dieci giorni prima della partenza andai a trovare Ernst Correll, il direttore dell’UFA, riuscendo ad ottenere un passaporto provvisorio di due mesi. Una volta a Tenerife gli scrissi chiedendo una proroga di sei mesi per rigirare, nell’eventualità, alcune sequenze. Durante le riprese, proprio tramite quel passaporto, riuscii a richiedere i documenti necessari per andare in America, e nel frattempo tornai in Germania per lavorare al montaggio del film. Lascai poi il Paese, sempre con il permesso dell’UFA, per cercare le location di quello che sarebbe dovuto essere il mio lavoro successivo. Mia moglie era già a Roma, e la raggiunsi li. I nazisti le avevano dato un passaporto qualche tempo prima, sapendo che era ebrea, sperando che se ne andasse e che io chiedessi il divorzio. Loro erano molto interessati a me perché il mio Schlußakkord aveva incassato più di qualsiasi altra produzione UFA della storia. Mi dicevano sempre: Abbiamo bisogno di lei, è un bravissimo regista, se solo divorziasse da sua moglie ecc. ecc... Così andai a Roma, e feci finta di ammalarmi. Cercavo di capire cosa fare. A ogni modo seppi che uno dei produttori dell’ UFA sarebbe venuto a incontrarmi. Chiedemmo aiuto al proprietario dell’albergo dove alloggiavamo, e lui ci portò dalla cugina di sua moglie, che era una monaca. In compagnia delle consorelle mi sistemarono in una stanza d’ospedale e mi dissero di mettere una bottiglia di acqua calda sotto le coperte, in maniera che, durante la stretta di mano, la mia temperatura corporea sarebbe risultata alta. Il piano funzionò, ebbi davvero fortuna perché il produttore era venuto con un volo speciale da Berlino, con due agenti della polizia pronti a riportarmi indietro. Dopo quel fatto, visto che l’Italia era in pieno fascismo e avevano fatto accordi con Hitler, pensai che le cose potevano mettersi davvero male. Immediatamente prenotai per me e la signora Sierck due biglietti d’aereo per la Svizzera, scrissi una lettera d’addio al dottor Correll e la spedii un attimo prima di partire».
Una volta arrivato a Zurigo Sierck incontrò Chiel Weissman, il distributore svizzero di Schlußakkord, che gli propose di lavorare a un film di co-produzione francese. Giunto a Parigi girò così Accord Final (1938), pellicola firmata sotto uno pseudonimo. L’UFA gli aveva fatto causa per aver infranto il contratto, e lui doveva procurarsi le risorse economiche sufficienti per sopravvivere. La breve parentesi francese lo portò anche a rifiutare di terminare Partie de campagne (Una gita in campagna, 1936) la celebre opera incompiuta di Jean Renoir, un autore di cui, anni dopo, Sierck rivendicherà l’influenza: «Il suo lavoro di regia ebbe un grande impatto su di me, e questo sin dal mio periodo teatrale, Renoir ha un tocco mozartiano. Quando vidi il suo Nanà (1926) pensai che fosse la cosa più bella del mondo». Dal momento che l’autore viveva in una sorta di clandestinità, decise di accettare di scrivere, e dirigere, un film in Olanda. Nacque in questo modo Boefje (1939), tratto da un celebre romanzo di narrativa infantile. Per quanto questo lungometraggio, come anche Accord Final, risulti un’opera di passaggio, la fine ambientazione di inizio Novecento e il tono dickensiano della narrazione ne fanno un piccolo gioiello dimenticato. Sierck non riuscì mai a visionarne il montaggio conclusivo, poiché emigrò dall’Europa il giorno della fine delle riprese, imbarcandosi sulla Staatendam, l’ultima nave olandese in rotta per gli Stati Uniti.
Appena giunto nel nuovo continente firmò un contratto con la Warner Brothers, che voleva realizzare un remake americano del suo Zu Neuen Ufern. Sierck ne riscrisse anche una nuova sceneggiatura, ma con lo scoppio della guerra in Europa, e il conseguente inasprimento dei rapporti tra USA e Germania, l’idea di girare la nuova versione di un grande successo tedesco non sembrava più essere praticabile. Di fatto gli anni Quaranta non furono una decade facile per il regista, che dovette affrontare delusioni e progetti falliti. Il suo accordo con la Warner si concluse nel 1940, dopo pochi mesi dal suo arrivo e, a causa dell’attacco a Pearl Harbor (1941), Sierck vide anche sfumare l’occasione di dirigere una nuova compagnia per il Teatro dell’Opera di San Francisco. L’unica cosa che riuscì a realizzare tra il 1940 e il 1941 fu un documentario, girato su incarico di un amico, su un monastero di frati che producevano vino. Per tirare avanti comprò una fattoria nella San Fernando Valley dove, per breve tempo, coltivò erba medica e allevò polli.
Con l’entrata degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, Hollywood si era mobilitata cominciando a realizzare film di aperta propaganda politica: un fatto che offrì al cineasta l’occasione di rimettersi in carreggiata. Gli scrittori Emil Ludwig e Albrecht Joseph stavano scrivendo una sceneggiatura che si focalizzava sulla figura del gerarca Reinhard Heydrich, uno degli uomini più pericolosi del Terzo Reich. Il film, che sarebbe stato interamente prodotto da un gruppo di emigrati tedeschi, doveva mostrare, attraverso la patina hollywoodiana, le atrocità del nazismo. Grazie alla fama tra i suoi compatrioti Sierck venne confermato alla regia. Hitler’s Madman (Il pazzo di Hitler, 1943) fu girato in indipendenza dai grandi Studios, con un piccolo budget e in tempi molto ristretti. Per renderlo maggiormente crudo, Sierck lo filmò in uno stile documentario: con assoluta chiarezza e decisa presa di posizione.
Hitler’s Madman aveva una responsabilità morale e doveva incarnare i sentimenti di un intera generazione messa a tacere. I personaggi rappresentavano dei concetti più che delle personalità, e la storia si astraeva dal semplice racconto, fino a diventare, come nel finale, una sorta di proclama. Nel suo primo lungometraggio americano il regista sfoga tutta la rabbia verso coloro che lo hanno obbligato a scappare dal suo paese e da un intero mondo intellettuale: «Era necessario dichiaralo ad alta voce da dove si veniva, e descrivere quell'inferno dantesco dal quale eravamo riusciti miracolosamente a fuggire». Louis B. Mayer - impressionato dalla potenza del lungometraggio dopo una visione in anteprima - decise di rilevare il film e di distribuirlo sotto il nome della Metro Goldwyn Mayer, un fatto del tutto eccezionale per le case di produzione di allora. Fu proprio in quel momento che Hans Detlef Sierck americanizzò il suo nome in Douglas Sirk.
Il successo del film, però, giovò solo in parte al suo autore, che dovette rifiutare un contratto proprio con la MGM poiché già scritturato dalla Columbia. I cattivi rapporti con Harry Cohn - capo dello Studio - rallentarono la scalata al successo di Sirk. Cohn “prestava” il suo regista esclusivamente a case di produzione minori o lo costringeva, per determinati periodi, all’inattività. Summer Storm (Temporale d’estate, 1944), lungometraggio ambientato nella Russia zarista e tratto da una novella di Anton Čechov, riscontrò un grande successo di critica e pubblico. Il regista riuscì a dimostrare tutta la sua raffinata sensibilità di autore del vecchio continente, perseguendo la sua indagine sul «disadattamento sociale e la strumentalizzazione sessuale».
Sirk scrisse, in collaborazione con lo scrittore James. M. Caine e l’inglese Rowland Leich, un’arguta sceneggiatura che, a differenza dello scritto di Čechov, allungava la narrazione alla Russia post-rivoluzionaria per mostrare, con non pochi riferimenti alla situazione politica del momento, l’ineluttabile ciclicità della storia umana. Fu anche l’occasione per inaugurare un felice sodalizio con George Sanders, attore che reciterà, con beffardo cinismo, anche in A Scandal in Paris (Uno scandalo a Parigi, 1946), picaresca, elegante, e a tratti surreale biografia del ladro settecentesco François Vidocq, e Lured (Lo sparviero di Londra, 1947), intelligente pellicola ispirata ad un film francese di Robert Siodmak, che mescola «l'atmosfera del thriller anglosassone, le suggestioni dell’horror e i toni della commedia giallorosa». Questi lungometraggi, contraddistinti da uno stile ancora molto “europeo”, segnano tre ottimi risultati nel primo periodo statunitense del cineasta.
Quando si parla di Sirk rispetto ad altri grandi registi del contesto hollywoodiano di quel periodo, bisogna innanzitutto tenere a mente il fatto che egli fu un autore che operò in circostanze estremamente restrittive. Gli anni sotto la “dittatura” di Harry Cohn lo costrinsero a lavorare con capitali ridotti, tempi stringenti, e limiti sulla durata del girato. Anche quando raggiunse una grande popolarità, Sirk ebbe comunque poche occasioni di scegliere personalmente i soggetti dei propri film. È così che il suo lavoro va valutato tramite la selezione delle inquadrature, il montaggio, i toni cromatici e musicali, le scelte di come rappresentare determinate situazioni, le interazioni tra i personaggi: decisioni che personalizzavano drasticamente la storia che era chiamato a filmare. Il regista esprimeva il suo “modo di vedere” attraverso una totale appropriazione del materiale che aveva, in quel momento, a sua disposizione. Se si osserva la sua opera da questa prospettiva, degli esempi perfetti risultano essere il thriller Sleep, My Love (Donne e veleni, 1948), la commedia musicale Slightly French (Amanti Crudeli, 1949), o Schockproof (Fiori nel fango, 1949), piccolo capolavoro del noir tratto da un soggetto di Samuel Fuller.
L’arrivo del nuovo decennio rappresentò una grande svolta per Sirk che, stanco del trattamento subito, annullò l’accordo con Cohn e tornò per quasi un anno in Germania. Al suo arrivo trovò un paese drasticamente cambiato. L’UFA era stata sciolta dagli americani e l’industria cinematografica tedesca vergeva in una terribile situazione, motivo per cui era impossibile pensare di riprendere a lavorare in quel contesto. Il regista passò inoltre gran parte del suo tempo a cercare, senza successo, delle tracce del figlio scomparso. Solo in seguito verrà a conoscenza della sua prematura morte - a soli 19 anni - sul fronte di guerra, un dolore che lo tormenterà per il resto della vita.
Rientrato ad Hollywood girò, con fondi indipendenti, The first Legion (1951), un interessante dramma religioso ambientato in un seminario di gesuiti, che adopera gli angusti spazi dell’ambientazione per esprimere i tormenti spirituali dei protagonisti. Fu a seguito della realizzazione di questo film che il regista accettò di firmare un contratto con la Universal, decisione che finalmente si rivelerà vincente. Dopo lo spionistico Mystery Submarine (Il sottomarino fantasma, 1950) e il solido giallo Thunder on the Hill (La campana del convento, 1951), si aprirono gli anni delle commedie sulla “piccola America”: lungometraggi dove Sirk analizza, con arguta ironia, i costumi e le usanze della provincia. The Lady Pays Off (Elena paga il debito, 1951), Weekend with Father (Vedovo cerca moglie, 1951), No Room for the Groom (Non c’è posto per lo sposo, 1952), Has Anibody Seen My Gal? (Il capitalista, 1952), Meet me at the Fair (Incontriamoci alla fiera, 1952) e Take Me to Town (Portami in città, 1953) sono lievi “ballate” sull'identità di un popolo, sui suoi rapporti con il denaro, la religione e la storia. Attraverso i suoi occhi da europeo, Sirk setaccia la società statunitense con sagace perspicacia, mettendone minuziosamente in risalto le paranoie, i vizi nascosti, le differenze sociali, il sistema di valori e i rapporti tra i sessi.
Rimanendo nell’ambito della “cronaca di provincia”, l’autore girò anche All I Desire (Desiderio di donna, 1953), il primo dei suoi grandi melodrammi degli anni Cinquanta. La storia racconta di una madre (Barbara Stanwyck) che si ricongiunge con i suoi familiari - il marito e i tre figli - dopo averli abbandonati per inseguire una carriera da attrice di vaudeville. Gli elementi sirkiani ci sono tutti: dalla curata ambientazione, in questo caso di inizio Novecento, alla tematica del singolo contro una piccola e ostile cittadina. Inoltre, proprio in questi anni - da The First Legion, Thunder on the Hill e All I Desire in poi - avverrà una sempre maggiore radicalizzazione degli elementi scenografici, impiegati per equilibrare esteticamente la resa delle immagini ed esprimere il senso di “soffocamento sociale” dei protagonisti. In questo modo gli spazi, e gli oggetti contenuti in essi, svolgono un ruolo bilanciante e allo stesso tempo drammaturgico, divenendo espressione di disagio ed emarginazione emotiva. Ad esempio: le scale, con i bordi geometrici e le loro linee rette, suddividono lo schermo, donando ordine ai frame e aiutando il plot ad esprimere le “altalenanti” emozioni dei protagonisti - non a caso i climax dei conflitti dei personaggi sirkiani avvengono, molto spesso, su, o in prossimità, di esse.
Volendo spingersi sempre più nell’analisi culturale del paese che lo ospitava, Sirk arrivò a toccare anche il genere americano per eccellenza: il western. Realizzò così Taza, Son of Cochise (Il figlio di Kociss,1954) che, come si era prefissato, riuscì a girare interamente in esterni. Il film rappresentò la sua seconda esperienza con Rock Hudson. L’attore venne infatti completamente plasmato da Sirk - i due realizzarono insieme otto lungometraggi - che lo portò ad essere il divo più redditizio della Universal. Già all’UFA il cineasta aveva mostrato le sua capacità di trasformare degli sconosciuti in interpreti di prima grandezza - la svedese Zarah Leander diventò, grazie al regista, una delle attrici tedesche più celebri della fine degli anni Trenta - quindi in America venne spesso usato per formare nuove star o rinvigorire la carriera di grandi nomi in declino, come nel caso di Barbara Stanwyck, Charles Boyer, Jane Wyman, Fred MacMurrey, Joan Bennet o Ann Sheridan.
Il successivo Magnificent Obsession (Magnifica Ossessione, 1954) rappresenta uno degli apici della carriera di Sirk: la soap opera che incontra lo schema della tragedia greca. Quando il produttore Ross Hunter gli propose il romanzo di un pastore luterano di nome Loyd C. Douglas, il regista rimase inizialmente sconcertato: «Era il libro più confuso che si potesse immaginare; era così astratto che non capivo come si potesse trarne un film». La storia ruota attorno a una vedova (Jane Wyman) che, rimasta cieca, si innamora di colui (Rock Hudson) che ha involontariamente causato la morte del marito. Ebbene avvenne un prodigio: il regista riuscì a trasformare il melenso e sconclusionato testo di Loyd in una pellicola folle e allo stesso tempo geniale. Invece di limitare le emozioni, Sirk preme il piede sull’acceleratore, e adopera la grottesca trama per caricare il film di un'emotività ribollente ed elegiaca. Attraverso l’uso di un'illuminazione straniante, di architetture razionaliste, di sottotesti religiosi, e di una musica che, nei momenti più intensi, raggiunge un delirio spirituale, diede vita ad un melodramma edipico e febbrile.
Una volta, a proposito di Magnificent Obsession, disse: «Bisogna fare del proprio meglio per odiare una storia, ma anche per amarla. Nonostante tutto in quel testo c’era qualcosa di irrazionale che mi attraeva. Qualcosa di ossessivo, perché è una delle storie più assurde che siano mai state scritte. L’ironia del tutto, non ironia nel senso ordinario del termine, ma come elemento strutturale, come elemento di un'antinomia. Il marito della protagonista muore perché un altro possa vivere. È un’ironia euripidea, è il tema dell’Alcesti: una persona placa la morte prendendo il posto di un'altra. Tra l'arte e la spazzatura c'è pochissima distanza, e la spazzatura che contiene un grano di pazzia è per questo molto più vicina all’arte di quanto crediamo».
L’enorme successo che il film riscosse portò la Universal a offrire a Sirk di dirigere nuovamente la coppia Jane Wyman/Rock Hudson. Il risultato fu ancora più straordinario del precedente. All That Heaven Allows (Secondo amore, 1955) è un’opera sublime che, sotto la sua ineccepibile forma, nasconde una spietata critica alla borghesia americana. Essa indaga «gli impulsi più oscuri che si celano sotto la solare moralità provinciale degli anni Cinquanta, mostrando in maniera sibillina le insicurezze che quella stessa moralità cerca di reprimere». Al centro della storia ci sono sempre una piccola città ed una vedova: la benestante Cary Scott. Cary si innamora, ricambiata, di Ron, un giovane giardiniere considerato, a differenza del defunto marito pilastro di quel piccolo centro, un outsider. Da quel momento in poi la pregiudiziosa comunità tenterà, in nome del buon gusto e della decenza, di separare in ogni modo la coppia. La paranoia del diverso, si può dire che sia questo il filo conduttore di una pellicola che descrive, con agghiacciante lucidità, una società sempre più ricca e allo stesso tempo incerta di sé. Di fatto il conflitto della storia non si genera tra i due innamorati, ma tra Cary e la realtà che la circonda - rappresentata dai figli egoisti, dall’amica non sciocca ma troppo borghese, dalle conoscenti pettegole e dal club di “soli soci” - che la vorrebbe relegata al ruolo di madre e vedova. La donna, trasgredendo le mansioni che la società patriarcale le ha imposto, viene cacciata dall’eden borghese.
All That Heaven Allows è un film a specchio, dove il vorace puritanesimo è raccontato attraverso la castigazione dell’immagine e l’incatenamento del corpo femminile nello spazio. Per definire la condizione della protagonista sarebbe perfetta una citazione da una poesia di Sylvia Plath: «Quello che voglio indietro è ciò che ero prima che il letto, prima che il coltello, prima che la spilla e l’unguento mi inchiodassero in questa parentesi». Come in tutta l’opera di Sirk, la solitudine di Cary è costantemente riflessa attraverso gli oggetti che arredano la sua grande casa - lo specchio della toletta, il pianoforte, il televisore regalatole dai figli per farle “compagnia” - mentre le sue incertezze vengono esplicitate tramite il geniale uso del technicolor. Nella sequenza in cui gli amanti discutono del loro futuro insieme, l’illuminazione muta continuamente: quando il tono è disteso e l’amore trionfa, la luce calda del caminetto ne abbaglia i corpi, ma quando la realtà penetra nei loro discorsi, i toni invernali, che si diffondono dalla grande finestra, prevalgono gelando l’immagine.
La collaborazione con Hudson continuò con Captain Lightfoot (Il ribelle d’Irlanda, 1955), pellicola in costume ambientata nell’Irlanda del Settecento, e girata in loco. L’elegante confezione del film - che racchiude in sé delle trovate estetiche veramente ispirate - contribuì a regalare a Sirk un altro grande trionfo. Seppur in maniera minore, anche Captain Lightfoot, come i precedenti Taza e Sign of the Pagan (Il re dei barbari, 1954), o il successivo Battle Hymn (Inno di battaglia, 1957), non è esente dall’armamentario simbolico del regista. Lo studio che questi film compiono su personaggi irrisolti e divisi è un leitmotiv costante nell’opera di Sirk. L’irresoluzione è anche il tema cardine di There's Always Tomorrow (Quella che avrei dovuto sposare, 1956), lungometraggio in cui lo splendido bianco e nero viene adoperato in forma puramente espressionistica. Torna la rappresentazione della famiglia come prigione, che ingabbia l’essere umano in un mondo suburbano, alienante ed artificiale.
La vicenda del direttore di una ditta di giocattoli (Fred MacMurrey) che, sentendosi insoddisfatto nel ruolo di padre e marito si riavvicina a un vecchio amore del passato, ha il gusto di un melodramma sulla deriva esistenziale e sull’impossibilità, tutta borghese, di provare sentimenti autentici. Il “sogno americano" viene distrutto dalla consapevolezza di un presente vuoto e dettato da meccanici rituali che non lasciano spazio alla vita reale. Emblematica è la sequenza in cui il protagonista, ripreso di spalle, guarda fuori dalla finestra mentre un piccolo robot giocattolo - chiara metafora del personaggio - gli si allontana tramite movimenti vacui e ripetitivi. Le barriere morali dei personaggi divengono anche fisiche, essi sono costantemente ripresi attraverso superfici materiali - come grate, reti, colonne e vetri - che fanno assomigliare gli spazi a oscure prigioni o inquietanti confessionali: ognuno affronta la propria emarginazione in solitudine. L’unico spiraglio di luce in questa realtà gelida viene rappresentato dai personaggi della moglie (Joan Bennet) e dell’amante (Barbara Stanwyck), figure femminili che, a differenza del fatuo protagonista, sono capaci di perdonare e trovare la forza di vivere nella menzogna.
Il successivo Written on the Wind (Come le foglie al vento, 1956), è ad oggi una delle opere più ricordate e studiate di Sirk. Anche qui la tragedia euripidea fa la sua irruzione, fondendosi con una storia di milionari alcolizzati, disfunzionali e irrimediabilmente infelici. La trama segue le vicende di Kyle Hadley (Robert Stack), un ricco rampollo che decide di sposare l’umile segretaria Lucy (Lauren Bacall). La donna, giunta nella magione di famiglia, entrerà in conflitto con la viziosa e sregolata Marylee (Dorothy Malone), sorella del marito. A complicare questa già difficile situazione sarà Mitch (Rock Hudson), migliore amico di Kyle e oggetto del desiderio di Marylee, che, innamoratosi di Lucy, innescherà la catastrofe. Gianni Volpi una volta scrisse: «Il film mette in scena la fine, per autodistruttiva nevrosi, dei figli dei costruttori di imperi texani e petroliferi, ed è un corposo dramma di forti passioni, di pulsioni di morte, bisogni frustrati, in cui però si avverte un che di più intellettuale ed europeo, una visione morale accurata che li rapporta alla decadenza di un mondo e del suo stile di vita. In Sirk il mélo è estremo, ma più che mai gli appare un archetipo di ogni forma narrativa d’arte. Cosciente della forza che hanno le cose condannate, il regista va fino in fondo a se stesso, lasciando un’impressione di nera bellezza dello sfacelo».
Written on the Wind è un prodotto colmo di metafore visive - come gli specchi in cui i personaggi vengono riflessi assieme suggerendo, in questo modo, le dinamiche che avverranno in seguito tra loro, o il convulso montaggio-alternato delle sequenze che permette di accostare determinate situazioni - che quasi si distaccano dalla vicenda per raccontare una sotto-trama che compone, ed esplicita, il non-detto dei protagonisti. Il colore sgargiante, come anche le inquadrature, spesso oblique e dal basso, vanno a formare un insieme di tableau vivant di velázqueziana memoria. Impossibilitata dalle logiche degli studios a terminare nel dramma, la pellicola presenta l’ennesimo, fasullo, happy end sirkiano. Mentre Kyle muore a causa dei suoi eccessi, e Lucy e Mitch possono finalmente coronare il loro sogno d’amore, Marylee si dispera. Così viene descritta nella sequenza finale da un appassionato François Truffaut: «Fasciata in uno stretto tailleur, e seduta al posto di comando che fu di suo padre, la ninfomane accarezza, con le dita sottili, il modellino di una torre petrolifera in oro, simbolo delle sue nuove preoccupazioni. Sgorgherà l’oro (e non più lo sperma) ma Edipo sarà sempre là».
Dopo l’enfatico Interlude (Interludio, 1957), Sirk girò i suoi ultimi capolavori. The Tarnished Angels (Il trapezio della vita, 1958), A Time to Love and a Time to Die (Tempo di vivere, 1958) e Imitation of Life (Lo specchio della vita, 1959) sono fondamentalmente delle commedie umane, opere in cui l’autore si serve di tutti gli strumenti del melodramma per analizzare la tragica, e allo stesso tempo grottesca, condizione dell’individuo. Tutti i personaggi, nessuno escluso, sono sconfitti in principio, ognuno vittima delle circostanze e di una realtà dalla quale non c’è via di scampo. Con The Tarnished Angels - adattamento di Pylon (Pilone, 1935), romanzo scritto da William Faulkner - Sirk ritorna a un universo senza colore, ma, a differenza del deciso bianco e nero usato in There's Always Tomorrow, vira su toni argentei e sfocati per sottolineare il tono crepuscolare della narrazione.
La pellicola narra di Burke Devlin (Rock Hudson), squattrinato cronista di un giornale di provincia che si avvicina a un gruppo di “acrobati dell’aria” - interpretati da Dorothy Malone, Robert Stack e Jack Carson - durante il periodo della Grande depressione americana. La visione straniante e ovattata di Sirk si fa in questo caso maggiormente realista, in essa sembrano confluire tutto il pathos e la disperazione, di quell’oscuro “romanticismo culturale” della sua patria natia. Una storia, insomma, di «precarietà esistenziale», che decanta le utopie e gli ideali infranti di una società degradata. Una dimensione dove ogni cosa è «un falso movimento, in contrasto con l’azione strepitosa della cinepresa». Il magistrale utilizzo del formato cinemascope rende tutto più “aereo”, «ma è lo spazio di un impressionante film di solitudine e paura».
Con A Time to Love and a Time to Die - che rappresenta uno dei pochi casi, insieme a The Tarnished Angels, in cui il regista ebbe l’opportunità di scegliere il soggetto di un suo film - Sirk tornò al colore e continuò ad attingere dalla grande letteratura del Novecento ispirandosi all’omonimo libro di Erich Maria Remarque. Con la sua vicenda di uno sfortunato amore tra due giovani - interpretati da Liselotte Pulver e John Gavin - nella Germania della Seconda Guerra Mondiale, il film fu estremamente sentito dal cineasta. Forse perché tramite quella storia di innocenza infranta poteva finalmente parlare del suo dolore, il dolore di vedere la propria casa in fiamme, il dolore di scorgere, in quei ragazzini innamorati, il candore perduto del figlio Klaus. Il tema della purezza, sacrificata sul perverso altare della guerra, ci viene mostrato fin dai titoli di testa, accompagnati dall’immagine dei rami di un albero in fiore resi lentamente spogli dal vento. Di fatto, nel lungometraggio, l’uso espressivo della messa in scena ricopre una grande importanza per descrivere la fine di un'epoca, e la violenza insita nell’essere umano.
Perfetto nel suo far combaciare l’ottima ricostruzione storica - rara per il contesto cinematografico americano del periodo - e quel tripudio emozionale ed estetico tipico del suo regista, A Time to Love and a Time to Die è una delle opere più poetiche prodotte dalla Hollywood di fine anni Cinquanta. Jean-Luc Godard, rimanendo estasiato dalla visione del film, ne scrisse così sui Cahiers du cinéma: «Chi non ha mai visto o amato Liselotte Pulver correre sulla riva di non so più quale Reno o Danubio, abbassarsi bruscamente per passare sotto lo steccato, poi sollevarsi, hop, con un colpo di reni, chi non ha visto a questo punto la grossa Mitchell (tipologia di cinepresa professionale) di Douglas Sirk abbassarsi contemporaneamente poi, hop, risollevarsi con lo stesso morbido movimento di gambe, ebbene costui non ha mai visto niente, o semplicemente non sa cosa sia la bellezza».
Agli inizi del 1958 Ross Hunter propose a Sirk quello che sarebbe stato il suo ultimo lavoro negli Stati Uniti: Imitation of Life (Lo specchio della vita, 1959). La sceneggiatura, tratta da un romanzo di Frannie Hurst e già portata sullo schermo da John M. Stahl nel 1934, si focalizzava sui rapporti che due madri, una bianca e una nera, intrattenevano con le rispettive figlie. Nella storia le quattro donne vivono assieme: la bianca, Lora Meredith (interpretata da Lana Turner), è un'attrice teatrale di successo, la nera, Annie Johnson (resa splendidamente da Juanita Moore), è la governante di casa. Le figlie, poco più che adolescenti e cresciute entrambe senza padre, stanno vivendo un momento di crisi: Susy (Sandra Dee), la figlia di Lora, comincia a fare i conti con la rabbia scaturita da una madre assente e dal desiderio provato per Steve, pretendente dell’attrice, mentre Sara Jane (Susan Kohner), nata con una pigmentazione chiara, rifiuta il colore della pelle di sua madre.
A differenza della prima versione di Stahl, l'Imitation of Life di Sirk non è semplicemente un film sulle conseguenze morali del razzismo, ma un’opera che parla di identità, intesa come ricerca costante del proprio sé. Tutte le protagoniste della pellicola sono, di fatto, incomplete: chi come genitrice incapace di ricoprire il proprio ruolo, che questo sia negato o non voluto, chi come figlia che cerca di costruirsi un’identità separata dal nido familiare o culturale. Anche qui la casa - con i suoi specchi, le sue scale, e i suoi colori accesi - è palcoscenico di una serie di scontri psicologici, battaglie di sentimenti che racchiudono in loro una molteplicità infinita di significati. In Imitation of Life si mostra tutta la durezza, la crudeltà e il pregiudizio della società occidentale, ed è proprio nella ribelle Sarah Jane che si “rispecchiano” le contraddizioni degli altri personaggi. Solo il sontuoso funerale di Annie nel finale - scenograficamente barocco, e accompagnato da uno struggente canto soul - sarà percepito dagli altri protagonisti come un’oscura presa di coscienza della loro condizione.
Imitation of Life fu uno dei più grandi incassi del 1959 ma, nonostante tutto, Sirk decise di lasciare per sempre la mecca del cinema: «Credo che avessi in mente di lasciare Hollywood anche prima di fare questo film. Ne avevo abbastanza. Quelli della Universal provarono a fermarmi. In un certo senso non fu per me una partenza felice, perché erano diventati degli amici. Mi dicevano: sei arrivato all'apice della tua carriera e molli tutto. Di sicuro, prima di allora, non era mai accaduto niente di simile a Hollywood, dove il successo è tutto. Nessuno capì il mio gesto». Tornato in Europa paventò di girare un film - sceneggiato da Eugène Ionesco e finanziato da una piccola casa di produzione francese - sul pittore Maurice Utrillo, ma, ammalatosi gravemente, dovette rinunciare al progetto. Si stabilì così a Lugano, in Svizzera, dove riprese, girando anche per l’Europa, la sua attività di regista teatrale.
Tornò al cinema solo negli anni Settanta, realizzando tre splendidi cortometraggi - Sprich zu mir wie der Regen (1975), Silvesternacht, Ein Dialog (1978) e Bourbon street blues (1978) - assieme agli studenti della Scuola di cinema e TV di Monaco. Continuò, tramite le sue letture e i suoi scritti, a saziare la sua costante fame di cultura, fin quando non si spense il 14 Gennaio del 1987. Venerato da Werner Rainer Fassbinder - che rivendicò chiaramente nei suoi film lo stile estetico e “mentale” dei melodrammi del maestro - e omaggiato da Todd Haynes - ne sono esempio lampante Far from Heaven (2002) e Carol (2015) - Hans Detlef Sierck ha lasciato un'impronta indelebile nel profondo, e insondabile, significato dell'immagine.