NC-52
07.04.2021
‘La verità è più strana della finzione’ diceva Mark Twain, e non c’è forse posto al mondo che incarni queste parole meglio degli Stati Uniti d’America. Da secoli di colonizzazione e immigrazione è emersa in questa terra una mappa etnografica a cui spesso ci si riferisce con la metafora del melting pot – un calderone in costante ebollizione in cui è l’amalgama di culture a dar vita ad un’identità condivisa. Eppure non è mai stato il collettivismo a rappresentare gli americani, bensì l’idea dell’individuo come slogan esistenziale. Se esiste un ideale sovrano è esattamente quello di potersi sentire unici e diversi, di poter raggiungere un’identità nazionale attraverso la realizzazione di sé stessi. Non è un caso quindi che questa ideologia si possa ritrovare anche nella tradizione cinematografica, e nello specifico in quella documentaristica. Da Nanuk l’esquimese a Tiger King, l'istinto di documentare gli Stati Uniti è quello di farlo attraverso le realtà specifiche e spesso al limite dell'inverosimile di coloro che ci abitano. Le ampie e desolate cornici paesaggistiche lasciano spazio a dei personaggi a primo impatto difficili da comprendere, ma che sotto una più accurata ispezione si rivelano come effetti collaterali di una cultura dove la ricerca di un’identità singolare è l’unica cosa che conta.
Imbattersi in un film non ancora presente nel catalogo di una delle decine di piattaforme streaming esistenti è ormai una missione quasi impossibile. Eppure, a volte, succede di rinvenire nell’infinito oceano di Youtube delle gemme tutt’ora nascoste. È il caso di questi tre documentari, tre ritratti di un'America eclettica ed eccentrica, il cui fascino è conseguenza diretta delle proprie contraddizioni.
Portrait of Jason (1967, di Shirley Clarke)
Girato nel corso di una sola notte d’inverno, Portrait of Jason è un documentario rivoluzionario tanto per la propria estetica che per il proprio contenuto. Le riprese si tennero nel salone dell'appartamento della stessa Clarke nell’emblematico Chelsea Hotel – l’albergo dove tra le altre cose Arthur C. Clarke scrisse 2001: Odissea nello Spazio, Nancy Spungen e Sid Vicious vennero trovati morti, e Leonard Cohen e Janis Joplin ebbero una storia d’amore. Si tratta di un confessionale, una specie di seduta terapeutica tra regista e soggetto, in cui il cui paziente è Jason Holliday – un'aspirante cabarettista afroamericano che passò gran parte della propria vita a lavorare come escort. I suoi racconti sono in parte il dipinto di una nazione ancora in lotta con se stessa sulla questione razziale, e in parte un viaggio dentro la queer culture che stava emergendo in quel periodo. Portrait of Jason è l’intersezione di due mondi che prima degli anni ‘60 non sarebbero mai potuti entrare in contatto nella sfera pubblica, segnando così un punto di non ritorno per il cinema della controcultura.
Mentre il volto di Jason rimane l’unica cosa visibile per l’intera durata del film, la sua voce non è la sola a sentirsi. Durante lo scorrere dell’intervista e della notte, Jason viene messo alle strette da Shirley Clarke e gli altri membri della troupe, che lo forzano a confrontarsi con i fantasmi del proprio passato. Clarke disse di aver voluto includere le voci dietro l'obiettivo e la frustrazione di ambe le parti per raccontare ciò che realmente fosse successo quella notte. Eppure la telecamera non fa altro che stringere la propria morsa intorno a Jason, e il ritratto che ne rimane non è dunque solo il suo, ma anche (e forse soprattutto) quello voluto da Shirley Clarke.
Grey Gardens (1975, di Albert e David Maysles)
I fratelli Maysles sono considerati i principali esponenti del direct cinema, ovvero la controparte americana del cinéma vérité di Jean Rouch. Alla fine degli anni ‘50, il direct cinema prese forma come un’esplorazione dei possibili rapporti tra cinema e realtà, con l'obiettivo di creare delle rappresentazioni cinematografiche che fossero il più fedeli possibili alla realtà stessa. Ciò che oggi potrebbe sembrare un movimento banale ed intuitivo, fu in realtà all’epoca una delle rivoluzioni più importanti del linguaggio cinematografico. L’idea di portare sullo schermo la realtà inviolata, estrapolando le manipolazioni artificiali, servì infatti a mettere in discussione non solo l’integrità dei contenuti visivi, ma anche il ruolo e le responsabilità di chi faceva cinema.
A sette anni di distanza da Salesman, Albert e David Maysles realizzarono Grey Gardens. Giudicato da Sight & Sound come il nono miglior documentario di sempre, Grey Gardens è uno di quei film talmente fuori dagli schemi che bisogna vedere per credere. Le riprese ebbero luogo nella tenuta di Grey Gardens nell’East Hampton, all’epoca abitata da Edith Ewing Bouvier Beale ‘Big Edie’ e la figlia Edith Bouvier Beale ‘Little Edie’. Rispettivamente la zia e la cugina di Jackie Kennedy, Big e Little Edie abitarono insieme nella tenuta per più di cinquant’anni in quasi totale isolamento. Attraverso la quotidianità del rapporto tra madre e figlia, il documentario offre un ritratto senza precedenti di un'aristocrazia in decadenza che continua ad abitare ampie tenute ormai in preda allo squallore. Lo stile direct cinema dei Maysles lasciò spazio a Big e Little Edie di poter raccontare la propria storia, e in alcuni casi di orchestrare loro stesse le riprese. Grey Gardens è un’esperienza tanto bizzarra quanto essenziale per chiunque voglia interessarsi al racconto documentaristico.
Crumb (1995, di Terry Zwigoff)
Terry Zwigoff ci mise nove anni a completare questo documentario, durante i quali disse di aver guadagnato in media 200 dollari al mese e di aver sofferto talmente tanto di dolori alla schiena da dormire con una pistola carica sotto il cuscino. Crumb fu a detta di Roger Ebert il progetto che salvò la vita di Zwigoff, che grazie al suo successo arrivò addirittura alla candidatura agli Oscar sei anni più tardi con Ghost World. Nonostante la natura bohémien del progetto e del suo regista siano forse già motivo sufficiente per interessarsi al film, la stranezza del contesto non si avvicina neanche lontanamente a quella di colui che ne è il soggetto – Robert Crumb.
Robert Crumb è uno dei fumettisti americani più influenti di sempre, il cui stile grottesco servì da spartiacque per il successo e la popolarità del fumetto underground. Malgrado il suo successo nei circuiti indipendenti (attribuito dallo stesso Crumb all’uso della LSD), il fumettista viene spesso messo in discussione per i contenuti misogini e razzisti che pervadono molti dei suoi lavori. A chi lo accusa di venire meno alle proprie responsabilità verso il suo pubblico, Crumb risponde che la sua unica responsabilità in quanto artista è quella di non autocensurarsi. Dalla realizzazione della copertina per una rivista pronografica alla confessione del fratello Maxon di essere un predatore sessuale, Crumb è il paradigma di una riflessione sempre più urgente la cui risposta continua a sfuggirci – è possibile separare l’arte dall’artista?
NC-52
07.04.2021
‘La verità è più strana della finzione’ diceva Mark Twain, e non c’è forse posto al mondo che incarni queste parole meglio degli Stati Uniti d’America. Da secoli di colonizzazione e immigrazione è emersa in questa terra una mappa etnografica a cui spesso ci si riferisce con la metafora del melting pot – un calderone in costante ebollizione in cui è l’amalgama di culture a dar vita ad un’identità condivisa. Eppure non è mai stato il collettivismo a rappresentare gli americani, bensì l’idea dell’individuo come slogan esistenziale. Se esiste un ideale sovrano è esattamente quello di potersi sentire unici e diversi, di poter raggiungere un’identità nazionale attraverso la realizzazione di sé stessi. Non è un caso quindi che questa ideologia si possa ritrovare anche nella tradizione cinematografica, e nello specifico in quella documentaristica. Da Nanuk l’esquimese a Tiger King, l'istinto di documentare gli Stati Uniti è quello di farlo attraverso le realtà specifiche e spesso al limite dell'inverosimile di coloro che ci abitano. Le ampie e desolate cornici paesaggistiche lasciano spazio a dei personaggi a primo impatto difficili da comprendere, ma che sotto una più accurata ispezione si rivelano come effetti collaterali di una cultura dove la ricerca di un’identità singolare è l’unica cosa che conta.
Imbattersi in un film non ancora presente nel catalogo di una delle decine di piattaforme streaming esistenti è ormai una missione quasi impossibile. Eppure, a volte, succede di rinvenire nell’infinito oceano di Youtube delle gemme tutt’ora nascoste. È il caso di questi tre documentari, tre ritratti di un'America eclettica ed eccentrica, il cui fascino è conseguenza diretta delle proprie contraddizioni.
Portrait of Jason (1967, di Shirley Clarke)
Girato nel corso di una sola notte d’inverno, Portrait of Jason è un documentario rivoluzionario tanto per la propria estetica che per il proprio contenuto. Le riprese si tennero nel salone dell'appartamento della stessa Clarke nell’emblematico Chelsea Hotel – l’albergo dove tra le altre cose Arthur C. Clarke scrisse 2001: Odissea nello Spazio, Nancy Spungen e Sid Vicious vennero trovati morti, e Leonard Cohen e Janis Joplin ebbero una storia d’amore. Si tratta di un confessionale, una specie di seduta terapeutica tra regista e soggetto, in cui il cui paziente è Jason Holliday – un'aspirante cabarettista afroamericano che passò gran parte della propria vita a lavorare come escort. I suoi racconti sono in parte il dipinto di una nazione ancora in lotta con se stessa sulla questione razziale, e in parte un viaggio dentro la queer culture che stava emergendo in quel periodo. Portrait of Jason è l’intersezione di due mondi che prima degli anni ‘60 non sarebbero mai potuti entrare in contatto nella sfera pubblica, segnando così un punto di non ritorno per il cinema della controcultura.
Mentre il volto di Jason rimane l’unica cosa visibile per l’intera durata del film, la sua voce non è la sola a sentirsi. Durante lo scorrere dell’intervista e della notte, Jason viene messo alle strette da Shirley Clarke e gli altri membri della troupe, che lo forzano a confrontarsi con i fantasmi del proprio passato. Clarke disse di aver voluto includere le voci dietro l'obiettivo e la frustrazione di ambe le parti per raccontare ciò che realmente fosse successo quella notte. Eppure la telecamera non fa altro che stringere la propria morsa intorno a Jason, e il ritratto che ne rimane non è dunque solo il suo, ma anche (e forse soprattutto) quello voluto da Shirley Clarke.
Grey Gardens (1975, di Albert e David Maysles)
I fratelli Maysles sono considerati i principali esponenti del direct cinema, ovvero la controparte americana del cinéma vérité di Jean Rouch. Alla fine degli anni ‘50, il direct cinema prese forma come un’esplorazione dei possibili rapporti tra cinema e realtà, con l'obiettivo di creare delle rappresentazioni cinematografiche che fossero il più fedeli possibili alla realtà stessa. Ciò che oggi potrebbe sembrare un movimento banale ed intuitivo, fu in realtà all’epoca una delle rivoluzioni più importanti del linguaggio cinematografico. L’idea di portare sullo schermo la realtà inviolata, estrapolando le manipolazioni artificiali, servì infatti a mettere in discussione non solo l’integrità dei contenuti visivi, ma anche il ruolo e le responsabilità di chi faceva cinema.
A sette anni di distanza da Salesman, Albert e David Maysles realizzarono Grey Gardens. Giudicato da Sight & Sound come il nono miglior documentario di sempre, Grey Gardens è uno di quei film talmente fuori dagli schemi che bisogna vedere per credere. Le riprese ebbero luogo nella tenuta di Grey Gardens nell’East Hampton, all’epoca abitata da Edith Ewing Bouvier Beale ‘Big Edie’ e la figlia Edith Bouvier Beale ‘Little Edie’. Rispettivamente la zia e la cugina di Jackie Kennedy, Big e Little Edie abitarono insieme nella tenuta per più di cinquant’anni in quasi totale isolamento. Attraverso la quotidianità del rapporto tra madre e figlia, il documentario offre un ritratto senza precedenti di un'aristocrazia in decadenza che continua ad abitare ampie tenute ormai in preda allo squallore. Lo stile direct cinema dei Maysles lasciò spazio a Big e Little Edie di poter raccontare la propria storia, e in alcuni casi di orchestrare loro stesse le riprese. Grey Gardens è un’esperienza tanto bizzarra quanto essenziale per chiunque voglia interessarsi al racconto documentaristico.
Crumb (1995, di Terry Zwigoff)
Terry Zwigoff ci mise nove anni a completare questo documentario, durante i quali disse di aver guadagnato in media 200 dollari al mese e di aver sofferto talmente tanto di dolori alla schiena da dormire con una pistola carica sotto il cuscino. Crumb fu a detta di Roger Ebert il progetto che salvò la vita di Zwigoff, che grazie al suo successo arrivò addirittura alla candidatura agli Oscar sei anni più tardi con Ghost World. Nonostante la natura bohémien del progetto e del suo regista siano forse già motivo sufficiente per interessarsi al film, la stranezza del contesto non si avvicina neanche lontanamente a quella di colui che ne è il soggetto – Robert Crumb.
Robert Crumb è uno dei fumettisti americani più influenti di sempre, il cui stile grottesco servì da spartiacque per il successo e la popolarità del fumetto underground. Malgrado il suo successo nei circuiti indipendenti (attribuito dallo stesso Crumb all’uso della LSD), il fumettista viene spesso messo in discussione per i contenuti misogini e razzisti che pervadono molti dei suoi lavori. A chi lo accusa di venire meno alle proprie responsabilità verso il suo pubblico, Crumb risponde che la sua unica responsabilità in quanto artista è quella di non autocensurarsi. Dalla realizzazione della copertina per una rivista pronografica alla confessione del fratello Maxon di essere un predatore sessuale, Crumb è il paradigma di una riflessione sempre più urgente la cui risposta continua a sfuggirci – è possibile separare l’arte dall’artista?