INT-39
27.06.2023
Se si pensa alla cinematografia di Hong Kong, il nome di Po-Chih Leong è forse tra i più ricordati. Si tratta di una figura fondamentale nella storia del cinema di questa città. Nato e cresciuto a Londra, si trasferisce nella metropoli orientale in età adulta, importando una visione della settima arte estremamente peculiare. Leong è considerato infatti un precursore della Hong Kong New Wave degli anni ‘90 e ha firmato una filmografia, a cavallo tra occidente ed oriente, che comprende lavori come Hong Kong 1941 (1984), Ping Pong (1986) - il suo primo film britannico, girato con un cast asiatico e presentato in concorso al Festival di Venezia - The Wisdom of Crocodiles (Brivido di sangue, 1998), e il più recente The Jade Pendant (2017).
Ad 84 anni, Po-Chih Leong è ancora nel pieno della sua attività registica. Quest’anno, il Far East Film Festival di Udine ha organizzato una masterclass tenuta dallo stesso cineasta e accompagnata dalla visione di alcuni dei suoi capolavori. Abbiamo avuto modo di parlare personalmente con Po-Chih Leong, e di ripercorrere insieme le tappe fondamentali del suo cinema.
Quando lei sviluppa un film, quale elemento la interessa maggiormente?
Per me gli elementi più importanti di un lungometraggio sono il tema - e non la trama, che parte da un punto A e finisce in un punto Z - e i personaggi. Ritengo che gli eroi di una storia possano dimostrare di essere persone meritevoli solo se si trovano di fronte ad un avversario meritevole. Se lei ha visto Tàr (2023), c’è una scena, nel conservatorio, dove la protagonista critica un giovane studente a cui trema una gamba. La forza dei due personaggi è troppo sbilanciata, poichè l’eroina critica un character molto più debole di lei. La sequenza è stupenda in termini di movimenti di macchina, ma lei vince troppo facilmente. Sarebbe stato meglio se avesse dovuto sostenere un confronto più forte, nel quale doveva pensare veramente a controargomentare un personaggio del suo stesso livello.
Ha avuto modo di lavorare sia nell’industria cinematografica occidentale che in quella orientale. Quali sono le differenze maggiori?
La differenza più importante è che spesso, se un regista occidentale riesce ad avere successo in un genere, non gli è permesso di sperimentare su altro. A Hong Kong invece, ci possono essere molti generi all’interno dello stesso film. Anche in Everything, Everywhere, All at Once si nota questo, e, non a caso, uno dei due registi è di origini asiatiche.
Ha spesso sottolineato che con Parasite, secondo lei gli occidentali stanno riscoprendo la commistione dei generi, ed ora ha anche menzionato Everything, Everywhere, All at Once. Cos’è cambiato oggi, rispetto a prima, nella ricezione del cinema orientale?
Negli anni ‘80 il pubblico non era ancora molto propenso a leggere i sottotitoli, ma ora, grazie allo streaming, credo sia più invogliato. Una volta che lo spettatore accetta questo compromesso è molto più facile vendere un film in altri paesi.
Tornando al confronto tra occidente ed oriente, ha avuto modo di collaborare con molti grandi attori di entrambi gli ambiti: Jude Law, Wesley Snipes, Steven Seagal, Chow Yun-Fat, Cecilia Yip e molti altri. Che differenze ci sono nel lavorare con gli attori di Hong Kong e con quelli occidentali?
Gli attori di Hong Kong sono più bravi ad improvvisare. Spesso le sceneggiature sono piene di azione. Hong Kong non ha una letteratura tradizionale da cui attingere, a parte fumetti e storie di kung fu. Non c’è molto spazio per i dialoghi. Agli attori di Hong Kong posso chiedere di sperimentare di più, ti rendono più libero. Un altro fatto è che hanno una buonissima memoria: ad esempio un attore come Chow Yun-Fat gira tre film in contemporanea mentre collabora con te, credo sia veramente difficile ricordarsi tutte quelle battute!
Prima della regia, lei ha lavorato come montatore per la BBC. Come ha influito la sua esperienza di montaggio sul suo modo di fare film?
Il metodo occidentale classico prevede un master: una ripresa totale nel quale si filma tutta la scena. Sapendo che non si utilizzerà tutta la ripresa vengono poi scelti dei dettagli. Per me, così si spreca il tempo dei talenti coinvolti. Perché non fare un piano sequenza invece? È più scorrevole per gli attori. Si dice spesso che si va in guerra quando si inizia a fare un film. Coloro che stanno in prima linea a mettere in gioco la vita sono gli attori, perché il pubblico non vede un regista che fa un film, ma vede gli attori. Ritengo che sia il compito dei registi presentare al meglio i loro interpreti.
Lei è cresciuto a Londra e poi ha vissuto per molto tempo a Hong Kong, dove ha spesso detto di essere stato accolto come uno straniero. Come vede questi due luoghi nella sua identità?
Se esci per strada in occidente, tutto è normale. Se esci a Hong Kong parti per un’avventura ogni volta! Tutto può succedere. In una scena di Super Fool (1981), uno dei protagonisti, fermato dalla polizia, estrae un pugnale da dietro la schiena per combatterli. Mi ricordo che, dopo alcuni take di questa scena, dissi all’attore che la interpretava: “mi sembra che tu abbia una certa familiarità con questo tipo di esperienza, quanto spesso ti è capitata?”, e lui rispose “non vuoi che te lo dica.” Era Jing Chen, un attore di Kung Fu, all’inizio doveva essere il protagonista, ma nei dialoghi era terribile. Aveva un viso molto possente, quindi decisi di farlo diventare l’assassino.
Lei ancora oggi è in attività, ci può dire qualcosa del suo prossimo film?
Vorrei fare un film tra occidentali ed asiatici e, se possibile, una specie di reimmaginazione di Mark Twain in chiave moderna, solo che sarà tra un ragazzo asiatico, che non parla inglese, ed un americano che non capisce la sua lingua. Si tratterebbe di una storia ambientata in un giorno, immagino che i protagonisti abbiano quattro esperienze che molti hanno solo nel corso di una vita intera, ma che loro riescono ad avere in un unico giorno.
Come pensa che sarà il futuro del cinema di Hong Kong?
Penso che siamo dei superstiti, anche se i nostri autori sono molto talentuosi. Mi piace il nuovo film di Soi Cheang, e anche A Guilty Conscience di Jack NG, che è diverso dalle tipiche pellicole di Hong Kong. Apprezzo che Jack NG abbia detto che “non voleva che il suo primo film fosse d’azione”, ma che fosse un qualcosa che lui poteva controllare, per questo ha deciso di fare un courtroom drama. Resta il fatto che la Cina esercita una certa influenza sulla legge, e di conseguenza non si possono muovere troppe critiche all’interno di una narrazione.
Alla masterclass ha detto che ritiene che il suo film migliore debba ancora arrivare. Invece tra la sua filmografia già esistente, quale o quali sono i suoi film preferiti?
I tre film presentati quest’anno al Far East Film Festival: The Island, Hong Kong 1941 e Ping Pong. È una coincidenza, non li ho scelti io, ma il mio grande amico Roger Garcia.
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27.06.2023
Se si pensa alla cinematografia di Hong Kong, il nome di Po-Chih Leong è forse tra i più ricordati. Si tratta di una figura fondamentale nella storia del cinema di questa città. Nato e cresciuto a Londra, si trasferisce nella metropoli orientale in età adulta, importando una visione della settima arte estremamente peculiare. Leong è considerato infatti un precursore della Hong Kong New Wave degli anni ‘90 e ha firmato una filmografia, a cavallo tra occidente ed oriente, che comprende lavori come Hong Kong 1941 (1984), Ping Pong (1986) - il suo primo film britannico, girato con un cast asiatico e presentato in concorso al Festival di Venezia - The Wisdom of Crocodiles (Brivido di sangue, 1998), e il più recente The Jade Pendant (2017).
Ad 84 anni, Po-Chih Leong è ancora nel pieno della sua attività registica. Quest’anno, il Far East Film Festival di Udine ha organizzato una masterclass tenuta dallo stesso cineasta e accompagnata dalla visione di alcuni dei suoi capolavori. Abbiamo avuto modo di parlare personalmente con Po-Chih Leong, e di ripercorrere insieme le tappe fondamentali del suo cinema.
Quando lei sviluppa un film, quale elemento la interessa maggiormente?
Per me gli elementi più importanti di un lungometraggio sono il tema - e non la trama, che parte da un punto A e finisce in un punto Z - e i personaggi. Ritengo che gli eroi di una storia possano dimostrare di essere persone meritevoli solo se si trovano di fronte ad un avversario meritevole. Se lei ha visto Tàr (2023), c’è una scena, nel conservatorio, dove la protagonista critica un giovane studente a cui trema una gamba. La forza dei due personaggi è troppo sbilanciata, poichè l’eroina critica un character molto più debole di lei. La sequenza è stupenda in termini di movimenti di macchina, ma lei vince troppo facilmente. Sarebbe stato meglio se avesse dovuto sostenere un confronto più forte, nel quale doveva pensare veramente a controargomentare un personaggio del suo stesso livello.
Ha avuto modo di lavorare sia nell’industria cinematografica occidentale che in quella orientale. Quali sono le differenze maggiori?
La differenza più importante è che spesso, se un regista occidentale riesce ad avere successo in un genere, non gli è permesso di sperimentare su altro. A Hong Kong invece, ci possono essere molti generi all’interno dello stesso film. Anche in Everything, Everywhere, All at Once si nota questo, e, non a caso, uno dei due registi è di origini asiatiche.
Ha spesso sottolineato che con Parasite, secondo lei gli occidentali stanno riscoprendo la commistione dei generi, ed ora ha anche menzionato Everything, Everywhere, All at Once. Cos’è cambiato oggi, rispetto a prima, nella ricezione del cinema orientale?
Negli anni ‘80 il pubblico non era ancora molto propenso a leggere i sottotitoli, ma ora, grazie allo streaming, credo sia più invogliato. Una volta che lo spettatore accetta questo compromesso è molto più facile vendere un film in altri paesi.
Tornando al confronto tra occidente ed oriente, ha avuto modo di collaborare con molti grandi attori di entrambi gli ambiti: Jude Law, Wesley Snipes, Steven Seagal, Chow Yun-Fat, Cecilia Yip e molti altri. Che differenze ci sono nel lavorare con gli attori di Hong Kong e con quelli occidentali?
Gli attori di Hong Kong sono più bravi ad improvvisare. Spesso le sceneggiature sono piene di azione. Hong Kong non ha una letteratura tradizionale da cui attingere, a parte fumetti e storie di kung fu. Non c’è molto spazio per i dialoghi. Agli attori di Hong Kong posso chiedere di sperimentare di più, ti rendono più libero. Un altro fatto è che hanno una buonissima memoria: ad esempio un attore come Chow Yun-Fat gira tre film in contemporanea mentre collabora con te, credo sia veramente difficile ricordarsi tutte quelle battute!
Prima della regia, lei ha lavorato come montatore per la BBC. Come ha influito la sua esperienza di montaggio sul suo modo di fare film?
Il metodo occidentale classico prevede un master: una ripresa totale nel quale si filma tutta la scena. Sapendo che non si utilizzerà tutta la ripresa vengono poi scelti dei dettagli. Per me, così si spreca il tempo dei talenti coinvolti. Perché non fare un piano sequenza invece? È più scorrevole per gli attori. Si dice spesso che si va in guerra quando si inizia a fare un film. Coloro che stanno in prima linea a mettere in gioco la vita sono gli attori, perché il pubblico non vede un regista che fa un film, ma vede gli attori. Ritengo che sia il compito dei registi presentare al meglio i loro interpreti.
Lei è cresciuto a Londra e poi ha vissuto per molto tempo a Hong Kong, dove ha spesso detto di essere stato accolto come uno straniero. Come vede questi due luoghi nella sua identità?
Se esci per strada in occidente, tutto è normale. Se esci a Hong Kong parti per un’avventura ogni volta! Tutto può succedere. In una scena di Super Fool (1981), uno dei protagonisti, fermato dalla polizia, estrae un pugnale da dietro la schiena per combatterli. Mi ricordo che, dopo alcuni take di questa scena, dissi all’attore che la interpretava: “mi sembra che tu abbia una certa familiarità con questo tipo di esperienza, quanto spesso ti è capitata?”, e lui rispose “non vuoi che te lo dica.” Era Jing Chen, un attore di Kung Fu, all’inizio doveva essere il protagonista, ma nei dialoghi era terribile. Aveva un viso molto possente, quindi decisi di farlo diventare l’assassino.
Lei ancora oggi è in attività, ci può dire qualcosa del suo prossimo film?
Vorrei fare un film tra occidentali ed asiatici e, se possibile, una specie di reimmaginazione di Mark Twain in chiave moderna, solo che sarà tra un ragazzo asiatico, che non parla inglese, ed un americano che non capisce la sua lingua. Si tratterebbe di una storia ambientata in un giorno, immagino che i protagonisti abbiano quattro esperienze che molti hanno solo nel corso di una vita intera, ma che loro riescono ad avere in un unico giorno.
Come pensa che sarà il futuro del cinema di Hong Kong?
Penso che siamo dei superstiti, anche se i nostri autori sono molto talentuosi. Mi piace il nuovo film di Soi Cheang, e anche A Guilty Conscience di Jack NG, che è diverso dalle tipiche pellicole di Hong Kong. Apprezzo che Jack NG abbia detto che “non voleva che il suo primo film fosse d’azione”, ma che fosse un qualcosa che lui poteva controllare, per questo ha deciso di fare un courtroom drama. Resta il fatto che la Cina esercita una certa influenza sulla legge, e di conseguenza non si possono muovere troppe critiche all’interno di una narrazione.
Alla masterclass ha detto che ritiene che il suo film migliore debba ancora arrivare. Invece tra la sua filmografia già esistente, quale o quali sono i suoi film preferiti?
I tre film presentati quest’anno al Far East Film Festival: The Island, Hong Kong 1941 e Ping Pong. È una coincidenza, non li ho scelti io, ma il mio grande amico Roger Garcia.