NC-42
17.01.2021
Fino a dove è lecito spingersi per fare del bene? Su questa riflessione si muove Sanpa, la docu-serie italiana targata Netflix che dall’uscita non ha mai smesso di far discutere e riflettere. Senza ricorrere a voci fuori campo o narratori esterni alla vicenda, gli autori Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Berardinelli, insieme alla regista Cosima Spender, si affidano a materiali d’archivio, lasciando inoltre ampio spazio e dignità a testimonianze di persone reali. La comunità di San Patrignano sorge nelle campagne romagnole, ma il racconto abbraccia una realtà universale.
Siamo sul finire degli anni ‘70, l’Italia versava in una grave emergenza causata dall’avvento dell’eroina. Lo stato si stava rivelando incapace di far fronte al problema, le opzioni per i tossicodipendenti erano soltanto due: il carcere o i SerT, dove venivano somministrate dosi di metadone a chi era in crisi di astinenza. Il fatto che non fossero previsti ricoveri a lungo termine non portava però alcun tipo di risultato. In questo momento di evidente crisi, arriva Vincenzo Muccioli.
L’uomo giusto al momento giusto, un salvatore, e per molti un vero e proprio eroe. L’idea infatti è quella di trasformare dei terreni di sua proprietà a Coriano, nei pressi di Rimini, in una comunità adibita al recupero di tossicodipendenti. Alto quasi due metri, di corporatura robusta con folti capelli e baffi neri uniti a uno sguardo e un sorriso aperto, esercitava un grande fascino e dava un senso di sicurezza alle persone che lo circondavano. Dotato di un grande carisma che traspare persino dallo schermo, era sicuramente una persona dal forte intuito, in grado di rendersi perfettamente conto dei tempi, così da intervenire lì dove la ferita era aperta e sanguinante. Nel 1979 fonda la comunità di San Patrignano, a seguito del ricovero di una giovane donna tossicodipendente. Qui Muccioli accoglieva a titolo gratuito centinaia e centinaia di giovani ragazzi e ragazze. Viveva con loro, mangiava con loro, li faceva impegnare in un lavoro, spesso fisico, li salvava. O almeno per molti è stato così. Nella comunità si entrava volontariamente, accettando implicitamente i metodi di Muccioli. l numero di ospiti cresceva a vista d’occhio, da poche decine a migliaia di giovani vittime dell’eroina. La comunità si allargava a macchia d’olio sotto gli occhi attenti dell’unico leader, Muccioli, ma cresceva anche l’attenzione mediatica, volta a capire cosa effettivamente accadesse all’interno di questo ritrovo. L’espansione della comunità andava di pari passo con l’accumularsi del potere, anche economico, di Vincenzo Muccioli, così come del suo ego personale.
A questo punto qualcosa comincia a incrinarsi. Denunce di maltrattamenti, schiaffi, violenze fisiche, reclusioni in isolamento di più giorni all’interno di luoghi ristrettissimi e testimonianze di ragazzi letteralmente incatenati al muro. La giustificazione di Muccioli? La via della repressione violenta era l’unico modo efficace per evitare che durante le forti crisi di astinenza le giovani vittime si facessero del male.
Torniamo quindi alla questione centrale: qual è il limite di chi agisce in nome del bene? Il come è più o meno importante del perché? Qui risiede probabilmente la grandezza di questa docu-serie. Gli autori infatti non vogliono fornire risposte, si limitano a porre domande. Non c’è giudizio o presa di posizione, solo rispetto per le testimonianze di ognuno.
Da una parte le voci del figlio di Vincenzo, Andrea Muccioli, insieme a Red Ronnie e Antonio Boschini (medico ex tossicodipendente ospite della comunità e oggi responsabile sanitario della comunità) che difendono Muccioli e la sua creatura. Dall’altra invece si dà spazio a pensieri di persone che hanno avuto un rapporto molto più conflittuale con la figura di Vincenzo. Ecco allora la toccante testimonianza di Fabio Cantelli Anibaldi, dell’ex ufficio stampa della struttura, o di Walter Delogu, ex guardia del corpo di Vincenzo e figura emblematica nel racconto della sua persona.
La narrazione prende vita poco a poco, ed una cosa è certa: la crescita incontenibile della comunità ha costretto i suoi gestori a pensare la creazione di un vero e proprio regime, con strutture e gerarchie. Cosa significava allora essere un ospite a San Patrignano?
Dopo un primo periodo di rodaggio, si sentì la necessità di regole molto più strette. Si partiva dal divieto di consumo di caffè a quello di un certo numero di sigarette al giorno. Le visite da parenti o persone esterne erano severamente vietate per il primo anno di permanenza, mentre ogni nuovo arrivato doveva essere seguito da un veterano 24h su 24. Uomini e donne vivevano separati, erano strettamente vietati rapporti sessuali. Una volta entrati a San Patrignano non si usciva. Pena percosse e reclusione in isolamento. Più le ombre delle luci, forse. Questi comportamenti repressivi portarono dei giovani al suicidio (si pensi a Natalia Berla, il cui fratello gemello Sebastiano appare nella serie). Atti violenti che culminano con un vero e proprio omicidio sul finire degli anni ‘80, quello ai danni di Roberto Maranzano, morto, stando al referto dell’autopsia, a seguito di un pestaggio feroce. Dell’omicidio però si parlò pubblicamente soltanto nel 1992, dopo la pubblica testimonianza di un ex ospite, Franco Grizzardi. Muccioli poi nel 1994, a seguito di una svolta nelle indagini, venne condannato ad otto mesi di reclusione con l’accusa di favoreggiamento. Sarebbe morto soltanto un anno dopo, ma le cause del suo decesso non furono mai veramente chiarite, nonostante si sospettasse fosse morto di AIDS, dopo averlo contratto all’interno della comunità.
Nei giorni successivi all’uscita, SanPa è stata al centro di attacchi e polemiche da parte della stessa comunità di San Patrignano, che accusa gli autori di aver dato vita a un racconto parziale. Accuse che appaiono piuttosto infondate, proprio perchè la serie non è alla ricerca di risposte e non si pone come giudice inquisitore condannando i metodi di Muccioli. L’intento è quello di raccontare una storia. Una storia che affonda le proprie radici nel tessuto sociale italiano. Cosa sarebbe stato questo paese senza Vincenzo Muccioli? Testimonianze disperate di genitori pronti a perdere i propri figli sotto i propri occhi impotenti hanno visto grazie a Muccioli la luce della speranza. Muccioli se ne è però approfittato? Ha superato il limite? L’indagine qui condotta non cerca risposta a questo tipo di domande perchè l’obiettivo è quello di andare oltre il Muccioli pubblico. Si potrebbe piuttosto riflettere su cosa effettivamente significhi investire una sola persona di così grandi poteri. Una riflessione sulle possibili conseguenze, anche quando si è animati dal più nobile degli ideali. Quella che si racconta in SanPa, comunque, è una storia intimamente umana, e per questo universale. Si raccontano i grandi ideali, i buoni propositi, così come gli errori, le brutture di un uomo elevato ad eroe e salvatore a capo di un’estesa comunità. Investito da un delirio di onnipotenza, Muccioli ha sbagliato. In buona o cattiva fede non è importante, ma come uomo. Un grande risultato, quindi, per la prima docu-serie italiana targata Netflix.
NC-42
17.01.2021
Fino a dove è lecito spingersi per fare del bene? Su questa riflessione si muove Sanpa, la docu-serie italiana targata Netflix che dall’uscita non ha mai smesso di far discutere e riflettere. Senza ricorrere a voci fuori campo o narratori esterni alla vicenda, gli autori Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Berardinelli, insieme alla regista Cosima Spender, si affidano a materiali d’archivio, lasciando inoltre ampio spazio e dignità a testimonianze di persone reali. La comunità di San Patrignano sorge nelle campagne romagnole, ma il racconto abbraccia una realtà universale.
Siamo sul finire degli anni ‘70, l’Italia versava in una grave emergenza causata dall’avvento dell’eroina. Lo stato si stava rivelando incapace di far fronte al problema, le opzioni per i tossicodipendenti erano soltanto due: il carcere o i SerT, dove venivano somministrate dosi di metadone a chi era in crisi di astinenza. Il fatto che non fossero previsti ricoveri a lungo termine non portava però alcun tipo di risultato. In questo momento di evidente crisi, arriva Vincenzo Muccioli.
L’uomo giusto al momento giusto, un salvatore, e per molti un vero e proprio eroe. L’idea infatti è quella di trasformare dei terreni di sua proprietà a Coriano, nei pressi di Rimini, in una comunità adibita al recupero di tossicodipendenti. Alto quasi due metri, di corporatura robusta con folti capelli e baffi neri uniti a uno sguardo e un sorriso aperto, esercitava un grande fascino e dava un senso di sicurezza alle persone che lo circondavano. Dotato di un grande carisma che traspare persino dallo schermo, era sicuramente una persona dal forte intuito, in grado di rendersi perfettamente conto dei tempi, così da intervenire lì dove la ferita era aperta e sanguinante. Nel 1979 fonda la comunità di San Patrignano, a seguito del ricovero di una giovane donna tossicodipendente. Qui Muccioli accoglieva a titolo gratuito centinaia e centinaia di giovani ragazzi e ragazze. Viveva con loro, mangiava con loro, li faceva impegnare in un lavoro, spesso fisico, li salvava. O almeno per molti è stato così. Nella comunità si entrava volontariamente, accettando implicitamente i metodi di Muccioli. l numero di ospiti cresceva a vista d’occhio, da poche decine a migliaia di giovani vittime dell’eroina. La comunità si allargava a macchia d’olio sotto gli occhi attenti dell’unico leader, Muccioli, ma cresceva anche l’attenzione mediatica, volta a capire cosa effettivamente accadesse all’interno di questo ritrovo. L’espansione della comunità andava di pari passo con l’accumularsi del potere, anche economico, di Vincenzo Muccioli, così come del suo ego personale.
A questo punto qualcosa comincia a incrinarsi. Denunce di maltrattamenti, schiaffi, violenze fisiche, reclusioni in isolamento di più giorni all’interno di luoghi ristrettissimi e testimonianze di ragazzi letteralmente incatenati al muro. La giustificazione di Muccioli? La via della repressione violenta era l’unico modo efficace per evitare che durante le forti crisi di astinenza le giovani vittime si facessero del male.
Torniamo quindi alla questione centrale: qual è il limite di chi agisce in nome del bene? Il come è più o meno importante del perché? Qui risiede probabilmente la grandezza di questa docu-serie. Gli autori infatti non vogliono fornire risposte, si limitano a porre domande. Non c’è giudizio o presa di posizione, solo rispetto per le testimonianze di ognuno.
Da una parte le voci del figlio di Vincenzo, Andrea Muccioli, insieme a Red Ronnie e Antonio Boschini (medico ex tossicodipendente ospite della comunità e oggi responsabile sanitario della comunità) che difendono Muccioli e la sua creatura. Dall’altra invece si dà spazio a pensieri di persone che hanno avuto un rapporto molto più conflittuale con la figura di Vincenzo. Ecco allora la toccante testimonianza di Fabio Cantelli Anibaldi, dell’ex ufficio stampa della struttura, o di Walter Delogu, ex guardia del corpo di Vincenzo e figura emblematica nel racconto della sua persona.
La narrazione prende vita poco a poco, ed una cosa è certa: la crescita incontenibile della comunità ha costretto i suoi gestori a pensare la creazione di un vero e proprio regime, con strutture e gerarchie. Cosa significava allora essere un ospite a San Patrignano?
Dopo un primo periodo di rodaggio, si sentì la necessità di regole molto più strette. Si partiva dal divieto di consumo di caffè a quello di un certo numero di sigarette al giorno. Le visite da parenti o persone esterne erano severamente vietate per il primo anno di permanenza, mentre ogni nuovo arrivato doveva essere seguito da un veterano 24h su 24. Uomini e donne vivevano separati, erano strettamente vietati rapporti sessuali. Una volta entrati a San Patrignano non si usciva. Pena percosse e reclusione in isolamento. Più le ombre delle luci, forse. Questi comportamenti repressivi portarono dei giovani al suicidio (si pensi a Natalia Berla, il cui fratello gemello Sebastiano appare nella serie). Atti violenti che culminano con un vero e proprio omicidio sul finire degli anni ‘80, quello ai danni di Roberto Maranzano, morto, stando al referto dell’autopsia, a seguito di un pestaggio feroce. Dell’omicidio però si parlò pubblicamente soltanto nel 1992, dopo la pubblica testimonianza di un ex ospite, Franco Grizzardi. Muccioli poi nel 1994, a seguito di una svolta nelle indagini, venne condannato ad otto mesi di reclusione con l’accusa di favoreggiamento. Sarebbe morto soltanto un anno dopo, ma le cause del suo decesso non furono mai veramente chiarite, nonostante si sospettasse fosse morto di AIDS, dopo averlo contratto all’interno della comunità.
Nei giorni successivi all’uscita, SanPa è stata al centro di attacchi e polemiche da parte della stessa comunità di San Patrignano, che accusa gli autori di aver dato vita a un racconto parziale. Accuse che appaiono piuttosto infondate, proprio perchè la serie non è alla ricerca di risposte e non si pone come giudice inquisitore condannando i metodi di Muccioli. L’intento è quello di raccontare una storia. Una storia che affonda le proprie radici nel tessuto sociale italiano. Cosa sarebbe stato questo paese senza Vincenzo Muccioli? Testimonianze disperate di genitori pronti a perdere i propri figli sotto i propri occhi impotenti hanno visto grazie a Muccioli la luce della speranza. Muccioli se ne è però approfittato? Ha superato il limite? L’indagine qui condotta non cerca risposta a questo tipo di domande perchè l’obiettivo è quello di andare oltre il Muccioli pubblico. Si potrebbe piuttosto riflettere su cosa effettivamente significhi investire una sola persona di così grandi poteri. Una riflessione sulle possibili conseguenze, anche quando si è animati dal più nobile degli ideali. Quella che si racconta in SanPa, comunque, è una storia intimamente umana, e per questo universale. Si raccontano i grandi ideali, i buoni propositi, così come gli errori, le brutture di un uomo elevato ad eroe e salvatore a capo di un’estesa comunità. Investito da un delirio di onnipotenza, Muccioli ha sbagliato. In buona o cattiva fede non è importante, ma come uomo. Un grande risultato, quindi, per la prima docu-serie italiana targata Netflix.