Il cinema a confronto con il più grande
mito calcistico di tutti i tempi,
di Piero Di Bucchianico
TR-42
25.11.2021
“Aveva a che fare con un qualcosa che sta in un altro mondo e che non potrà tornare più. I personaggi più importanti della mitologia sono stati due: Apollo e Dioniso. Apollo era la razionalità e Dioniso era l'emozione. Chi ha conosciuto Maradona sa che era la schifezza di Apollo, il massimo di Dioniso”
(Luciano De Crescenzo)
Non occorreva appartenere alla folta platea di adoratori del futebol per rendersi conto che la morte di Diego Armando Maradona, avvenuta esattamente un anno fa, potesse generare quel tipo di cordoglio che si dedica alle icone, ai miti, a coloro i quali con le loro gesta hanno saputo travalicare la dimensione dell’ordinario per toccare quella dello straordinario, dell’incommensurabile. Da quell’amaro 25 novembre del 2020 abbiamo infatti assistito all’elaborazione collettiva di un sentimento su cui si è scritto, riflettuto e a cui si è cercato forse invano di dare un nome.
All’ultimo atto, il trapasso fisico sembrerebbe poter mettere fine una volta per tutte alle debolezze, ai fallimenti, alle idiosincrasie, per riconsegnare in via definitiva il Dio alla sua dimensione purificata di appartenenza. Se questo accadesse, si farebbe un torto alla complessità della figura di Maradona, la quale è ascesa meritatamente allo status mitologico proprio in nome di tutte le sue contraddizioni. E allora, lungi dall’essere metabolizzato, quel dolore così sentito e così intimo di cui si accennava sopra rivela una ricaduta del tutto trasversale, come se a conti fatti le distinzioni fra il basso e l’alto, fra ceti sociali e culturali così distanti, potessero venire annullate in un colpo solo (magari un tacco, o una rabona) da quell’epifania continua rappresentata dai giochi di prestigio del Pibe de Oro.
Per parlare di un uomo fuori dal comune, di un semi-Dio come lo è stato Maradona, non si può non tirare in ballo la dimensione narrativa dei testi e dei media che hanno provato a raccontarne le peculiarità. È proprio questa ad aggregare la componente mitica, a donarle struttura; giocoforza, il mito non può disfarsene pena il non potersi definire più tale. Essendo ormai lontano il tramandarsi orale delle grandi epopee classiche, nell’epoca della società di massa e dei consumi, un’epoca mediatica e globalizzata, si ascende al cosmo tramite la pervasività, l’onnipresenza della propria immagine e delle proprie gesta. Diego Armando Maradona mette fisicamente piede in campo la domenica e, al contempo, accede simbolicamente alle case della gente comune, degli appassionati e dei tifosi perché entra nei loro televisori, riveste i loro rotocalchi, pullula e alimenta i loro sogni.
Esplicative sono, in tal senso, opere che nemmeno pongono Maradona al centro della propria trattazione (a quelle arriveremo in seguito) ma ne mostrano la capacità di influenzare individui e contesti attraverso la circolazione della propria immagine e la potenza delle proprie gesta. Maradona’s Legs, ad esempio, racconta la storia di due bambini palestinesi impegnati nella ricerca de “le gambe di Maradona”, l’unica figurina mancante per completare l’album di Italia ‘90 mentre attorno a loro la prima intifada incombe. Essendogli negate l’appartenenza territoriale e la spensieratezza della propria età, ai due protagonisti non resta che sondare la sfera della fantasia per provare a immaginare un futuro lontano. Maradona (qui simbolicamente spezzato in due, come a rappresentare la frattura ra dato concreto e potenziale) riveste il ruolo di manifesto di tale speranza di evasione.
Allo stesso modo, Paolo Sorrentino parte dal dato autobiografico per costruire attorno a Maradona la rievocazione della sua adolescenza e di come essa sia stata totalmente scombussolata dall’arrivo a Napoli del calciatore, evento sognato e posticipato a tal punto da non ritenere veritiera la sua venuta. In È stata la mano di Dio il regista partenopeo racconta la vivacità del mito, la sua capacità di orientare le pratiche comunitarie e costituirne di nuove, la sfera parareligiosa che attornia la figura di Maradona. Oltre ai miracoli compiuti sul rettangolo di gioco, in questo film (e nella vita vera) il Pibe de Oro influenza, con la sua sola presenza in un dato tempo e luogo (il San Paolo), l’orizzonte di possibilità del protagonista, e salvandogli la vita estende il raggio d’azione del proprio intervento divino.
Questo aspetto ricettivo e comunitario del mito arricchisce e sfuma ulteriormente le connotazioni in gioco: dove il Dio sta in cielo, Maradona sta in terra, o sul campo o per le strade, quelle stesse strade su cui ha mosso i primi passi. «Non mi serve la protezione della polizia per camminare per strada, la gente mi ama e io amo la gente» dichiara in un’intervista durante gli anni a Napoli. Vi è un Maradona pubblico e un Maradona privato, un Maradona diurno, trasparente sotto la luce del sole, e un Maradona notturno che deve celarsi dagli occhi indiscreti che vorrebbero svelarne i vizi e carpirne i segreti.
Si prenda Pelé come controesempio: per quanto il campione brasiliano compia un’operazione consapevole e non certo trascurabile di autogestione del proprio impianto divistico quando decide di terminare la carriera trasferendosi al Cosmos, assurgere ad ambasciatore del calcio negli States e diventare persino attore-calciatore per John Huston in Victory (1981), egli trascorre comunque la quasi totalità della propria attività agonistica in Brasile. Resistendo alle lusinghe del vecchio continente Pelè impedisce alla propria immagine di sconfinare. Si conserva così una componente di miticità arcaica che quasi si nutre della privazione di sé, neanche ci fosse Lenny Belardo a suggerirne le mosse: più di 1000 le reti realizzate in carriera, non sufficientemente numerosi i documenti disponibili necessari a tramandarne la grandezza.
Maradona possiede invece tutte le credenziali per rivestire il ruolo di mito contemporaneo massificato per eccellenza, sembra quasi che la sua storia sia stata scritta da uno sceneggiatore cinematografico tanto risulta esemplare ed efficace nel suo svilupparsi. La micronarrazione che si sedimenta fin dai primi passi è evidentemente quella dell’enfant prodige: nonostante nulla ci vieti di pensare che Diego trascorresse ore ed ore ad allenarsi e anzi, è più che plausibile che questo avvenisse (come è plausibile che Mozart si esercitasse al pianoforte), è più forte cedere alla tentazione che fa prevalere il dono divino all’etica del sacrificio e della dedizione.
Come se non bastasse, la capacità di Maradona di esercitare la propria superiorità sul terreno di gioco anche (se non soprattutto) nel bel mezzo del suo percorso autodistruttivo di dipendenza dalla cocaina, si può leggere a posteriori come una specie di continuo e malsano gioco al rialzo. Toccato dalla divinità ogni volta che scende in campo, l’uomo pensa illegittimamente di essere in controllo di una partita più grande fuori dal campo, credendo di poter guardare a muso duro e dalla stessa altezza forze in realtà ingovernabili che ne generano a proprio piacimento l’ascesa e la caduta.
Al contrario della superficialità e della malafede di chi associò l’abuso di cocaina alla qualità delle prestazioni sportive, Maradona è stato Maradona nonostante la cocaina, non certo grazie ad essa. Come dice egli stesso a Emir Kusturica, «Emir, sai che giocatore sarei stato se non avessi tirato la cocaina? Che giocatore ci siamo persi!».
La televisione, la carta stampata e la tradizione orale di leggende urbane tanto assurde quanto affascinanti alimentano l’aura di Maradona e arrivano prima del cinema a plasmare il mito. Macchina mitopoietica per eccellenza, la settima arte rispetto a questi canali non possiede la tempestività e il gusto per l’indiscrezione della stampa, la quotidianità abitudinaria delle chiacchiere televisive, né può vantarsi di una sospensione dell’incredulità sempre più a rischio nell’era della disillusione imperante. Il cinema narrativo e finzionale per antonomasia lavora con tempi differenti. Spesso il racconto dei miti contemporanei, soprattutto nella loro declinazione sportiva, giunge quando il mito è sulla fase del tramonto e sorge la necessità di ravvivarlo (si rifletta anche sulla strategia che riguarda The Last Dance, una serie televisiva uscita a più di vent’anni dalle riprese del materiale di repertorio, come se Michael Jordan volesse ribadire chi è il vero Re di fronte alle nuove leve che ne insidiano il trono).
Il cinema arriva dunque a occuparsi del mito di Maradona quando gli avvenimenti che ne hanno costellato la vita e la carriera lo hanno portato ad un lento declino, fra ritorni in campo mai concretizzati, il difficilissimo smaltimento delle dipendenze e una serie di nuove incarnazioni (presentatore televisivo, allenatore della nazionale e in ultimo anche di club) anch’esse rimaste a metà. Se è vero che per il mito sportivo è il ritiro dall’attività agonistica a suggellare uno spartiacque fra un apice di gloria e un pedice che vede nell’oblio il maggiore rischio, Maradona ne è l’esempio perfetto proprio perché, al di là dell’affetto umano nutrito per l’uomo, si ha la sensazione che una prima morte (quasi più significativa a livello simbolico di quella effettiva) Diego l’avesse già abbracciata nel momento del suo arresto per possesso di cocaina a Buenos Aires, nel 1991.
Quando esce Maradona – La mano de Dios di Marco Risi, il primo film su Maradona, è il 2007: Risi, autore in passato fin troppo trascurato di un cinema italiano di impegno a fine anni ottanta, sente sicuramente il senso di responsabilità nell’affrontare la biografia di un personaggio così controverso e amato, cosa che pare schiacciare ogni pretesa di grandezza dell’operazione. Come purtroppo spesso avviene, la strada del biopic tradizionale si dimostra essere poco efficace per raccontare una verità così potente come quella raccontata da chi l’ha vissuta, questo perché in questo caso mancano anche idee visive sufficientemente stimolanti per tradurre adeguatamente la realtà in racconto.
La devozione di Risi si traduce in banalità e soprattutto va a limare le spigolature del personaggio meno quella della tossicodipendenza, utile a rappresentare un declino talmente letterale da scadere nel simbolismo più pacchiano. Il film si chiude fra un flashback d’infanzia e una dedica che a suo tempo voleva fungere da buon auspicio e che dona al lungometraggio un tono consolatorio che non può far altro che stonare. Più interessante da un punto di vista critico è la scelta di sottrarsi dichiaratamente dal ri-mettere in scena ciò che non sarebbe possibile rievocare con la stessa pregnanza. Il gesto tecnico, il miracolo calcistico diventano allora inserti realistici più fantasiosi di qualsiasi altra fiction.
Per quanto La mano de Dios sia stato pressoché dimenticato e non abbia minimamente rappresentato un successo nemmeno al botteghino, la recentissima serie Maradona - Sogno Benedetto (2021) vi ha creato un inatteso ponte di collegamento. Pur non riguardando strettamente il cinema ma un prodotto da piattaforma che ha più a che fare con la televisione, essa rappresenta l’unico altro esemplare di opera su Maradona che aderisce al regime della finzione.
Come per Risi, la serie opera la medesima scelta di campo sul Maradona calciatore, ovvero quella di non metterci proprio le mani ed evitare quella che potrebbe essere vista come una profanazione. Quello atletico e performativo sembra rivelarsi un re-enactment impossibile solo da concepire: l’unica forma mentis possibile è quella di rasentare la perfezione scenografica e costumistica e lasciare poi spazio alle immagini dal vero dove la messa in scena non può più arrivare, con l’utilizzo dei titoli di coda a mo’ di supporto documentale che segnala che ciò che abbiamo visto in versione romanzata è comunque frutto di una ricerca che vorrebbe mettere esibire la fedeltà e la cura nei verso le fonti (ma nonostante ciò, a Napoli hanno già avuto parecchio da ridire).
Pur senza raggiungere chissà quali vette artistiche, Sogno Benedetto si inserisce perfettamente nel suo tempo dimostrando un gran dispendio di energie produttive indirizzate verso una serie che, per definizione, può concedersi il lusso di dilatarsi lungo un arco molto esteso, giocare più efficacemente con gli andirivieni temporali e riempire scrupolosamente ogni capitolo della vita del proprio protagonista, il quale è interpretato da differenti attori nelle diverse fasce d’età.
Forte del proprio impianto seriale e della possibilità di riempire spazi che il cinema è costretto ad eludere, questa serie nasce per celebrare il Pibe in vita, ne accoglie probabilmente con sgomento la notizia della morte durante la produzione e sortisce l’effetto di canalizzare l’affetto per la sua figura con un prodotto che non eccelle ma che risulta adeguato e rispettoso dei canoni televisivi. Se la fiction si è dimostrata poco coraggiosa, pedissequa e forse nel complesso poco ispirata nella trattazione del mito è anche perché si è adeguata ai cliché che affliggono questa fantomatica indagine dell’uomo dietro al genio.
In questo senso, il documentario ha mostrato da sempre più dimestichezza con la sperimentazione e con l’accoglienza dell’imprevisto, del momento di grazia che può derivare da una dimensione ineffabile e inaspettata. Maradona by Kusturica (2008) lo dimostra benissimo col suo incedere talvolta sgraziato e altalenante, figlio di un approccio a tratti indeciso da parte dell’autore balcanico, ma che contiene lampi di cinema memorabile. In questo incontro nei luoghi che ne hanno costituito il mito, Villa Fiorito, Buenos Aires, Napoli, Cuba, Diego Armando Maradona si confronta con un altro artista affine, gli confessa i propri dubbi e rimpianti e si mette metaforicamente in posa per lasciare che Kusturica ne dipinga un ritratto. Ne emerge un quadro senza dubbio bizzarro, probabilmente a tratti troppo interdetto da una lavorazione difficoltosa ed episodica che vede il regista di Underground effettuare di volta in volta delle visite a Maradona senza essere così sicuro che il lavoro sarebbe stato portato a termine.
Ostacolo non da poco, questo può essere anche il pregio di operazioni simili, ed infatti Kusturica riesce a tirare fuori dal Pibe de Oro la sua anima ribelle, il suo spirito anticonformista e anti-imperialista che troppo era stato trascurato da chi avrebbe dovuto sondarne le complessità di uomo, di artista e di rivoluzionario armato di pallone.
Può darsi che siano fuori luogo, datate e ripetitive le animazioni che vedono Diego farsi beffe di Carlo, della Regina Elisabetta, di Reagan, Bush e della Thatcher sempre sulle note della solita God Save The Queen dei Sex Pistols; la presenza del regista può risultare invasiva quando offre sfoggio delle sue doti chitarristiche, si autoproclama il Maradona del cinema, tenta impervi paragoni fra Diego e il Dio mesopotamico Gilgamesh e non disdegna, in questo comune avvicinamento, l’idea di inserire un po’ inutilmente delle scene dai suoi film per dimostrare come in fondo essi condividano un’anima proletaria, gitana e anarchica.
Eppure il rapporto di stima e di amicizia instauratosi fra i due è genuino (lo testimonia il bellissimo momento di palleggio in comune nello stadio della Stella Rossa Belgrado) e consente a Kusturica di essere lì a raccogliere quando Diego semina. Gli confida del rapporto con la cocaina, di come il tempo trascorso senza star vicino alle figlie lo tormenti, del disprezzo verso gli statunitensi e verso quegli inglesi che tanto si è divertito a beffare all’Azteca, della gioia incondizionata per gli incontri con Fidel Castro. Soprattutto, Kusturica è lì quando Maradona canta La mano de Dios per celebrare se stesso in un tripudio che il montaggio interpola con le sue magie, è lì quando Maradona viene sorpreso dedica commovente di Manu Chao.
Momenti importanti, decisivi nel restituire un’altra faccia dell’uomo e al contempo dell’icona, deviazioni intime, sociali e politiche non trascurabili proprio perché contribuiscono a distinguere e separare Maradona da altri grandi campioni più lineari e marmorei, ligi al dovere e per questo decisamente meno intriganti.
Differente è l’approccio con cui si avvicina alla materia Asif Kapadia col suo Diego Maradona (2019). Già affine all’indagine di personaggi complessi nella declinazione sportiva (Senna, 2010) ma anche in quella musicale (Amy, 2015), il regista britannico realizza un documentario che punta sull’immediatezza, come se si fosse fatto da sé e i nostri occhi avessero avuto, per un paio d’ore, il potere di fare un viaggio nei tempi e nei luoghi del racconto per assistere da vicino alla duplice natura di Maradona, ancora sul campo e fuori dal campo, ma questa volta con un arsenale d’archivio impareggiabile fornito in primis dalla famiglia e poi frutto delle ricerche effettuate presso le istituzioni. È evidente come l’intento di Kapadia sia quello di lavorare di sintesi nelle fasi giudicate di formazione (il film è introdotto da un incipit vertiginoso che racchiude i primi anni di vita e di carriera, fra Argentinos, Boca e Barcellona) e poi di profondità ed estensione per la parte centrale, quella degli anni a Napoli e dei mondiali dell’86 e del ‘90.
Mettendo sotto la lente di ingrandimento tutto il periodo italiano, Kapadia giunge a un compendio invidiabile nella sua esemplarità e capace di esprimere con grande efficacia, nel montaggio e nella dovizia di particolari, tutte le ambivalenze del personaggio sin qui descritte. Apparentemente chirurgico nel suo andamento, Diego Maradona parrebbe localizzarsi nel versante opposto del ciondolante ed emotivo Maradona by Kusturica: metodicamente strutturato e dallo sguardo distaccato sul flusso degli eventi, il documentario di Kapadia vuole essere un resoconto imparziale ma fedele alla complessità degli fatti, sfruttando (e non è un male) la pregnanza delle immagini per rendersi a suo modo informativo e necessario. Ri-localizzate per quanto riguarda i filmati calcistici (gli stessi gol di sempre ma da nuove angolazioni che ne risvegliano la potenza dal torpore dell’abitudine) e del tutto inedite nei contesti intimi, famigliari e dei dietro le quinte, queste immagini riescono a toccare le corde dell’anima e del sublime e a garantire la perfetta misura di ordinario e superlativo, di terreno e trascendente incarnate dal Diego Armando Maradona uomo, calciatore, mito.
Il cinema a confronto con il più grande
mito calcistico di tutti i tempi,
di Piero Di Bucchianico
TR-42
25.11.2021
“Aveva a che fare con un qualcosa che sta in un altro mondo e che non potrà tornare più. I personaggi più importanti della mitologia sono stati due: Apollo e Dioniso. Apollo era la razionalità e Dioniso era l'emozione. Chi ha conosciuto Maradona sa che era la schifezza di Apollo, il massimo di Dioniso”
(Luciano De Crescenzo)
Non occorreva appartenere alla folta platea di adoratori del futebol per rendersi conto che la morte di Diego Armando Maradona, avvenuta esattamente un anno fa, potesse generare quel tipo di cordoglio che si dedica alle icone, ai miti, a coloro i quali con le loro gesta hanno saputo travalicare la dimensione dell’ordinario per toccare quella dello straordinario, dell’incommensurabile. Da quell’amaro 25 novembre del 2020 abbiamo infatti assistito all’elaborazione collettiva di un sentimento su cui si è scritto, riflettuto e a cui si è cercato forse invano di dare un nome.
All’ultimo atto, il trapasso fisico sembrerebbe poter mettere fine una volta per tutte alle debolezze, ai fallimenti, alle idiosincrasie, per riconsegnare in via definitiva il Dio alla sua dimensione purificata di appartenenza. Se questo accadesse, si farebbe un torto alla complessità della figura di Maradona, la quale è ascesa meritatamente allo status mitologico proprio in nome di tutte le sue contraddizioni. E allora, lungi dall’essere metabolizzato, quel dolore così sentito e così intimo di cui si accennava sopra rivela una ricaduta del tutto trasversale, come se a conti fatti le distinzioni fra il basso e l’alto, fra ceti sociali e culturali così distanti, potessero venire annullate in un colpo solo (magari un tacco, o una rabona) da quell’epifania continua rappresentata dai giochi di prestigio del Pibe de Oro.
Per parlare di un uomo fuori dal comune, di un semi-Dio come lo è stato Maradona, non si può non tirare in ballo la dimensione narrativa dei testi e dei media che hanno provato a raccontarne le peculiarità. È proprio questa ad aggregare la componente mitica, a donarle struttura; giocoforza, il mito non può disfarsene pena il non potersi definire più tale. Essendo ormai lontano il tramandarsi orale delle grandi epopee classiche, nell’epoca della società di massa e dei consumi, un’epoca mediatica e globalizzata, si ascende al cosmo tramite la pervasività, l’onnipresenza della propria immagine e delle proprie gesta. Diego Armando Maradona mette fisicamente piede in campo la domenica e, al contempo, accede simbolicamente alle case della gente comune, degli appassionati e dei tifosi perché entra nei loro televisori, riveste i loro rotocalchi, pullula e alimenta i loro sogni.
Esplicative sono, in tal senso, opere che nemmeno pongono Maradona al centro della propria trattazione (a quelle arriveremo in seguito) ma ne mostrano la capacità di influenzare individui e contesti attraverso la circolazione della propria immagine e la potenza delle proprie gesta. Maradona’s Legs, ad esempio, racconta la storia di due bambini palestinesi impegnati nella ricerca de “le gambe di Maradona”, l’unica figurina mancante per completare l’album di Italia ‘90 mentre attorno a loro la prima intifada incombe. Essendogli negate l’appartenenza territoriale e la spensieratezza della propria età, ai due protagonisti non resta che sondare la sfera della fantasia per provare a immaginare un futuro lontano. Maradona (qui simbolicamente spezzato in due, come a rappresentare la frattura ra dato concreto e potenziale) riveste il ruolo di manifesto di tale speranza di evasione.
Allo stesso modo, Paolo Sorrentino parte dal dato autobiografico per costruire attorno a Maradona la rievocazione della sua adolescenza e di come essa sia stata totalmente scombussolata dall’arrivo a Napoli del calciatore, evento sognato e posticipato a tal punto da non ritenere veritiera la sua venuta. In È stata la mano di Dio il regista partenopeo racconta la vivacità del mito, la sua capacità di orientare le pratiche comunitarie e costituirne di nuove, la sfera parareligiosa che attornia la figura di Maradona. Oltre ai miracoli compiuti sul rettangolo di gioco, in questo film (e nella vita vera) il Pibe de Oro influenza, con la sua sola presenza in un dato tempo e luogo (il San Paolo), l’orizzonte di possibilità del protagonista, e salvandogli la vita estende il raggio d’azione del proprio intervento divino.
Questo aspetto ricettivo e comunitario del mito arricchisce e sfuma ulteriormente le connotazioni in gioco: dove il Dio sta in cielo, Maradona sta in terra, o sul campo o per le strade, quelle stesse strade su cui ha mosso i primi passi. «Non mi serve la protezione della polizia per camminare per strada, la gente mi ama e io amo la gente» dichiara in un’intervista durante gli anni a Napoli. Vi è un Maradona pubblico e un Maradona privato, un Maradona diurno, trasparente sotto la luce del sole, e un Maradona notturno che deve celarsi dagli occhi indiscreti che vorrebbero svelarne i vizi e carpirne i segreti.
Si prenda Pelé come controesempio: per quanto il campione brasiliano compia un’operazione consapevole e non certo trascurabile di autogestione del proprio impianto divistico quando decide di terminare la carriera trasferendosi al Cosmos, assurgere ad ambasciatore del calcio negli States e diventare persino attore-calciatore per John Huston in Victory (1981), egli trascorre comunque la quasi totalità della propria attività agonistica in Brasile. Resistendo alle lusinghe del vecchio continente Pelè impedisce alla propria immagine di sconfinare. Si conserva così una componente di miticità arcaica che quasi si nutre della privazione di sé, neanche ci fosse Lenny Belardo a suggerirne le mosse: più di 1000 le reti realizzate in carriera, non sufficientemente numerosi i documenti disponibili necessari a tramandarne la grandezza.
Maradona possiede invece tutte le credenziali per rivestire il ruolo di mito contemporaneo massificato per eccellenza, sembra quasi che la sua storia sia stata scritta da uno sceneggiatore cinematografico tanto risulta esemplare ed efficace nel suo svilupparsi. La micronarrazione che si sedimenta fin dai primi passi è evidentemente quella dell’enfant prodige: nonostante nulla ci vieti di pensare che Diego trascorresse ore ed ore ad allenarsi e anzi, è più che plausibile che questo avvenisse (come è plausibile che Mozart si esercitasse al pianoforte), è più forte cedere alla tentazione che fa prevalere il dono divino all’etica del sacrificio e della dedizione.
Come se non bastasse, la capacità di Maradona di esercitare la propria superiorità sul terreno di gioco anche (se non soprattutto) nel bel mezzo del suo percorso autodistruttivo di dipendenza dalla cocaina, si può leggere a posteriori come una specie di continuo e malsano gioco al rialzo. Toccato dalla divinità ogni volta che scende in campo, l’uomo pensa illegittimamente di essere in controllo di una partita più grande fuori dal campo, credendo di poter guardare a muso duro e dalla stessa altezza forze in realtà ingovernabili che ne generano a proprio piacimento l’ascesa e la caduta.
Al contrario della superficialità e della malafede di chi associò l’abuso di cocaina alla qualità delle prestazioni sportive, Maradona è stato Maradona nonostante la cocaina, non certo grazie ad essa. Come dice egli stesso a Emir Kusturica, «Emir, sai che giocatore sarei stato se non avessi tirato la cocaina? Che giocatore ci siamo persi!».
La televisione, la carta stampata e la tradizione orale di leggende urbane tanto assurde quanto affascinanti alimentano l’aura di Maradona e arrivano prima del cinema a plasmare il mito. Macchina mitopoietica per eccellenza, la settima arte rispetto a questi canali non possiede la tempestività e il gusto per l’indiscrezione della stampa, la quotidianità abitudinaria delle chiacchiere televisive, né può vantarsi di una sospensione dell’incredulità sempre più a rischio nell’era della disillusione imperante. Il cinema narrativo e finzionale per antonomasia lavora con tempi differenti. Spesso il racconto dei miti contemporanei, soprattutto nella loro declinazione sportiva, giunge quando il mito è sulla fase del tramonto e sorge la necessità di ravvivarlo (si rifletta anche sulla strategia che riguarda The Last Dance, una serie televisiva uscita a più di vent’anni dalle riprese del materiale di repertorio, come se Michael Jordan volesse ribadire chi è il vero Re di fronte alle nuove leve che ne insidiano il trono).
Il cinema arriva dunque a occuparsi del mito di Maradona quando gli avvenimenti che ne hanno costellato la vita e la carriera lo hanno portato ad un lento declino, fra ritorni in campo mai concretizzati, il difficilissimo smaltimento delle dipendenze e una serie di nuove incarnazioni (presentatore televisivo, allenatore della nazionale e in ultimo anche di club) anch’esse rimaste a metà. Se è vero che per il mito sportivo è il ritiro dall’attività agonistica a suggellare uno spartiacque fra un apice di gloria e un pedice che vede nell’oblio il maggiore rischio, Maradona ne è l’esempio perfetto proprio perché, al di là dell’affetto umano nutrito per l’uomo, si ha la sensazione che una prima morte (quasi più significativa a livello simbolico di quella effettiva) Diego l’avesse già abbracciata nel momento del suo arresto per possesso di cocaina a Buenos Aires, nel 1991.
Quando esce Maradona – La mano de Dios di Marco Risi, il primo film su Maradona, è il 2007: Risi, autore in passato fin troppo trascurato di un cinema italiano di impegno a fine anni ottanta, sente sicuramente il senso di responsabilità nell’affrontare la biografia di un personaggio così controverso e amato, cosa che pare schiacciare ogni pretesa di grandezza dell’operazione. Come purtroppo spesso avviene, la strada del biopic tradizionale si dimostra essere poco efficace per raccontare una verità così potente come quella raccontata da chi l’ha vissuta, questo perché in questo caso mancano anche idee visive sufficientemente stimolanti per tradurre adeguatamente la realtà in racconto.
La devozione di Risi si traduce in banalità e soprattutto va a limare le spigolature del personaggio meno quella della tossicodipendenza, utile a rappresentare un declino talmente letterale da scadere nel simbolismo più pacchiano. Il film si chiude fra un flashback d’infanzia e una dedica che a suo tempo voleva fungere da buon auspicio e che dona al lungometraggio un tono consolatorio che non può far altro che stonare. Più interessante da un punto di vista critico è la scelta di sottrarsi dichiaratamente dal ri-mettere in scena ciò che non sarebbe possibile rievocare con la stessa pregnanza. Il gesto tecnico, il miracolo calcistico diventano allora inserti realistici più fantasiosi di qualsiasi altra fiction.
Per quanto La mano de Dios sia stato pressoché dimenticato e non abbia minimamente rappresentato un successo nemmeno al botteghino, la recentissima serie Maradona - Sogno Benedetto (2021) vi ha creato un inatteso ponte di collegamento. Pur non riguardando strettamente il cinema ma un prodotto da piattaforma che ha più a che fare con la televisione, essa rappresenta l’unico altro esemplare di opera su Maradona che aderisce al regime della finzione.
Come per Risi, la serie opera la medesima scelta di campo sul Maradona calciatore, ovvero quella di non metterci proprio le mani ed evitare quella che potrebbe essere vista come una profanazione. Quello atletico e performativo sembra rivelarsi un re-enactment impossibile solo da concepire: l’unica forma mentis possibile è quella di rasentare la perfezione scenografica e costumistica e lasciare poi spazio alle immagini dal vero dove la messa in scena non può più arrivare, con l’utilizzo dei titoli di coda a mo’ di supporto documentale che segnala che ciò che abbiamo visto in versione romanzata è comunque frutto di una ricerca che vorrebbe mettere esibire la fedeltà e la cura nei verso le fonti (ma nonostante ciò, a Napoli hanno già avuto parecchio da ridire).
Pur senza raggiungere chissà quali vette artistiche, Sogno Benedetto si inserisce perfettamente nel suo tempo dimostrando un gran dispendio di energie produttive indirizzate verso una serie che, per definizione, può concedersi il lusso di dilatarsi lungo un arco molto esteso, giocare più efficacemente con gli andirivieni temporali e riempire scrupolosamente ogni capitolo della vita del proprio protagonista, il quale è interpretato da differenti attori nelle diverse fasce d’età.
Forte del proprio impianto seriale e della possibilità di riempire spazi che il cinema è costretto ad eludere, questa serie nasce per celebrare il Pibe in vita, ne accoglie probabilmente con sgomento la notizia della morte durante la produzione e sortisce l’effetto di canalizzare l’affetto per la sua figura con un prodotto che non eccelle ma che risulta adeguato e rispettoso dei canoni televisivi. Se la fiction si è dimostrata poco coraggiosa, pedissequa e forse nel complesso poco ispirata nella trattazione del mito è anche perché si è adeguata ai cliché che affliggono questa fantomatica indagine dell’uomo dietro al genio.
In questo senso, il documentario ha mostrato da sempre più dimestichezza con la sperimentazione e con l’accoglienza dell’imprevisto, del momento di grazia che può derivare da una dimensione ineffabile e inaspettata. Maradona by Kusturica (2008) lo dimostra benissimo col suo incedere talvolta sgraziato e altalenante, figlio di un approccio a tratti indeciso da parte dell’autore balcanico, ma che contiene lampi di cinema memorabile. In questo incontro nei luoghi che ne hanno costituito il mito, Villa Fiorito, Buenos Aires, Napoli, Cuba, Diego Armando Maradona si confronta con un altro artista affine, gli confessa i propri dubbi e rimpianti e si mette metaforicamente in posa per lasciare che Kusturica ne dipinga un ritratto. Ne emerge un quadro senza dubbio bizzarro, probabilmente a tratti troppo interdetto da una lavorazione difficoltosa ed episodica che vede il regista di Underground effettuare di volta in volta delle visite a Maradona senza essere così sicuro che il lavoro sarebbe stato portato a termine.
Ostacolo non da poco, questo può essere anche il pregio di operazioni simili, ed infatti Kusturica riesce a tirare fuori dal Pibe de Oro la sua anima ribelle, il suo spirito anticonformista e anti-imperialista che troppo era stato trascurato da chi avrebbe dovuto sondarne le complessità di uomo, di artista e di rivoluzionario armato di pallone.
Può darsi che siano fuori luogo, datate e ripetitive le animazioni che vedono Diego farsi beffe di Carlo, della Regina Elisabetta, di Reagan, Bush e della Thatcher sempre sulle note della solita God Save The Queen dei Sex Pistols; la presenza del regista può risultare invasiva quando offre sfoggio delle sue doti chitarristiche, si autoproclama il Maradona del cinema, tenta impervi paragoni fra Diego e il Dio mesopotamico Gilgamesh e non disdegna, in questo comune avvicinamento, l’idea di inserire un po’ inutilmente delle scene dai suoi film per dimostrare come in fondo essi condividano un’anima proletaria, gitana e anarchica.
Eppure il rapporto di stima e di amicizia instauratosi fra i due è genuino (lo testimonia il bellissimo momento di palleggio in comune nello stadio della Stella Rossa Belgrado) e consente a Kusturica di essere lì a raccogliere quando Diego semina. Gli confida del rapporto con la cocaina, di come il tempo trascorso senza star vicino alle figlie lo tormenti, del disprezzo verso gli statunitensi e verso quegli inglesi che tanto si è divertito a beffare all’Azteca, della gioia incondizionata per gli incontri con Fidel Castro. Soprattutto, Kusturica è lì quando Maradona canta La mano de Dios per celebrare se stesso in un tripudio che il montaggio interpola con le sue magie, è lì quando Maradona viene sorpreso dedica commovente di Manu Chao.
Momenti importanti, decisivi nel restituire un’altra faccia dell’uomo e al contempo dell’icona, deviazioni intime, sociali e politiche non trascurabili proprio perché contribuiscono a distinguere e separare Maradona da altri grandi campioni più lineari e marmorei, ligi al dovere e per questo decisamente meno intriganti.
Differente è l’approccio con cui si avvicina alla materia Asif Kapadia col suo Diego Maradona (2019). Già affine all’indagine di personaggi complessi nella declinazione sportiva (Senna, 2010) ma anche in quella musicale (Amy, 2015), il regista britannico realizza un documentario che punta sull’immediatezza, come se si fosse fatto da sé e i nostri occhi avessero avuto, per un paio d’ore, il potere di fare un viaggio nei tempi e nei luoghi del racconto per assistere da vicino alla duplice natura di Maradona, ancora sul campo e fuori dal campo, ma questa volta con un arsenale d’archivio impareggiabile fornito in primis dalla famiglia e poi frutto delle ricerche effettuate presso le istituzioni. È evidente come l’intento di Kapadia sia quello di lavorare di sintesi nelle fasi giudicate di formazione (il film è introdotto da un incipit vertiginoso che racchiude i primi anni di vita e di carriera, fra Argentinos, Boca e Barcellona) e poi di profondità ed estensione per la parte centrale, quella degli anni a Napoli e dei mondiali dell’86 e del ‘90.
Mettendo sotto la lente di ingrandimento tutto il periodo italiano, Kapadia giunge a un compendio invidiabile nella sua esemplarità e capace di esprimere con grande efficacia, nel montaggio e nella dovizia di particolari, tutte le ambivalenze del personaggio sin qui descritte. Apparentemente chirurgico nel suo andamento, Diego Maradona parrebbe localizzarsi nel versante opposto del ciondolante ed emotivo Maradona by Kusturica: metodicamente strutturato e dallo sguardo distaccato sul flusso degli eventi, il documentario di Kapadia vuole essere un resoconto imparziale ma fedele alla complessità degli fatti, sfruttando (e non è un male) la pregnanza delle immagini per rendersi a suo modo informativo e necessario. Ri-localizzate per quanto riguarda i filmati calcistici (gli stessi gol di sempre ma da nuove angolazioni che ne risvegliano la potenza dal torpore dell’abitudine) e del tutto inedite nei contesti intimi, famigliari e dei dietro le quinte, queste immagini riescono a toccare le corde dell’anima e del sublime e a garantire la perfetta misura di ordinario e superlativo, di terreno e trascendente incarnate dal Diego Armando Maradona uomo, calciatore, mito.