NC-240
04.10.2023
La 72ª edizione del Festival di San Sebastián, evento che riesce sempre a riscuotere un discreto successo, si è conclusa lo scorso fine settimana e ha segnalato la grande vittoria di Tardes de soledad, la nuova opera del cineasta catalano Albert Serra. Il documentario è incentrato sulla figura di Andrès Roca Rey, celebre torero riconosciuto per le macabre danze della morte che inscena nell'arena. Nonostante la mancanza di grandi premiere internazionali - giustificata dalla vicinanza ai festival di Venezia e Toronto - San Sebastian risulta essere comunque un’ occasione per riproiettare alcuni dei film meglio recepiti dell’annata. Inoltre, nel corso degli anni, la manifestazione ha dimostrato di essere una buonissima vetrina per le opere di giovani registi emergenti e per i lungometraggi di noti autori che vengono “snobbati”, a volte ingiustamente, dai festival più rinomati, come ad esempio Serpent’s Path di Kiyoshi Kurosawa. Oggi cogliamo l’occasione per raccontarvi di alcune visioni che abbiamo recuperato durante il festival, un mix di opere che ci hanno colpito per diverse ragioni; dai giá citati lungometraggi di Serra a Kurosawa, agli interessanti debutti di Xin Huo, Hikaru Uwagawa e Sylvia Le Fanu, fino ad arrivare To a Land Unknown del palestinese Mahdi Fleifel.
Tardes de soledad, di Albert Serra
Il cinema di Albert Serra ha sempre analizzato quella dinamica di potere che intercorre tra i protagonisti dei suoi film e le istituzioni di cui ne fanno parte, traendo spunto da queste situazioni è quasi come se il regista volesse imbastire uno spettacolo, una messa in scena per mostrare la desolazione dei protagonisti; basti pensare al personaggio di Monsieur De Roller in Pacifiction (2022), il diplomatico francese che cerca di comprendere la possibile cospirazione nei suoi confronti, o anche la struggente rappresentazione della fine del “Re Sole” in La mort de Louis XIV (2019). Non sorprende quindi il fatto che il regista catalano abbia scelto, per il suo nuovo progetto, di focalizzarsi su un torero e sui duelli spietati che condizionano la sua vita. Tardes de soledad, film vincitore della Concha de oro, premio più ambito del festival di San Sebastián, segue le vicende di Andrés Roca Rey, torero peruviano amato dalla folla per il modo in cui inscena questi massacri nei confronti dei poveri animali. Massacro è proprio il termine più corretto per descrivere quello che avviene in questa disciplina, non è un duello “nobile” ed impari come molti pensano e il cineasta pone enfasi proprio su questo aspetto brutale. Nel corso del film vengono mostrati cinque “scontri” ed è interessante notare come il regista si focalizzi esclusivamente sulla dinamica toro/torero; la folla non viene mai inquadrata, si può soltanto udire la fragorosa reazione davanti a tali atrocità, una scelta dettata principalmente dalla volontà di mettere in risalto le gesta teatrali di Roca Rey e la violenza perpetrata sugli animali. Il titolo dell’opera risulta quindi piuttosto significativo nel contesto del film e delle immagini mostrate. Già nella scena iniziale, un’ipnotica sequenza che mostra un toro vagare in una selva oscura, il regista mostra il primo aspetto della “soledad”, quella di una bestia costretta a partecipare a questa macabra danza della morte contro la propria volontà. Questa solitudine si può anche ritrovare nella figura di Andrés Roca Rey. Nonostante sia sempre accompagnato da una numerosa crew, oltre al caloroso sostegno della folla, si può intravedere una certa alienazione dettata dalla determinazione e dalla quasi ossessione verso il proprio mestiere. Questo si può evincere dalle varie sequenze che mostrano gli spostamenti in autobus del torero e il suo entourage, dove questi riflette su quello che è successo nei duelli, spesso ignorando le situazioni pericolose a cui è andato incontro. La nuova opera di Serra sta già facendo discutere per le forti immagini mostrate, un approccio che però risulta essenziale per far avere consapevolezza di ciò che avviene in questa disciplina performativa. Nel mostrare l’uccisione, la camera mette in evidenza l’impari scontro, cercando di dare una certa dignità ai tori, riprendendo da vicino i loro ultimi secondi di vita, il loro ultimo respiro e quell’ultima lacrima esacerbata, prima di essere trasportati fuori dall’arena. Lo spettacolo mortale ripreso da Serra risulta quindi essere un’esperienza alquanto ipnotica e provocatoria, una visione riflessiva che pone enfasi sulle varie sfumature della solitudine di due figure animalesche che si apprestano ad una carneficina.
Serpent’s Path, di Kiyoshi Kurosawa
Kiyoshi Kurosawa, nel 2024, dopo un silenzio durato quasi cinque anni, ha sfornato ben tre film, tutti pienamente rappresentanti del suo stile. Tre progetti apparentemente diversi l’uno dall’altro, ma completamente adempienti ai topos e alla ricerca che lo stesso regista giapponese, da sempre, ha sperimentato attraverso i suoi lungometraggi. Dopo Chime (2024), mediometraggio di 45 minuti presentato alla Berlinale 2024, che si caratterizza per essere un vero e proprio saggio su ciò che rappresenta il J-Horror al giorno d’oggi e come si rapporta sullo schermo, e Cloud (2024), oggetto davvero particolare e difficilmente classificabile, dalle componenti e dalla varietà stilistiche che ricorda oggetti particolari come Creepy (2016), a San Sebastiàn è la volta di Serpent’s Path (2024), secondo film del regista giapponese prodotto in Francia - dopo Daguerrotype (2016) - e davvero interessante, in quanto auto-remake del celebre thriller del 1998 con protagonisti Shô Aikawa e Teruyuki Kagawa. Nel raccontare questa nuova versione del revenge movie che vede coinvolto Albert (un minaccioso Damien Bonnard), alla ricerca della vendetta per l’omicidio della figlia di otto anni, aiutato dalla misteriosa psichiatra Sayoko Nījima (una bravissima Kō Shibasaki), Kiyoshi Kurosawa si rifà alla chiusura degli spazi di Chime, ponendo le basi per un racconto molto più corale rispetto a quello del 1998. Le differenze rispetto al film originale sono molte. Dai sotterranei ci si sposta all’interno dello spazio domestico, con dei flash-back che il regista giapponese dissemina con cura per svelare cautamente tutte le carte a sua disposizione, e questo porta Kiyoshi Kurosawa a fare tesoro di quanto svolto quest’anno con i suoi due film presentati a Berlino e Venezia. Se da Chime riprende una certa cura per l’aspetto sonoro del film e per la sua reiterazione, ossessività che squarcia la calma del racconto, dal lungometraggio presentato a Venezia riprende il suo racconto fatto perlopiù di immagini e di display. Infatti, come anche nel film originale del ‘98, proprio l’immagine si fa strumento per indagare il rimosso psicologico dei personaggi, che poi porterà ad una visione più chiara della vicenda nel corso del film, fino all’ottimo finale, ma soprattutto disvelerà una pletora di personaggi alle prese con le paure relative alla fine della vita, a ciò che c’è dopo la morte e a ciò che si teme di più: diventare delle bestie senza possibilità di ravvedersi. In questo, Kurosawa ricalca l’anima nera e malvagia del film con Shô Aikawa e Teruyuki Kagawa, riprendendone la filosofia puramente noir/gangster e attualizzandola nel contesto odierno. Una filosofia che si concretizza soprattutto attraverso la regia, laddove il fuori campo è utile soprattutto per dare corpo a quelle ellissi che coinvolgono il personaggio principale di Damien Bonnard. Con l’aiuto di un montaggio chirurgico, abile nel passare in modo disinvolto dal diegetico all’extra-diegetico in più occasioni (tra queste, vi è sicuramente la scena cruciale della TV, in cui Kiyoshi Kurosawa ci fa percepire quanto il nostro occhio sia abituato a vedere solamente ciò che vuole, e quanto la memoria nell’essere umano escluda tutto ciò a cui non si vuole dare importanza) il regista da corpo alla disfunzione mnemonica del suo protagonista, mente paranoide e schizoide, impossibilitato a carpire la natura del diegetico e incapace di distinguere la realtà dalla menzogna mediante gli schermi, i quali come specchi deformanti proiettano un’immagine non veritiera, distorcendo (fin quasi a ribaltarlo) il trauma legato alla scomparsa delle persone cruciali per la vita di un individuo. Serpent’s Path, come il suo corrispettivo originale, è dunque un’indagine sulla complessità umana, in un mondo invaso da display che ne alterano la struttura e ne fanno percepire, in modo fallace, l’essenza ingannevole.
Bound in Heaven, di Xin Huo
Adattato dall’omonimo romanzo di Li Xiuwen, Bound in Heaven è l’opera prima di Huo Xin e racconta la storia d’amore tra Xu, malato di cancro a cui rimane poco da vivere, e Xia, donna bloccata in una relazione tossica dove il fidanzato abusa fisicamente di lei. Ambientato nel corso di due anni, tra il 2010 e il 2012, la storia mostra come la precaria situazione personale dei protagonisti può aiutarli a vivere più liberamente e cercare di sfruttare al meglio ogni momento che passano assieme. Questo aspetto non solo è messo in risalto dalle due grandi interpretazioni centrali di Zhou You e Ni Ni, ma anche a livello stilistico, dalle scelte artistiche di Huo e del direttore della fotografia Piao Songri, il cui lavoro gli è valso un premio speciale durante la cerimonia di chiusura. Quello che spicca è l’uso del piano sequenza e delle luci quando i due amanti sono in scena, come se il loro amore permettesse a entrambi di vedere il mondo sotto un’altra “prospettiva”, esemplificativa è una delle prime sequenze quando Xu aiuta Xia a sbirciare da una piccola finestra il concerto di Faye Wong. “Morire è facile, vivere è più difficile”, dice Xu in una delle sequenze chiave del film. Il tono di voce del ragazzo non è tragico, ma consapevole che la fine per lui sta arrivando, Huo abilmente non ricorre ad un approccio melenso o tragico, ma per lo più si concentra su quei momenti mondani che condizionano la relazione tra i due. Una maggiore caratterizzazione dei personaggi principali avrebbe giovato all’opera e reso la visione una delle migliori del festival. Malgrado questo, Bound in Heaven risulta essere un film accattivante, dove la forte visione autoriale di Huo Xin ne fa da padrona, come si può evincere dall’ipnotica scena finale che mostra dei fuochi d’artificio tramite l’uso di un drone, il cui punto di vista atipico rappresenta la conclusione perfetta di questa relazione.
To a Land Unknown, di Mahdi Fleifel
Presentato per la prima volta al Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des Realisateurs, To a Land Unknown di Mehdi Fleifel narra la storia di due rifugiati palestinesi bloccati ad Atene, tappa intermedia per gli immigrati dal Medio Oriente prima di raggiungere definitivamente l’Europa centrale, che stanno cercando di arrivare in Germania. Per fare ciò, i due cugini Chatila (Mahmood Bakri) e Reda (Aram Sabbah) hanno bisogno di due passaporti illegali e saranno costretti a compiere azioni illecite pur di raggiungere la somma di denaro necessaria per comprare i documenti. Tra queste attività spiccano la prostituzione, vari furti e lo spaccio di droga. Fleifel non cerca di romanzare la figura dei due protagonisti, ma mostra chiaramente la dura realtà di persone immigrate in cerca di un futuro migliore; Chatila infatti sogna di aprire un Bar a Berlino insieme alla moglie e al cugino. Ma allo stesso tempo, Reda non è in grado di sopportare questo tipo di vita e, in poco tempo, la dipendenza dall’eroina prenderà il sopravvento sul giovane ragazzo. Il contrasto tra le due personalità e le difficoltà reciproche sembrano un chiaro riferimento a Midnight Cowboy (1969) di John Schlesinger, ed è interessante vedere come Fleifel ha adattato quel tipo di dinamica ai giorni nostri e nel contesto degli immigrati palestinesi. Queste persone hanno perso quasi ogni tratto di quello che erano, il senso di sopravvivenza è l’unico pensiero fisso che hanno, e per mostrare questo, Fleifel si affida al lavoro dei due interpreti principali, in grado di mostrare una certa umanità ed empatia nei confronti dei loro personaggi, nonostante le attività criminali che conducono. L’opera è permasa da una sensazione di realismo sociale e questa non è solo messa in risalto dalla storia principale e dagli interpreti, ma anche dall’utilizzo calibrato e mai intrusivo della colonna sonora, dall’impiego della camera a mano e delle luci naturali. Il contesto legato alla situazione che stanno vivendo i palestinesi in questo periodo rende To a Land Unknown ancora più struggente e non possiamo non consigliare la visione di una delle opere prime più interessanti dell’anno.
Ulysses, di Hikaru Uwagawa
Hikaru Uwagawa è un regista che esprime, in modo appropriato, ciò che rappresenta l’incontro tra culture diverse e, soprattutto, che dà corpo alla bellezza polimorfica che si crea quando due modi di pensare, come quello orientale e quello occidentale, vengono a contatto. Il regista di Hiroshima si è trasferito qualche anno fa in Spagna, a Madrid, dove ha vinto un concorso per una borsa di studio nel 2019 all’EFTI, dove ha studiato produzione e regia cinematografica, attraverso il suo primo corto dal titolo A Portrait of the Young Man as a Young Man (2019), storia tratta da un famosissimo romanzo di James Joyce, scrittore fondamentale nel suo operato cinematografico. Dopo aver girato due cortometraggi dai titoli Ventana Indiscreta (2020) e Un Paseo Nocturno a Mi Casa (2021), Uwagawa ha presentato al Festival di San Sebastian 2024 e al FID di Marseille 2024 il suo primo lungometraggio, dal titolo Ulysses (2024). Il film è una parodia, come da titolo, del poema omerico, rimescolata e girata seguendo la struttura della famosa reinterpretazione di James Joyce del 1920. Non a caso, lo stile narrativo usato per narrare queste tre storie diverse di persone in cerca di un proprio ritorno a casa (come, d’altronde, l’Odissea di Omero raccontava) è completamente parossistico, al limite dell’auto-parodia. L’aspetto, infatti, più interessante e importante di Ulysses è la modalità di reenactment del poema omerico, che è di volta in volta re-immaginato e ripensato all’interno di un contesto moderno e attuale. Uwagawa mette al centro del suo film il concetto di casa come ricerca inevitabile di un posto nel mondo, di un luogo d’appartenenza all’interno del quale sentirsi sicuri. Proprio per questo, la forma usata dal regista giapponese è tutt’altro che accomodante. Le inquadrature utilizzate all’interno del racconto sono perlopiù in campo fisso, utile ad accentuare la spettralità di un universo inospitale, e, con l’avanzare del racconto, aumentano soprattutto i campi vuoti, che dipingono il mondo di Uwagawa in un modo distopico, smarrito, e non lineare, come suggerito anche dal montaggio, il quale perde di vista la consequenzialità e procede soprattutto per suggestioni stilistiche. L’effetto è straniante, ma efficace, in quanto all’interno di Ulysses si crea un flusso di coscienza alimentato soprattutto dal continuo gioco tra memoria e attualità. Questo rende però più caotica la narrazione, che rispecchia, di fatto, lo smarrimento dei protagonisti, alla continua ricerca di una propria identità e di una propria appartenenza, dei moderni Ulisse che declamano monologhi sulle tematiche più disparate in un registro grottesco e totalmente anti-moderno, come fossero partecipi effettivi dell’opera di Omero. Una soluzione che mette in evidenza, in modo agrodolce, l’appartenenza ad un mondo che li aliena e in cui, per loro, è impossibile vivere a pieno.
Querido Trópico, di Ana Endara Mislov
Ana Endara Mislov è una delle voci panamensi più importanti e interessanti dell’attualità cinematografica. La sua carriera comincia negli USA, dove si laurea in Sociologia, e successivamente si sposta a Cuba, dove studia regia presso la Scuola Internazionale di Cinema e Televisione (EICTV). La sua carriera, dopo vari incursioni nel mondo della pubblicità, riceve una prima svolta nel 2013, quando realizza Reinas (2013), documentario sulle tradizioni, riprese in modo bizzarro e irriverente, relative al regno panamense. Un documentario che mostra già una certa affezione per il folklore e per la tradizione di Panama, che la porta alla notorietà e grazie al quale vince il Grolsch Discovery Award al Toronto Film Festival. Nel 2016, successivamente, grazie al suo La Felicidad Del Sonido (2016), vince svariati premi, tra cui una menzione speciale da parte della giuria al Costa Rica International Film Festival e il premio per il miglior documentario girato nel Centro America al Festival Icaro 2017. Una carriera lanciata, che prende definitivamente il volo grazie al suo nuovo lungometraggio, dal titolo Querido Trópico (2024), dramma molto intimo e interessante per vari motivi. Nel raccontare l’intreccio tra le vite di Ana Marìa, immigrata colombiana impiegata come badante a Panama, e Mercedes, donna borghese alle prese con una demenza senile invadente, che le sta pian piano portando via tutti i ricordi e la sua identità, Ana Endara Mislov sfrutta la malattia come escamotage per affrontare in modo diretto il dramma delle relazioni moderne. Il periodo di degenza, infatti, all’interno di Querido Trópico, è visto come un’opportunità per instaurare legami tra persone di estrazione sociale completamente diversa (per non dire opposta). Il giardino, che si riscopre polo centrale nel quale si convogliano le scelte narrative e le rivelazioni più importanti, diviene un vero e proprio punto di interesse relazionale, cantore nei confronti delle condizioni di tutte le mamme che non possono avere figli. La cosa più importante, infatti, è la tutela che Mislov assume per il particolare status di queste donne, le quali si riscoprono “nude”, impossibilitate nel portare a compimento il proprio desiderio, insito, di maternità. Proprio per questo motivo, Querido Trópico è soprattutto una celebrazione della vita neo-natale, che la regista non manca di sottolineare attraverso il bell’uso delle dissolvenze incrociate, a sottolineare l’indissolubile legame che una creatura appena nata ha con la sua procreatrice, e soprattutto tramite l’utilizzo di un registro delicato, che ben si incastra ai continui campi medi che la regista sceglie per narrare queste complesse relazioni che si sviluppano tra madri e figlie. Nonostante alcuni momenti in cui la narrazione gira a vuoto, e altri in cui il messaggio è reiterato in modo totalmente prolisso e superfluo, la nuova opera di Ana Endara Mislov funziona e mantiene alta l'attenzione per tutto il corso della sua durata.
My Eternal Summer, di Sylvia Le Fanu
Il primo lungometraggio della regista danese Sylvia Le Fanu è un delicato coming of age che prova a raccontare l’estate di una ragazza che sta per perdere la propria madre. I turbamenti e le inquietudini della giovane protagonista vengono sublimate da un’estetica estremamente gradevole, valorizzata dai toni chiari e solari della fotografia. La camera di Le Fanu si sofferma sui primi piani della sedicenne Fanny – interpretata da un’ottima Kaya Toft Loholt – cercando di scrutarne i mutamenti impercettibili, sondandone pensieri e paranoie. Il ritmo stesso del film sembra seguire gli sbalzi d’umore improvvisi che caratterizzano la protagonista, fra scene estremamente drammatiche e improvvisi quadri di quotidianità estiva. La macchina da presa si fa silenziosa, sembra quasi rispettare l’intimità dei protagonisti e rende My Eternal Summer un dramma in cui lo spettatore è chiamato ad entrare in punta di piedi, come una presenza invisibile. Purtroppo, nonostante le intenzioni della regista siano estremamente limpide, il film non va mai oltre quelle che sono le proprie premesse – che si esauriscono nei primi 20 minuti – e ripete pedissequamente lo stesso schema per una durata sin troppo eccessiva, assuefacendo lentamente lo spettatore a dinamiche reiterate fra i personaggi e a forme di messa in scena sempre identiche. My Eternal Summer diventa quindi ben presto un film ripetitivo, monotono e, purtroppo, finanche scontato, che cola a picco nelle scene che precedono il finale con un utilizzo estremamente retorico del voice-over e delle dissolvenze incrociate. Nonostante la forza della tematica e il nobile tentativo della regista di non mostrare mai esplicitamente la disperazione e il dolore, la pellicola affievolisce lentamente la propria fiamma per spegnersi nella completa indifferenza dello spettatore. Un peccato mortale per un’opera con simili premesse.
La novias del sur, di Elena López Riera
Elena López Riera è una regista spagnola, tra i profili più interessanti legati sopratutto al documentario e alla sperimentazione sui formati che travalicano il racconto di fiction. La regista, dopo aver iniziato ad insegnare a Ginevra cinema e letteratura comparata, nel 2008, fonda il collettivo La Casinegra, formato da artisti di ogni tipo dediti soprattutto alla ricerca e alla sperimentazione di nuovi dispositivi audiovisivi. Proprio grazie all’influenza di questo gruppo, Elena López Riera gira nel 2015 il suo primo cortometraggio, Pueblo (2015), che viene presentato in anteprima alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes nel 2015 e selezionato per oltre venti festival internazionali. L’esordio ufficiale, invece, arriva nel 2016, con Las Visceras (2016), dramma incentrato completamente sul rituale della morte in tutte le sue sfaccettature e sul dominio dell’uomo nei confronti dell’animale. Il film è selezionato al Festival di Locarno. Dopo aver presentato nel 2019, al MOMA, la sua video-installazione Los Que Desean (2019), film sperimentale attraverso il quale riflette direttamente sulla memoria e il concetto di performance, ritorna a Cannes nel 2022 con El Agua (2022), esordio nella fiction presentato alla Quinzaine. Nel 2024, è tornata prima sulla Croisette per poi approdare al festival di San Sebastián con il suo documentario Las Novias Del Sur (2024), progetto molto particolare con cui la regista ha vinto l’ambita Queer Palm. Il film è, infatti, un collage di interviste a donne di tutte le età che raccontano la loro esperienza nel rituale più antico del mondo, quello del matrimonio. Un esperimento che cerca di mettere a nudo i tabù che, dalla società di un tempo, sono ancora presenti in quella odierna e che, a conti fatti, influenzano ancora negativamente il nostro vissuto. Nella ripetizione di questi riti ancestrali, fotografati e immortalati dalla regista mediante un utilizzo molto accurato e retrò della pellicola in 8mm, tale da ricreare un effetto nostalgia, c’è la volontà di mettere a nudo tantissime tradizioni patriarcali e, di conseguenza, di porre in primo piano un modello sociale che non andrebbe coltivato, ma che purtroppo si dimostra ancora influente soprattutto per le relazioni che si creano tra le madri e le figlie. Il rapporto che si disvela nel corso delle varie interviste porta lo spettatore, in automatico, ad empatizzare e ad interessarsi a questi racconti, ripresi come fossero miti ancestrali tramite un primo piano fisso, riportando alla mente alcuni esperimenti recenti del cinema orientale, tra cui vi è, senza dubbio, sia il magnifico Your Face (2018) sia Afternoon (2015) di Tsai Ming-Liang, le cui operazioni sono rispecchiate sia attraverso una forma psicanalitica fluida e libera, che induce le varie protagoniste anche ad atti emotivi improvvisi, sia tramite una negazione spaziale dell’immagine che le incastona nei primi piani. Un gioco molto interessante, che però finisce nel momento in cui gli argomenti delle interviste si esauriscono, portando Las Novias Del Sur a diventare un mediometraggio piatto e con non molte intuizioni.
NC-240
04.10.2023
La 72ª edizione del Festival di San Sebastián, evento che riesce sempre a riscuotere un discreto successo, si è conclusa lo scorso fine settimana e ha segnalato la grande vittoria di Tardes de soledad, la nuova opera del cineasta catalano Albert Serra. Il documentario è incentrato sulla figura di Andrès Roca Rey, celebre torero riconosciuto per le macabre danze della morte che inscena nell'arena. Nonostante la mancanza di grandi premiere internazionali - giustificata dalla vicinanza ai festival di Venezia e Toronto - San Sebastian risulta essere comunque un’ occasione per riproiettare alcuni dei film meglio recepiti dell’annata. Inoltre, nel corso degli anni, la manifestazione ha dimostrato di essere una buonissima vetrina per le opere di giovani registi emergenti e per i lungometraggi di noti autori che vengono “snobbati”, a volte ingiustamente, dai festival più rinomati, come ad esempio Serpent’s Path di Kiyoshi Kurosawa. Oggi cogliamo l’occasione per raccontarvi di alcune visioni che abbiamo recuperato durante il festival, un mix di opere che ci hanno colpito per diverse ragioni; dai giá citati lungometraggi di Serra a Kurosawa, agli interessanti debutti di Xin Huo, Hikaru Uwagawa e Sylvia Le Fanu, fino ad arrivare To a Land Unknown del palestinese Mahdi Fleifel.
Tardes de soledad, di Albert Serra
Il cinema di Albert Serra ha sempre analizzato quella dinamica di potere che intercorre tra i protagonisti dei suoi film e le istituzioni di cui ne fanno parte, traendo spunto da queste situazioni è quasi come se il regista volesse imbastire uno spettacolo, una messa in scena per mostrare la desolazione dei protagonisti; basti pensare al personaggio di Monsieur De Roller in Pacifiction (2022), il diplomatico francese che cerca di comprendere la possibile cospirazione nei suoi confronti, o anche la struggente rappresentazione della fine del “Re Sole” in La mort de Louis XIV (2019). Non sorprende quindi il fatto che il regista catalano abbia scelto, per il suo nuovo progetto, di focalizzarsi su un torero e sui duelli spietati che condizionano la sua vita. Tardes de soledad, film vincitore della Concha de oro, premio più ambito del festival di San Sebastián, segue le vicende di Andrés Roca Rey, torero peruviano amato dalla folla per il modo in cui inscena questi massacri nei confronti dei poveri animali. Massacro è proprio il termine più corretto per descrivere quello che avviene in questa disciplina, non è un duello “nobile” ed impari come molti pensano e il cineasta pone enfasi proprio su questo aspetto brutale. Nel corso del film vengono mostrati cinque “scontri” ed è interessante notare come il regista si focalizzi esclusivamente sulla dinamica toro/torero; la folla non viene mai inquadrata, si può soltanto udire la fragorosa reazione davanti a tali atrocità, una scelta dettata principalmente dalla volontà di mettere in risalto le gesta teatrali di Roca Rey e la violenza perpetrata sugli animali. Il titolo dell’opera risulta quindi piuttosto significativo nel contesto del film e delle immagini mostrate. Già nella scena iniziale, un’ipnotica sequenza che mostra un toro vagare in una selva oscura, il regista mostra il primo aspetto della “soledad”, quella di una bestia costretta a partecipare a questa macabra danza della morte contro la propria volontà. Questa solitudine si può anche ritrovare nella figura di Andrés Roca Rey. Nonostante sia sempre accompagnato da una numerosa crew, oltre al caloroso sostegno della folla, si può intravedere una certa alienazione dettata dalla determinazione e dalla quasi ossessione verso il proprio mestiere. Questo si può evincere dalle varie sequenze che mostrano gli spostamenti in autobus del torero e il suo entourage, dove questi riflette su quello che è successo nei duelli, spesso ignorando le situazioni pericolose a cui è andato incontro. La nuova opera di Serra sta già facendo discutere per le forti immagini mostrate, un approccio che però risulta essenziale per far avere consapevolezza di ciò che avviene in questa disciplina performativa. Nel mostrare l’uccisione, la camera mette in evidenza l’impari scontro, cercando di dare una certa dignità ai tori, riprendendo da vicino i loro ultimi secondi di vita, il loro ultimo respiro e quell’ultima lacrima esacerbata, prima di essere trasportati fuori dall’arena. Lo spettacolo mortale ripreso da Serra risulta quindi essere un’esperienza alquanto ipnotica e provocatoria, una visione riflessiva che pone enfasi sulle varie sfumature della solitudine di due figure animalesche che si apprestano ad una carneficina.
Serpent’s Path, di Kiyoshi Kurosawa
Kiyoshi Kurosawa, nel 2024, dopo un silenzio durato quasi cinque anni, ha sfornato ben tre film, tutti pienamente rappresentanti del suo stile. Tre progetti apparentemente diversi l’uno dall’altro, ma completamente adempienti ai topos e alla ricerca che lo stesso regista giapponese, da sempre, ha sperimentato attraverso i suoi lungometraggi. Dopo Chime (2024), mediometraggio di 45 minuti presentato alla Berlinale 2024, che si caratterizza per essere un vero e proprio saggio su ciò che rappresenta il J-Horror al giorno d’oggi e come si rapporta sullo schermo, e Cloud (2024), oggetto davvero particolare e difficilmente classificabile, dalle componenti e dalla varietà stilistiche che ricorda oggetti particolari come Creepy (2016), a San Sebastiàn è la volta di Serpent’s Path (2024), secondo film del regista giapponese prodotto in Francia - dopo Daguerrotype (2016) - e davvero interessante, in quanto auto-remake del celebre thriller del 1998 con protagonisti Shô Aikawa e Teruyuki Kagawa. Nel raccontare questa nuova versione del revenge movie che vede coinvolto Albert (un minaccioso Damien Bonnard), alla ricerca della vendetta per l’omicidio della figlia di otto anni, aiutato dalla misteriosa psichiatra Sayoko Nījima (una bravissima Kō Shibasaki), Kiyoshi Kurosawa si rifà alla chiusura degli spazi di Chime, ponendo le basi per un racconto molto più corale rispetto a quello del 1998. Le differenze rispetto al film originale sono molte. Dai sotterranei ci si sposta all’interno dello spazio domestico, con dei flash-back che il regista giapponese dissemina con cura per svelare cautamente tutte le carte a sua disposizione, e questo porta Kiyoshi Kurosawa a fare tesoro di quanto svolto quest’anno con i suoi due film presentati a Berlino e Venezia. Se da Chime riprende una certa cura per l’aspetto sonoro del film e per la sua reiterazione, ossessività che squarcia la calma del racconto, dal lungometraggio presentato a Venezia riprende il suo racconto fatto perlopiù di immagini e di display. Infatti, come anche nel film originale del ‘98, proprio l’immagine si fa strumento per indagare il rimosso psicologico dei personaggi, che poi porterà ad una visione più chiara della vicenda nel corso del film, fino all’ottimo finale, ma soprattutto disvelerà una pletora di personaggi alle prese con le paure relative alla fine della vita, a ciò che c’è dopo la morte e a ciò che si teme di più: diventare delle bestie senza possibilità di ravvedersi. In questo, Kurosawa ricalca l’anima nera e malvagia del film con Shô Aikawa e Teruyuki Kagawa, riprendendone la filosofia puramente noir/gangster e attualizzandola nel contesto odierno. Una filosofia che si concretizza soprattutto attraverso la regia, laddove il fuori campo è utile soprattutto per dare corpo a quelle ellissi che coinvolgono il personaggio principale di Damien Bonnard. Con l’aiuto di un montaggio chirurgico, abile nel passare in modo disinvolto dal diegetico all’extra-diegetico in più occasioni (tra queste, vi è sicuramente la scena cruciale della TV, in cui Kiyoshi Kurosawa ci fa percepire quanto il nostro occhio sia abituato a vedere solamente ciò che vuole, e quanto la memoria nell’essere umano escluda tutto ciò a cui non si vuole dare importanza) il regista da corpo alla disfunzione mnemonica del suo protagonista, mente paranoide e schizoide, impossibilitato a carpire la natura del diegetico e incapace di distinguere la realtà dalla menzogna mediante gli schermi, i quali come specchi deformanti proiettano un’immagine non veritiera, distorcendo (fin quasi a ribaltarlo) il trauma legato alla scomparsa delle persone cruciali per la vita di un individuo. Serpent’s Path, come il suo corrispettivo originale, è dunque un’indagine sulla complessità umana, in un mondo invaso da display che ne alterano la struttura e ne fanno percepire, in modo fallace, l’essenza ingannevole.
Bound in Heaven, di Xin Huo
Adattato dall’omonimo romanzo di Li Xiuwen, Bound in Heaven è l’opera prima di Huo Xin e racconta la storia d’amore tra Xu, malato di cancro a cui rimane poco da vivere, e Xia, donna bloccata in una relazione tossica dove il fidanzato abusa fisicamente di lei. Ambientato nel corso di due anni, tra il 2010 e il 2012, la storia mostra come la precaria situazione personale dei protagonisti può aiutarli a vivere più liberamente e cercare di sfruttare al meglio ogni momento che passano assieme. Questo aspetto non solo è messo in risalto dalle due grandi interpretazioni centrali di Zhou You e Ni Ni, ma anche a livello stilistico, dalle scelte artistiche di Huo e del direttore della fotografia Piao Songri, il cui lavoro gli è valso un premio speciale durante la cerimonia di chiusura. Quello che spicca è l’uso del piano sequenza e delle luci quando i due amanti sono in scena, come se il loro amore permettesse a entrambi di vedere il mondo sotto un’altra “prospettiva”, esemplificativa è una delle prime sequenze quando Xu aiuta Xia a sbirciare da una piccola finestra il concerto di Faye Wong. “Morire è facile, vivere è più difficile”, dice Xu in una delle sequenze chiave del film. Il tono di voce del ragazzo non è tragico, ma consapevole che la fine per lui sta arrivando, Huo abilmente non ricorre ad un approccio melenso o tragico, ma per lo più si concentra su quei momenti mondani che condizionano la relazione tra i due. Una maggiore caratterizzazione dei personaggi principali avrebbe giovato all’opera e reso la visione una delle migliori del festival. Malgrado questo, Bound in Heaven risulta essere un film accattivante, dove la forte visione autoriale di Huo Xin ne fa da padrona, come si può evincere dall’ipnotica scena finale che mostra dei fuochi d’artificio tramite l’uso di un drone, il cui punto di vista atipico rappresenta la conclusione perfetta di questa relazione.
To a Land Unknown, di Mahdi Fleifel
Presentato per la prima volta al Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des Realisateurs, To a Land Unknown di Mehdi Fleifel narra la storia di due rifugiati palestinesi bloccati ad Atene, tappa intermedia per gli immigrati dal Medio Oriente prima di raggiungere definitivamente l’Europa centrale, che stanno cercando di arrivare in Germania. Per fare ciò, i due cugini Chatila (Mahmood Bakri) e Reda (Aram Sabbah) hanno bisogno di due passaporti illegali e saranno costretti a compiere azioni illecite pur di raggiungere la somma di denaro necessaria per comprare i documenti. Tra queste attività spiccano la prostituzione, vari furti e lo spaccio di droga. Fleifel non cerca di romanzare la figura dei due protagonisti, ma mostra chiaramente la dura realtà di persone immigrate in cerca di un futuro migliore; Chatila infatti sogna di aprire un Bar a Berlino insieme alla moglie e al cugino. Ma allo stesso tempo, Reda non è in grado di sopportare questo tipo di vita e, in poco tempo, la dipendenza dall’eroina prenderà il sopravvento sul giovane ragazzo. Il contrasto tra le due personalità e le difficoltà reciproche sembrano un chiaro riferimento a Midnight Cowboy (1969) di John Schlesinger, ed è interessante vedere come Fleifel ha adattato quel tipo di dinamica ai giorni nostri e nel contesto degli immigrati palestinesi. Queste persone hanno perso quasi ogni tratto di quello che erano, il senso di sopravvivenza è l’unico pensiero fisso che hanno, e per mostrare questo, Fleifel si affida al lavoro dei due interpreti principali, in grado di mostrare una certa umanità ed empatia nei confronti dei loro personaggi, nonostante le attività criminali che conducono. L’opera è permasa da una sensazione di realismo sociale e questa non è solo messa in risalto dalla storia principale e dagli interpreti, ma anche dall’utilizzo calibrato e mai intrusivo della colonna sonora, dall’impiego della camera a mano e delle luci naturali. Il contesto legato alla situazione che stanno vivendo i palestinesi in questo periodo rende To a Land Unknown ancora più struggente e non possiamo non consigliare la visione di una delle opere prime più interessanti dell’anno.
Ulysses, di Hikaru Uwagawa
Hikaru Uwagawa è un regista che esprime, in modo appropriato, ciò che rappresenta l’incontro tra culture diverse e, soprattutto, che dà corpo alla bellezza polimorfica che si crea quando due modi di pensare, come quello orientale e quello occidentale, vengono a contatto. Il regista di Hiroshima si è trasferito qualche anno fa in Spagna, a Madrid, dove ha vinto un concorso per una borsa di studio nel 2019 all’EFTI, dove ha studiato produzione e regia cinematografica, attraverso il suo primo corto dal titolo A Portrait of the Young Man as a Young Man (2019), storia tratta da un famosissimo romanzo di James Joyce, scrittore fondamentale nel suo operato cinematografico. Dopo aver girato due cortometraggi dai titoli Ventana Indiscreta (2020) e Un Paseo Nocturno a Mi Casa (2021), Uwagawa ha presentato al Festival di San Sebastian 2024 e al FID di Marseille 2024 il suo primo lungometraggio, dal titolo Ulysses (2024). Il film è una parodia, come da titolo, del poema omerico, rimescolata e girata seguendo la struttura della famosa reinterpretazione di James Joyce del 1920. Non a caso, lo stile narrativo usato per narrare queste tre storie diverse di persone in cerca di un proprio ritorno a casa (come, d’altronde, l’Odissea di Omero raccontava) è completamente parossistico, al limite dell’auto-parodia. L’aspetto, infatti, più interessante e importante di Ulysses è la modalità di reenactment del poema omerico, che è di volta in volta re-immaginato e ripensato all’interno di un contesto moderno e attuale. Uwagawa mette al centro del suo film il concetto di casa come ricerca inevitabile di un posto nel mondo, di un luogo d’appartenenza all’interno del quale sentirsi sicuri. Proprio per questo, la forma usata dal regista giapponese è tutt’altro che accomodante. Le inquadrature utilizzate all’interno del racconto sono perlopiù in campo fisso, utile ad accentuare la spettralità di un universo inospitale, e, con l’avanzare del racconto, aumentano soprattutto i campi vuoti, che dipingono il mondo di Uwagawa in un modo distopico, smarrito, e non lineare, come suggerito anche dal montaggio, il quale perde di vista la consequenzialità e procede soprattutto per suggestioni stilistiche. L’effetto è straniante, ma efficace, in quanto all’interno di Ulysses si crea un flusso di coscienza alimentato soprattutto dal continuo gioco tra memoria e attualità. Questo rende però più caotica la narrazione, che rispecchia, di fatto, lo smarrimento dei protagonisti, alla continua ricerca di una propria identità e di una propria appartenenza, dei moderni Ulisse che declamano monologhi sulle tematiche più disparate in un registro grottesco e totalmente anti-moderno, come fossero partecipi effettivi dell’opera di Omero. Una soluzione che mette in evidenza, in modo agrodolce, l’appartenenza ad un mondo che li aliena e in cui, per loro, è impossibile vivere a pieno.
Querido Trópico, di Ana Endara Mislov
Ana Endara Mislov è una delle voci panamensi più importanti e interessanti dell’attualità cinematografica. La sua carriera comincia negli USA, dove si laurea in Sociologia, e successivamente si sposta a Cuba, dove studia regia presso la Scuola Internazionale di Cinema e Televisione (EICTV). La sua carriera, dopo vari incursioni nel mondo della pubblicità, riceve una prima svolta nel 2013, quando realizza Reinas (2013), documentario sulle tradizioni, riprese in modo bizzarro e irriverente, relative al regno panamense. Un documentario che mostra già una certa affezione per il folklore e per la tradizione di Panama, che la porta alla notorietà e grazie al quale vince il Grolsch Discovery Award al Toronto Film Festival. Nel 2016, successivamente, grazie al suo La Felicidad Del Sonido (2016), vince svariati premi, tra cui una menzione speciale da parte della giuria al Costa Rica International Film Festival e il premio per il miglior documentario girato nel Centro America al Festival Icaro 2017. Una carriera lanciata, che prende definitivamente il volo grazie al suo nuovo lungometraggio, dal titolo Querido Trópico (2024), dramma molto intimo e interessante per vari motivi. Nel raccontare l’intreccio tra le vite di Ana Marìa, immigrata colombiana impiegata come badante a Panama, e Mercedes, donna borghese alle prese con una demenza senile invadente, che le sta pian piano portando via tutti i ricordi e la sua identità, Ana Endara Mislov sfrutta la malattia come escamotage per affrontare in modo diretto il dramma delle relazioni moderne. Il periodo di degenza, infatti, all’interno di Querido Trópico, è visto come un’opportunità per instaurare legami tra persone di estrazione sociale completamente diversa (per non dire opposta). Il giardino, che si riscopre polo centrale nel quale si convogliano le scelte narrative e le rivelazioni più importanti, diviene un vero e proprio punto di interesse relazionale, cantore nei confronti delle condizioni di tutte le mamme che non possono avere figli. La cosa più importante, infatti, è la tutela che Mislov assume per il particolare status di queste donne, le quali si riscoprono “nude”, impossibilitate nel portare a compimento il proprio desiderio, insito, di maternità. Proprio per questo motivo, Querido Trópico è soprattutto una celebrazione della vita neo-natale, che la regista non manca di sottolineare attraverso il bell’uso delle dissolvenze incrociate, a sottolineare l’indissolubile legame che una creatura appena nata ha con la sua procreatrice, e soprattutto tramite l’utilizzo di un registro delicato, che ben si incastra ai continui campi medi che la regista sceglie per narrare queste complesse relazioni che si sviluppano tra madri e figlie. Nonostante alcuni momenti in cui la narrazione gira a vuoto, e altri in cui il messaggio è reiterato in modo totalmente prolisso e superfluo, la nuova opera di Ana Endara Mislov funziona e mantiene alta l'attenzione per tutto il corso della sua durata.
My Eternal Summer, di Sylvia Le Fanu
Il primo lungometraggio della regista danese Sylvia Le Fanu è un delicato coming of age che prova a raccontare l’estate di una ragazza che sta per perdere la propria madre. I turbamenti e le inquietudini della giovane protagonista vengono sublimate da un’estetica estremamente gradevole, valorizzata dai toni chiari e solari della fotografia. La camera di Le Fanu si sofferma sui primi piani della sedicenne Fanny – interpretata da un’ottima Kaya Toft Loholt – cercando di scrutarne i mutamenti impercettibili, sondandone pensieri e paranoie. Il ritmo stesso del film sembra seguire gli sbalzi d’umore improvvisi che caratterizzano la protagonista, fra scene estremamente drammatiche e improvvisi quadri di quotidianità estiva. La macchina da presa si fa silenziosa, sembra quasi rispettare l’intimità dei protagonisti e rende My Eternal Summer un dramma in cui lo spettatore è chiamato ad entrare in punta di piedi, come una presenza invisibile. Purtroppo, nonostante le intenzioni della regista siano estremamente limpide, il film non va mai oltre quelle che sono le proprie premesse – che si esauriscono nei primi 20 minuti – e ripete pedissequamente lo stesso schema per una durata sin troppo eccessiva, assuefacendo lentamente lo spettatore a dinamiche reiterate fra i personaggi e a forme di messa in scena sempre identiche. My Eternal Summer diventa quindi ben presto un film ripetitivo, monotono e, purtroppo, finanche scontato, che cola a picco nelle scene che precedono il finale con un utilizzo estremamente retorico del voice-over e delle dissolvenze incrociate. Nonostante la forza della tematica e il nobile tentativo della regista di non mostrare mai esplicitamente la disperazione e il dolore, la pellicola affievolisce lentamente la propria fiamma per spegnersi nella completa indifferenza dello spettatore. Un peccato mortale per un’opera con simili premesse.
La novias del sur, di Elena López Riera
Elena López Riera è una regista spagnola, tra i profili più interessanti legati sopratutto al documentario e alla sperimentazione sui formati che travalicano il racconto di fiction. La regista, dopo aver iniziato ad insegnare a Ginevra cinema e letteratura comparata, nel 2008, fonda il collettivo La Casinegra, formato da artisti di ogni tipo dediti soprattutto alla ricerca e alla sperimentazione di nuovi dispositivi audiovisivi. Proprio grazie all’influenza di questo gruppo, Elena López Riera gira nel 2015 il suo primo cortometraggio, Pueblo (2015), che viene presentato in anteprima alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes nel 2015 e selezionato per oltre venti festival internazionali. L’esordio ufficiale, invece, arriva nel 2016, con Las Visceras (2016), dramma incentrato completamente sul rituale della morte in tutte le sue sfaccettature e sul dominio dell’uomo nei confronti dell’animale. Il film è selezionato al Festival di Locarno. Dopo aver presentato nel 2019, al MOMA, la sua video-installazione Los Que Desean (2019), film sperimentale attraverso il quale riflette direttamente sulla memoria e il concetto di performance, ritorna a Cannes nel 2022 con El Agua (2022), esordio nella fiction presentato alla Quinzaine. Nel 2024, è tornata prima sulla Croisette per poi approdare al festival di San Sebastián con il suo documentario Las Novias Del Sur (2024), progetto molto particolare con cui la regista ha vinto l’ambita Queer Palm. Il film è, infatti, un collage di interviste a donne di tutte le età che raccontano la loro esperienza nel rituale più antico del mondo, quello del matrimonio. Un esperimento che cerca di mettere a nudo i tabù che, dalla società di un tempo, sono ancora presenti in quella odierna e che, a conti fatti, influenzano ancora negativamente il nostro vissuto. Nella ripetizione di questi riti ancestrali, fotografati e immortalati dalla regista mediante un utilizzo molto accurato e retrò della pellicola in 8mm, tale da ricreare un effetto nostalgia, c’è la volontà di mettere a nudo tantissime tradizioni patriarcali e, di conseguenza, di porre in primo piano un modello sociale che non andrebbe coltivato, ma che purtroppo si dimostra ancora influente soprattutto per le relazioni che si creano tra le madri e le figlie. Il rapporto che si disvela nel corso delle varie interviste porta lo spettatore, in automatico, ad empatizzare e ad interessarsi a questi racconti, ripresi come fossero miti ancestrali tramite un primo piano fisso, riportando alla mente alcuni esperimenti recenti del cinema orientale, tra cui vi è, senza dubbio, sia il magnifico Your Face (2018) sia Afternoon (2015) di Tsai Ming-Liang, le cui operazioni sono rispecchiate sia attraverso una forma psicanalitica fluida e libera, che induce le varie protagoniste anche ad atti emotivi improvvisi, sia tramite una negazione spaziale dell’immagine che le incastona nei primi piani. Un gioco molto interessante, che però finisce nel momento in cui gli argomenti delle interviste si esauriscono, portando Las Novias Del Sur a diventare un mediometraggio piatto e con non molte intuizioni.