Come e perché il cinema non sa (quasi mai)
rappresentare la balbuzie,
di Andrea Tiradritti
TR-82
24.06.2023
A lungo ho riflettuto sui motivi dell’avversione che per anni, prima di studiarlo all’università, ho provato nei confronti del cinema. L’essenziale, mi rendo conto solo adesso, riguardava l’impossibilità di riconoscermi in quel che vedevo sullo schermo. Nessuno nei film parlava come me. Da bambino e poi da ragazzo balbuziente il modello di comunicazione veicolato dal cinema rappresentava ai miei occhi uno standard inavvicinabile, un costante promemoria della mia differenza e della sua falsità. La balbuzie è una diversità nello schema del linguaggio verbale contraddistinta da interruzioni e disfluenze. Le persone che balbettano possono farlo, con intensità e modalità variabili nel corso della loro vita, tramite la ripetizione di una lettera o di una sillaba, il prolungamento di una parola o una serie di blocchi che non permettono loro di articolare alcun suono per un indefinito intervallo di tempo. La balbuzie, al contrario di quel che si crede, non è causata da fattori psicologici, traumatici, emotivi o ambientali, per quanto questi possano contribuire al suo peggioramento. La grande maggioranza delle ricerche scientifiche è ormai concorde nello stabilire l’origine neurologica della balbuzie in una differente attività del cervello durante la produzione del linguaggio. Caratteri genetici ed ereditari sono poi stati accertati come elementi determinanti per il suo sviluppo. Non esiste una cura universale e definitiva per la balbuzie. Esistono molte terapie che aiutano chi balbetta ad assumere maggiore consapevolezza della propria condizione, imparando a gestire efficacemente la fluenza e a vivere con più serenità il rapporto con la parola orale, con se stessi e con gli altri.
Oggi, che oltre a essere un adulto a cui capita di balbettare scrivo e rifletto sul cinema, so quanto l’immagine-parola audiovisiva assolva due funzioni tra loro connesse: rappresentare universi e insieme normarli, così da specchiare e trasformare la realtà. Non stupisce allora che una caratteristica riguardante soltanto l’1% della popolazione mondiale come la balbuzie sia stata rimossa o superficialmente marginalizzata, raffigurata di regola in modo scorretto, discriminante, dannoso. Prendete un qualsiasi film americano degli ultimi cento anni, quelli che ancora più di ogni altri specchiano e costruiscono il nostro immaginario: troverete dialoghi impeccabili, narratori convincenti, fiumi di parole, tempi scanditi alla perfezione, silenzi mai più lunghi del dovuto, pause misurate, battute proclamate col giusto tono, senza esitazioni che non siano state accuratamente studiate. Il doppiaggio non migliora la situazione. La parola si fa due volte recitata e anche quelle poche imperfezioni originali vengono lavate via sull’altare di un eloquio irreprensibile, rapido, seducente. Nei film o in televisione le persone non balbettano. Se ciò non vi ha mai fatto dubitare è buon indicatore di quanto questo stile di comunicazione sia ormai ritenuto canonico e indiscutibile, oltre a segnalare la scarsa conoscenza generale riguardo al tema. Parlare di balbuzie in Italia è per certi versi ancora tabù, per questo va fatto. Le parole che seguono nascono dalla consapevolezza di quanto ogni rappresentazione mediale possa aiutare o danneggiare una corretta divulgazione della questione, nonché dal desiderio di dare voce all’unica minoranza a cui appartengo, analizzando i modi, poche volte virtuosi, quasi sempre viziati da ignoranza e stereotipi, in cui è stata fatta parlare dal cinema e quindi dalla società che esso riflette.
Cercasi eroi
Innanzitutto, per capire di quale sperduta periferia nella galassia della rappresentanza stiamo parlando, basterà pensare a quanto raramente chi balbetta sia il protagonista di un film. Ancor più inusuali sono le opere che scelgono di approfondire narrativamente la balbuzie dei loro personaggi principali, farne cardine strutturale del loro percorso oltre che semplice elemento caratterizzante. Questa tendenza pone di fronte a due criticità: la prima, statistica, riguarda la scarsità di modelli positivi proposti. La seconda alimenta la confusione e la vaghezza che da sempre gravano sulla balbuzie, in quanto se da un lato è apprezzabile la volontà di non ridurre il personaggio a un suo unico tratto esteriore – normalizzando così il processo di accettazione e favorendo la presa di coscienza in chi guarda – dall’altro esplicitare con maggiore attenzione la natura di quel tratto eviterebbe superficialità e inesattezze. Uno dei problemi nodali è che nei film di solito la balbuzie viene mostrata come simbolo, spia che sta per qualcos’altro, significando e nascondendo ombre più profonde: un trauma irrisolto, una situazione di disagio, un passato doloroso, un conflitto, un’insicurezza relazionale. Lo sbaglio è di nuovo confondere gli effetti per la causa, banalizzando la balbuzie alla stregua di un disturbo estemporaneo, intermittente tic nervoso della comunicazione.
La traiettoria di Bill Denbrough, ragazzo e poi uomo protagonista dei due capitoli cinematografici di It diretti da Andy Muschietti nel 2017 e nel 2019, è un buon esempio in questo senso. Nel primo film la balbuzie di Bill è evidente fin dalla prima scena ma mai davvero raccontata. Non influisce nel suo viaggio, non se ne fa riferimento e non condiziona il suo rapporto col mondo. Nel secondo film, ambientato ventisette anni dopo il primo, Bill è ormai uno scrittore di successo e uomo felicemente sposato. Come spesso capita, mentre alla balbuzie sono associate le crisi dell’infanzia e dell’adolescenza, la compiuta realizzazione personale viene plasticamente espressa tramite l’improvvisa scomparsa dell’impedimento. Bill infatti non balbetta più, almeno fino a quando non è costretto a tornare a Derry, sua città natale e luogo in cui morì suo fratello minore. Una volta a casa Bill ricomincia ovviamente a balbettare, segnalando nel più classico degli schemi simbolici la ferita di un lutto non elaborato.
Nella prima stagione di Bridgerton (2020), serie di successo ambientata nel mondo dell’alta società londinese agli inizi dell’Ottocento, scopriamo attraverso un flashback che l’affascinante Simon Basset, Duca di Hastings, da bambino aveva una severa balbuzie che portò suo padre a vergognarsi di lui e a considerarlo idiota. Anche Simon da adulto sembra “sconfiggere” il suo nemico. Non lo vediamo più balbettare e nella storia viene detto che «ha lavorato molto sul suo modo di parlare» affinché riuscisse a superare i suoi problemi. Se è comprensibile, vista l’oscurità che la caratterizzava all’epoca, ritrarre la balbuzie nel XIX secolo come un aspetto negativo e associabile alla credenza di una qualche deficienza mentale, è molto meno giustificabile far passare il messaggio che la balbuzie possa sparire in base all’impegno che chi balbetta è disposto a mettere nel combatterla. Oltre a riproporre l’equazione che situa nel superamento della balbuzie un requisito indispensabile affinché un bambino problematico diventi un uomo desiderabile e affermato, questa rappresentazione sfiora l’abilismo in quanto equipara il raggiungimento di determinati parametri sociali alla guarigione, facendo credere che sia esclusiva responsabilità di chi balbetta scegliere come e quando smettere. Come spiega bene questo video, è improbabile che Simon non balbetti più. Ha solo imparato a gestire la sua fluenza (parlando in realtà il meno possibile e adottando un comportamento respingente e altezzoso) in modo che il suo discorso risulti funzionale a essere socialmente accettato. Non abbiamo bisogno di altri eroi che nascondano la loro balbuzie, ma di eroi coraggiosamente balbuzienti.
Dimmi come parli e ti dirò chi sei
Se quindi quasi mai sono protagonisti, quali ruoli sono riservati ai personaggi che balbettano? Tradizionalmente due: quello comico e, più di rado, quello del cattivo. Per la sua natura, da sempre considerata ambigua e misteriosa, la balbuzie ben si presta a essere sceneggiata come caratteristica (purtroppo a volte anche come vezzo) di quei caratteri turbati, maligni e repressi che identificano di norma il villain di una narrazione. D’altro canto, come conseguenza del suo stigma sociale, ogni tentennamento della parola è sintomo di timidezza, immaturità, goffaggine, arrendevolezza passiva. Tutti elementi che possono creare imbarazzi ed equivoci, scintille per antonomasia della comicità. Che sia il compagno scemo dell’esilarante carceriere dei Monty Python in Brian di Nazareth (1979), il porcellino dei Looney Tunes in Space Jam (1996) o l’imbranato maggiordomo della spietata Crudelia della commedia Disney La carica dei 102 - Un nuovo colpo di coda (2000), i personaggi balbuzienti sono di frequente usati come marionette di contorno, oggetti di scherno e risate, innocue e docili stilizzazioni secondarie.
Nonostante la loro scarsa profondità, questo tipo di figure sono rilevanti perché rappresentano i luoghi comuni più in voga sulla balbuzie, nonché gli stampi concettuali maggiormente utilizzati per le sue raffigurazioni. Capita però, a dispetto della faciloneria con cui sono stati scritti, che questi ritratti possano anche rivelarsi utili per conoscere alcuni comportamenti legati alla balbuzie.
Il più generalizzato, quello dell’evitamento, consiste in un meccanismo che chi balbetta interiorizza per contrastare i sentimenti di ansia e inadeguatezza legati al parlare in situazioni che si avvertono come stressanti o pericolose. Si può evitare il problema alla base, rifiutandosi di parlare, o evitare le parole sulle quali si sente di incepparsi, trovando sinonimi o riformulando faticosamente intere frasi in testa prima di esprimerle. Quando Michael Jordan atterra sul pianeta dei Looney Tunes nel già citato cult diretto da Joe Pytka, Porky Pig prova a chiedere un autografo al suo idolo ma dopo un paio di tentativi rinuncia a dire autograph, domandando alla star di lasciargli invece un John Hancock, altra espressione statunitense per indicare la firma. Porky Pig ha così evitato, trovando un espediente per dire la stessa cosa in modo diverso. Quel che nel film strappa un sorriso, è giusto sapere che nella vita di chi balbetta può coincidere in realtà con un grande sforzo e una convalida negativa di una propria inefficienza.
Vi ricordate poi Quirinus Raptor, il professore di Difesa contro le Arti Oscure di Harry Potter e la pietra filosofale (2001)? Ebbene, l’insospettabile Quirinus nel film ha due personalità: quella cordiale e gentile nei confronti di Harry balbetta, quella malvagia che nel finale si scopre essere posseduta da Voldemort no. Questo ci dice almeno una cosa interessante e ricorrente, ovvero che la balbuzie è spesso usata come maschera, travestimento, parte accessoria di un personaggio invece che sua componente organica.
Tale procedimento è ancora più evidente in Schegge di paura, film del 1996 diretto da Gregory Hoblit con Richard Gere che interpreta l’avvocato difensore di un giovane Edward Norton, accusato dell’omicidio di un uomo. La balbuzie che caratterizza il personaggio di Norton è tristemente al centro del processo. Secondo l’accusa fa parte di una messa in scena per impietosire la giuria, mentre secondo la difesa è un’inoppugnabile dimostrazione dell’incapacità del ragazzo di compiere del male. Da un punto di vista rappresentativo è superfluo spiegare perché entrambe le visioni siano altamente nocive, ma è nel finale che si raggiunge l’apice del grottesco, avvalorando la tesi dell’accusa. Si scopre infatti che non solo Norton è colpevole, ma che per tutto il film ha ingannato il suo avvocato e il giudice fingendo di soffrire di un disturbo dissociativo dell’identità, di cui la balbuzie era ancora una volta mero trucco esteriore, stratagemma architettato per ottenere uno sconto di pena.
Se la balbuzie a comando di questi film non c’entra davvero nulla con la reale condizione di chi balbetta, in Die Hard - Duri a morire (1995) Jeremy Irons recita forse il ruolo del cattivo balbuziente più pretestuoso della storia. Il suo personaggio, un terrorista di origine tedesche che vuole vendicarsi del poliziotto John McClane (Bruce Willis) per aver arrestato tempo prima il fratello, balbetta soltanto due volte nel corso del film. La prima mentre parla al telefono con McClane (parlare al telefono è una delle situazioni più difficili per chi balbetta), la seconda durante un discorso alla sua banda. La balbuzie di Irons è talmente appena accennata da risultare inutile sia per la caratterizzazione del personaggio che per l’evoluzione dell’intreccio. Perché inserirla allora? Solo, con ogni probabilità, per permettere un breve scambio di battute nel quale il personaggio di Willis deride con spacconeria il rivale al telefono, scatenando l’ilarità degli spettatori e il dileggio di un cattivo vulnerabile.
Io posso parlare!
Lo specchio (1975) di Andrej Tarkovskij si apre con una seduta di ipnosi tramite la quale una donna cura miracolosamente la grave balbuzie di un ragazzo. Tralasciando l’inverosimiglianza scientifica di una tale guarigione e i chiari risvolti inconsci che anche in questo caso appesantiscono la balbuzie, è decisivo soffermarsi sulla frase che il ragazzo, come riemerso da un sogno, dice una volta curato: «Io posso parlare!». Un risveglio simile accade anche al personaggio interpretato da Paul Giamatti in Lady in the Water di M. Night Shyamalan (2006). L’uomo, portiere di uno stabile rimasto solo in seguito all’uccisione della sua famiglia, si accorge per un attimo di non balbettare più subito dopo aver incontrato Story, creatura acquatica proveniente da un magico mondo sommerso. “Perde” di colpo la sua balbuzie anche Ken alla fine di Un pesce di nome Wanda (1988). «Io posso parlare» è esattamente la frase che urla festante un attimo dopo aver consumato la sua vendetta nei confronti di Otto, ex socio di rapine che per tutto il film lo aveva preso in giro a causa del suo eloquio stentato.
Il cinema è un linguaggio di segni, simboli e metafore che ricorre alla sintesi, alla condensazione, per trasmettere un significato. Stiamo vedendo come la balbuzie possa essere uno straordinario strumento di accelerazione in questo senso. Se un personaggio balbetta vuol dire che deve far ridere o che ha un problema. Se smette di balbettare significa che è maturato e ha risolto i suoi guai. Nel mezzo è successo qualcosa, ha compiuto un viaggio, ha raccontato una storia. Eppure, nella vita reale non è così semplice. Nella vita reale non capita di incontrare ninfe, guarire grazie all’ipnosi o investire il bullo delle medie così da vendicarsi e iniziare a parlare fluentemente. Per quanto legittime, è necessario dubitare di questo tipo di narrazioni in modo da fare posto anche a racconti che non usino la balbuzie soltanto come astratto simulacro, ma che alla balbuzie, magari tramite il lavoro di creativi e sceneggiatori che conoscano la materia, si sforzino di donare autonoma dignità.
L’espressione «io posso parlare» sottintende due cose, entrambe da rigettare. La prima è che fino a quel momento, fino cioè a quando ancora si balbettava, non si stava realmente parlando, vivendo quindi come nella menzogna. Chi balbetta invece parla, eccome. Soprattutto si fa capire, comunica. Sostenere il contrario equivale a discriminare chi non raggiunge gli standard performativi della società, i quali sarebbe bene ricordare che non sono calati dal cielo ma negoziati di volta in volta dai componenti che quella società la tengono in piedi. La seconda riguarda il fatto che liberarsi della balbuzie viene immancabilmente legato alla liberazione della persona nella sua interezza. Se balbetti sei in catene, se non balbetti sei libero. La balbuzie assume in questa prospettiva i connotati di una malattia da debellare, una maledizione dalla quale salvarsi affinché il vero io possa riemergere dal sottosuolo.
Chi invece non può parlare come dovrebbe per avere salva la vita è il partigiano spagnolo de Il labirinto del fauno di Guillermo del Toro (2006). Catturato dalle milizie franchiste durante la guerra civile, gli viene ordinato dal sadico comandante rivale, accortosi della sua balbuzie, di contare fino a tre. Se riuscirà a farlo senza balbettare sarà libero, altrimenti condannato. Il partigiano al tre balbetta, decretando la sua fine. Nonostante la sua drammatica iperbole, questa scena riesce bene a mostrare quale tempesta può agitarsi in chi balbetta quando si trova obbligato a parlare in situazioni nelle quali la pressione temporale – il dover dire proprio quella cosa in quel preciso istante – diviene insopportabile. Inoltre, il personaggio del partigiano possiede il pregio di non essere definito dal suo modo di parlare, ma dal coraggio che dimostra di fronte alla morte.
La balbuzie può quindi di certo diventare una prigione, ma mai per il semplice fatto di esistere. A prescindere dal grado di conflitto, isolamento e insoddisfazione che chi balbetta vive interiormente rispetto alla sua condizione, ciò che conta sottolineare è che non sarà rappresentando la balbuzie come un nemico da combattere o un passeggero ostacolo straniero che alleneremo lo sguardo a comprendere il disagio di questa caratteristica, la quale senz’altro appartiene ma non esaurisce l’unicità di una persona. La libertà dal carcere sta nell’accettazione e nella tenerezza, non nella vittoria della guerra.
Meglio balbuziente che cowboy
E poi c’è il metodo John Wayne, che può senza dubbio vincere la palma di più inappropriata rappresentazione della balbuzie mai filmata. Nel film I cowboys diretto da Mark Rydell (1972), Wayne interpreta un anziano e burbero proprietario terriero che per trasportare delle vacche nella città dove intende venderle si trova costretto ad assoldare un manipolo di inesperti ragazzini. Durante la traversata di un fiume il cavallo di uno di loro imbizzarrisce, disarcionando il ragazzo che rischia allora di affogare. Un suo compagno più giovane, intuito il pericolo, galoppa verso Wayne per richiamarne l’attenzione. Una volta raggiunto, la sua balbuzie, aggravata dalla concitazione, gli impedisce però di proferire parola. La scena va avanti e il ragazzo viene comunque tratto in salvo, ma Wayne ha qualcosa da rimproverare al bambino balbuziente. Davanti agli altri compagni di avventura lo addita come responsabile di una possibile sciagura e gli chiede perché non ha parlato forte e chiaro. Inutili sono le spiegazioni del bambino in lacrime. Wayne non solo lo sgrida, ma gli intima di cominciare a parlare come gli altri o altrimenti di tornarsene a casa. La balbuzie non c’entra nulla, dice, se avesse voluto veramente con tutto se stesso sarebbe riuscito a parlare. A quel punto il bambino esplode dalla rabbia e inizia a insultare furiosamente la sua guida, prima lentamente poi sempre più veloce. Wayne sorride, il suo piano ha funzionato. La balbuzie del bambino è sparita e non tornerà più fino alla fine del film, bastava solo motivarlo nel modo corretto. Arrivati a questo punto dovrebbero apparire lampanti tutte le criticità insite in un discorso del genere: l’umiliazione del singolo di fronte al gruppo, la balbuzie considerata come una colpa individuale derivante dalla pigrizia, la figura dell’educatore come tiranno intollerante, il concetto di cura come addestramento alla virilità. Se c’era chi sputava su Hegel io sputo su Wayne e sui suoi ruoli machisti, su questo prepotente modo di trattare le fragilità altrui, sui maestri di vita sprovvisti di empatia, sull’arrogante ignoranza travestita da saggezza che fa più danni della grandine.
Chi sperimenta stalli simili a quelli di questo bambino è il personaggio di Kyla in Mommy di Xavier Dolan (2014). Nonostante si intuisca che la sua balbuzie sia temporanea e di origine traumatica, l’aspetto peculiare e positivo di Kyla è la centralità che riveste nella storia. La donna, interpretata magistralmente da Suzanne Clément, diventa infatti pur quasi senza parlare il fondamentale collante tra Diane e Steve, suoi vicini di casa, madre e figlio dal rapporto turbolento. Di Kyla sappiamo poco. Insegnava a scuola ma ha deciso di prendersi un anno sabbatico. Il rapporto col marito e i figli appare distaccato e nella compagnia di Diane e Steve sembra trovare quel calore famigliare che può aiutarla a stare meglio. La sua balbuzie è rappresentata in maniera credibile, con sensibilità e rigore. Lo spettatore vive sulla sua pelle la fatica dei suoi blocchi, percepisce le sue difficoltà, canta insieme a lei, rimane spiazzato dalla sua collera e ha modo nel corso della narrazione di esplorare la complessità della sua persona oltre la parola, nonché il suo rapporto con Steve e l’amicizia che instaura con Diane. Il finale per fortuna non rovina quanto detto, anzi. Steve e Diane si separano, Kyla va via dal quartiere ma la balbuzie rimane. Nessuna prova da superare in cerca di approvazione, nessun superpotere o evento soprannaturale a cancellare ciò che si è. Solo la vita che continua, la lingua che vacilla, il rimanere del bene tra tre persone costrette ad allontanarsi.
Appena un quarto degli adulti che balbettano è di sesso femminile. Questo, insieme a diversi ed erronei cliché che nel tempo hanno veicolato l’immagine della balbuzie come disturbo prevalentemente maschile in quanto legato a una cattiva gestione delle emozioni, a una repressa aggressività o perfino a disfunzioni di ordine sessuale, ha reso ancor più esiguo il numero di donne balbuzienti nei media e in special modo nel cinema. Paulie (1998) ad esempio è una commedia che parla del legame tra una bambina balbuziente e un pappagallo chiacchierone, ma a parte l’interesse per le scene in cui viene mostrata una seduta di logopedia la storia della bambina è chiaramente secondaria rispetto a quella dell’animale. Uomini veri - The Right Stuff (1983) può invece essere citata come una delle più accurate trasposizioni di una persona che balbetta. Sto parlando di Annie Glenn, avvocatessa americana che dedicò la sua esistenza centenaria ad aiutare le persone con disabilità e disordini della comunicazione. Nel film, incentrato a dire il vero a ripercorrere le gesta di suo marito John, astronauta della NASA, ci sono almeno due scene in cui Annie (interpretata da Mary Jo Deschanel) balbetta severamente. Mai questo è visto in ottica morbosa o giudicante, bensì raccontato con sguardo comprensivo e aperto ad accogliere genuinamente l’intima emotività del momento.
Discorsi d’amore
Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) e Il discorso del re (2010) sono senza dubbio i due film più celebri ad aver trattato la balbuzie. Se l’opera di Milos Forman è in parte problematica perché istituzionalizza, tramite il personaggio dell’introverso e infine disgraziato Billy Bibbit, la figura clinica del balbuziente, ovvero di una persona il cui linguaggio è intensamente condizionato da malattie psichiche e turbe edipiche, il film di Tom Hooper segna una significativa svolta nella rappresentazione di questo connotato. Dati il clamoroso successo internazionale e l’unanime plauso per l’interpretazione di Colin Firth, Il discorso del re è spesso l’unico film che si ricordi sul tema. Inoltre, è anche l’unico ad avere come protagonista un personaggio balbuziente che si interroga a fondo sulla sua condizione e intraprende un percorso terapeutico per venirne a capo. La balbuzie come limite al quale non arrendersi per scoprire la propria voce è il cuore della vera storia del re inglese Giorgio VI, il quale divenne suo malgrado guida di un intero popolo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Sebbene anche in questo caso la balbuzie venga implicitamente letta come segnale di immaturità da parte di un uomo arrabbiato, non ancora pronto a sbocciare e a prendersi il posto che gli spetta, e nonostante l’efficacia degli esercizi fisici e respiratori che si vedono nel film sia oggi quantomeno discutibile – del resto siamo negli anni ’30 e il personaggio interpretato da Geoffrey Rush non ha competenze mediche – Il discorso del re è cruciale nella nostra analisi perché afferma un principio dirimente; una buona comunicazione si costruisce sempre almeno in due. Quando, poco prima del grande discorso alla nazione, Rush chiede al re di parlare come se si stesse rivolgendo a un amico sta dicendo che almeno lui avrà cura di ascoltarlo qualunque siano i suoi tempi e i suoi inciampi. Questo rivoluziona lo schema secondo cui la persona che balbetta, in quanto oratore, fallisca il suo obiettivo comunicativo. Coltivare la capacità di ascoltare flussi diversi dai propri senza l’urgenza di catalogarli, contribuendo a stabilizzare frequenze tra loro dissonanti, è un lavoro di tutti, stravolgente e necessario.
È curioso, per concludere, notare quanto due commedie romantiche lontanissime tra loro come Rocket Science di Jeffrey Blitz (2007) e Tutte e nessuna - Girl Shy (1924) diretta da Fred C. Newmeyer e Sam Taylor presentano felici elementi di contatto nella rappresentazione della balbuzie. Entrambi i protagonisti, un adolescente alle prese col divorzio dei suoi genitori e un uomo che lavora come sarto ma sogna di pubblicare il suo libro di seduzione, sono balbuzienti e si innamorano di una ragazza per conquistare la quale compiranno imprese straordinarie. Entrare nell’esclusivo “Club Debate” della scuola (e quindi dover parlare in pubblico!) o attraversare a perdifiato la città su mezzi di fortuna per dichiarare il proprio amore prima che sia troppo tardi sono le sfide che i due superano nonostante la loro balbuzie, senza per questo nasconderla o far sì che li definisca. È chiaro come in Girl Shy, forse il primo film muto della storia a mostrare la balbuzie, il ritratto del protagonista, interpretato da Harold Lloyd, sia molto ingenuo, caratterizzato da un’enfatizzata comicità slapstick e da alcune trovate che oggi risulterebbero forse offensive. Eppure, condivide con Rocket Science – senz’altro più capace di scavare con malinconico umorismo tra le piccole quotidiane difficoltà della balbuzie – la riuscita rappresentazione di personaggi a tutto tondo, amati a prescindere dal loro eloquio, con aspirazioni, sentimenti e qualità in grado di far raggiungere loro gli obiettivi che si prefiggono. La balbuzie che li contraddistingue per una volta non è spiegata in termini psicoanalitici ma descritta con leggerezza, non significa altro se non se stessa, non viene curata e non rimanda in modo paranoico oltre di sé il suo senso. Un modo diverso di guardare e nominare la balbuzie dunque si può, si deve, e ve lo faremo notare un mai più imbarazzato balbettio alla volta.
Come e perché il cinema non sa (quasi mai)
rappresentare la balbuzie,
di Andrea Tiradritti
TR-82
24.06.2023
A lungo ho riflettuto sui motivi dell’avversione che per anni, prima di studiarlo all’università, ho provato nei confronti del cinema. L’essenziale, mi rendo conto solo adesso, riguardava l’impossibilità di riconoscermi in quel che vedevo sullo schermo. Nessuno nei film parlava come me. Da bambino e poi da ragazzo balbuziente il modello di comunicazione veicolato dal cinema rappresentava ai miei occhi uno standard inavvicinabile, un costante promemoria della mia differenza e della sua falsità. La balbuzie è una diversità nello schema del linguaggio verbale contraddistinta da interruzioni e disfluenze. Le persone che balbettano possono farlo, con intensità e modalità variabili nel corso della loro vita, tramite la ripetizione di una lettera o di una sillaba, il prolungamento di una parola o una serie di blocchi che non permettono loro di articolare alcun suono per un indefinito intervallo di tempo. La balbuzie, al contrario di quel che si crede, non è causata da fattori psicologici, traumatici, emotivi o ambientali, per quanto questi possano contribuire al suo peggioramento. La grande maggioranza delle ricerche scientifiche è ormai concorde nello stabilire l’origine neurologica della balbuzie in una differente attività del cervello durante la produzione del linguaggio. Caratteri genetici ed ereditari sono poi stati accertati come elementi determinanti per il suo sviluppo. Non esiste una cura universale e definitiva per la balbuzie. Esistono molte terapie che aiutano chi balbetta ad assumere maggiore consapevolezza della propria condizione, imparando a gestire efficacemente la fluenza e a vivere con più serenità il rapporto con la parola orale, con se stessi e con gli altri.
Oggi, che oltre a essere un adulto a cui capita di balbettare scrivo e rifletto sul cinema, so quanto l’immagine-parola audiovisiva assolva due funzioni tra loro connesse: rappresentare universi e insieme normarli, così da specchiare e trasformare la realtà. Non stupisce allora che una caratteristica riguardante soltanto l’1% della popolazione mondiale come la balbuzie sia stata rimossa o superficialmente marginalizzata, raffigurata di regola in modo scorretto, discriminante, dannoso. Prendete un qualsiasi film americano degli ultimi cento anni, quelli che ancora più di ogni altri specchiano e costruiscono il nostro immaginario: troverete dialoghi impeccabili, narratori convincenti, fiumi di parole, tempi scanditi alla perfezione, silenzi mai più lunghi del dovuto, pause misurate, battute proclamate col giusto tono, senza esitazioni che non siano state accuratamente studiate. Il doppiaggio non migliora la situazione. La parola si fa due volte recitata e anche quelle poche imperfezioni originali vengono lavate via sull’altare di un eloquio irreprensibile, rapido, seducente. Nei film o in televisione le persone non balbettano. Se ciò non vi ha mai fatto dubitare è buon indicatore di quanto questo stile di comunicazione sia ormai ritenuto canonico e indiscutibile, oltre a segnalare la scarsa conoscenza generale riguardo al tema. Parlare di balbuzie in Italia è per certi versi ancora tabù, per questo va fatto. Le parole che seguono nascono dalla consapevolezza di quanto ogni rappresentazione mediale possa aiutare o danneggiare una corretta divulgazione della questione, nonché dal desiderio di dare voce all’unica minoranza a cui appartengo, analizzando i modi, poche volte virtuosi, quasi sempre viziati da ignoranza e stereotipi, in cui è stata fatta parlare dal cinema e quindi dalla società che esso riflette.
Cercasi eroi
Innanzitutto, per capire di quale sperduta periferia nella galassia della rappresentanza stiamo parlando, basterà pensare a quanto raramente chi balbetta sia il protagonista di un film. Ancor più inusuali sono le opere che scelgono di approfondire narrativamente la balbuzie dei loro personaggi principali, farne cardine strutturale del loro percorso oltre che semplice elemento caratterizzante. Questa tendenza pone di fronte a due criticità: la prima, statistica, riguarda la scarsità di modelli positivi proposti. La seconda alimenta la confusione e la vaghezza che da sempre gravano sulla balbuzie, in quanto se da un lato è apprezzabile la volontà di non ridurre il personaggio a un suo unico tratto esteriore – normalizzando così il processo di accettazione e favorendo la presa di coscienza in chi guarda – dall’altro esplicitare con maggiore attenzione la natura di quel tratto eviterebbe superficialità e inesattezze. Uno dei problemi nodali è che nei film di solito la balbuzie viene mostrata come simbolo, spia che sta per qualcos’altro, significando e nascondendo ombre più profonde: un trauma irrisolto, una situazione di disagio, un passato doloroso, un conflitto, un’insicurezza relazionale. Lo sbaglio è di nuovo confondere gli effetti per la causa, banalizzando la balbuzie alla stregua di un disturbo estemporaneo, intermittente tic nervoso della comunicazione.
La traiettoria di Bill Denbrough, ragazzo e poi uomo protagonista dei due capitoli cinematografici di It diretti da Andy Muschietti nel 2017 e nel 2019, è un buon esempio in questo senso. Nel primo film la balbuzie di Bill è evidente fin dalla prima scena ma mai davvero raccontata. Non influisce nel suo viaggio, non se ne fa riferimento e non condiziona il suo rapporto col mondo. Nel secondo film, ambientato ventisette anni dopo il primo, Bill è ormai uno scrittore di successo e uomo felicemente sposato. Come spesso capita, mentre alla balbuzie sono associate le crisi dell’infanzia e dell’adolescenza, la compiuta realizzazione personale viene plasticamente espressa tramite l’improvvisa scomparsa dell’impedimento. Bill infatti non balbetta più, almeno fino a quando non è costretto a tornare a Derry, sua città natale e luogo in cui morì suo fratello minore. Una volta a casa Bill ricomincia ovviamente a balbettare, segnalando nel più classico degli schemi simbolici la ferita di un lutto non elaborato.
Nella prima stagione di Bridgerton (2020), serie di successo ambientata nel mondo dell’alta società londinese agli inizi dell’Ottocento, scopriamo attraverso un flashback che l’affascinante Simon Basset, Duca di Hastings, da bambino aveva una severa balbuzie che portò suo padre a vergognarsi di lui e a considerarlo idiota. Anche Simon da adulto sembra “sconfiggere” il suo nemico. Non lo vediamo più balbettare e nella storia viene detto che «ha lavorato molto sul suo modo di parlare» affinché riuscisse a superare i suoi problemi. Se è comprensibile, vista l’oscurità che la caratterizzava all’epoca, ritrarre la balbuzie nel XIX secolo come un aspetto negativo e associabile alla credenza di una qualche deficienza mentale, è molto meno giustificabile far passare il messaggio che la balbuzie possa sparire in base all’impegno che chi balbetta è disposto a mettere nel combatterla. Oltre a riproporre l’equazione che situa nel superamento della balbuzie un requisito indispensabile affinché un bambino problematico diventi un uomo desiderabile e affermato, questa rappresentazione sfiora l’abilismo in quanto equipara il raggiungimento di determinati parametri sociali alla guarigione, facendo credere che sia esclusiva responsabilità di chi balbetta scegliere come e quando smettere. Come spiega bene questo video, è improbabile che Simon non balbetti più. Ha solo imparato a gestire la sua fluenza (parlando in realtà il meno possibile e adottando un comportamento respingente e altezzoso) in modo che il suo discorso risulti funzionale a essere socialmente accettato. Non abbiamo bisogno di altri eroi che nascondano la loro balbuzie, ma di eroi coraggiosamente balbuzienti.
Dimmi come parli e ti dirò chi sei
Se quindi quasi mai sono protagonisti, quali ruoli sono riservati ai personaggi che balbettano? Tradizionalmente due: quello comico e, più di rado, quello del cattivo. Per la sua natura, da sempre considerata ambigua e misteriosa, la balbuzie ben si presta a essere sceneggiata come caratteristica (purtroppo a volte anche come vezzo) di quei caratteri turbati, maligni e repressi che identificano di norma il villain di una narrazione. D’altro canto, come conseguenza del suo stigma sociale, ogni tentennamento della parola è sintomo di timidezza, immaturità, goffaggine, arrendevolezza passiva. Tutti elementi che possono creare imbarazzi ed equivoci, scintille per antonomasia della comicità. Che sia il compagno scemo dell’esilarante carceriere dei Monty Python in Brian di Nazareth (1979), il porcellino dei Looney Tunes in Space Jam (1996) o l’imbranato maggiordomo della spietata Crudelia della commedia Disney La carica dei 102 - Un nuovo colpo di coda (2000), i personaggi balbuzienti sono di frequente usati come marionette di contorno, oggetti di scherno e risate, innocue e docili stilizzazioni secondarie.
Nonostante la loro scarsa profondità, questo tipo di figure sono rilevanti perché rappresentano i luoghi comuni più in voga sulla balbuzie, nonché gli stampi concettuali maggiormente utilizzati per le sue raffigurazioni. Capita però, a dispetto della faciloneria con cui sono stati scritti, che questi ritratti possano anche rivelarsi utili per conoscere alcuni comportamenti legati alla balbuzie.
Il più generalizzato, quello dell’evitamento, consiste in un meccanismo che chi balbetta interiorizza per contrastare i sentimenti di ansia e inadeguatezza legati al parlare in situazioni che si avvertono come stressanti o pericolose. Si può evitare il problema alla base, rifiutandosi di parlare, o evitare le parole sulle quali si sente di incepparsi, trovando sinonimi o riformulando faticosamente intere frasi in testa prima di esprimerle. Quando Michael Jordan atterra sul pianeta dei Looney Tunes nel già citato cult diretto da Joe Pytka, Porky Pig prova a chiedere un autografo al suo idolo ma dopo un paio di tentativi rinuncia a dire autograph, domandando alla star di lasciargli invece un John Hancock, altra espressione statunitense per indicare la firma. Porky Pig ha così evitato, trovando un espediente per dire la stessa cosa in modo diverso. Quel che nel film strappa un sorriso, è giusto sapere che nella vita di chi balbetta può coincidere in realtà con un grande sforzo e una convalida negativa di una propria inefficienza.
Vi ricordate poi Quirinus Raptor, il professore di Difesa contro le Arti Oscure di Harry Potter e la pietra filosofale (2001)? Ebbene, l’insospettabile Quirinus nel film ha due personalità: quella cordiale e gentile nei confronti di Harry balbetta, quella malvagia che nel finale si scopre essere posseduta da Voldemort no. Questo ci dice almeno una cosa interessante e ricorrente, ovvero che la balbuzie è spesso usata come maschera, travestimento, parte accessoria di un personaggio invece che sua componente organica.
Tale procedimento è ancora più evidente in Schegge di paura, film del 1996 diretto da Gregory Hoblit con Richard Gere che interpreta l’avvocato difensore di un giovane Edward Norton, accusato dell’omicidio di un uomo. La balbuzie che caratterizza il personaggio di Norton è tristemente al centro del processo. Secondo l’accusa fa parte di una messa in scena per impietosire la giuria, mentre secondo la difesa è un’inoppugnabile dimostrazione dell’incapacità del ragazzo di compiere del male. Da un punto di vista rappresentativo è superfluo spiegare perché entrambe le visioni siano altamente nocive, ma è nel finale che si raggiunge l’apice del grottesco, avvalorando la tesi dell’accusa. Si scopre infatti che non solo Norton è colpevole, ma che per tutto il film ha ingannato il suo avvocato e il giudice fingendo di soffrire di un disturbo dissociativo dell’identità, di cui la balbuzie era ancora una volta mero trucco esteriore, stratagemma architettato per ottenere uno sconto di pena.
Se la balbuzie a comando di questi film non c’entra davvero nulla con la reale condizione di chi balbetta, in Die Hard - Duri a morire (1995) Jeremy Irons recita forse il ruolo del cattivo balbuziente più pretestuoso della storia. Il suo personaggio, un terrorista di origine tedesche che vuole vendicarsi del poliziotto John McClane (Bruce Willis) per aver arrestato tempo prima il fratello, balbetta soltanto due volte nel corso del film. La prima mentre parla al telefono con McClane (parlare al telefono è una delle situazioni più difficili per chi balbetta), la seconda durante un discorso alla sua banda. La balbuzie di Irons è talmente appena accennata da risultare inutile sia per la caratterizzazione del personaggio che per l’evoluzione dell’intreccio. Perché inserirla allora? Solo, con ogni probabilità, per permettere un breve scambio di battute nel quale il personaggio di Willis deride con spacconeria il rivale al telefono, scatenando l’ilarità degli spettatori e il dileggio di un cattivo vulnerabile.
Io posso parlare!
Lo specchio (1975) di Andrej Tarkovskij si apre con una seduta di ipnosi tramite la quale una donna cura miracolosamente la grave balbuzie di un ragazzo. Tralasciando l’inverosimiglianza scientifica di una tale guarigione e i chiari risvolti inconsci che anche in questo caso appesantiscono la balbuzie, è decisivo soffermarsi sulla frase che il ragazzo, come riemerso da un sogno, dice una volta curato: «Io posso parlare!». Un risveglio simile accade anche al personaggio interpretato da Paul Giamatti in Lady in the Water di M. Night Shyamalan (2006). L’uomo, portiere di uno stabile rimasto solo in seguito all’uccisione della sua famiglia, si accorge per un attimo di non balbettare più subito dopo aver incontrato Story, creatura acquatica proveniente da un magico mondo sommerso. “Perde” di colpo la sua balbuzie anche Ken alla fine di Un pesce di nome Wanda (1988). «Io posso parlare» è esattamente la frase che urla festante un attimo dopo aver consumato la sua vendetta nei confronti di Otto, ex socio di rapine che per tutto il film lo aveva preso in giro a causa del suo eloquio stentato.
Il cinema è un linguaggio di segni, simboli e metafore che ricorre alla sintesi, alla condensazione, per trasmettere un significato. Stiamo vedendo come la balbuzie possa essere uno straordinario strumento di accelerazione in questo senso. Se un personaggio balbetta vuol dire che deve far ridere o che ha un problema. Se smette di balbettare significa che è maturato e ha risolto i suoi guai. Nel mezzo è successo qualcosa, ha compiuto un viaggio, ha raccontato una storia. Eppure, nella vita reale non è così semplice. Nella vita reale non capita di incontrare ninfe, guarire grazie all’ipnosi o investire il bullo delle medie così da vendicarsi e iniziare a parlare fluentemente. Per quanto legittime, è necessario dubitare di questo tipo di narrazioni in modo da fare posto anche a racconti che non usino la balbuzie soltanto come astratto simulacro, ma che alla balbuzie, magari tramite il lavoro di creativi e sceneggiatori che conoscano la materia, si sforzino di donare autonoma dignità.
L’espressione «io posso parlare» sottintende due cose, entrambe da rigettare. La prima è che fino a quel momento, fino cioè a quando ancora si balbettava, non si stava realmente parlando, vivendo quindi come nella menzogna. Chi balbetta invece parla, eccome. Soprattutto si fa capire, comunica. Sostenere il contrario equivale a discriminare chi non raggiunge gli standard performativi della società, i quali sarebbe bene ricordare che non sono calati dal cielo ma negoziati di volta in volta dai componenti che quella società la tengono in piedi. La seconda riguarda il fatto che liberarsi della balbuzie viene immancabilmente legato alla liberazione della persona nella sua interezza. Se balbetti sei in catene, se non balbetti sei libero. La balbuzie assume in questa prospettiva i connotati di una malattia da debellare, una maledizione dalla quale salvarsi affinché il vero io possa riemergere dal sottosuolo.
Chi invece non può parlare come dovrebbe per avere salva la vita è il partigiano spagnolo de Il labirinto del fauno di Guillermo del Toro (2006). Catturato dalle milizie franchiste durante la guerra civile, gli viene ordinato dal sadico comandante rivale, accortosi della sua balbuzie, di contare fino a tre. Se riuscirà a farlo senza balbettare sarà libero, altrimenti condannato. Il partigiano al tre balbetta, decretando la sua fine. Nonostante la sua drammatica iperbole, questa scena riesce bene a mostrare quale tempesta può agitarsi in chi balbetta quando si trova obbligato a parlare in situazioni nelle quali la pressione temporale – il dover dire proprio quella cosa in quel preciso istante – diviene insopportabile. Inoltre, il personaggio del partigiano possiede il pregio di non essere definito dal suo modo di parlare, ma dal coraggio che dimostra di fronte alla morte.
La balbuzie può quindi di certo diventare una prigione, ma mai per il semplice fatto di esistere. A prescindere dal grado di conflitto, isolamento e insoddisfazione che chi balbetta vive interiormente rispetto alla sua condizione, ciò che conta sottolineare è che non sarà rappresentando la balbuzie come un nemico da combattere o un passeggero ostacolo straniero che alleneremo lo sguardo a comprendere il disagio di questa caratteristica, la quale senz’altro appartiene ma non esaurisce l’unicità di una persona. La libertà dal carcere sta nell’accettazione e nella tenerezza, non nella vittoria della guerra.
Meglio balbuziente che cowboy
E poi c’è il metodo John Wayne, che può senza dubbio vincere la palma di più inappropriata rappresentazione della balbuzie mai filmata. Nel film I cowboys diretto da Mark Rydell (1972), Wayne interpreta un anziano e burbero proprietario terriero che per trasportare delle vacche nella città dove intende venderle si trova costretto ad assoldare un manipolo di inesperti ragazzini. Durante la traversata di un fiume il cavallo di uno di loro imbizzarrisce, disarcionando il ragazzo che rischia allora di affogare. Un suo compagno più giovane, intuito il pericolo, galoppa verso Wayne per richiamarne l’attenzione. Una volta raggiunto, la sua balbuzie, aggravata dalla concitazione, gli impedisce però di proferire parola. La scena va avanti e il ragazzo viene comunque tratto in salvo, ma Wayne ha qualcosa da rimproverare al bambino balbuziente. Davanti agli altri compagni di avventura lo addita come responsabile di una possibile sciagura e gli chiede perché non ha parlato forte e chiaro. Inutili sono le spiegazioni del bambino in lacrime. Wayne non solo lo sgrida, ma gli intima di cominciare a parlare come gli altri o altrimenti di tornarsene a casa. La balbuzie non c’entra nulla, dice, se avesse voluto veramente con tutto se stesso sarebbe riuscito a parlare. A quel punto il bambino esplode dalla rabbia e inizia a insultare furiosamente la sua guida, prima lentamente poi sempre più veloce. Wayne sorride, il suo piano ha funzionato. La balbuzie del bambino è sparita e non tornerà più fino alla fine del film, bastava solo motivarlo nel modo corretto. Arrivati a questo punto dovrebbero apparire lampanti tutte le criticità insite in un discorso del genere: l’umiliazione del singolo di fronte al gruppo, la balbuzie considerata come una colpa individuale derivante dalla pigrizia, la figura dell’educatore come tiranno intollerante, il concetto di cura come addestramento alla virilità. Se c’era chi sputava su Hegel io sputo su Wayne e sui suoi ruoli machisti, su questo prepotente modo di trattare le fragilità altrui, sui maestri di vita sprovvisti di empatia, sull’arrogante ignoranza travestita da saggezza che fa più danni della grandine.
Chi sperimenta stalli simili a quelli di questo bambino è il personaggio di Kyla in Mommy di Xavier Dolan (2014). Nonostante si intuisca che la sua balbuzie sia temporanea e di origine traumatica, l’aspetto peculiare e positivo di Kyla è la centralità che riveste nella storia. La donna, interpretata magistralmente da Suzanne Clément, diventa infatti pur quasi senza parlare il fondamentale collante tra Diane e Steve, suoi vicini di casa, madre e figlio dal rapporto turbolento. Di Kyla sappiamo poco. Insegnava a scuola ma ha deciso di prendersi un anno sabbatico. Il rapporto col marito e i figli appare distaccato e nella compagnia di Diane e Steve sembra trovare quel calore famigliare che può aiutarla a stare meglio. La sua balbuzie è rappresentata in maniera credibile, con sensibilità e rigore. Lo spettatore vive sulla sua pelle la fatica dei suoi blocchi, percepisce le sue difficoltà, canta insieme a lei, rimane spiazzato dalla sua collera e ha modo nel corso della narrazione di esplorare la complessità della sua persona oltre la parola, nonché il suo rapporto con Steve e l’amicizia che instaura con Diane. Il finale per fortuna non rovina quanto detto, anzi. Steve e Diane si separano, Kyla va via dal quartiere ma la balbuzie rimane. Nessuna prova da superare in cerca di approvazione, nessun superpotere o evento soprannaturale a cancellare ciò che si è. Solo la vita che continua, la lingua che vacilla, il rimanere del bene tra tre persone costrette ad allontanarsi.
Appena un quarto degli adulti che balbettano è di sesso femminile. Questo, insieme a diversi ed erronei cliché che nel tempo hanno veicolato l’immagine della balbuzie come disturbo prevalentemente maschile in quanto legato a una cattiva gestione delle emozioni, a una repressa aggressività o perfino a disfunzioni di ordine sessuale, ha reso ancor più esiguo il numero di donne balbuzienti nei media e in special modo nel cinema. Paulie (1998) ad esempio è una commedia che parla del legame tra una bambina balbuziente e un pappagallo chiacchierone, ma a parte l’interesse per le scene in cui viene mostrata una seduta di logopedia la storia della bambina è chiaramente secondaria rispetto a quella dell’animale. Uomini veri - The Right Stuff (1983) può invece essere citata come una delle più accurate trasposizioni di una persona che balbetta. Sto parlando di Annie Glenn, avvocatessa americana che dedicò la sua esistenza centenaria ad aiutare le persone con disabilità e disordini della comunicazione. Nel film, incentrato a dire il vero a ripercorrere le gesta di suo marito John, astronauta della NASA, ci sono almeno due scene in cui Annie (interpretata da Mary Jo Deschanel) balbetta severamente. Mai questo è visto in ottica morbosa o giudicante, bensì raccontato con sguardo comprensivo e aperto ad accogliere genuinamente l’intima emotività del momento.
Discorsi d’amore
Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) e Il discorso del re (2010) sono senza dubbio i due film più celebri ad aver trattato la balbuzie. Se l’opera di Milos Forman è in parte problematica perché istituzionalizza, tramite il personaggio dell’introverso e infine disgraziato Billy Bibbit, la figura clinica del balbuziente, ovvero di una persona il cui linguaggio è intensamente condizionato da malattie psichiche e turbe edipiche, il film di Tom Hooper segna una significativa svolta nella rappresentazione di questo connotato. Dati il clamoroso successo internazionale e l’unanime plauso per l’interpretazione di Colin Firth, Il discorso del re è spesso l’unico film che si ricordi sul tema. Inoltre, è anche l’unico ad avere come protagonista un personaggio balbuziente che si interroga a fondo sulla sua condizione e intraprende un percorso terapeutico per venirne a capo. La balbuzie come limite al quale non arrendersi per scoprire la propria voce è il cuore della vera storia del re inglese Giorgio VI, il quale divenne suo malgrado guida di un intero popolo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Sebbene anche in questo caso la balbuzie venga implicitamente letta come segnale di immaturità da parte di un uomo arrabbiato, non ancora pronto a sbocciare e a prendersi il posto che gli spetta, e nonostante l’efficacia degli esercizi fisici e respiratori che si vedono nel film sia oggi quantomeno discutibile – del resto siamo negli anni ’30 e il personaggio interpretato da Geoffrey Rush non ha competenze mediche – Il discorso del re è cruciale nella nostra analisi perché afferma un principio dirimente; una buona comunicazione si costruisce sempre almeno in due. Quando, poco prima del grande discorso alla nazione, Rush chiede al re di parlare come se si stesse rivolgendo a un amico sta dicendo che almeno lui avrà cura di ascoltarlo qualunque siano i suoi tempi e i suoi inciampi. Questo rivoluziona lo schema secondo cui la persona che balbetta, in quanto oratore, fallisca il suo obiettivo comunicativo. Coltivare la capacità di ascoltare flussi diversi dai propri senza l’urgenza di catalogarli, contribuendo a stabilizzare frequenze tra loro dissonanti, è un lavoro di tutti, stravolgente e necessario.
È curioso, per concludere, notare quanto due commedie romantiche lontanissime tra loro come Rocket Science di Jeffrey Blitz (2007) e Tutte e nessuna - Girl Shy (1924) diretta da Fred C. Newmeyer e Sam Taylor presentano felici elementi di contatto nella rappresentazione della balbuzie. Entrambi i protagonisti, un adolescente alle prese col divorzio dei suoi genitori e un uomo che lavora come sarto ma sogna di pubblicare il suo libro di seduzione, sono balbuzienti e si innamorano di una ragazza per conquistare la quale compiranno imprese straordinarie. Entrare nell’esclusivo “Club Debate” della scuola (e quindi dover parlare in pubblico!) o attraversare a perdifiato la città su mezzi di fortuna per dichiarare il proprio amore prima che sia troppo tardi sono le sfide che i due superano nonostante la loro balbuzie, senza per questo nasconderla o far sì che li definisca. È chiaro come in Girl Shy, forse il primo film muto della storia a mostrare la balbuzie, il ritratto del protagonista, interpretato da Harold Lloyd, sia molto ingenuo, caratterizzato da un’enfatizzata comicità slapstick e da alcune trovate che oggi risulterebbero forse offensive. Eppure, condivide con Rocket Science – senz’altro più capace di scavare con malinconico umorismo tra le piccole quotidiane difficoltà della balbuzie – la riuscita rappresentazione di personaggi a tutto tondo, amati a prescindere dal loro eloquio, con aspirazioni, sentimenti e qualità in grado di far raggiungere loro gli obiettivi che si prefiggono. La balbuzie che li contraddistingue per una volta non è spiegata in termini psicoanalitici ma descritta con leggerezza, non significa altro se non se stessa, non viene curata e non rimanda in modo paranoico oltre di sé il suo senso. Un modo diverso di guardare e nominare la balbuzie dunque si può, si deve, e ve lo faremo notare un mai più imbarazzato balbettio alla volta.