NC-215
18.06.2024
Per tutta una vita ci hanno detto che “volere e potere”, che tutti i nostri sogni si possono realizzare, ma se così non fosse? Avrebbe senso continuare a lottare per ciò che desideriamo ardentemente?
The Performance di Alfredo Chiarappa e Caterina Clerici ci porta a riflettere sul senso del fallimento al giorno d’oggi. Ormai nulla ci spaventa di più che fallire, sentirci inutili e senza uno scopo nella vita, e questo ci fa spesso dimenticare quel meraviglioso proverbio che recita proprio “sbagliando si impara” o “ad ogni caduta l’unica cosa che si può fare è rialzarsi”. Forse è propria con questa filosofia che vive Hussein Smko Khudhur, un ballerino kurdo-iraqueno che attraverso il sogno della danza si è trasferito a New York per perseguire i propri obbiettivi. Hussein sembra l’emblema del grande “sogno americano”, dell’illusoria idea che, appena giunti sulla costa del “paese dalle mille possibilità”, si possano facilmente ottenere fama, ricchezza e potere. Forse questa “chimera” poteva rappresentare una realtà più di un secolo fa, o forse non è mai esistita, ma tutto questo Hussen lo ignora.
Come in ogni fiaba che si rispetti, anche quella di The Performance ha origini molto lontane dal luogo dove poi si svolgerà la storia in sé. Hussein Smko Khudhur nasce in Iraq e, come racconta, l’amore della danza nasce dall’incontro con un soldato americano che gli insegna una mossa di break dance. Una storia che commuoverebbe chiunque, soprattutto gli americani, e Hussein questo lo sa bene. Il nostro eroe cresce e per un caso fortuito viene notato e invitato a New York grazie a una borsa di studio di tre mesi per ballare, ma non break dance, danza contemporanea. Chi bazzica questo mondo sa bene che i due stili sono estremamente distanti tra loro, poiché la break dance fa parte del mondo dell’hip-hop - uno stile nato sulla strada che non richiede, come invece la danza contemporanea, un minimo di studio della danza classica. Hussein, consapevole di non essere un ballerino contemporaneo ma deciso a realizzare il proprio sogno, fa quello che gli viene meglio, improvvisare, e riesce nel proprio intento. Ed ecco che il tanto agognato “sogno americano” ha inizio: lui, immigrato e originario di un paese in costante guerra (anche per colpa degli americani), giunge finalmente a New York, la grande mela, la città dove tutte le speranze si realizzano. In fondo, però, anche il sogno più bello si rivela per quello che è: un’enorme bugia.
I cineasti Alfredo Chiarappa e Caterina Clerici hanno seguito, per un arco di nove mesi, Hussein in tutto quello che fa: dalle prove in studio, agli spettacoli in spazi vari della città, fino a giungere al momento in cui il ballerino realizza di non avere più nulla se non la propria fame di successo. Ed è così che The Performance ci regala un ritratto assolutamente realistico di Hussein, che inizialmente mente di fronte alla camera, presentandosi come una persona di successo, un po’ naive e che ancora crede nei propri sogni, ma che pian piano si rivela una figura ambigua, che passa di letto in letto e che riesce a continuare a vivere a New York senza realmente realizzarsi nella danza.
Oltre a Hussen, l’altra grande protagonista del film è proprio la "Grande Mela", una città che abbiamo imparato ad amare grazie ai film di Woody Allen, alla serie Friends (1994-2004) e a Martin Scorsese con Taxi Driver (1976) e Quei Bravi Ragazzi (1990). Una metropoli costruita su molte contraddizioni e da sempre vista come una sorta di El Dorado per sognatori, salvo poi rivelarsi, a volte, un buco nero dal quale è impossibile uscirne. La narrazione di una New York come luogo di nuovi inizi poteva risultare veritiera fino agli anni ‘70, ma ad oggi è una delle città più care al mondo e per viverci bisogna sacrificare i propri desideri in cambio di un lavoro che permetta uno stipendio abbastanza dignitoso anche solo per sistemarsi in una stanza in affitto. Ed è in questa New York che si ritrova a vivere Hussein, dove non può permettersi nemmeno un appartamento di 17 mq nella periferia più sperduta, ma che grazie al proprio carisma, e a degli occhi azzurri penetranti (come li descrivono i registi stessi) riesce a farsi ospitare per mesi a casa di un’amica senza minimamente contribuire alle spese.
Nel guardare The Perfomance lo spettatore si trova costantemente a chiedersi come il protagonista riesca ad andare avanti nonostante tutto ciò che “costruisca” sembra ogni volta dissolversi tra le sue mani. Inizialmente si darebbe il merito alla sua fame, quella stessa fame che descrisse Steve Jobs nel suo discorso all’Università di Stanford quando pronunciò la celebre frase “Stay hungry, stay foolish” (Siate affamati, siate folli). In parte è vero, Hussein dimostra una tenacia senza eguali, ma molto della sua sopravvivenza è dovuta ad un “piccolo cortocircuito americano". Il costante desiderio degli States di essere il paese della libertà e dell’uguaglianza, porta Hussein ad essere la vittima perfetta di questa narrazione: immigrato, di bell’aspetto, all’apparenza per niente pericoloso e dalla mente molto malleabile, tanto da essere sfruttato da tutti, prima dalla sua scuola di danza, gestita da bianchi e che distribuisce borse di studio a ballerini provenienti da paesi in difficoltà, e successivamente dalla sua stessa amica Raelle, attivista nera che cerca di portare Hussein a lottare per lei. Nel corso del documentario, però, ci si rende conto che il protagonista non è solo una vittima di questo sistema di sfruttamento, della Diversity e delle “buone intenzioni”, ma anzi, è lui il primo a giocare a proprio favore questa narrazione.
The Performance presenta delle riprese a metà strada tra il reportage giornalistico e la video arte, soprattutto nelle scene di danza, che lo rendono un prodotto, visivamente parlando, spettacolare e che aiuta lo spettatore ad immergersi completamente nella vita di Hussein, fatta di call per cercare finanziamenti per i propri progetti e scene di danza. Sono suggestive le immagini che mostrano il ragazzo ballare su un cavalcavia, dove il suo corpo si muove al ritmo dei suoni della città, andando così a creare un passo a due con la metropoli che lo ospita.
All’apparenza The Performance potrebbe risultare un documentario semplice, narrativamente parlando, poiché si rivela una camera fissa sul protagonista, ma in realtà cela al proprio interno una serie di complessità e di tematiche che non caratterizzano solo gli Stati Uniti, ma l’intera società occidentale nel quale viviamo. Dal tema dell’immigrazione, con le sue contraddizioni interne legate anche al razzismo, alle difficoltà economiche legate al vivere in una metropoli, fino ad arrivare al reale fulcro di tutto il film; cioè imparare ad accettare il fallimento in una società dinamica, dalle grandi prestazioni e dove la parola successo sembra essere l’unico motore di spinta.
Domani sera, mercoledì 19 Giugno a Il Cinemino di Milano (Via Seneca 6) alle ore 21, sarà possibile assistere ad una proiezione di The Performance con i registi Alfredo Chiarappa e Caterina Clerici, un'occasione da non perdere per assistere ad un grande pezzo di cinéma vérité.
NC-215
18.06.2024
Per tutta una vita ci hanno detto che “volere e potere”, che tutti i nostri sogni si possono realizzare, ma se così non fosse? Avrebbe senso continuare a lottare per ciò che desideriamo ardentemente?
The Performance di Alfredo Chiarappa e Caterina Clerici ci porta a riflettere sul senso del fallimento al giorno d’oggi. Ormai nulla ci spaventa di più che fallire, sentirci inutili e senza uno scopo nella vita, e questo ci fa spesso dimenticare quel meraviglioso proverbio che recita proprio “sbagliando si impara” o “ad ogni caduta l’unica cosa che si può fare è rialzarsi”. Forse è propria con questa filosofia che vive Hussein Smko Khudhur, un ballerino kurdo-iraqueno che attraverso il sogno della danza si è trasferito a New York per perseguire i propri obbiettivi. Hussein sembra l’emblema del grande “sogno americano”, dell’illusoria idea che, appena giunti sulla costa del “paese dalle mille possibilità”, si possano facilmente ottenere fama, ricchezza e potere. Forse questa “chimera” poteva rappresentare una realtà più di un secolo fa, o forse non è mai esistita, ma tutto questo Hussen lo ignora.
Come in ogni fiaba che si rispetti, anche quella di The Performance ha origini molto lontane dal luogo dove poi si svolgerà la storia in sé. Hussein Smko Khudhur nasce in Iraq e, come racconta, l’amore della danza nasce dall’incontro con un soldato americano che gli insegna una mossa di break dance. Una storia che commuoverebbe chiunque, soprattutto gli americani, e Hussein questo lo sa bene. Il nostro eroe cresce e per un caso fortuito viene notato e invitato a New York grazie a una borsa di studio di tre mesi per ballare, ma non break dance, danza contemporanea. Chi bazzica questo mondo sa bene che i due stili sono estremamente distanti tra loro, poiché la break dance fa parte del mondo dell’hip-hop - uno stile nato sulla strada che non richiede, come invece la danza contemporanea, un minimo di studio della danza classica. Hussein, consapevole di non essere un ballerino contemporaneo ma deciso a realizzare il proprio sogno, fa quello che gli viene meglio, improvvisare, e riesce nel proprio intento. Ed ecco che il tanto agognato “sogno americano” ha inizio: lui, immigrato e originario di un paese in costante guerra (anche per colpa degli americani), giunge finalmente a New York, la grande mela, la città dove tutte le speranze si realizzano. In fondo, però, anche il sogno più bello si rivela per quello che è: un’enorme bugia.
I cineasti Alfredo Chiarappa e Caterina Clerici hanno seguito, per un arco di nove mesi, Hussein in tutto quello che fa: dalle prove in studio, agli spettacoli in spazi vari della città, fino a giungere al momento in cui il ballerino realizza di non avere più nulla se non la propria fame di successo. Ed è così che The Performance ci regala un ritratto assolutamente realistico di Hussein, che inizialmente mente di fronte alla camera, presentandosi come una persona di successo, un po’ naive e che ancora crede nei propri sogni, ma che pian piano si rivela una figura ambigua, che passa di letto in letto e che riesce a continuare a vivere a New York senza realmente realizzarsi nella danza.
Oltre a Hussen, l’altra grande protagonista del film è proprio la "Grande Mela", una città che abbiamo imparato ad amare grazie ai film di Woody Allen, alla serie Friends (1994-2004) e a Martin Scorsese con Taxi Driver (1976) e Quei Bravi Ragazzi (1990). Una metropoli costruita su molte contraddizioni e da sempre vista come una sorta di El Dorado per sognatori, salvo poi rivelarsi, a volte, un buco nero dal quale è impossibile uscirne. La narrazione di una New York come luogo di nuovi inizi poteva risultare veritiera fino agli anni ‘70, ma ad oggi è una delle città più care al mondo e per viverci bisogna sacrificare i propri desideri in cambio di un lavoro che permetta uno stipendio abbastanza dignitoso anche solo per sistemarsi in una stanza in affitto. Ed è in questa New York che si ritrova a vivere Hussein, dove non può permettersi nemmeno un appartamento di 17 mq nella periferia più sperduta, ma che grazie al proprio carisma, e a degli occhi azzurri penetranti (come li descrivono i registi stessi) riesce a farsi ospitare per mesi a casa di un’amica senza minimamente contribuire alle spese.
Nel guardare The Perfomance lo spettatore si trova costantemente a chiedersi come il protagonista riesca ad andare avanti nonostante tutto ciò che “costruisca” sembra ogni volta dissolversi tra le sue mani. Inizialmente si darebbe il merito alla sua fame, quella stessa fame che descrisse Steve Jobs nel suo discorso all’Università di Stanford quando pronunciò la celebre frase “Stay hungry, stay foolish” (Siate affamati, siate folli). In parte è vero, Hussein dimostra una tenacia senza eguali, ma molto della sua sopravvivenza è dovuta ad un “piccolo cortocircuito americano". Il costante desiderio degli States di essere il paese della libertà e dell’uguaglianza, porta Hussein ad essere la vittima perfetta di questa narrazione: immigrato, di bell’aspetto, all’apparenza per niente pericoloso e dalla mente molto malleabile, tanto da essere sfruttato da tutti, prima dalla sua scuola di danza, gestita da bianchi e che distribuisce borse di studio a ballerini provenienti da paesi in difficoltà, e successivamente dalla sua stessa amica Raelle, attivista nera che cerca di portare Hussein a lottare per lei. Nel corso del documentario, però, ci si rende conto che il protagonista non è solo una vittima di questo sistema di sfruttamento, della Diversity e delle “buone intenzioni”, ma anzi, è lui il primo a giocare a proprio favore questa narrazione.
The Performance presenta delle riprese a metà strada tra il reportage giornalistico e la video arte, soprattutto nelle scene di danza, che lo rendono un prodotto, visivamente parlando, spettacolare e che aiuta lo spettatore ad immergersi completamente nella vita di Hussein, fatta di call per cercare finanziamenti per i propri progetti e scene di danza. Sono suggestive le immagini che mostrano il ragazzo ballare su un cavalcavia, dove il suo corpo si muove al ritmo dei suoni della città, andando così a creare un passo a due con la metropoli che lo ospita.
All’apparenza The Performance potrebbe risultare un documentario semplice, narrativamente parlando, poiché si rivela una camera fissa sul protagonista, ma in realtà cela al proprio interno una serie di complessità e di tematiche che non caratterizzano solo gli Stati Uniti, ma l’intera società occidentale nel quale viviamo. Dal tema dell’immigrazione, con le sue contraddizioni interne legate anche al razzismo, alle difficoltà economiche legate al vivere in una metropoli, fino ad arrivare al reale fulcro di tutto il film; cioè imparare ad accettare il fallimento in una società dinamica, dalle grandi prestazioni e dove la parola successo sembra essere l’unico motore di spinta.
Domani sera, mercoledì 19 Giugno a Il Cinemino di Milano (Via Seneca 6) alle ore 21, sarà possibile assistere ad una proiezione di The Performance con i registi Alfredo Chiarappa e Caterina Clerici, un'occasione da non perdere per assistere ad un grande pezzo di cinéma vérité.