NC-233
17.09.2024
Quando ha ricevuto il Pardo per la Miglior Regia durante la 76ª edizione del Locarno Film Festival, la regista di Stepne, Maryna Vroda, ha avuto l’onere di ricordare i membri della troupe che hanno perso la vita durante il conflitto russo-ucraino, che come tutti sappiamo ha visto una forte escalation a partire dal febbraio 2022.
Un passaggio doveroso, che rende una volta e per tutte inconfutabile l’influenza degli eventi geopolitici nell’interpretazione e nella ricezione di un film che aveva fatto della commistione e della comune eredità dei due popoli il focus della sua ricerca, e che oggi è irrevocabilmente posto sotto un’altra luce di lettura.
Il film è stato girato prima dello scoppio della pandemia di Covid-19, quindi prima del marzo 2020, quando erano già sei anni che il territorio ucraino era teatro di scontri armati con le truppe russe, solo in proporzioni estremamente minori rispetto a ciò che sta avvenendo da tre anni a questa parte. Talmente erano ridotte le proporzioni dello scontro che niente di tutto questo compare sullo schermo durante la proiezione di Stepne, anche se la regione in cui sono ambientati i fatti è molto vicina a Charkiv, area che abbiamo purtroppo imparato tutti a conoscere per tristi motivi.
Ma facciamo un passo indietro. Purtroppo Stepne non è ancora disponibile su nessuna piattaforma di streaming, quindi chi non ha avuto la possibilità di visionarlo durante i vari festival a cui ha partecipato dovrà accontentarsi della ricostruzione scritta, che però non è di facile realizzazione. La trama del film infatti è alquanto scarna, e sono le immagini e le atmosfere a costituire il vero corpus dell’opera. La narrazione si può ridurre a pochi fatti: Anatoli, un uomo sulla cinquantina, ritorna nella sua città natale ai confini dell’Ucraina contemporanea per accudire la madre ormai sul punto di morte.
Confini geografici ma anche sociali e politici: si tratta di un paesino di pochi abitanti il cui isolamento è ben rappresentato nella scena in cui vediamo il protagonista reggere un telefono cellulare con un bastone in mezzo alla steppa per cercare ricezione. Il ritorno nel paese inevitabilmente riporta Anatoli in contatto con realtà ed emozioni che aveva deciso di lasciarsi alle spalle, come la donna di cui probabilmente era innamorato, gli amici, le abitudini e le tradizioni di un luogo a cui non appartiene più.
Sopraggiunta la morte dell’anziana donna, si celebra nel villaggio il tradizionale funerale ortodosso. A quel punto ad Anatoli non rimane che seguire l’ultima indicazione della madre, ossia cercare nel pagliaio un oggetto misterioso che avrebbe potuto riconnetterlo con quanto aveva abbandonato. L’uomo si trattiene così per più tempo di quanto preventivato, riscopre i piaceri dei ritmi della vita di un piccolo centro abitato: le partite a scacchi con gli amici, l’intaglio.
Ma la conclusione è inevitabile, e Anatoli, come è usanza, chiama gli abitanti del paese perché vengano a prendere quello che può tornargli utile dalla casa della madre, in modo da poter chiudere definitivamente questo capitolo della sua vita e non lasciare più alcun legame con quella terra e il suo passato. Una scena molto significativa sia dal punto di vista della simbologia del racconto, sia da quello documentaristico. Perché queste sono le due chiavi di lettura che convivono e si intrecciano nel film.
Da una parte un documentario che testimonia l’età di passaggio dal regime comunista sovietico alla nuova Nazione democratica, filo occidentale e inserita in un sistema economico capitalistico che l’Ucraina è diventata oggi, dall’altra la rappresentazione di un passaggio di eredità da una generazione all’altra, da un mondo all’altro, di un territorio, di valori e tradizioni che si modificheranno o spariranno del tutto.
I due discorsi si fondono in modo inscindibile, e la conclusione è il nodo cruciale: gli abitanti di queste regioni di frontiera, lontani dall’influenza della nuova società capitalista, non possiedono molto e ancora sopravvivono di beni comuni, per cui è totalmente normale che una volta deceduta la padrona di casa, le altre persone del villaggio si approprino dei suoi oggetti. Vivono in un paese senza negozi dove l’unico rifornimento arriva dalla macchina che porta viveri di prima necessità.
Una testimonianza geopolitica, quasi antropologica, e senza schieramento, che vuole mostrare le conseguenze positive e negative della fine dell’Unione Sovietica, che ha sì riportato libertà, ma ha creato anche uno scompenso storico per cui intere nazioni devono ricostruire i propri valori e la propria identità, oltre che la propria vita culturale ed economica.
L’immagine di Anatoli - rappresentante della generazione presente degli ucraini adulti che guidano il paese - che vede sfilare sotto i suoi occhi i beni della madre mentre lasciano per sempre la casa della sua infanzia, chiudendo definitivamente qualsiasi collegamento tra lui e il suo luogo natale, è carica di significato: è il passato sovietico che Anatoli sta lasciando andare, è la porta con quel mondo che per tanti anni ha dominato i paesi slavi che ora si sta chiudendo.
Il discorso generazionale è molto importante per la regista, che infatti ha sottolineato durante le interviste rilasciate durante il Locarno Film Festival come la sua generazione sia stata quella che ha guidato il Paese in una direzione opposta rispetto a quella presa dalla Russia nel momento in cui l’URSS si sciolse. Non ci può essere alcun dubbio che la visione impegnata dell’arte sia condivisa dell’intera troupe del film.
Il film ha visto la luce delle sale quando lo scenario geopolitico era decisamente cambiato rispetto a quando è stato concepito e girato, e quindi ovviamente molto di quello che è stato rappresentato ha assunto un significato nuovo alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina. A maggior ragione visto che la regione del Sumy Oblast, che ha ispirato la regista con i ricordi della sua infanzia trascorsa lì con i nonni, si trova al confine con il territorio russo.
Il titolo, oltre che a richiamare la vegetazione tipica di quelle regioni, si riferisce infatti a un villaggio realmente esistente, in cui la Vroda si è recata e dove ha raccolto storie e ha scelto gli interpreti che avrebbero figurato nel suo film. A recitare troviamo infatti sia attori professionisti che non. L’adesione al realismo è molto evidente anche nelle scelte di fotografia che, nelle parole della regista, volevano dare il più possibile l’immagine del cinema tradizionale. Ed effettivamente ci sono scene, come quella in cui Anatoli lava la madre in un tinello in camera da letto, che per la loro bellezza richiamano i quadri realisti di inizio Ottocento.
Ma non è solo nelle immagini che si rivela questa ricerca di realismo e autenticità da parte di Maryna Vroda. La scena forse più rappresentativa del film, che ne condensa l’essenza, è quella che si svolge dopo la messa funebre della anziana madre di Anatoli, quando tutta la comunità del villaggio si raccoglie a casa della famiglia in lutto per consumare un pasto tutti insieme. Si tratta di una tradizione della religione ortodossa, in cui si organizza una cena di piatti semplici e tipici della tradizione culinaria ucraina, mentre ci si scambiano ricordi sulla persona defunta.
Nell’ottica della narrazione, diventa un’occasione potente per il racconto dell’Ucraina che la regista vuole portare sul grande schermo. Per questo, dice, ha scelto tra i veri abitanti del villaggio quelli che, attraverso la propria testimonianza, potessero rappresentare il secolo appena trascorso della storia ucraina.
Ad esempio, tra i “personaggi”c’è un’anziana che si scopre essere di etnia russa, probabilmente riconoscibile anche grazie a delle indicazioni linguistiche che a noi osservatori di lingua latina non è dato di cogliere, ma si intuisce come il tentativo di quest’ultima di esprimersi nella sua lingua madre, russo quindi e non ucraino, evidenzi una sorta di ostracismo nei suoi confronti - la lingua russa può essere compresa dai parlanti di lingua ucraina e viceversa. La lingua è un altro elemento della difficile eredità del popolo ucraino, e per questo anche durante le interviste a Locarno la regista rispose alle domande in ucraino, grazie anche all’ausilio di un’interprete, perché, come disse, non si hanno molte possibilità di sentire o far sentire questa lingua e quindi si deve cogliere l’occasione per darne testimonianza.
Nella sequenza della cena gli abitanti ricordano i tempi in cui il villaggio faceva parte di un grande kolchoz (una fattoria collettiva) e come vivere in quel contesto implicasse affrontare quotidianamente delle grandi sfide. Ma affianco si discute anche della difficoltà del tempo presente, della fase di transizione, dei cambiamenti che questa comporta e a cui si deve far fronte. A tutto questo Anatoli non prende parte, consuma il suo pasto in un angolo della lunga tavola senza proferire parola, perché lui non è più - e non vuole più - essere incluso nella comunità del villaggio e nelle sue tradizioni.
Il funerale, di nuovo, è sia la rappresentazione dell’ultimo atto della vita della madre di Anatoli nell’esistenza del protagonista, sia l’uscita di scena di un passato e delle ultime generazioni che lo hanno vissuto , del mondo che si era creato e che oggi non esiste più.
Questa è stata anche la motivazione addotta dalla giuria del Trieste film festival per cui è stato assegnato a Stepne il premio di Miglior film. La ricezione nei paesi slavi e nelle ex-repubbliche sovietiche è stata anch’essa positiva, come dimostra il premio come Miglior film ricevuto durante l’European Film Forum Scanorama in Lituania, a testimonianza del fatto che la visione rappresentata da Maryna Vroda è una realtà condivisa da altri popoli che hanno vissuto le medesime vicende.
NC-233
17.09.2024
Quando ha ricevuto il Pardo per la Miglior Regia durante la 76ª edizione del Locarno Film Festival, la regista di Stepne, Maryna Vroda, ha avuto l’onere di ricordare i membri della troupe che hanno perso la vita durante il conflitto russo-ucraino, che come tutti sappiamo ha visto una forte escalation a partire dal febbraio 2022.
Un passaggio doveroso, che rende una volta e per tutte inconfutabile l’influenza degli eventi geopolitici nell’interpretazione e nella ricezione di un film che aveva fatto della commistione e della comune eredità dei due popoli il focus della sua ricerca, e che oggi è irrevocabilmente posto sotto un’altra luce di lettura.
Il film è stato girato prima dello scoppio della pandemia di Covid-19, quindi prima del marzo 2020, quando erano già sei anni che il territorio ucraino era teatro di scontri armati con le truppe russe, solo in proporzioni estremamente minori rispetto a ciò che sta avvenendo da tre anni a questa parte. Talmente erano ridotte le proporzioni dello scontro che niente di tutto questo compare sullo schermo durante la proiezione di Stepne, anche se la regione in cui sono ambientati i fatti è molto vicina a Charkiv, area che abbiamo purtroppo imparato tutti a conoscere per tristi motivi.
Ma facciamo un passo indietro. Purtroppo Stepne non è ancora disponibile su nessuna piattaforma di streaming, quindi chi non ha avuto la possibilità di visionarlo durante i vari festival a cui ha partecipato dovrà accontentarsi della ricostruzione scritta, che però non è di facile realizzazione. La trama del film infatti è alquanto scarna, e sono le immagini e le atmosfere a costituire il vero corpus dell’opera. La narrazione si può ridurre a pochi fatti: Anatoli, un uomo sulla cinquantina, ritorna nella sua città natale ai confini dell’Ucraina contemporanea per accudire la madre ormai sul punto di morte.
Confini geografici ma anche sociali e politici: si tratta di un paesino di pochi abitanti il cui isolamento è ben rappresentato nella scena in cui vediamo il protagonista reggere un telefono cellulare con un bastone in mezzo alla steppa per cercare ricezione. Il ritorno nel paese inevitabilmente riporta Anatoli in contatto con realtà ed emozioni che aveva deciso di lasciarsi alle spalle, come la donna di cui probabilmente era innamorato, gli amici, le abitudini e le tradizioni di un luogo a cui non appartiene più.
Sopraggiunta la morte dell’anziana donna, si celebra nel villaggio il tradizionale funerale ortodosso. A quel punto ad Anatoli non rimane che seguire l’ultima indicazione della madre, ossia cercare nel pagliaio un oggetto misterioso che avrebbe potuto riconnetterlo con quanto aveva abbandonato. L’uomo si trattiene così per più tempo di quanto preventivato, riscopre i piaceri dei ritmi della vita di un piccolo centro abitato: le partite a scacchi con gli amici, l’intaglio.
Ma la conclusione è inevitabile, e Anatoli, come è usanza, chiama gli abitanti del paese perché vengano a prendere quello che può tornargli utile dalla casa della madre, in modo da poter chiudere definitivamente questo capitolo della sua vita e non lasciare più alcun legame con quella terra e il suo passato. Una scena molto significativa sia dal punto di vista della simbologia del racconto, sia da quello documentaristico. Perché queste sono le due chiavi di lettura che convivono e si intrecciano nel film.
Da una parte un documentario che testimonia l’età di passaggio dal regime comunista sovietico alla nuova Nazione democratica, filo occidentale e inserita in un sistema economico capitalistico che l’Ucraina è diventata oggi, dall’altra la rappresentazione di un passaggio di eredità da una generazione all’altra, da un mondo all’altro, di un territorio, di valori e tradizioni che si modificheranno o spariranno del tutto.
I due discorsi si fondono in modo inscindibile, e la conclusione è il nodo cruciale: gli abitanti di queste regioni di frontiera, lontani dall’influenza della nuova società capitalista, non possiedono molto e ancora sopravvivono di beni comuni, per cui è totalmente normale che una volta deceduta la padrona di casa, le altre persone del villaggio si approprino dei suoi oggetti. Vivono in un paese senza negozi dove l’unico rifornimento arriva dalla macchina che porta viveri di prima necessità.
Una testimonianza geopolitica, quasi antropologica, e senza schieramento, che vuole mostrare le conseguenze positive e negative della fine dell’Unione Sovietica, che ha sì riportato libertà, ma ha creato anche uno scompenso storico per cui intere nazioni devono ricostruire i propri valori e la propria identità, oltre che la propria vita culturale ed economica.
L’immagine di Anatoli - rappresentante della generazione presente degli ucraini adulti che guidano il paese - che vede sfilare sotto i suoi occhi i beni della madre mentre lasciano per sempre la casa della sua infanzia, chiudendo definitivamente qualsiasi collegamento tra lui e il suo luogo natale, è carica di significato: è il passato sovietico che Anatoli sta lasciando andare, è la porta con quel mondo che per tanti anni ha dominato i paesi slavi che ora si sta chiudendo.
Il discorso generazionale è molto importante per la regista, che infatti ha sottolineato durante le interviste rilasciate durante il Locarno Film Festival come la sua generazione sia stata quella che ha guidato il Paese in una direzione opposta rispetto a quella presa dalla Russia nel momento in cui l’URSS si sciolse. Non ci può essere alcun dubbio che la visione impegnata dell’arte sia condivisa dell’intera troupe del film.
Il film ha visto la luce delle sale quando lo scenario geopolitico era decisamente cambiato rispetto a quando è stato concepito e girato, e quindi ovviamente molto di quello che è stato rappresentato ha assunto un significato nuovo alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina. A maggior ragione visto che la regione del Sumy Oblast, che ha ispirato la regista con i ricordi della sua infanzia trascorsa lì con i nonni, si trova al confine con il territorio russo.
Il titolo, oltre che a richiamare la vegetazione tipica di quelle regioni, si riferisce infatti a un villaggio realmente esistente, in cui la Vroda si è recata e dove ha raccolto storie e ha scelto gli interpreti che avrebbero figurato nel suo film. A recitare troviamo infatti sia attori professionisti che non. L’adesione al realismo è molto evidente anche nelle scelte di fotografia che, nelle parole della regista, volevano dare il più possibile l’immagine del cinema tradizionale. Ed effettivamente ci sono scene, come quella in cui Anatoli lava la madre in un tinello in camera da letto, che per la loro bellezza richiamano i quadri realisti di inizio Ottocento.
Ma non è solo nelle immagini che si rivela questa ricerca di realismo e autenticità da parte di Maryna Vroda. La scena forse più rappresentativa del film, che ne condensa l’essenza, è quella che si svolge dopo la messa funebre della anziana madre di Anatoli, quando tutta la comunità del villaggio si raccoglie a casa della famiglia in lutto per consumare un pasto tutti insieme. Si tratta di una tradizione della religione ortodossa, in cui si organizza una cena di piatti semplici e tipici della tradizione culinaria ucraina, mentre ci si scambiano ricordi sulla persona defunta.
Nell’ottica della narrazione, diventa un’occasione potente per il racconto dell’Ucraina che la regista vuole portare sul grande schermo. Per questo, dice, ha scelto tra i veri abitanti del villaggio quelli che, attraverso la propria testimonianza, potessero rappresentare il secolo appena trascorso della storia ucraina.
Ad esempio, tra i “personaggi”c’è un’anziana che si scopre essere di etnia russa, probabilmente riconoscibile anche grazie a delle indicazioni linguistiche che a noi osservatori di lingua latina non è dato di cogliere, ma si intuisce come il tentativo di quest’ultima di esprimersi nella sua lingua madre, russo quindi e non ucraino, evidenzi una sorta di ostracismo nei suoi confronti - la lingua russa può essere compresa dai parlanti di lingua ucraina e viceversa. La lingua è un altro elemento della difficile eredità del popolo ucraino, e per questo anche durante le interviste a Locarno la regista rispose alle domande in ucraino, grazie anche all’ausilio di un’interprete, perché, come disse, non si hanno molte possibilità di sentire o far sentire questa lingua e quindi si deve cogliere l’occasione per darne testimonianza.
Nella sequenza della cena gli abitanti ricordano i tempi in cui il villaggio faceva parte di un grande kolchoz (una fattoria collettiva) e come vivere in quel contesto implicasse affrontare quotidianamente delle grandi sfide. Ma affianco si discute anche della difficoltà del tempo presente, della fase di transizione, dei cambiamenti che questa comporta e a cui si deve far fronte. A tutto questo Anatoli non prende parte, consuma il suo pasto in un angolo della lunga tavola senza proferire parola, perché lui non è più - e non vuole più - essere incluso nella comunità del villaggio e nelle sue tradizioni.
Il funerale, di nuovo, è sia la rappresentazione dell’ultimo atto della vita della madre di Anatoli nell’esistenza del protagonista, sia l’uscita di scena di un passato e delle ultime generazioni che lo hanno vissuto , del mondo che si era creato e che oggi non esiste più.
Questa è stata anche la motivazione addotta dalla giuria del Trieste film festival per cui è stato assegnato a Stepne il premio di Miglior film. La ricezione nei paesi slavi e nelle ex-repubbliche sovietiche è stata anch’essa positiva, come dimostra il premio come Miglior film ricevuto durante l’European Film Forum Scanorama in Lituania, a testimonianza del fatto che la visione rappresentata da Maryna Vroda è una realtà condivisa da altri popoli che hanno vissuto le medesime vicende.