L'umanità messa a nudo nel cinema del
regista svedese di The Square e Forza maggiore,
di Francesca Accurso
TR-40
13.11.2021
La vulnerabilità è una condizione tipicamente umana che può manifestarsi in diverse forme. Come mezzo estetico, il cinema, la cui sostanza principale è data dal corpo e dalla sua interazione con un dato ambiente, ha affrontato e continua ad affrontare gli stati di vulnerabilità. Tra i registi contemporanei che ne hanno esplorato l'estetica vi è senza dubbio lo svedese Ruben Östlund.
Osservatore accurato e sagace del comportamento sociale umano, Östlund ha iniziato la sua attività negli anni novanta, poco più che ventenne, realizzando documentari sciistici. Nel 2001 si laurea in cinema all’Università di Göteborg e nel 2002 fonda insieme all’amico e produttore Erik Hemmendorff la casa di produzione Plattform Produktion, che produce i suoi film. Con una serie di lungometraggi ben accolti da pubblico e critica come Involuntary (2008), Play (2011), Forza maggiore (2014) e The Square (2017), Östlund è emerso come il principale cronista del disagio sociale e della precarietà morale in Scandinavia, ricevendo numerosi riconoscimenti. Nel 2014 con il film Forza maggiore vince nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes e nel 2017 sempre a Cannes si aggiudica la Palma d’oro con The Square.
Involuntary è un lungometraggio in cui il regista mette in scena episodi di vita quotidiana concentrandosi sui comportamenti umani volontari e involontari. Al centro della narrazione, Östlund pone cinque storie frammentate volte a esplorare la natura della dinamica tra il singolo e il gruppo. Un uomo, nel corso di una festa, viene ferito da un fuoco d'artificio ma si rifiuta di andare in ospedale a farsi curare. L’autista di un pullman di linea interrompe il suo viaggio rifiutandosi di proseguire fino a quando uno dei suoi passeggeri non confessa di aver rotto il binario di una tenda nel bagno. Un'insegnante contesta l'atteggiamento dei suoi colleghi dopo che un bambino è stato punito a scuola. E ancora, due adolescenti, che vediamo per la prima volta imitare comportamenti ammiccanti durante una serie di sessioni di selfie, dopo aver bevuto cominciano a comportarsi in modo rischioso.
Östlund riprende i suoi personaggi da angolazioni insolite, spesso inquadrandoli con i volti oscurati, o concentrandosi su alcune parti del corpo. È come se il regista creasse con la camera un proprio perimetro fisso all’interno del quale far muovere gli attori. Questo approccio ha l'effetto di allontanare lo spettatore, aggiungendo una dimensione quasi antropologica al film e allo stesso tempo introducendo un elemento di intrigo nelle scene. Involuntary è un film che conduce alla contemplazione silenziosa piuttosto che alla rivelazione drammatica, un racconto dall’umorismo a volte amaro, un'opera sottile che mostra un lato diverso del cinema svedese.
Nel suo universo cinematografico, la condizione più spesso esaminata è quella dell'esposizione: perdere il privilegio di protezione e trovarsi indifesi davanti a forze esterne sgradevoli e invasive. Östlund analizza una serie di caratteristiche che, in modi abbastanza sottili, rivelano la paura e l'impotenza che sorgono rapidamente quando la mascolinità bianca viene assediata.
In Play, per esempio, il regista predilige un approccio più documentaristico, optando per inquadrature più ampie e movimenti di macchina quasi invisibili. Il film affronta il disagio sociale sia a livello narrativo che tematico. Östlund osa porre una domanda sul multiculturalismo in Europa oggi: quali sono gli effetti negativi dei drastici cambiamenti demografici? Basato su un reale caso di bullismo, il dramma di Ruben Östlund del 2011 è costruito su riprese estremamente lunghe e statiche che seguono l'azione per le strade di Göteborg con lo stesso punto di vista distaccato che potrebbe offrire una telecamera di sicurezza.
Il film descrive l'intimidazione di due bambini bianchi e un asiatico da parte di cinque adolescenti neri, che li accusano di essere in possesso di un cellulare rubato. Play si occupa di una serie di problemi intersecanti di cui la vulnerabilità sembra essere una parte costitutiva: identità, immigrazione, razza, classe, molestie e manipolazioni. La microcriminalità dei ragazzi neri rappresenta un sovvertimento dell'egemonia liberale bianca in cui sono inclusi solo come diversi e "altri".
Girato con ammirevole chiarezza dal solito direttore della fotografia di Östlund, Marius Dybwad Brandrud, Play è intervallato da una scena ricorrente in cui i passeggeri di un treno scoprono e tentano di liberarsi del lettino di un bambino. Questo sembra indicare una mancanza collettiva di responsabilità sociale. L'efficacia di Play deriva dalla sua semplicità: portare sul grande schermo la realtà del bullismo con assoluta obiettività.
Nel suo film di successo internazionale Forza maggiore, Östlund traccia la dissoluzione (e la possibile riconciliazione) di una famiglia dell'alta borghesia svedese in vacanza alla stazione sciistica di Les Arcs, nelle Alpi francesi. Qualcosa di inaspettato accade. Una valanga si abbatte su una terrazza dove i quattro membri della famiglia fanno colazione insieme. Dinanzi alla furia della natura e in preda alla confusione, il padre di famiglia Tomas (Johannes Kuhnke) scappa lasciando soli la moglie e i figli. La valanga si ferma appena in tempo, ma il suo effetto durerà per tutto il resto del film.
Östlund, con estrema meticolosità, racconta i passaggi successivi all’accaduto: la reazioni della moglie di Tomas, Ebba (Lisa Kongsli), quelle meno esplicite dei figli e quella dello stesso Tomas, che tenta dapprima di minimizzare il tutto per poi cedere al crollo emotivo. La forza maggiore rappresenta anche un particolare caso in cui, attraverso la vulnerabilità mostrata visivamente, viene inscenato il guasto insito nell’essere umano. Il film essenzialmente analizza come quel disprezzo si materializzi sottilmente nelle interazioni della coppia, per culminare nella scena che segna la fine dello stato di negazione di Tomas e il suo ingresso in una condizione di nuda vulnerabilità.
La continua disapprovazione di Ebba per il comportamento del marito durante e dopo la valanga è il motore dello psicodramma di Östlund, il cui sguardo inflessibile davanti alla discordia coniugale deve qualcosa a Ingmar Bergman. Come sostiene il critico cinematografico Goffredo Fofi: “Östlund si presenta come uno dei pochi eredi dell’insegnamento di Ingmar Bergman... del Bergman che più crudamente ha voluto mettere a nudo le pulsioni profonde degli uomini del Novecento, ancora comprensibili agli uomini di oggi, nonostante la mutazione in corso”.
Östlund si muove senza pietà tra le crepe di un matrimonio e mette in discussione l'idea della mascolinità moderna. Anche se il finale ambiguo del film può suggerire un barlume di speranza per la coppia, la relazione che Östlund cattura con cinica precisione è progressivamente contaminata dal crescente disprezzo di Ebba. Come spettatori non sapremo mai se il rapporto tra i due coniugi era turbolento anche prima della crisi. Resta indubbio che, fin dalle scene iniziali, il rapporto appare danneggiato non solo dalla vigliaccheria di Tomas, ma anche dalle sue patetiche bugie all'indomani dell'evento.
La grande capacità di narrare di Östlund si manifesta nel modo in cui sfrutta l'ambientazione del film per comporre una serie di quadri che svelano l'irrilevanza dell’umano, sullo sfondo dell'immenso paesaggio alpino. Molte delle scene interne sono inoltre costruite per accentuare la mancanza di protezione della famiglia, come nello scatto in cui dormono nello stesso letto, completamente vestiti, dopo le attività della giornata. Forza maggiore ci mostra qualcosa di questi personaggi, e per estensione di noi stessi, che potremmo non voler vedere. Una magistrale commedia drammatica che mette in primo piano la debolezza umana.
Con The Square, il regista svedese mette in scena un’aspra satira del mondo dell’arte contemporanea in cui culminano le esperienze vulnerabili. Il film riprende il titolo da un’installazione di arte contemporanea che delimita il perimetro di un quadrato all’interno del quale ognuno, indistintamente dal genere, dalla propria cultura, classe sociale, religione e credo politico, ha idealmente uguali diritti e doveri. La narrazione ruota attorno alle vicende lavorative e personali di un tipico maschio alfa, Christian (Claes Bang), curatore di un prestigioso museo d’arte moderna e contemporanea di Stoccolma le cui certezze, fondate sulla sua professione e sul proprio status sociale, perderanno vigore a poco a poco conducendolo verso una crisi esistenziale.
Östlund non si accontenta però di esporre solo questo, vuole anche vedere cosa succede quando le infrastrutture di rispettabilità e privilegio si disintegrano, quando chi è apparentemente inattaccabile diviene vulnerabile come gli altri. Christian in The Square e, per estensione, il mondo sociale in cui è invischiato, incarnano perfettamente questo confronto tra il libero sé e il soggetto vulnerabile. Attraverso il suo comportamento egoistico, di cui è inconsapevole, mette allo scoperto i modi in cui la sua vita si intreccia con quella degli altri.
Nonostante l’arte sia e sia stata a lungo dominata da uomini potenti e benestanti, Östlund non perde l'occasione di prendere in giro le dinamiche di potere presenti nella società elitaria. All’idealismo dell’arte contemporanea si contrappone la missione vendicativa del protagonista nel momento in cui gli viene rubato il cellulare. Uno dei suoi dipendenti si offre gentilmente di aiutarlo. I due si dirigono verso un quartiere periferico, lontano dalla zona agiata e borghese dove ha sede il museo. Christian fa un atto spregevole che inizialmente lo esalta, per poi evidenziare la sua vulnerabilità. Per non intaccare il suo status sociale, spinge il giovane a compiere l’azione al suo posto. È qui che alla vulnerabilità si affianca una strana dinamica di potere.
The Square raffigura una società iper-capitalista piena di snobismo intellettuale, dove ancora una volta la dimensione spaziale è preminente. Il regista svedese vuole provocare nello spettatore quel sentimento di disagio che si manifesta dinanzi a situazioni in cui la tensione tra i personaggi sembra essere sul punto di esplodere. Lo spazio infatti ricopre nel film un ruolo essenziale, legato quasi sempre alla trasmissione di un senso di costrizione, apprensione o imbarazzo. Östlund opera spesso delle cesure in cui la visione appare frammentata e non complessiva. Lo spettatore è quindi soggetto ad un senso di straniamento che di riflesso rimanda alla condizione umana postmoderna e individualistica.
Nel film è centrale una sequenza in cui il regista bilancia abilmente il crescente senso di tensione con la satira socio-culturale del mondo rappresentato. Durante una cena di gala all’interno del museo, viene annunciata agli invitati la performance artistica di Oleg (Terry Notary), un artista chiamato ad esibirsi nel “ruolo” di uomo scimmia. Riproponendo le movenze animalesche di una scimmia, l’artista dapprima cammina in silenzio e scruta gli invitati per poi iniziare a provocarli, emettendo versi animali. Arriva persino ad aggredire uno degli artisti presenti per poi puntare una donna che, in preda al panico, comincia a urlare chiedendo aiuto ai commensali.
Attento a includere la reazione degli ospiti sempre più sconcertati, per tutta la sequenza Östlund rende progressivamente il comportamento di Oleg più minaccioso e imprevedibile. Questa scena condensa diverse questioni che riguardano il privilegio dell’uomo bianco, mettendo a nudo la vulnerabilità della mascolinità colta e benestante di fronte all'imprevisto. In The Square ogni personaggio, dal protagonista alla giovane mendicante, racchiude in sé caratteristiche negative che lo collocano al di fuori dei limiti che la cultura impone, ovvero in un contesto fatto di disumanità ed egocentrismo che finisce per mettere in crisi il significato degli stessi valori culturali e sociali. Il rapporto con l’alterità è messo in costante discussione e Östlund tenta sempre di instillare un dubbio negli occhi di chi guarda. Durante e dopo la visione dei suoi film lo spettatore si chiederà: esistono davvero la tolleranza, l’uguaglianza, la solidarietà, la fiducia tra le persone?
La Stoccolma di Östlund ritrae l’esperienza individuale di isolamento e disagio congeniti alla modernità. Focalizzando l’attenzione sulla società odierna e su come gli esseri umani reagiscono di fronte a determinati eventi e situazioni, Östlund mette a nudo le debolezze e le fragilità umane. Per questa e altre ragioni, resta oggi uno dei più grandi registi nel rappresentare i dilemmi che attanagliano la nostra contemporaneità.
L'umanità messa a nudo
nel cinema del regista svedese
di The Square e Forza maggiore,
di Francesca Accurso
TR-40
13.11.2021
La vulnerabilità è una condizione tipicamente umana che può manifestarsi in diverse forme. Come mezzo estetico, il cinema, la cui sostanza principale è data dal corpo e dalla sua interazione con un dato ambiente, ha affrontato e continua ad affrontare gli stati di vulnerabilità. Tra i registi contemporanei che ne hanno esplorato l'estetica vi è senza dubbio lo svedese Ruben Östlund.
Osservatore accurato e sagace del comportamento sociale umano, Östlund ha iniziato la sua attività negli anni novanta, poco più che ventenne, realizzando documentari sciistici. Nel 2001 si laurea in cinema all’Università di Göteborg e nel 2002 fonda insieme all’amico e produttore Erik Hemmendorff la casa di produzione Plattform Produktion, che produce i suoi film. Con una serie di lungometraggi ben accolti da pubblico e critica come Involuntary (2008), Play (2011), Forza maggiore (2014) e The Square (2017), Östlund è emerso come il principale cronista del disagio sociale e della precarietà morale in Scandinavia, ricevendo numerosi riconoscimenti. Nel 2014 con il film Forza maggiore vince nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes e nel 2017 sempre a Cannes si aggiudica la Palma d’oro con The Square.
Involuntary è un lungometraggio in cui il regista mette in scena episodi di vita quotidiana concentrandosi sui comportamenti umani volontari e involontari. Al centro della narrazione, Östlund pone cinque storie frammentate volte a esplorare la natura della dinamica tra il singolo e il gruppo. Un uomo, nel corso di una festa, viene ferito da un fuoco d'artificio ma si rifiuta di andare in ospedale a farsi curare. L’autista di un pullman di linea interrompe il suo viaggio rifiutandosi di proseguire fino a quando uno dei suoi passeggeri non confessa di aver rotto il binario di una tenda nel bagno. Un'insegnante contesta l'atteggiamento dei suoi colleghi dopo che un bambino è stato punito a scuola. E ancora, due adolescenti, che vediamo per la prima volta imitare comportamenti ammiccanti durante una serie di sessioni di selfie, dopo aver bevuto cominciano a comportarsi in modo rischioso.
Östlund riprende i suoi personaggi da angolazioni insolite, spesso inquadrandoli con i volti oscurati, o concentrandosi su alcune parti del corpo. È come se il regista creasse con la camera un proprio perimetro fisso all’interno del quale far muovere gli attori. Questo approccio ha l'effetto di allontanare lo spettatore, aggiungendo una dimensione quasi antropologica al film e allo stesso tempo introducendo un elemento di intrigo nelle scene. Involuntary è un film che conduce alla contemplazione silenziosa piuttosto che alla rivelazione drammatica, un racconto dall’umorismo a volte amaro, un'opera sottile che mostra un lato diverso del cinema svedese.
Nel suo universo cinematografico, la condizione più spesso esaminata è quella dell'esposizione: perdere il privilegio di protezione e trovarsi indifesi davanti a forze esterne sgradevoli e invasive. Östlund analizza una serie di caratteristiche che, in modi abbastanza sottili, rivelano la paura e l'impotenza che sorgono rapidamente quando la mascolinità bianca viene assediata.
In Play, per esempio, il regista predilige un approccio più documentaristico, optando per inquadrature più ampie e movimenti di macchina quasi invisibili. Il film affronta il disagio sociale sia a livello narrativo che tematico. Östlund osa porre una domanda sul multiculturalismo in Europa oggi: quali sono gli effetti negativi dei drastici cambiamenti demografici? Basato su un reale caso di bullismo, il dramma di Ruben Östlund del 2011 è costruito su riprese estremamente lunghe e statiche che seguono l'azione per le strade di Göteborg con lo stesso punto di vista distaccato che potrebbe offrire una telecamera di sicurezza.
Il film descrive l'intimidazione di due bambini bianchi e un asiatico da parte di cinque adolescenti neri, che li accusano di essere in possesso di un cellulare rubato. Play si occupa di una serie di problemi intersecanti di cui la vulnerabilità sembra essere una parte costitutiva: identità, immigrazione, razza, classe, molestie e manipolazioni. La microcriminalità dei ragazzi neri rappresenta un sovvertimento dell'egemonia liberale bianca in cui sono inclusi solo come diversi e "altri".
Girato con ammirevole chiarezza dal solito direttore della fotografia di Östlund, Marius Dybwad Brandrud, Play è intervallato da una scena ricorrente in cui i passeggeri di un treno scoprono e tentano di liberarsi del lettino di un bambino. Questo sembra indicare una mancanza collettiva di responsabilità sociale. L'efficacia di Play deriva dalla sua semplicità: portare sul grande schermo la realtà del bullismo con assoluta obiettività.
Nel suo film di successo internazionale Forza maggiore, Östlund traccia la dissoluzione (e la possibile riconciliazione) di una famiglia dell'alta borghesia svedese in vacanza alla stazione sciistica di Les Arcs, nelle Alpi francesi. Qualcosa di inaspettato accade. Una valanga si abbatte su una terrazza dove i quattro membri della famiglia fanno colazione insieme. Dinanzi alla furia della natura e in preda alla confusione, il padre di famiglia Tomas (Johannes Kuhnke) scappa lasciando soli la moglie e i figli. La valanga si ferma appena in tempo, ma il suo effetto durerà per tutto il resto del film.
Östlund, con estrema meticolosità, racconta i passaggi successivi all’accaduto: la reazioni della moglie di Tomas, Ebba (Lisa Kongsli), quelle meno esplicite dei figli e quella dello stesso Tomas, che tenta dapprima di minimizzare il tutto per poi cedere al crollo emotivo. La forza maggiore rappresenta anche un particolare caso in cui, attraverso la vulnerabilità mostrata visivamente, viene inscenato il guasto insito nell’essere umano. Il film essenzialmente analizza come quel disprezzo si materializzi sottilmente nelle interazioni della coppia, per culminare nella scena che segna la fine dello stato di negazione di Tomas e il suo ingresso in una condizione di nuda vulnerabilità.
La continua disapprovazione di Ebba per il comportamento del marito durante e dopo la valanga è il motore dello psicodramma di Östlund, il cui sguardo inflessibile davanti alla discordia coniugale deve qualcosa a Ingmar Bergman. Come sostiene il critico cinematografico Goffredo Fofi: “Östlund si presenta come uno dei pochi eredi dell’insegnamento di Ingmar Bergman... del Bergman che più crudamente ha voluto mettere a nudo le pulsioni profonde degli uomini del Novecento, ancora comprensibili agli uomini di oggi, nonostante la mutazione in corso”.
Östlund si muove senza pietà tra le crepe di un matrimonio e mette in discussione l'idea della mascolinità moderna. Anche se il finale ambiguo del film può suggerire un barlume di speranza per la coppia, la relazione che Östlund cattura con cinica precisione è progressivamente contaminata dal crescente disprezzo di Ebba. Come spettatori non sapremo mai se il rapporto tra i due coniugi era turbolento anche prima della crisi. Resta indubbio che, fin dalle scene iniziali, il rapporto appare danneggiato non solo dalla vigliaccheria di Tomas, ma anche dalle sue patetiche bugie all'indomani dell'evento.
La grande capacità di narrare di Östlund si manifesta nel modo in cui sfrutta l'ambientazione del film per comporre una serie di quadri che svelano l'irrilevanza dell’umano, sullo sfondo dell'immenso paesaggio alpino. Molte delle scene interne sono inoltre costruite per accentuare la mancanza di protezione della famiglia, come nello scatto in cui dormono nello stesso letto, completamente vestiti, dopo le attività della giornata. Forza maggiore ci mostra qualcosa di questi personaggi, e per estensione di noi stessi, che potremmo non voler vedere. Una magistrale commedia drammatica che mette in primo piano la debolezza umana.
Con The Square, il regista svedese mette in scena un’aspra satira del mondo dell’arte contemporanea in cui culminano le esperienze vulnerabili. Il film riprende il titolo da un’installazione di arte contemporanea che delimita il perimetro di un quadrato all’interno del quale ognuno, indistintamente dal genere, dalla propria cultura, classe sociale, religione e credo politico, ha idealmente uguali diritti e doveri. La narrazione ruota attorno alle vicende lavorative e personali di un tipico maschio alfa, Christian (Claes Bang), curatore di un prestigioso museo d’arte moderna e contemporanea di Stoccolma le cui certezze, fondate sulla sua professione e sul proprio status sociale, perderanno vigore a poco a poco conducendolo verso una crisi esistenziale.
Östlund non si accontenta però di esporre solo questo, vuole anche vedere cosa succede quando le infrastrutture di rispettabilità e privilegio si disintegrano, quando chi è apparentemente inattaccabile diviene vulnerabile come gli altri. Christian in The Square e, per estensione, il mondo sociale in cui è invischiato, incarnano perfettamente questo confronto tra il libero sé e il soggetto vulnerabile. Attraverso il suo comportamento egoistico, di cui è inconsapevole, mette allo scoperto i modi in cui la sua vita si intreccia con quella degli altri.
Nonostante l’arte sia e sia stata a lungo dominata da uomini potenti e benestanti, Östlund non perde l'occasione di prendere in giro le dinamiche di potere presenti nella società elitaria. All’idealismo dell’arte contemporanea si contrappone la missione vendicativa del protagonista nel momento in cui gli viene rubato il cellulare. Uno dei suoi dipendenti si offre gentilmente di aiutarlo. I due si dirigono verso un quartiere periferico, lontano dalla zona agiata e borghese dove ha sede il museo. Christian fa un atto spregevole che inizialmente lo esalta, per poi evidenziare la sua vulnerabilità. Per non intaccare il suo status sociale, spinge il giovane a compiere l’azione al suo posto. È qui che alla vulnerabilità si affianca una strana dinamica di potere.
The Square raffigura una società iper-capitalista piena di snobismo intellettuale, dove ancora una volta la dimensione spaziale è preminente. Il regista svedese vuole provocare nello spettatore quel sentimento di disagio che si manifesta dinanzi a situazioni in cui la tensione tra i personaggi sembra essere sul punto di esplodere. Lo spazio infatti ricopre nel film un ruolo essenziale, legato quasi sempre alla trasmissione di un senso di costrizione, apprensione o imbarazzo. Östlund opera spesso delle cesure in cui la visione appare frammentata e non complessiva. Lo spettatore è quindi soggetto ad un senso di straniamento che di riflesso rimanda alla condizione umana postmoderna e individualistica.
Nel film è centrale una sequenza in cui il regista bilancia abilmente il crescente senso di tensione con la satira socio-culturale del mondo rappresentato. Durante una cena di gala all’interno del museo, viene annunciata agli invitati la performance artistica di Oleg (Terry Notary), un artista chiamato ad esibirsi nel “ruolo” di uomo scimmia. Riproponendo le movenze animalesche di una scimmia, l’artista dapprima cammina in silenzio e scruta gli invitati per poi iniziare a provocarli, emettendo versi animali. Arriva persino ad aggredire uno degli artisti presenti per poi puntare una donna che, in preda al panico, comincia a urlare chiedendo aiuto ai commensali.
Attento a includere la reazione degli ospiti sempre più sconcertati, per tutta la sequenza Östlund rende progressivamente il comportamento di Oleg più minaccioso e imprevedibile. Questa scena condensa diverse questioni che riguardano il privilegio dell’uomo bianco, mettendo a nudo la vulnerabilità della mascolinità colta e benestante di fronte all'imprevisto. In The Square ogni personaggio, dal protagonista alla giovane mendicante, racchiude in sé caratteristiche negative che lo collocano al di fuori dei limiti che la cultura impone, ovvero in un contesto fatto di disumanità ed egocentrismo che finisce per mettere in crisi il significato degli stessi valori culturali e sociali. Il rapporto con l’alterità è messo in costante discussione e Östlund tenta sempre di instillare un dubbio negli occhi di chi guarda. Durante e dopo la visione dei suoi film lo spettatore si chiederà: esistono davvero la tolleranza, l’uguaglianza, la solidarietà, la fiducia tra le persone?
La Stoccolma di Östlund ritrae l’esperienza individuale di isolamento e disagio congeniti alla modernità. Focalizzando l’attenzione sulla società odierna e su come gli esseri umani reagiscono di fronte a determinati eventi e situazioni, Östlund mette a nudo le debolezze e le fragilità umane. Per questa e altre ragioni, resta oggi uno dei più grandi registi nel rappresentare i dilemmi che attanagliano la nostra contemporaneità.