INT-20
03.02.2023
Benoît Debie, nato a Liège, in Belgio, nel 1968, è uno dei più significativi direttori della fotografia europei contemporanei. Con Irréversible (2002), opera che ha segnato il suo debutto al cinema dopo una lunga esperienza in campo pubblicitario, ha inaugurato un’intensa, e fedelissima, collaborazione con Gaspar Noè. Nella lista degli autori con i quali ha lavorato figurano anche Lucile Hadžihalilović (Innocence, 2004), Dario Argento (Il cartaio, 2004), Jacques Audiard (I fratelli Sisters, film del 2018 per cui ha ricevuto la sua prima candidatura ai premi Magritte), Fabrice Du Welz (Calvaire, del 2004, e Vinyan, del 2008) e Wim Wenders (Every Thing Will Be Fine, del 2015, Les Beaux Jours d'Aranjuez, del 2016, e Submergence, del 2017). Membro della Belgian Society of Cinematographers, è stato chiamato in America a girare il cult Spring Breakers (2012), di Harmony Korine - con cui ha anche collaborato per The Beach Bum (2019) - e Lost River (2014), debutto alla regia dell’attore Ryan Gosling.
Abbiamo avuto la fortuna di intervistarlo, e di parlare con lui del suo lavoro sul set e dell’approccio adoperato nei film di Gaspar Noè.
Qual è stata la tua formazione e la tua gavetta come direttore della fotografia? Come hai conosciuto Gaspar Noè?
Ho frequentato una scuola di cinema in Belgio, che si chiamava Institut des arts de diffusion, situata a Bruxelles. Lì ho studiato la fotografia cinematografica per due anni, ed è stato quello il primo approccio al mio lavoro. Quando ho terminato la scuola, ho iniziato a lavorare come assistente operatore su set di corti e lungometraggi, e ho lavorato per due anni anche in televisione. Ho iniziato in Belgio, e in Belgio quando sei molto giovane non è facile essere un direttore della fotografia, devi imparare molto prima di iniziare a gestire in prima persona la macchina da presa e le luci. Molto tempo fa Gaspar venne in Belgio a mostrare il suo film Seul contre Tous (I Stand Alone, 1998), la sua opera prima, e io avevo girato un cortometraggio che venne proiettato immediatamente prima del suo film. Gaspar vide il mio corto, venne da me e mi disse: «Mi è piaciuto lo stile visivo del tuo film», e parlammo solo di quello per mezz’ora. Sei mesi dopo mi richiamò per girare Irrèversible, e a partire da quello mi sono occupato di tutti i suoi film.
Irréversible, oltre alla cronologia al contrario, mostra angoli di inquadratura molto estremi e lunghi piani sequenza che torneranno anche in Enter the Void (2009). Irréversible si apre con un unico, lungo, piano sequenza che attraversa tutta la camera del personaggio di Philippe Nahon prima di uscire a mostrare le strade di Parigi. Come lavori per realizzare inquadrature come questa?
Nel caso del piano sequenza iniziale di Irréversible la prima parte - quella in interni in cui Philippe Nahon e il suo amico parlano - la girammo con la camera a mano. Quando la macchina da presa esce fuori dalla finestra usammo un technocrane, che continua a muovere la macchina fino a quando non entra dentro il club gay, il club Rectum. Quando la macchina da presa va dall’interno all’esterno della stanza c’è un morph e un fade in/fade out fra due inquadrature - una in interni e una in esterni - cosicché anche se sembra un unico piano sequenza quella parte del film è composta, in realtà, da due diverse inquadrature. Quello che facemmo per Enter the Void era grossomodo lo stesso tipo di esperienza. Giravamo lunghi piani sequenza, il film, visivamente, sembra essere stato girato tutto in un unico piano sequenza, ma ovviamente fra due diverse inquadrature c’erano sempre degli altri morph o nuovi fade in/fade out.
Ci puoi dire qualcosa sull’esperienza di girare Love (2015) in 3D? La realizzazione di quel film è stata diversa dalla tua precedente esperienza con il 3D per Every Thing Will Be Fine di Wim Wenders?
Quando girai Every Thing Will Be Fine con Wim Wenders quello era il mio primo lungometraggio in 3D, per cui su quel set ho imparato come girare in 3D e come «prendersi cura» di questo strumento. Wim ed io non volevamo fare grandi effetti visivi o qualcosa di troppo simile ai classici film americani, ci tenevamo molto a mantenerci sobri con il 3D. Quando finii di girare quel film dissi a Gaspar: «Sai, sarebbe fico girare Love nella stessa maniera», e lui mi rispose «Certo, ma sarebbe costoso, richiederebbe grandi macchine da presa e una troupe numerosa», e io dissi «No, con Wim abbiamo girato in una maniera piuttosto semplice». L’idea di base per Love era di girare in un modo piuttosto sperimentale, con una troupe molto piccola, eravamo probabilmente solo in 12 sul set, era più come girare con la troupe di un cortometraggio. Gaspar aveva deciso di non avere troppe persone sul set per non disturbare gli attori, per cui era abbastanza preoccupato sul 3D, ma io lo rassicurai che c’era un modo per girare in tre dimensioni senza grossi numeri di troupe o di budget. La differenza fra Love ed Everything Will Be Fine è essenzialmente che in Love spostavamo molto raramente la macchina da presa. Credo che sia stata la prima volta per Gaspar ma decidemmo di girare principalmente inquadrature fisse per non disturbare il pubblico perchè, quando giri in 3D, se l’inquadratura si muove troppo il cervello dello spettatore non riesce a seguire le azioni dei personaggi, e il risultato disturba.
In conclusione sei rimasto più soddisfatto dell’esperienza con il 3D su Love?
Ciò che ho amato di Love è stato quel modo di vedere i corpi quasi come se fossero sculture, tu vedi due persone insieme a letto come dal vivo, è qualcosa di abbastanza unico. Mentre stavamo girando non potevo vedere esattamente quello che stava succedendo con il 3D, quando sei sul set non puoi vedere subito il risultato, ma alla fine sono rimasto impressionato. Per me Love più che un film è un’opera d’arte, lo amo molto perché è qualcosa di diverso dall’abituale esperienza cinematografica, è un modo nuovo di mostrare un film al pubblico. Every Thing Will Be Fine di Wim è più che altro un road movie - ci spostavamo con la macchina da presa per inquadrare diversi panorami - invece quello di Gaspar è un film più intimista e di interni, probabilmente anche più claustrofobico e cupo, parla di due persone che si amano con una macchina da presa piuttosto statica.
Il successivo film di Gaspar Noè, Climax (2018), ha avuto un processo produttivo molto particolare, con delle riprese molto rapide e buona parte del film totalmente improvvisato. Tenendo conto di queste indicazioni registiche in che modo hai impostato la fotografia di Climax? Con quali luci hai creato la sua caratteristica palette?
L’idea alla base di Climax era quella di girare un film in un modo molto veloce, avevamo pianificato due settimane, quindi dieci giorni di riprese, alla fine girammo un po’ più a lungo, più o meno quindici giorni, ma in ogni caso non più di tre settimane. A livello di illuminazione impostammo l’intero edificio - quella vecchia scuola abbandonata - in modo da essere nella condizione di girare lunghi piani sequenza tutti in un’unica inquadratura all’interno dell’intera struttura. Subito prima di Climax ho girato Beach Bum (2019) di Harmony Korine, e per la prima volta ho sperimentato i tubi al LED noti come Astera. A quei tempi erano una novità assoluta, penso di essere stato fra i primissimi ad usare un’apparecchiatura di questo tipo, e dissi a Gaspar che magari potevamo usarla anche per Climax, in modo da poter regolare l’inquadratura o cambiare un colore già sul set. Lui disse «Okay, proviamola», e dovemmo far comprare alla produzione degli Astera, perché Climax era il primo film in Francia ad usare questa apparecchiatura, per cui comprammo 62 LED e coprimmo l’intera scena con questi.
Di Climax è particolarmente impressionante un piano sequenza di 42 minuti all’interno della scuola abbandonata che, senza apparentemente mai fermarsi, segue la danza macabra dei protagonisti ormai deliranti. Come hai impostato la macchina da presa per una sequenza tanto lunga? Hai usato un braccio meccanico o un altro equipaggiamento? Quante take vi sono servite prima di arrivare a quella giusta?
A livello di macchina da presa, la sequenza di apertura con tutti i ballerini che danzano la realizzammo con un technocrane. Quell’inquadratura ci prese due giorni prima che arrivassimo alla giusta take. Tutti gli altri piani sequenza del film avevano invece due o tre tagli invisibili, come in Irréversible, non so dirti esattamente dove - perché abbiamo girato il film anni fa - ma l’idea era di dare l’impressione che ogni sequenza fosse girata tutta in una volta. Tutti i movimenti di camera sono stati realizzati con la macchina a mano, non abbiamo usato dolly o bracci meccanici o steadycam, anche se l’inquadratura sembra molto stabile. Quello che abbiamo fatto è stato impostare un’inquadratura più ampia, con un angolo piuttosto ampio, una vecchia Zeiss 12 millimetri, e in post-produzione Gaspar poteva stabilizzare un po’ l’immagine se la macchina da presa si muoveva troppo, o zoomarla o aggiustare l’inquadratura o a volte addirittura ruotarla. Sul set tutto veniva improvvisato, Gaspar trovava il modo di raccontare la storia quando eravamo già nella location, si è trattato di un’esperienza piuttosto sperimentale e unica perché avevamo dieci giorni per realizzare quel film, e avevamo un budget ridotto, per cui potevamo permetterci solo una troupe di pochi elementi, ma penso che questo sia un modo in cui Gaspar ama girare, e che anch’io ho apprezzato. Quando lavoro con Gaspar cerchiamo sempre di ottenere qualcosa di sperimentale e mai tentato prima, non conosco un altro regista che lavori in questo modo, a volte lui gira solo un’inquadratura al giorno ma prende il suo tempo per girarla al meglio e nel modo in cui lui la vuole.
Ho letto che una delle particolarità dello stile di regia di Gaspar Noé è il fatto che lui generalmente è anche l’operatore di macchina. Questo è vero per tutti i suoi film e grosso modo per tutte le scene? Come ti coordini con Noé per quanto riguarda l’inquadratura e i movimenti di macchina?
Con Gaspar è diverso dal solito: negli altri film in cui lavoro faccio anche da operatore, con Gaspar è generalmente lui a tenere la macchina da presa. Questo è piuttosto interessante perché Gaspar ha un modo di lavorare molto istintivo, gli piace girare personalmente le scene perché avere un operatore sarebbe una complicazione. Quando trova l’inquadratura lui ha un’idea molto chiara sui movimenti di macchina ed è l’unica persona che la può mettere in pratica, non può dire a un operatore esattamente cosa vuole fare, Gaspar deve girare per forza così. Quando lavoriamo insieme, a volte, preferisco che lui decida direttamente i movimenti della macchina da presa. All’inizio della nostra collaborazione girava quasi sempre da solo, adesso invece, dal momento che abbiamo lavorato su molti film assieme, generalmente condividiamo la macchina da presa. Gaspar gira una take e per la successiva mi dice «Sai cosa fare», e di solito ci prendiamo il tempo di trovare l’inquadratura assieme, e anche di trovare una coreografia dei movimenti di macchina. In ogni caso dipende dalla singola inquadratura: ad esempio in Enter the Void ricordo di aver girato io le scene in cui la macchina da presa segue il protagonista - essenzialmente perché ero alto quanto lui - o nelle inquadrature che richiedono il technocrane sono io a manovrare la cinepresa. Gaspar, però, mi piace come operatore perché lui si affida al suo istinto, e questa è un’ottima cosa.
Lucile Hadžihalilović, compagna e collaboratrice di Noè ma anche regista in proprio, crea film molto diversi da quelli di Gaspar Noé. Come sei entrato nel mondo del misterioso collegio femminile di Innocence?
Quando ho girato Innocence con Lucile il suo approccio era molto particolare. A Gaspar e Lucile piace lo stesso genere di cinema, per cui mi chiedono lo stesso approccio in termini di luce, ma Innocence era un film piuttosto diverso da quelli di Gaspar. Nell’idea di Lucile era più che altro una successione di immagini, per cui non dovevamo spostare la macchina da presa, tutto il film è composto, quasi esclusivamente, da inquadrature fisse eccetto per qualche scena con la Steadicam. Usavamo sempre le stesse lenti, di 14mm, in Super 16, in modo da avere soltanto la visione della storia, del luogo, dell’innocenza delle protagoniste. Stavamo girando con delle bambine per cui non era sempre facile evitare che qualcuna andasse fuori campo, e allora decidemmo di mantenere una certa inquadratura, e se una o due delle bambine sarebbero uscite fuori dai bordi delle immagini non sarebbe stato un problema poiché questo faceva parte dell’idea di base del film.
Quali differenze e quali somiglianze hai trovato fra gli stili di Noè e della Hadžihalilović? Come è cambiato il tuo approccio riguardo alla fotografia e all’impostazione della macchina da presa sul set di Innocence, rispetto agli altri film che avevi fatto con Noè?
Penso sia difficile fare un confronto tra Gaspar e Lucile, a loro piacciono le stesse cose ma una volta sul set sono completamente diversi. Per quanto riguarda l’illuminazione dei film di Lucile e Gaspar, entrambi tendono a usare il meno possibile luci artificiali. Quando ho girato Innocence di Lucile, o tutti i film fatti con Gaspar, mi chiedevano entrambi di fare la stessa cosa, stavamo di fatto illuminando la scena senza nessuna luce aggiuntiva, affidandoci unicamente su quelle che erano già parte del set. In modo particolare per Innocence abbiamo giocato molto con la luce del sole e con le lampadine presenti nella scenografia. Anche se propendono entrambi per la luce naturale, il lavoro per me non è affatto lo stesso, perché quando devi realizzare come direttore della fotografia inquadrature fisse è molto diverso rispetto a quando lavori a scene in movimento. Anche in termini di impostazione della macchina da presa loro sono molti diversi, ad esempio sia Innocence che Irréversible sono stati girati in Super 16, ma con due lenti diverse: Innocence era a 14mm, Irréversible se non ricordo male a 12.
Cosa ricordi dell’esperienza sul set di Innocence?
Girare Innocence è stata un’esperienza bellissima, penso che quel film avesse qualcosa di unico. Mi piaceva anche la sceneggiatura, mi piace anche il fatto che questo film sarebbe difficile da realizzare adesso perché ogni distributore vuole fare incassi, vuole solo fare successo al botteghino. I film come Innocence non sono fatti per un grande pubblico o per l’incasso, è solo un’esperienza, solo un esperimento per fare qualcosa di diverso. Questo è il motivo per cui mi piacciono opere di questo tipo e questo è il motivo per cui rispetto molto Lucile che tenta sempre di fare film in questo senso, senza mai tentare qualcosa di commerciale.
Il corpo umano, e soprattutto il cosiddetto nudo estetico, ha sempre ricevuto grande attenzioni dalle varie branche dell’arte. Il cinema ha dato un nuovo impulso alla riflessione sul corpo e sulla sessualità umana. Come lavori per inquadrare i corpi? Come pensi sia cambiata la rappresentazione della sessualità al cinema da quando hai iniziato la tua carriera come direttore della fotografia?
Quando giro una scena di nudo in un film ovviamente dipende dal singolo film ma per me in generale è più come una forma d’arte, un’opera d’arte, non è mai la nudità fine a sé stessa. Nei film che ho girato con Gaspar o con Harmony Korine non abbiamo puntato a mostrare semplicemente dei nudi, era più un modo per giocare con l’estetica e per catturare un momento della storia. Sicuramente adesso i produttori sono piuttosto preoccupati riguardo le scene di sesso, e se sono troppo ricorrenti o troppo esplicite è difficile finanziare o distribuire un film, ma generalmente quando inquadro dei corpi nudi è sempre parte di una sequenza di scene, è sempre parte di una storia. Ultimamente faccio più attenzione, ma il mio approccio è lo stesso di sempre: quando ci sono dei nudi valuto innanzitutto il tipo di film che sto girando e di cosa parla la storia, e poi provo a tradurre nel modo più fedele possibile in immagine quello che trovo nella sceneggiatura, sicuramente anche in termini di bellezza del corpo.
INT-20
03.02.2023
Benoît Debie, nato a Liège, in Belgio, nel 1968, è uno dei più significativi direttori della fotografia europei contemporanei. Con Irréversible (2002), opera che ha segnato il suo debutto al cinema dopo una lunga esperienza in campo pubblicitario, ha inaugurato un’intensa, e fedelissima, collaborazione con Gaspar Noè. Nella lista degli autori con i quali ha lavorato figurano anche Lucile Hadžihalilović (Innocence, 2004), Dario Argento (Il cartaio, 2004), Jacques Audiard (I fratelli Sisters, film del 2018 per cui ha ricevuto la sua prima candidatura ai premi Magritte), Fabrice Du Welz (Calvaire, del 2004, e Vinyan, del 2008) e Wim Wenders (Every Thing Will Be Fine, del 2015, Les Beaux Jours d'Aranjuez, del 2016, e Submergence, del 2017). Membro della Belgian Society of Cinematographers, è stato chiamato in America a girare il cult Spring Breakers (2012), di Harmony Korine - con cui ha anche collaborato per The Beach Bum (2019) - e Lost River (2014), debutto alla regia dell’attore Ryan Gosling.
Abbiamo avuto la fortuna di intervistarlo, e di parlare con lui del suo lavoro sul set e dell’approccio adoperato nei film di Gaspar Noè.
Qual è stata la tua formazione e la tua gavetta come direttore della fotografia? Come hai conosciuto Gaspar Noè?
Ho frequentato una scuola di cinema in Belgio, che si chiamava Institut des arts de diffusion, situata a Bruxelles. Lì ho studiato la fotografia cinematografica per due anni, ed è stato quello il primo approccio al mio lavoro. Quando ho terminato la scuola, ho iniziato a lavorare come assistente operatore su set di corti e lungometraggi, e ho lavorato per due anni anche in televisione. Ho iniziato in Belgio, e in Belgio quando sei molto giovane non è facile essere un direttore della fotografia, devi imparare molto prima di iniziare a gestire in prima persona la macchina da presa e le luci. Molto tempo fa Gaspar venne in Belgio a mostrare il suo film Seul contre Tous (I Stand Alone, 1998), la sua opera prima, e io avevo girato un cortometraggio che venne proiettato immediatamente prima del suo film. Gaspar vide il mio corto, venne da me e mi disse: «Mi è piaciuto lo stile visivo del tuo film», e parlammo solo di quello per mezz’ora. Sei mesi dopo mi richiamò per girare Irrèversible, e a partire da quello mi sono occupato di tutti i suoi film.
Irréversible, oltre alla cronologia al contrario, mostra angoli di inquadratura molto estremi e lunghi piani sequenza che torneranno anche in Enter the Void (2009). Irréversible si apre con un unico, lungo, piano sequenza che attraversa tutta la camera del personaggio di Philippe Nahon prima di uscire a mostrare le strade di Parigi. Come lavori per realizzare inquadrature come questa?
Nel caso del piano sequenza iniziale di Irréversible la prima parte - quella in interni in cui Philippe Nahon e il suo amico parlano - la girammo con la camera a mano. Quando la macchina da presa esce fuori dalla finestra usammo un technocrane, che continua a muovere la macchina fino a quando non entra dentro il club gay, il club Rectum. Quando la macchina da presa va dall’interno all’esterno della stanza c’è un morph e un fade in/fade out fra due inquadrature - una in interni e una in esterni - cosicché anche se sembra un unico piano sequenza quella parte del film è composta, in realtà, da due diverse inquadrature. Quello che facemmo per Enter the Void era grossomodo lo stesso tipo di esperienza. Giravamo lunghi piani sequenza, il film, visivamente, sembra essere stato girato tutto in un unico piano sequenza, ma ovviamente fra due diverse inquadrature c’erano sempre degli altri morph o nuovi fade in/fade out.
Ci puoi dire qualcosa sull’esperienza di girare Love (2015) in 3D? La realizzazione di quel film è stata diversa dalla tua precedente esperienza con il 3D per Every Thing Will Be Fine di Wim Wenders?
Quando girai Every Thing Will Be Fine con Wim Wenders quello era il mio primo lungometraggio in 3D, per cui su quel set ho imparato come girare in 3D e come «prendersi cura» di questo strumento. Wim ed io non volevamo fare grandi effetti visivi o qualcosa di troppo simile ai classici film americani, ci tenevamo molto a mantenerci sobri con il 3D. Quando finii di girare quel film dissi a Gaspar: «Sai, sarebbe fico girare Love nella stessa maniera», e lui mi rispose «Certo, ma sarebbe costoso, richiederebbe grandi macchine da presa e una troupe numerosa», e io dissi «No, con Wim abbiamo girato in una maniera piuttosto semplice». L’idea di base per Love era di girare in un modo piuttosto sperimentale, con una troupe molto piccola, eravamo probabilmente solo in 12 sul set, era più come girare con la troupe di un cortometraggio. Gaspar aveva deciso di non avere troppe persone sul set per non disturbare gli attori, per cui era abbastanza preoccupato sul 3D, ma io lo rassicurai che c’era un modo per girare in tre dimensioni senza grossi numeri di troupe o di budget. La differenza fra Love ed Everything Will Be Fine è essenzialmente che in Love spostavamo molto raramente la macchina da presa. Credo che sia stata la prima volta per Gaspar ma decidemmo di girare principalmente inquadrature fisse per non disturbare il pubblico perchè, quando giri in 3D, se l’inquadratura si muove troppo il cervello dello spettatore non riesce a seguire le azioni dei personaggi, e il risultato disturba.
In conclusione sei rimasto più soddisfatto dell’esperienza con il 3D su Love?
Ciò che ho amato di Love è stato quel modo di vedere i corpi quasi come se fossero sculture, tu vedi due persone insieme a letto come dal vivo, è qualcosa di abbastanza unico. Mentre stavamo girando non potevo vedere esattamente quello che stava succedendo con il 3D, quando sei sul set non puoi vedere subito il risultato, ma alla fine sono rimasto impressionato. Per me Love più che un film è un’opera d’arte, lo amo molto perché è qualcosa di diverso dall’abituale esperienza cinematografica, è un modo nuovo di mostrare un film al pubblico. Every Thing Will Be Fine di Wim è più che altro un road movie - ci spostavamo con la macchina da presa per inquadrare diversi panorami - invece quello di Gaspar è un film più intimista e di interni, probabilmente anche più claustrofobico e cupo, parla di due persone che si amano con una macchina da presa piuttosto statica.
Il successivo film di Gaspar Noè, Climax (2018), ha avuto un processo produttivo molto particolare, con delle riprese molto rapide e buona parte del film totalmente improvvisato. Tenendo conto di queste indicazioni registiche in che modo hai impostato la fotografia di Climax? Con quali luci hai creato la sua caratteristica palette?
L’idea alla base di Climax era quella di girare un film in un modo molto veloce, avevamo pianificato due settimane, quindi dieci giorni di riprese, alla fine girammo un po’ più a lungo, più o meno quindici giorni, ma in ogni caso non più di tre settimane. A livello di illuminazione impostammo l’intero edificio - quella vecchia scuola abbandonata - in modo da essere nella condizione di girare lunghi piani sequenza tutti in un’unica inquadratura all’interno dell’intera struttura. Subito prima di Climax ho girato Beach Bum (2019) di Harmony Korine, e per la prima volta ho sperimentato i tubi al LED noti come Astera. A quei tempi erano una novità assoluta, penso di essere stato fra i primissimi ad usare un’apparecchiatura di questo tipo, e dissi a Gaspar che magari potevamo usarla anche per Climax, in modo da poter regolare l’inquadratura o cambiare un colore già sul set. Lui disse «Okay, proviamola», e dovemmo far comprare alla produzione degli Astera, perché Climax era il primo film in Francia ad usare questa apparecchiatura, per cui comprammo 62 LED e coprimmo l’intera scena con questi.
Di Climax è particolarmente impressionante un piano sequenza di 42 minuti all’interno della scuola abbandonata che, senza apparentemente mai fermarsi, segue la danza macabra dei protagonisti ormai deliranti. Come hai impostato la macchina da presa per una sequenza tanto lunga? Hai usato un braccio meccanico o un altro equipaggiamento? Quante take vi sono servite prima di arrivare a quella giusta?
A livello di macchina da presa, la sequenza di apertura con tutti i ballerini che danzano la realizzammo con un technocrane. Quell’inquadratura ci prese due giorni prima che arrivassimo alla giusta take. Tutti gli altri piani sequenza del film avevano invece due o tre tagli invisibili, come in Irréversible, non so dirti esattamente dove - perché abbiamo girato il film anni fa - ma l’idea era di dare l’impressione che ogni sequenza fosse girata tutta in una volta. Tutti i movimenti di camera sono stati realizzati con la macchina a mano, non abbiamo usato dolly o bracci meccanici o steadycam, anche se l’inquadratura sembra molto stabile. Quello che abbiamo fatto è stato impostare un’inquadratura più ampia, con un angolo piuttosto ampio, una vecchia Zeiss 12 millimetri, e in post-produzione Gaspar poteva stabilizzare un po’ l’immagine se la macchina da presa si muoveva troppo, o zoomarla o aggiustare l’inquadratura o a volte addirittura ruotarla. Sul set tutto veniva improvvisato, Gaspar trovava il modo di raccontare la storia quando eravamo già nella location, si è trattato di un’esperienza piuttosto sperimentale e unica perché avevamo dieci giorni per realizzare quel film, e avevamo un budget ridotto, per cui potevamo permetterci solo una troupe di pochi elementi, ma penso che questo sia un modo in cui Gaspar ama girare, e che anch’io ho apprezzato. Quando lavoro con Gaspar cerchiamo sempre di ottenere qualcosa di sperimentale e mai tentato prima, non conosco un altro regista che lavori in questo modo, a volte lui gira solo un’inquadratura al giorno ma prende il suo tempo per girarla al meglio e nel modo in cui lui la vuole.
Ho letto che una delle particolarità dello stile di regia di Gaspar Noé è il fatto che lui generalmente è anche l’operatore di macchina. Questo è vero per tutti i suoi film e grosso modo per tutte le scene? Come ti coordini con Noé per quanto riguarda l’inquadratura e i movimenti di macchina?
Con Gaspar è diverso dal solito: negli altri film in cui lavoro faccio anche da operatore, con Gaspar è generalmente lui a tenere la macchina da presa. Questo è piuttosto interessante perché Gaspar ha un modo di lavorare molto istintivo, gli piace girare personalmente le scene perché avere un operatore sarebbe una complicazione. Quando trova l’inquadratura lui ha un’idea molto chiara sui movimenti di macchina ed è l’unica persona che la può mettere in pratica, non può dire a un operatore esattamente cosa vuole fare, Gaspar deve girare per forza così. Quando lavoriamo insieme, a volte, preferisco che lui decida direttamente i movimenti della macchina da presa. All’inizio della nostra collaborazione girava quasi sempre da solo, adesso invece, dal momento che abbiamo lavorato su molti film assieme, generalmente condividiamo la macchina da presa. Gaspar gira una take e per la successiva mi dice «Sai cosa fare», e di solito ci prendiamo il tempo di trovare l’inquadratura assieme, e anche di trovare una coreografia dei movimenti di macchina. In ogni caso dipende dalla singola inquadratura: ad esempio in Enter the Void ricordo di aver girato io le scene in cui la macchina da presa segue il protagonista - essenzialmente perché ero alto quanto lui - o nelle inquadrature che richiedono il technocrane sono io a manovrare la cinepresa. Gaspar, però, mi piace come operatore perché lui si affida al suo istinto, e questa è un’ottima cosa.
Lucile Hadžihalilović, compagna e collaboratrice di Noè ma anche regista in proprio, crea film molto diversi da quelli di Gaspar Noé. Come sei entrato nel mondo del misterioso collegio femminile di Innocence?
Quando ho girato Innocence con Lucile il suo approccio era molto particolare. A Gaspar e Lucile piace lo stesso genere di cinema, per cui mi chiedono lo stesso approccio in termini di luce, ma Innocence era un film piuttosto diverso da quelli di Gaspar. Nell’idea di Lucile era più che altro una successione di immagini, per cui non dovevamo spostare la macchina da presa, tutto il film è composto, quasi esclusivamente, da inquadrature fisse eccetto per qualche scena con la Steadicam. Usavamo sempre le stesse lenti, di 14mm, in Super 16, in modo da avere soltanto la visione della storia, del luogo, dell’innocenza delle protagoniste. Stavamo girando con delle bambine per cui non era sempre facile evitare che qualcuna andasse fuori campo, e allora decidemmo di mantenere una certa inquadratura, e se una o due delle bambine sarebbero uscite fuori dai bordi delle immagini non sarebbe stato un problema poiché questo faceva parte dell’idea di base del film.
Quali differenze e quali somiglianze hai trovato fra gli stili di Noè e della Hadžihalilović? Come è cambiato il tuo approccio riguardo alla fotografia e all’impostazione della macchina da presa sul set di Innocence, rispetto agli altri film che avevi fatto con Noè?
Penso sia difficile fare un confronto tra Gaspar e Lucile, a loro piacciono le stesse cose ma una volta sul set sono completamente diversi. Per quanto riguarda l’illuminazione dei film di Lucile e Gaspar, entrambi tendono a usare il meno possibile luci artificiali. Quando ho girato Innocence di Lucile, o tutti i film fatti con Gaspar, mi chiedevano entrambi di fare la stessa cosa, stavamo di fatto illuminando la scena senza nessuna luce aggiuntiva, affidandoci unicamente su quelle che erano già parte del set. In modo particolare per Innocence abbiamo giocato molto con la luce del sole e con le lampadine presenti nella scenografia. Anche se propendono entrambi per la luce naturale, il lavoro per me non è affatto lo stesso, perché quando devi realizzare come direttore della fotografia inquadrature fisse è molto diverso rispetto a quando lavori a scene in movimento. Anche in termini di impostazione della macchina da presa loro sono molti diversi, ad esempio sia Innocence che Irréversible sono stati girati in Super 16, ma con due lenti diverse: Innocence era a 14mm, Irréversible se non ricordo male a 12.
Cosa ricordi dell’esperienza sul set di Innocence?
Girare Innocence è stata un’esperienza bellissima, penso che quel film avesse qualcosa di unico. Mi piaceva anche la sceneggiatura, mi piace anche il fatto che questo film sarebbe difficile da realizzare adesso perché ogni distributore vuole fare incassi, vuole solo fare successo al botteghino. I film come Innocence non sono fatti per un grande pubblico o per l’incasso, è solo un’esperienza, solo un esperimento per fare qualcosa di diverso. Questo è il motivo per cui mi piacciono opere di questo tipo e questo è il motivo per cui rispetto molto Lucile che tenta sempre di fare film in questo senso, senza mai tentare qualcosa di commerciale.
Il corpo umano, e soprattutto il cosiddetto nudo estetico, ha sempre ricevuto grande attenzioni dalle varie branche dell’arte. Il cinema ha dato un nuovo impulso alla riflessione sul corpo e sulla sessualità umana. Come lavori per inquadrare i corpi? Come pensi sia cambiata la rappresentazione della sessualità al cinema da quando hai iniziato la tua carriera come direttore della fotografia?
Quando giro una scena di nudo in un film ovviamente dipende dal singolo film ma per me in generale è più come una forma d’arte, un’opera d’arte, non è mai la nudità fine a sé stessa. Nei film che ho girato con Gaspar o con Harmony Korine non abbiamo puntato a mostrare semplicemente dei nudi, era più un modo per giocare con l’estetica e per catturare un momento della storia. Sicuramente adesso i produttori sono piuttosto preoccupati riguardo le scene di sesso, e se sono troppo ricorrenti o troppo esplicite è difficile finanziare o distribuire un film, ma generalmente quando inquadro dei corpi nudi è sempre parte di una sequenza di scene, è sempre parte di una storia. Ultimamente faccio più attenzione, ma il mio approccio è lo stesso di sempre: quando ci sono dei nudi valuto innanzitutto il tipo di film che sto girando e di cosa parla la storia, e poi provo a tradurre nel modo più fedele possibile in immagine quello che trovo nella sceneggiatura, sicuramente anche in termini di bellezza del corpo.