NC-223
18.07.2024
Oggi molti musei sono spazi che consentono un tipo di fruizione multisensoriale: per essere accessibili a tutti, infatti, svariate strutture museali hanno dovuto fare i conti con i nuovi media e la loro capacità di restituirci esperienze virtuali sempre più "comode" e accattivanti. La presenza imperante di tutti questi dispositivi nella nostra quotidianità non è più un fattore da ignorare: se un tempo lo spazio sociale per eccellenza era l’Agorà, oggi tale funzione è ricoperta dalla rete e da tutti gli strumenti che vi consentono l’accesso.
Quindi, la sfida principale per tutti i musei odierni è quella di superare una forte crisi identitaria, dovuta al fatto che l’attrattività dei patrimoni storico-culturali in essi sono contenuti non soddisfa più le esigenze della collettività, ammaliata da tutt’altre forme di intrattenimento (culturale). La soluzione più semplice da adottare non è altro che quella di introdurre i musei stessi negli schermi, nei dispositivi che più ci intrattengono. Ciò non significa affatto mettere in secondo piano la loro ricchezza artistica, ma al contrario riplasmarla, riconfigurarla in modo tale da poter essere nuovamente un’esperienza degna di essere vissuta, magari anche dal vivo: l’esperienza virtuale deve porsi come anticamera dell’esperienza reale.
Giunti a questo punto, noi ci chiediamo: tra tutte le attuali esperienze mediali (e virtuali) a cui prendiamo parte, che cosa può fare il cinema per i musei? Come può il linguaggio filmico contribuire ad avvicinare gli spettatori a una collezione storico-artistica? Per prima cosa sarà necessario definire il cinema e la sua struttura.
Che cos’è il cinema?
Fin dalla sua nascita, ossia, ufficialmente, il 28 dicembre 1895 presso il Salon Indien del Grand Café al Boulevard Des Capucines di Parigi, data in cui i fratelli Lumière effettuarono la prima proiezione cinematografica per un pubblico pagante, è apparso subito chiaro come la natura del cinema non fosse soltanto industriale (e commerciale), quanto antropologica e storicamente connotata: nelle intenzioni di chi ha contribuito alla nascita e allo sviluppo di questo strumento, infatti, il cinematografo era la meta di un percorso che univa una lunga tradizione spettacolare (che risale a strumenti molto più antichi come la lanterna magica, i panorami, i diorami, il fenachitoscopio, il Mondo Nuovo, il taumatropio …) alla volontà positivistica di riprodurre tecnicamente il movimento e di dominare il mondo attraverso il proprio sguardo occidentale, ritenuto culturalmente superiore agli altri.
Già qui si palesa una doppia denotazione del filmico, oscillante tra la riproduzione tecnica di una porzione di realtà (il profilmico) e quello che il grande cineasta Michelangelo Antonioni definiva come “il mistero dell’immagine”, ossia la sua incomprensibile e inafferrabile spettacolarità, la quale fu colta inizialmente nel suo potenziale eversivo dal poliedrico artista Georges Méliès: il cinema è sempre riproduzione della realtà filtrata attraverso un preciso punto di vista, fornito di cultura e di mitopoiesi. Il cinema, non restituirà mai la realtà oggettiva così com’è. Un tratto non indifferente, specialmente per tutte quelle teorie filmiche che hanno tentato di cristallizzarne l’essenza attraverso i propri discorsi. Insomma, il cinema nasce e diventa immediatamente il massimo simbolo del progresso ottocentesco e il primo segno degli sviluppi artistici e tecnici che caratterizzeranno il XX secolo.
Tuttavia, come illustra Sandro Bernardi, alle origini il cinema è un dispositivo che non ha una caratterizzazione né artistica né totalmente finalistica, in quanto le numerose riprese effettuate dai vari operatori che furono inviati in quegli anni in tutto il mondo non fanno altro che mostrare la nostra “impossibilità di capire”. Più che uscirne dominatori, come ci faceva credere lo spirito del tempo di fine Ottocento, i filmati degli angoli più remoti del pianeta ci hanno dimostrato al contrario quanto siamo piccoli e lontani dalla verità, consentendoci piuttosto di prendere coscienza esclusiva del nostro atto di guardare, termine che, seguendo il percorso teorico dell’autore, non equivale semanticamente a vedere, ossia all’atto di captare sensibilmente la realtà attraverso il filtro della nostra cultura.
Il cinema è dunque, prima dell’integrazione narrativa e delle varie teorie sul montaggio, lo sguardo di chi, convinto della propria superiorità, scivola in un regno di incertezze e possibilità lontane, fino ad allora sconosciute e soltanto immaginate: noi siamo individui che non vedono, ma che guardano e che vengono guardati dai numerosi soggetti che passano curiosamente davanti all’obiettivo, ponendosi le nostre stesse domande. Tale eredità cognitiva finisce per diventare un tratto distintivo e imprescindibile del cinema, portandoci significativamente a concludere che, quando si parla del dispositivo cinematografico, si fa sempre riferimento a una dimensione che potremmo chiamare metalinguistica, la quale ci dice qualcosa non solo sul dispositivo filmico, ma anche sul nostro modo di guardare e vedere la realtà. Introduciamo così una delle caratteristiche chiave del mezzo cinematografico: lo sguardo, l’unione dell’atto del guardare con quanto riusciamo a capire. Tale concetto si ritrova dentro qualsiasi testo filmico, che si compone sempre di tre sguardi distinti ma interrelati:
- l’occhio della cinepresa.
- l’occhio del personaggio.
- l’occhio dello spettatore.
Ciò che accomuna le tre istanze è il tessuto socioculturale ed economico in cui si prepongono di comporre il film: tecnicamente parlando, un film muto degli anni ’20 non ha le stesse potenzialità espressive di un’opera audiovisiva degli anni ’60, e allo stesso modo i personaggi e gli spettatori che vi si identificano avrebbero nei due lassi di tempo dei valori e dei modelli di riferimento affatto diversi. Quindi, il cinema è pluridimensionale, di una complessità ottica la quale è sempre scindibile in queste tre componenti complementari, che contribuiscono alla costruzione di una determinata visione del mondo.
D’altro canto, lo sguardo cinematografico deve fare sempre i conti con un’altra sua componente essenziale, ossia l’organizzazione scenica del profilmico (quanto ne viene selezionato e come viene ripreso). Abbiamo in tal caso altri tre livelli di strutturazione del prodotto audiovisivo:
- la messa in scena («costituisce il momento in cui si definisce il mondo da rappresentare e lo si dota di tutti gli elementi che esso richiede o di cui esso ha bisogno» ).
- la messa in quadro, o inquadratura, che consiste nella modalità di raccolta e presentazione dei singoli contenuti (Gilles Deleuze, in Immagine-movimento, la definisce come «determinazione di un sistema chiuso, relativamente chiuso, che comprende tutto ciò che è presente all’interno dell’immagine, scene, personaggi, accessori» ).
- la messa in serie (il momento ultimativo dell’intervento umano, un tempo sulla pellicola), il cui oggetto di analisi è la sequenza, che, creata attraverso il montaggio, produce il senso ultimo del film.
Unitamente all’elenco precedente, queste due facce della stessa medaglia contribuiscono alla formazione di un vero e proprio testo filmico, la cui leggibilità è resa possibile proprio dalla regolazione di tutti i suoi elementi sintattico-grammaticali. È questo lo strumento imprescindibile affinché il cinema attui la sua comunicazione monodirezionale con lo spettatore, appunto fruitore e destinatario di un percorso autoriale (dunque ideologico) e linguistico.
Il momento dell’analisi: che cosa può fare il cinema per i musei?
In questo paragrafo ci dedicheremo all’analisi di due opere filmiche del regista russo Aleksandr Sokurov: Arca Russa (2002) e Francofonia (2015). L’intento sarà quello di comprendere non solo come possono interagire tra loro il cinema e i musei, ma anche come si è evoluta la narrazione di questo rapporto. Per tale motivo abbiamo preso in considerazione un’unica poetica autoriale, la quale nel nostro specifico caso ha dedicato molte energie al racconto dello spazio museale, fornendoci dunque i chiari segni di un cambiamento culturale e cognitivo nell’intesa che esiste tra gli individui e le loro istituzioni.
ARCA RUSSA
Arca Russa fu girato da Sokurov nel 2001, con l’aiuto di ventidue assistenti alla regia, più di ottocento attori e tre orchestre. Fu successivamente presentato al Festival di Cannes del 2002. La grande novità dell’opera, nonché principale peculiarità e motivo dell’impiego di così tante maestranze, fu il fatto di essere stata girata in unico piano-sequenza (vale a dire una ripresa senza stacchi di montaggio) di circa novanta minuti. Il film venne commissionato a Sokurov dal Ministero della Cultura della Federazione russa, ed interamente ambientato dentro le maestose stanze dell’Hermitage di San Pietroburgo, noto anche come Palazzo d’Inverno, un tempo residenza degli Zar, oggi museo e sede di una delle più importanti collezioni d’arte al mondo. La trama è molto semplice: un soggetto non identificato si ritrova come d’incanto catapultato all’Hermitage, dove ripercorrerà trecento anni di Storia russa (dalle origini del palazzo fino ad oggi) accompagnato da un bizzarro ambasciatore francese del XIX secolo.
Il protagonista di questa esperienza onirica non viene mai inquadrato, in quanto il suo punto di vista viene a coincidere direttamente con il nostro: infatti, il film è interamente girato in prima persona, riproducendo quelle condizioni d’immersività e immedesimazione tipiche dei videogiochi e della virtualità a cui oggi siamo pienamente abituati (e assuefatti). Sokurov attua qui una prima scelta fondamentale: la coincidenza del nostro sguardo con il suo (la cinepresa) fa sì che l’opera ricrei una tipica esperienza museale, ossia un girovagare “flâneuristico”, qui inoltre caratterizzata dalla presenza di una vera e propria guida, ovvero il personaggio con cui ci interfacciamo costantemente lungo tutta la narrazione, il marchese Astolphe di Custine (scrittore e viaggiatore realmente esistito. La scelta di introdurre questo goffo interlocutore è fondamentale per due ragioni: anzitutto, egli definisce e conferma la nostra presenza in quanto istanza fisica e narrativa, e secondariamente riduce di molto la distanza che ci separa dalla messa in scena.
L’ambasciatore francese condivide con noi lo sguardo incantato e curioso, arricchito da commenti opinabili e da atteggiamenti perfettamente associabili a quelli di un turista nostro contemporaneo, che associa alle opere la propria esperienza di vita. Non è inoltre un caso che si sia scelto un personaggio storico che non ha nulla a che vedere con il popolo russo e con la sua Storia, di cui si burla costantemente, poiché ci consente con la sua spavalderia di porci delle domande, di leggere i simboli sotto nuove prospettive. Questi primi dettagli, a fronte di quanto dissertato nei paragrafi precedenti, ci consentono di riallacciarci alla questione degli sguardi cinematografici. In Arca Russa abbiamo infatti una costruzione visiva concettualmente molto complessa, in quanto il nostro punto di vista coincide perfettamente con quello della cinepresa e lo sguardo del personaggio si definisce solo in rapporto al nostro (e dunque anche a quello dell’autore).
Tale interrelazione visiva è di fondamentale importanza poiché serve perfettamente la causa, ossia la costante (ri)messa in discussione dei valori e dei significati di cui un museo (qui l’Hermitage), un’Istituzione, si fa portavoce. Sokurov pone in costante confronto la razionalità, l’incontestabile logica storica e culturale del Palazzo d’Inverno con il diverso, con l’Altro, con gli spettri del tempo e le affermazioni di un intellettuale da noi lontano. Secondo quanto detto in precedenza, ciò che accomuna le tre istanze dello sguardo cinematografico è il tessuto socioculturale di riferimento, che qui però diventa multiplo: la nostra cognizione di causa si miscela con il sogno autoriale e con l’asincronia intellettuale del marchese. Tre visioni completamente staccate e alterate sia da un punto di vista spazio-temporale, sia da un punto di vista valoriale. In tal modo, come già anticipato, saltano tutti i riferimenti, che devono essere perciò ricostruiti attraverso il progressivo confronto con la materialità della Storia, e dunque con l’esplorazione dei vari ambienti e simboli del palazzo.
Lo stesso procedimento logico viene attuato anche attraverso la messa in scena e la successiva costruzione sintattica della stessa. A livello del profilmico, infatti, Sokurov lavora su veri e propri tableau vivants: si ricostruiscono e si reinterpretano momenti significativi dell’ufficialità (il ricevimento dell’ambasciatore di Persia), della quotidianità (Caterina la Grande con le sue figlie) e dell’attualità (i visitatori nostri contemporanei che ammirano le collezioni d’arte) dell’Hermitage. A quello che può sembrare un rigore filologico fa da contraltare la voice off del regista, che parlando per noi e mimando il nostro spaesamento tenta di andare oltre ciò che vediamo, quasi a voler comprendere dei significati ulteriori, che la Storia ha in realtà sepolto per sempre. A livello propriamente filmico, invece, Sokurov non costruisce una netta distinzione tra campo e fuoricampo, tra il visibile e il possibile, ricreando una percezione spettatoriale irrequieta, sempre alla ricerca di qualche dettaglio da scoprire, che sia una decorazione, un quadro o un evento storico.
Abbiamo detto anche che a livello tecnico non c’è montaggio (il piano-sequenza non lo prevede), ma ciò non significa che il regista russo non abbia dato al suo lavoro un ritmo e una densità narrativa ben precisi: se, come sosteneva Ėjzenštejn, ogni opera d’arte presenta in sé un montaggio (ossia un’organizzazione sintattico-grammaticale che guidi il fruitore), allora anche in Arca Russa tale principio è ampiamente confermato. Infatti, ogni volta che viene passato uno degli ampi portali che dividono tra loro le sale del palazzo, attraverso cui siamo scortati dalla casualità degli incontri non sempre felici, veniamo catapultati in un contesto storico (e dunque culturale) diverso. La narrazione della Storia russa e della storia del film non è perciò lineare non solo temporalmente, ma anche spazialmente: quest’ultimo dettaglio è fondamentale perché la geometria del museo, la sua denotazione storica viene riconsiderata in un’ottica nuova, incerta e sempre discutibile. Passare da un ambiente all’altro vuol dire quindi compiere dei vorticosi salti, nel tempo e nei suoi simboli, che annichiliscono ogni possibile staticità logocentrica.
Per concludere questa prima analisi è necessario porre l’accento sulle derive della trama seguita da Sokurov. Non è affatto casuale che sia un incipit onirico, in cui ci ritroviamo dopo che la voice off del narratore ha detto di ricordarsi solo di una disgrazia avvenuta poco prima, a dare il via a tutto il nostro percorso: il sogno ci libera dalle catene dei simboli e della logica, dandoci il potere di uscire dagli schemi, alla ricerca di sensi profondi. E non è altrettanto casuale il finale: a un grande ballo, momento supremo di celebrazione scenica e ideale dell’Hermitage, segue il nostro arrivo all’uscita principale, assieme a tutti gli altri spettri, dove ci attende un mare sconosciuto e sconfinato.
Questo epilogo riassume tutto il senso del titolo e del tour appena concluso, ossia che l’arca russa è lo stesso Hermitage, che con tutta la sua Storia e i suoi valori si ritrova a navigare senza meta per condurci verso nuovi orizzonti. In questa parabola si intravede tutto il senso della nostra riflessione, dei prodromi di una crisi che ai tempi era probabilmente soltanto iniziata. Ma proprio questo dimostra la grandezza del lavoro di Sokurov, capace di indagare il problema del nostro patrimonio umano alla luce di una narrazione tecnicamente e strutturalmente innovativa, ma non risolutiva. Qui ciò che conta è mettere in luce un problema, tornare a porsi delle domande essenziali: qual è la missione del museo, depositario della nostra identità umana?
FRANCOFONIA
“Chi saremmo noi senza i musei?”
Passiamo adesso a un lavoro più recente, risalente per l’esattezza al 2015. Coprodotto dalla Arte France Cinéma e dal Louvre, il film è stato presentato alla 74° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, per poi passare ad altri festival internazionali e nelle sale per un breve periodo. Francofonia parla del Louvre, in cui è ambientato per larga parte e di cui narra la travagliata esistenza durante l’occupazione nazista. Nonostante molti critici e fan avessero inizialmente pensato a un sequel ideale del precedente Arca Russa, Sokurov ha deciso invece di riprendere solo alcuni topoi del film precedente, lavorando qui con un metodo di montaggio tradizionale, ma arrivando ugualmente a degli esisti estetici innovativi. Il racconto degli eventi storici è legato in Francofonia a un pretesto narrativo che parrebbe effettivamente il prosieguo di quanto visto nel finale di Arca Russa: Sokurov tenta disperatamente di comunicare in videochiamata con il capitano Dirk, comandante di un cargo olandese che sta affrontando una tremenda tempesta proprio mentre trasporta delle opere d’arte.
L’esordio di Francofonia è davvero brillante. Sokurov rifiuta qui qualsiasi mediazione diegetica, e pone se stesso al centro della narrazione, con tutti i suoi dubbi e le sue disquisizioni. Lo vediamo dentro la sua stessa casa mentre cerca di contattare in video il capitano. Il loro breve incontro sarà l’incidente scatenante, l’inizio di tutta la lunga riflessione che pone al centro l’identità dei musei di tutto il mondo. Noi non siamo più immedesimati in un punto di vista fittizio, ma rimaniamo al nostro posto come semplici interlocutori silenti, telespettatori urgenti di una deriva del pensiero. Ogni tanto ci rivediamo dentro le mura del Louvre, ma oltre a essere solo una parte di tutto il lavoro, questi momenti non ci introducono come visitatori, ma come testimoni, depositari di una Coscienza umana (e ciò lo si capisce anche dai movimenti aerei di macchina e dalle repentine e nette ellissi di montaggio).
Anche qui, entro le mura del Louvre, ritroviamo dei personaggi: la Marianne (personificazione della Repubblica francese) e Napoleone Bonaparte, che tuttavia restano vaporosi, eterei quanto i discorsi autarchici del generale e il motto nazionale ripetuto come un disco rotto dall’allegoria francese. Anche quando poi ci rapportiamo con i personaggi storici Jacques Jaujard e Franziskus Wolff-Metternich, continua a notarsi la distanza con l’altro film: in primis la vicinanza a loro è già disvelata nella sua finzione (l’uso dei filtri filmici e la dichiarazione esplicita della voce narrante prima del ciak che li introduce in scena), in secundis Sokurov ci rende semplici accompagnatori e non protagonisti in quanto è lui stesso che si frappone esplicitamente. Il compito di tutti questi personaggi non è di guidarci o avvicinarci, ma di ammonirci, di tenerci col fiato sospeso affinché la causa presa a cuore dal grande autore russo venga da noi interiorizzata. E a ribadire perentoriamente i ruoli assunti qui dai tre diversi sguardi coinvolti ci pensa, come già accennato, il disvelarsi stesso del racconto filmico: nei primi nove minuti la voce narrante di Sokurov accenna più volte al fatto che deve ancora terminare le riprese, dopodiché la narrazione vera e propria comincia con un vistoso ciak fatto da un operatore.
A differenza di Arca Russa, dunque, i ruoli dei tre punti di vista (cinepresa-autore, personaggi, spettatori) rimangono perfettamente staccati, entrando però in un dialogo urgente, che richiede proprio che ognuno faccia il suo, mantenendo definiti i ruoli. Anche a livello di messa in scena bisogna segnalare le dovute divergenze rispetto al film precedentemente analizzato. I livelli scenici di Francofonia sono multipli: abbiamo un racconto che fa da cornice, le vicende di Sokurov e Dirk, mostrato senza orpelli tecnici (si prediligono poche inquadrature fisse degli interni); poi c’è una narrazione propriamente filmica, giocata tutta sul montaggio e sul disvelamento dei meccanismi cinematografici (tutto ciò che riguarda le figure di Jacques Jaujard e Franziskus Wolff-Metternich) con l’impiego di filtri e attori, la quale vuole ricostruire e reinterpretare gli eventi storici; a ciò si uniscono l’uso di materiali d’archivio (anche qui introdotti con la visione di due operatori parigini che filmano di nascosto la capitale francese occupata) e di riprese panoramiche di Parigi, che servono a contestualizzare tutta la riflessione e a chiarirne gli aspetti cardinali.
Infine, su un quarto livello poniamo le riprese dentro al Louvre di oggi, con Marianne e Napoleone, che come già accennato non fanno altro che ribadirci la gravità del discorso, riposizionandoci filmicamente e fisicamente nel tempo delle nostre responsabilità. Rispetto agli sguardi di cui abbiamo detto, questi quattro livelli di racconto si intersecano continuamente, così da unirsi in un’unica materia spettacolare. Ciò che li unisce nella diversità è il tema: il museo come pretesto per parlare della Storia, che attraverso l’arte si manifesta in ogni epoca per guidarci e per sfidarci. È davvero significativo notare come a tredici anni di distanza da Arca Russa il racconto di un museo sia qui mutato sensibilmente: il montaggio e l’eterogeneità dei materiali la fanno da padrone, restituendoci un viaggio tanto mentale quanto quello compiuto all’Hermitage (che viene qui specularmente citato nella battaglia di San Pietroburgo, sempre tenendo le stesse implicazioni iniziali).
La Storia, ancora una volta fulcro del racconto, diventa stavolta multiforme, inafferrabile come le potenti onde che travolgono Dirk. Ogni livello della messa in scena e del racconto è qui un diverso volto con cui la Storia stessa può manifestarsi. Proprio in un momento in cui tutti noi ci sentiamo lontani dal processo storico, Sokurov ci invita a riflettere su quale sia il senso del nostro Passato, e di come possiamo approcciarci al meglio ad esso. Si tratta di un approccio fluido, che usa la memoria collettiva come mezzo per tornare a suscitare un’emozione vera, pura. Se ai tempi di Arca Russa il problema forse era solo nell’aria, ancora un miraggio degno di un sogno (o di un incubo), qui la questione ha ormai invaso le strade europee, i cieli continentali e gli edifici su cui ancora si regge il senso della nostra morale; e come vale per il Louvre vale anche per tutti gli altri musei.
Alla struttura filmica edificata dalla maestria del regista russo fa pendant la volontà di lavorare su una metafora tanto semplice quanto profonda, radicata nella mente e nella coscienza di tutti gli europei: l’occupazione nazista. Si tratta di una scelta che permette una riflessione dialettica fortemente polarizzata: cultura-oscurantismo, collaborazione-isolamento, identità-oblio, progresso-regresso (morale). Il museo viene in un certo senso dissezionato, svuotato di tutto ciò che lo rende un’icona mondiale finché non ne resta lo scheletro. La necessità di proteggere il patrimonio storico-artistico di un continente intero dai bombardamenti corrisponde all’attuale bisogno di schermare le opere dall’ignoranza, dall’apatia storica e dalle ideologie intransigenti: quello che ancora concorre a definirci come esseri umani è contenuto nei musei.
E in questo senso si vede tutta la novità del discorso di Sokurov: se in Arca Russa la Storia veniva riesumata filologicamente, richiedendoci un’adesione materiale, fisica ad essa anche grazie a una riproduzione mimetica della percezione umana, in Francofonia la narrazione storica diventa più libera e immaginifica, sinestesica e distaccata. Il dispositivo filmico si è rivelato del tutto e il rigore filologico dei costumi serve qui alla necessità della narrazione della Storia, non alla Storia in sé. L’arca non è più di legno resinoso come quella di Noè, ma ha assunto le sembianze di una nave cargo: alla Storia si è completamente sostituita la sua metafora.
E a tal proposito non è un caso che il finale di Francofonia sia l’uscita dal campo dell’inquadratura di Jaujard e Wolff-Metternich: i responsabili della cura e della protezione delle opere del Louvre sentono la voce di Sokurov che racconta loro tutto l’avvenire fino alla morte; ormai il racconto di quello che sono stati permette all’autore di liberarsi di loro fisicamente. Di conseguenza, anche il museo ha cambiato completamente aspetto: da luogo di visita e conservazione di opere è diventato un cantastorie, dove l’arte stessa contribuisce a farci viaggiare verso un’altra dimensione che non vuole affatto immedesimarsi in qualcosa che non le appartiene.
In conclusione: costruire una buona narrazione
L’analisi di una poetica autoriale è solo uno degli infiniti tentativi che possono essere fatti per provare a capire la relazione che esiste oggi tra cinema e musei. Le visioni a riguardo sono tante e tutte diverse tra loro, ma è certo che un grande artista come Sokurov sia un esempio da prendere il più possibile in considerazione. In pochi sono riusciti come lui a dare così ampio respiro a una materia complessissima, che ci costringe a caricare le spalle di responsabilità morali enormi, vere e proprie questioni di vita o di morte della nostra civiltà. Sokurov si è dimostrato sì preparato, ma soprattutto coraggioso, come dimostrano le soluzioni tecnico-stilistiche da lui adottate.
Narrare un museo con il cinema è oggi un vero e proprio salto della fede, poiché sia l’uno che l’altro sono a un punto di svolta epocale, nel pieno di una crisi identitaria che sta portando a soluzioni incredibili. Non bisogna però affatto parlare di queste soluzioni come di rimedi drastici, perché sono conseguenza di scelte che, seppur ardite, sono il frutto di un percorso secolare, ragionato e portato innanzi dalle menti più temerarie e brillanti.
Se riprendiamo le dimostrazioni di Sandro Bernardi già discusse, il cinema ha permesso ai musei di vedersi e guardarsi allo specchio, di cogliere in se stessi tutti i pregi e i difetti di un’Istituzione che faticherà sempre a stare al passo con i tempi, poiché si regge su valori e ideali che fortunatamente non conoscono la nozione di Tempo. Come ci insegna Sokurov, la strada continuerà in eterno ad essere lunga e impervia, ma come popolo, noi esseri umani abbiamo tutti gli strumenti necessari per andare avanti, nel nome della Storia e dei suoi ideali più puri: noi abbiamo e siamo i musei, ma soprattutto abbiamo il cinema per raccontarli e ridar loro la dignità che meritano.
NC-223
18.07.2024
Oggi molti musei sono spazi che consentono un tipo di fruizione multisensoriale: per essere accessibili a tutti, infatti, svariate strutture museali hanno dovuto fare i conti con i nuovi media e la loro capacità di restituirci esperienze virtuali sempre più "comode" e accattivanti. La presenza imperante di tutti questi dispositivi nella nostra quotidianità non è più un fattore da ignorare: se un tempo lo spazio sociale per eccellenza era l’Agorà, oggi tale funzione è ricoperta dalla rete e da tutti gli strumenti che vi consentono l’accesso.
Quindi, la sfida principale per tutti i musei odierni è quella di superare una forte crisi identitaria, dovuta al fatto che l’attrattività dei patrimoni storico-culturali in essi sono contenuti non soddisfa più le esigenze della collettività, ammaliata da tutt’altre forme di intrattenimento (culturale). La soluzione più semplice da adottare non è altro che quella di introdurre i musei stessi negli schermi, nei dispositivi che più ci intrattengono. Ciò non significa affatto mettere in secondo piano la loro ricchezza artistica, ma al contrario riplasmarla, riconfigurarla in modo tale da poter essere nuovamente un’esperienza degna di essere vissuta, magari anche dal vivo: l’esperienza virtuale deve porsi come anticamera dell’esperienza reale.
Giunti a questo punto, noi ci chiediamo: tra tutte le attuali esperienze mediali (e virtuali) a cui prendiamo parte, che cosa può fare il cinema per i musei? Come può il linguaggio filmico contribuire ad avvicinare gli spettatori a una collezione storico-artistica? Per prima cosa sarà necessario definire il cinema e la sua struttura.
Che cos’è il cinema?
Fin dalla sua nascita, ossia, ufficialmente, il 28 dicembre 1895 presso il Salon Indien del Grand Café al Boulevard Des Capucines di Parigi, data in cui i fratelli Lumière effettuarono la prima proiezione cinematografica per un pubblico pagante, è apparso subito chiaro come la natura del cinema non fosse soltanto industriale (e commerciale), quanto antropologica e storicamente connotata: nelle intenzioni di chi ha contribuito alla nascita e allo sviluppo di questo strumento, infatti, il cinematografo era la meta di un percorso che univa una lunga tradizione spettacolare (che risale a strumenti molto più antichi come la lanterna magica, i panorami, i diorami, il fenachitoscopio, il Mondo Nuovo, il taumatropio …) alla volontà positivistica di riprodurre tecnicamente il movimento e di dominare il mondo attraverso il proprio sguardo occidentale, ritenuto culturalmente superiore agli altri.
Già qui si palesa una doppia denotazione del filmico, oscillante tra la riproduzione tecnica di una porzione di realtà (il profilmico) e quello che il grande cineasta Michelangelo Antonioni definiva come “il mistero dell’immagine”, ossia la sua incomprensibile e inafferrabile spettacolarità, la quale fu colta inizialmente nel suo potenziale eversivo dal poliedrico artista Georges Méliès: il cinema è sempre riproduzione della realtà filtrata attraverso un preciso punto di vista, fornito di cultura e di mitopoiesi. Il cinema, non restituirà mai la realtà oggettiva così com’è. Un tratto non indifferente, specialmente per tutte quelle teorie filmiche che hanno tentato di cristallizzarne l’essenza attraverso i propri discorsi. Insomma, il cinema nasce e diventa immediatamente il massimo simbolo del progresso ottocentesco e il primo segno degli sviluppi artistici e tecnici che caratterizzeranno il XX secolo.
Tuttavia, come illustra Sandro Bernardi, alle origini il cinema è un dispositivo che non ha una caratterizzazione né artistica né totalmente finalistica, in quanto le numerose riprese effettuate dai vari operatori che furono inviati in quegli anni in tutto il mondo non fanno altro che mostrare la nostra “impossibilità di capire”. Più che uscirne dominatori, come ci faceva credere lo spirito del tempo di fine Ottocento, i filmati degli angoli più remoti del pianeta ci hanno dimostrato al contrario quanto siamo piccoli e lontani dalla verità, consentendoci piuttosto di prendere coscienza esclusiva del nostro atto di guardare, termine che, seguendo il percorso teorico dell’autore, non equivale semanticamente a vedere, ossia all’atto di captare sensibilmente la realtà attraverso il filtro della nostra cultura.
Il cinema è dunque, prima dell’integrazione narrativa e delle varie teorie sul montaggio, lo sguardo di chi, convinto della propria superiorità, scivola in un regno di incertezze e possibilità lontane, fino ad allora sconosciute e soltanto immaginate: noi siamo individui che non vedono, ma che guardano e che vengono guardati dai numerosi soggetti che passano curiosamente davanti all’obiettivo, ponendosi le nostre stesse domande. Tale eredità cognitiva finisce per diventare un tratto distintivo e imprescindibile del cinema, portandoci significativamente a concludere che, quando si parla del dispositivo cinematografico, si fa sempre riferimento a una dimensione che potremmo chiamare metalinguistica, la quale ci dice qualcosa non solo sul dispositivo filmico, ma anche sul nostro modo di guardare e vedere la realtà. Introduciamo così una delle caratteristiche chiave del mezzo cinematografico: lo sguardo, l’unione dell’atto del guardare con quanto riusciamo a capire. Tale concetto si ritrova dentro qualsiasi testo filmico, che si compone sempre di tre sguardi distinti ma interrelati:
- l’occhio della cinepresa.
- l’occhio del personaggio.
- l’occhio dello spettatore.
Ciò che accomuna le tre istanze è il tessuto socioculturale ed economico in cui si prepongono di comporre il film: tecnicamente parlando, un film muto degli anni ’20 non ha le stesse potenzialità espressive di un’opera audiovisiva degli anni ’60, e allo stesso modo i personaggi e gli spettatori che vi si identificano avrebbero nei due lassi di tempo dei valori e dei modelli di riferimento affatto diversi. Quindi, il cinema è pluridimensionale, di una complessità ottica la quale è sempre scindibile in queste tre componenti complementari, che contribuiscono alla costruzione di una determinata visione del mondo.
D’altro canto, lo sguardo cinematografico deve fare sempre i conti con un’altra sua componente essenziale, ossia l’organizzazione scenica del profilmico (quanto ne viene selezionato e come viene ripreso). Abbiamo in tal caso altri tre livelli di strutturazione del prodotto audiovisivo:
- la messa in scena («costituisce il momento in cui si definisce il mondo da rappresentare e lo si dota di tutti gli elementi che esso richiede o di cui esso ha bisogno» ).
- la messa in quadro, o inquadratura, che consiste nella modalità di raccolta e presentazione dei singoli contenuti (Gilles Deleuze, in Immagine-movimento, la definisce come «determinazione di un sistema chiuso, relativamente chiuso, che comprende tutto ciò che è presente all’interno dell’immagine, scene, personaggi, accessori» ).
- la messa in serie (il momento ultimativo dell’intervento umano, un tempo sulla pellicola), il cui oggetto di analisi è la sequenza, che, creata attraverso il montaggio, produce il senso ultimo del film.
Unitamente all’elenco precedente, queste due facce della stessa medaglia contribuiscono alla formazione di un vero e proprio testo filmico, la cui leggibilità è resa possibile proprio dalla regolazione di tutti i suoi elementi sintattico-grammaticali. È questo lo strumento imprescindibile affinché il cinema attui la sua comunicazione monodirezionale con lo spettatore, appunto fruitore e destinatario di un percorso autoriale (dunque ideologico) e linguistico.
Il momento dell’analisi: che cosa può fare il cinema per i musei?
In questo paragrafo ci dedicheremo all’analisi di due opere filmiche del regista russo Aleksandr Sokurov: Arca Russa (2002) e Francofonia (2015). L’intento sarà quello di comprendere non solo come possono interagire tra loro il cinema e i musei, ma anche come si è evoluta la narrazione di questo rapporto. Per tale motivo abbiamo preso in considerazione un’unica poetica autoriale, la quale nel nostro specifico caso ha dedicato molte energie al racconto dello spazio museale, fornendoci dunque i chiari segni di un cambiamento culturale e cognitivo nell’intesa che esiste tra gli individui e le loro istituzioni.
ARCA RUSSA
Arca Russa fu girato da Sokurov nel 2001, con l’aiuto di ventidue assistenti alla regia, più di ottocento attori e tre orchestre. Fu successivamente presentato al Festival di Cannes del 2002. La grande novità dell’opera, nonché principale peculiarità e motivo dell’impiego di così tante maestranze, fu il fatto di essere stata girata in unico piano-sequenza (vale a dire una ripresa senza stacchi di montaggio) di circa novanta minuti. Il film venne commissionato a Sokurov dal Ministero della Cultura della Federazione russa, ed interamente ambientato dentro le maestose stanze dell’Hermitage di San Pietroburgo, noto anche come Palazzo d’Inverno, un tempo residenza degli Zar, oggi museo e sede di una delle più importanti collezioni d’arte al mondo. La trama è molto semplice: un soggetto non identificato si ritrova come d’incanto catapultato all’Hermitage, dove ripercorrerà trecento anni di Storia russa (dalle origini del palazzo fino ad oggi) accompagnato da un bizzarro ambasciatore francese del XIX secolo.
Il protagonista di questa esperienza onirica non viene mai inquadrato, in quanto il suo punto di vista viene a coincidere direttamente con il nostro: infatti, il film è interamente girato in prima persona, riproducendo quelle condizioni d’immersività e immedesimazione tipiche dei videogiochi e della virtualità a cui oggi siamo pienamente abituati (e assuefatti). Sokurov attua qui una prima scelta fondamentale: la coincidenza del nostro sguardo con il suo (la cinepresa) fa sì che l’opera ricrei una tipica esperienza museale, ossia un girovagare “flâneuristico”, qui inoltre caratterizzata dalla presenza di una vera e propria guida, ovvero il personaggio con cui ci interfacciamo costantemente lungo tutta la narrazione, il marchese Astolphe di Custine (scrittore e viaggiatore realmente esistito. La scelta di introdurre questo goffo interlocutore è fondamentale per due ragioni: anzitutto, egli definisce e conferma la nostra presenza in quanto istanza fisica e narrativa, e secondariamente riduce di molto la distanza che ci separa dalla messa in scena.
L’ambasciatore francese condivide con noi lo sguardo incantato e curioso, arricchito da commenti opinabili e da atteggiamenti perfettamente associabili a quelli di un turista nostro contemporaneo, che associa alle opere la propria esperienza di vita. Non è inoltre un caso che si sia scelto un personaggio storico che non ha nulla a che vedere con il popolo russo e con la sua Storia, di cui si burla costantemente, poiché ci consente con la sua spavalderia di porci delle domande, di leggere i simboli sotto nuove prospettive. Questi primi dettagli, a fronte di quanto dissertato nei paragrafi precedenti, ci consentono di riallacciarci alla questione degli sguardi cinematografici. In Arca Russa abbiamo infatti una costruzione visiva concettualmente molto complessa, in quanto il nostro punto di vista coincide perfettamente con quello della cinepresa e lo sguardo del personaggio si definisce solo in rapporto al nostro (e dunque anche a quello dell’autore).
Tale interrelazione visiva è di fondamentale importanza poiché serve perfettamente la causa, ossia la costante (ri)messa in discussione dei valori e dei significati di cui un museo (qui l’Hermitage), un’Istituzione, si fa portavoce. Sokurov pone in costante confronto la razionalità, l’incontestabile logica storica e culturale del Palazzo d’Inverno con il diverso, con l’Altro, con gli spettri del tempo e le affermazioni di un intellettuale da noi lontano. Secondo quanto detto in precedenza, ciò che accomuna le tre istanze dello sguardo cinematografico è il tessuto socioculturale di riferimento, che qui però diventa multiplo: la nostra cognizione di causa si miscela con il sogno autoriale e con l’asincronia intellettuale del marchese. Tre visioni completamente staccate e alterate sia da un punto di vista spazio-temporale, sia da un punto di vista valoriale. In tal modo, come già anticipato, saltano tutti i riferimenti, che devono essere perciò ricostruiti attraverso il progressivo confronto con la materialità della Storia, e dunque con l’esplorazione dei vari ambienti e simboli del palazzo.
Lo stesso procedimento logico viene attuato anche attraverso la messa in scena e la successiva costruzione sintattica della stessa. A livello del profilmico, infatti, Sokurov lavora su veri e propri tableau vivants: si ricostruiscono e si reinterpretano momenti significativi dell’ufficialità (il ricevimento dell’ambasciatore di Persia), della quotidianità (Caterina la Grande con le sue figlie) e dell’attualità (i visitatori nostri contemporanei che ammirano le collezioni d’arte) dell’Hermitage. A quello che può sembrare un rigore filologico fa da contraltare la voice off del regista, che parlando per noi e mimando il nostro spaesamento tenta di andare oltre ciò che vediamo, quasi a voler comprendere dei significati ulteriori, che la Storia ha in realtà sepolto per sempre. A livello propriamente filmico, invece, Sokurov non costruisce una netta distinzione tra campo e fuoricampo, tra il visibile e il possibile, ricreando una percezione spettatoriale irrequieta, sempre alla ricerca di qualche dettaglio da scoprire, che sia una decorazione, un quadro o un evento storico.
Abbiamo detto anche che a livello tecnico non c’è montaggio (il piano-sequenza non lo prevede), ma ciò non significa che il regista russo non abbia dato al suo lavoro un ritmo e una densità narrativa ben precisi: se, come sosteneva Ėjzenštejn, ogni opera d’arte presenta in sé un montaggio (ossia un’organizzazione sintattico-grammaticale che guidi il fruitore), allora anche in Arca Russa tale principio è ampiamente confermato. Infatti, ogni volta che viene passato uno degli ampi portali che dividono tra loro le sale del palazzo, attraverso cui siamo scortati dalla casualità degli incontri non sempre felici, veniamo catapultati in un contesto storico (e dunque culturale) diverso. La narrazione della Storia russa e della storia del film non è perciò lineare non solo temporalmente, ma anche spazialmente: quest’ultimo dettaglio è fondamentale perché la geometria del museo, la sua denotazione storica viene riconsiderata in un’ottica nuova, incerta e sempre discutibile. Passare da un ambiente all’altro vuol dire quindi compiere dei vorticosi salti, nel tempo e nei suoi simboli, che annichiliscono ogni possibile staticità logocentrica.
Per concludere questa prima analisi è necessario porre l’accento sulle derive della trama seguita da Sokurov. Non è affatto casuale che sia un incipit onirico, in cui ci ritroviamo dopo che la voice off del narratore ha detto di ricordarsi solo di una disgrazia avvenuta poco prima, a dare il via a tutto il nostro percorso: il sogno ci libera dalle catene dei simboli e della logica, dandoci il potere di uscire dagli schemi, alla ricerca di sensi profondi. E non è altrettanto casuale il finale: a un grande ballo, momento supremo di celebrazione scenica e ideale dell’Hermitage, segue il nostro arrivo all’uscita principale, assieme a tutti gli altri spettri, dove ci attende un mare sconosciuto e sconfinato.
Questo epilogo riassume tutto il senso del titolo e del tour appena concluso, ossia che l’arca russa è lo stesso Hermitage, che con tutta la sua Storia e i suoi valori si ritrova a navigare senza meta per condurci verso nuovi orizzonti. In questa parabola si intravede tutto il senso della nostra riflessione, dei prodromi di una crisi che ai tempi era probabilmente soltanto iniziata. Ma proprio questo dimostra la grandezza del lavoro di Sokurov, capace di indagare il problema del nostro patrimonio umano alla luce di una narrazione tecnicamente e strutturalmente innovativa, ma non risolutiva. Qui ciò che conta è mettere in luce un problema, tornare a porsi delle domande essenziali: qual è la missione del museo, depositario della nostra identità umana?
FRANCOFONIA
“Chi saremmo noi senza i musei?”
Passiamo adesso a un lavoro più recente, risalente per l’esattezza al 2015. Coprodotto dalla Arte France Cinéma e dal Louvre, il film è stato presentato alla 74° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, per poi passare ad altri festival internazionali e nelle sale per un breve periodo. Francofonia parla del Louvre, in cui è ambientato per larga parte e di cui narra la travagliata esistenza durante l’occupazione nazista. Nonostante molti critici e fan avessero inizialmente pensato a un sequel ideale del precedente Arca Russa, Sokurov ha deciso invece di riprendere solo alcuni topoi del film precedente, lavorando qui con un metodo di montaggio tradizionale, ma arrivando ugualmente a degli esisti estetici innovativi. Il racconto degli eventi storici è legato in Francofonia a un pretesto narrativo che parrebbe effettivamente il prosieguo di quanto visto nel finale di Arca Russa: Sokurov tenta disperatamente di comunicare in videochiamata con il capitano Dirk, comandante di un cargo olandese che sta affrontando una tremenda tempesta proprio mentre trasporta delle opere d’arte.
L’esordio di Francofonia è davvero brillante. Sokurov rifiuta qui qualsiasi mediazione diegetica, e pone se stesso al centro della narrazione, con tutti i suoi dubbi e le sue disquisizioni. Lo vediamo dentro la sua stessa casa mentre cerca di contattare in video il capitano. Il loro breve incontro sarà l’incidente scatenante, l’inizio di tutta la lunga riflessione che pone al centro l’identità dei musei di tutto il mondo. Noi non siamo più immedesimati in un punto di vista fittizio, ma rimaniamo al nostro posto come semplici interlocutori silenti, telespettatori urgenti di una deriva del pensiero. Ogni tanto ci rivediamo dentro le mura del Louvre, ma oltre a essere solo una parte di tutto il lavoro, questi momenti non ci introducono come visitatori, ma come testimoni, depositari di una Coscienza umana (e ciò lo si capisce anche dai movimenti aerei di macchina e dalle repentine e nette ellissi di montaggio).
Anche qui, entro le mura del Louvre, ritroviamo dei personaggi: la Marianne (personificazione della Repubblica francese) e Napoleone Bonaparte, che tuttavia restano vaporosi, eterei quanto i discorsi autarchici del generale e il motto nazionale ripetuto come un disco rotto dall’allegoria francese. Anche quando poi ci rapportiamo con i personaggi storici Jacques Jaujard e Franziskus Wolff-Metternich, continua a notarsi la distanza con l’altro film: in primis la vicinanza a loro è già disvelata nella sua finzione (l’uso dei filtri filmici e la dichiarazione esplicita della voce narrante prima del ciak che li introduce in scena), in secundis Sokurov ci rende semplici accompagnatori e non protagonisti in quanto è lui stesso che si frappone esplicitamente. Il compito di tutti questi personaggi non è di guidarci o avvicinarci, ma di ammonirci, di tenerci col fiato sospeso affinché la causa presa a cuore dal grande autore russo venga da noi interiorizzata. E a ribadire perentoriamente i ruoli assunti qui dai tre diversi sguardi coinvolti ci pensa, come già accennato, il disvelarsi stesso del racconto filmico: nei primi nove minuti la voce narrante di Sokurov accenna più volte al fatto che deve ancora terminare le riprese, dopodiché la narrazione vera e propria comincia con un vistoso ciak fatto da un operatore.
A differenza di Arca Russa, dunque, i ruoli dei tre punti di vista (cinepresa-autore, personaggi, spettatori) rimangono perfettamente staccati, entrando però in un dialogo urgente, che richiede proprio che ognuno faccia il suo, mantenendo definiti i ruoli. Anche a livello di messa in scena bisogna segnalare le dovute divergenze rispetto al film precedentemente analizzato. I livelli scenici di Francofonia sono multipli: abbiamo un racconto che fa da cornice, le vicende di Sokurov e Dirk, mostrato senza orpelli tecnici (si prediligono poche inquadrature fisse degli interni); poi c’è una narrazione propriamente filmica, giocata tutta sul montaggio e sul disvelamento dei meccanismi cinematografici (tutto ciò che riguarda le figure di Jacques Jaujard e Franziskus Wolff-Metternich) con l’impiego di filtri e attori, la quale vuole ricostruire e reinterpretare gli eventi storici; a ciò si uniscono l’uso di materiali d’archivio (anche qui introdotti con la visione di due operatori parigini che filmano di nascosto la capitale francese occupata) e di riprese panoramiche di Parigi, che servono a contestualizzare tutta la riflessione e a chiarirne gli aspetti cardinali.
Infine, su un quarto livello poniamo le riprese dentro al Louvre di oggi, con Marianne e Napoleone, che come già accennato non fanno altro che ribadirci la gravità del discorso, riposizionandoci filmicamente e fisicamente nel tempo delle nostre responsabilità. Rispetto agli sguardi di cui abbiamo detto, questi quattro livelli di racconto si intersecano continuamente, così da unirsi in un’unica materia spettacolare. Ciò che li unisce nella diversità è il tema: il museo come pretesto per parlare della Storia, che attraverso l’arte si manifesta in ogni epoca per guidarci e per sfidarci. È davvero significativo notare come a tredici anni di distanza da Arca Russa il racconto di un museo sia qui mutato sensibilmente: il montaggio e l’eterogeneità dei materiali la fanno da padrone, restituendoci un viaggio tanto mentale quanto quello compiuto all’Hermitage (che viene qui specularmente citato nella battaglia di San Pietroburgo, sempre tenendo le stesse implicazioni iniziali).
La Storia, ancora una volta fulcro del racconto, diventa stavolta multiforme, inafferrabile come le potenti onde che travolgono Dirk. Ogni livello della messa in scena e del racconto è qui un diverso volto con cui la Storia stessa può manifestarsi. Proprio in un momento in cui tutti noi ci sentiamo lontani dal processo storico, Sokurov ci invita a riflettere su quale sia il senso del nostro Passato, e di come possiamo approcciarci al meglio ad esso. Si tratta di un approccio fluido, che usa la memoria collettiva come mezzo per tornare a suscitare un’emozione vera, pura. Se ai tempi di Arca Russa il problema forse era solo nell’aria, ancora un miraggio degno di un sogno (o di un incubo), qui la questione ha ormai invaso le strade europee, i cieli continentali e gli edifici su cui ancora si regge il senso della nostra morale; e come vale per il Louvre vale anche per tutti gli altri musei.
Alla struttura filmica edificata dalla maestria del regista russo fa pendant la volontà di lavorare su una metafora tanto semplice quanto profonda, radicata nella mente e nella coscienza di tutti gli europei: l’occupazione nazista. Si tratta di una scelta che permette una riflessione dialettica fortemente polarizzata: cultura-oscurantismo, collaborazione-isolamento, identità-oblio, progresso-regresso (morale). Il museo viene in un certo senso dissezionato, svuotato di tutto ciò che lo rende un’icona mondiale finché non ne resta lo scheletro. La necessità di proteggere il patrimonio storico-artistico di un continente intero dai bombardamenti corrisponde all’attuale bisogno di schermare le opere dall’ignoranza, dall’apatia storica e dalle ideologie intransigenti: quello che ancora concorre a definirci come esseri umani è contenuto nei musei.
E in questo senso si vede tutta la novità del discorso di Sokurov: se in Arca Russa la Storia veniva riesumata filologicamente, richiedendoci un’adesione materiale, fisica ad essa anche grazie a una riproduzione mimetica della percezione umana, in Francofonia la narrazione storica diventa più libera e immaginifica, sinestesica e distaccata. Il dispositivo filmico si è rivelato del tutto e il rigore filologico dei costumi serve qui alla necessità della narrazione della Storia, non alla Storia in sé. L’arca non è più di legno resinoso come quella di Noè, ma ha assunto le sembianze di una nave cargo: alla Storia si è completamente sostituita la sua metafora.
E a tal proposito non è un caso che il finale di Francofonia sia l’uscita dal campo dell’inquadratura di Jaujard e Wolff-Metternich: i responsabili della cura e della protezione delle opere del Louvre sentono la voce di Sokurov che racconta loro tutto l’avvenire fino alla morte; ormai il racconto di quello che sono stati permette all’autore di liberarsi di loro fisicamente. Di conseguenza, anche il museo ha cambiato completamente aspetto: da luogo di visita e conservazione di opere è diventato un cantastorie, dove l’arte stessa contribuisce a farci viaggiare verso un’altra dimensione che non vuole affatto immedesimarsi in qualcosa che non le appartiene.
In conclusione: costruire una buona narrazione
L’analisi di una poetica autoriale è solo uno degli infiniti tentativi che possono essere fatti per provare a capire la relazione che esiste oggi tra cinema e musei. Le visioni a riguardo sono tante e tutte diverse tra loro, ma è certo che un grande artista come Sokurov sia un esempio da prendere il più possibile in considerazione. In pochi sono riusciti come lui a dare così ampio respiro a una materia complessissima, che ci costringe a caricare le spalle di responsabilità morali enormi, vere e proprie questioni di vita o di morte della nostra civiltà. Sokurov si è dimostrato sì preparato, ma soprattutto coraggioso, come dimostrano le soluzioni tecnico-stilistiche da lui adottate.
Narrare un museo con il cinema è oggi un vero e proprio salto della fede, poiché sia l’uno che l’altro sono a un punto di svolta epocale, nel pieno di una crisi identitaria che sta portando a soluzioni incredibili. Non bisogna però affatto parlare di queste soluzioni come di rimedi drastici, perché sono conseguenza di scelte che, seppur ardite, sono il frutto di un percorso secolare, ragionato e portato innanzi dalle menti più temerarie e brillanti.
Se riprendiamo le dimostrazioni di Sandro Bernardi già discusse, il cinema ha permesso ai musei di vedersi e guardarsi allo specchio, di cogliere in se stessi tutti i pregi e i difetti di un’Istituzione che faticherà sempre a stare al passo con i tempi, poiché si regge su valori e ideali che fortunatamente non conoscono la nozione di Tempo. Come ci insegna Sokurov, la strada continuerà in eterno ad essere lunga e impervia, ma come popolo, noi esseri umani abbiamo tutti gli strumenti necessari per andare avanti, nel nome della Storia e dei suoi ideali più puri: noi abbiamo e siamo i musei, ma soprattutto abbiamo il cinema per raccontarli e ridar loro la dignità che meritano.