Echi e corrispondenze fra lo storico italiano
Carlo Ginzburg e il cinema di Robert Eggers,
di Ludovico Cantisani
TR-39
07.11.2021
«Tutto quello che è interessante accade nell'ombra, davvero. Non si sa nulla della vera storia degli uomini». Presa dal Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Céline, questa frase si trova in esergo a uno dei libri più noti di Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi, e introduce bene il carattere indagatore e l’attenzione alla marginalità che hanno caratterizzato tutta la sua opera di storico. Classe 1939, figlio della Natalia di Lessico famigliare, Ginzburg è considerato fra i più importanti studiosi italiani della sua generazione, e nel corso della sua lunga carriera accademica è stato fra i principali promotori di una concezione della storiografia posta in costante dialogo con l’antropologia. Per parafrasare una delle sue frasi più ricorrenti, il suo percorso ha ripetutamente tentato di interpretare in maniera razionale e non razionalista dei nuclei di credenze «irrazionali».
Mettiamolo in chiaro da subito: Carlo Ginzburg non c’entra nulla con il cinema. E un po’ sorprende: l’immaginario popolare scomodato da lui, o dal suo maestro Ernesto de Martino, o anche da un altro maestro della letteratura italiana quale Italo Calvino nelle Fiabe italiane, si sarebbe potuto trasporre facilmente in una narrazione cinematografica. Ma è un dato di fatto che, nella storia del cinema italiano, il realismo magico è stato pressoché assente, e l’horror alla Dario Argento ha avuto un decorso completamente diverso quanto a radici culturali, rispetto alle tradizioni popolari e spesso ereticali raccolte da Ginzburg: e quindi, più che nel cinema italiano, echi e corrispondenze con le ricerche di Ginzburg vanno cercati altrove, verso gli USA.
L’opera di Ginzburg è incredibilmente complessa e stratificata, ma le opere per cui lo studioso torinese è più noto sono quelle in cui si spinge davvero a indagare «quello che accade nell’ombra»: risalendo i secoli attraverso i documenti d’archivio, queste ricerche storiografiche si muovono tutte nella stessa dimensione storico-culturale, nell’andare a rivangare le cosiddette «superstizioni» e le supposte «eresie» nel Nord d’Italia del XVI secolo. Questa indagine nell’ombra accomuna quelli che possono essere considerati di buon diritto i tre libri più noti di Ginzburg: I benandanti, la sua opera d’esordio, Il formaggio e i vermi e soprattutto Storia notturna, pubblicato nel 1977 e incentrato integralmente sulle tradizioni della stregoneria per tentare di operare «una decifrazione del sabba».
Se c’è una materia storiografica che ben si presta ad attirare su di sé le interpretazioni più varie e contraddittorie, che riflettono molto più le idee sull’uomo e sulla società di chi le espone piuttosto che la verità storica dell’argomento in sé, questa è la stregoneria. È una delle poche ma ineludibili pietre di scandalo della storiografia: chi parla di streghe deve prendere inevitabilmente posizione su un gran numero di questioni delicate e disparate, dall’inconscio collettivo al ruolo della donna nella società, dalla natura della ragione umana alla possibile presenza di agenti soprannaturali nella realtà che ci circonda. È difficile già solo circoscrivere cosa la stregoneria sia, o sia stata, a ben vedere.
L’ambiguità intrinseca della stregoneria si trova già nella radice etimologica del termine «superstizione»: dal super-est, o super-esse latino, quindi «ciò che sopravvive». La stregoneria medioevale è il segno di una sopravvivenza nelle aree rurali italiane ed europee di antichi culti «pagani» legati alla fertilità? La differenza, piuttosto chiara agli indiziati ma completamente sfuggita ai giudici, tra stregoni e benandanti apre ulteriori snodi problematici a tal riguardo. Quanto ciò di cui si preserva traccia quasi esclusivamente nei registri degli inquisitori riflette un vissuto autentico degli «eretici» e degli «stregoni» di volta in volta indiziati, e quanto invece è soltanto il frutto di una deformazione, introiettata da un certo momento storico in poi nell’immaginario degli stessi accusati?
Ed è così che arriviamo al cinema. Non perché esista un film che si rifà dichiaratamente alle tesi di Ginzburg: l’unica parziale eccezione sarebbe Menocchio di Alberto Fasulo, arrivato in sala nel 2018 e incentrato sull’eretico friulano già protagonista de Il formaggio e i vermi; ma la sceneggiatura del film non era basata sul saggio di Ginzburg, bensì sulle ricerche di Andrea Del Col. C’è però un film horror americano che, in maniera del tutto indipendente, per molti versi si è mosso lungo lo stesso solco tracciato da Ginzburg – un caso più unico che raro di «horror filologico». Stiamo parlando chiaramente di The VVitch, l’esordio al lungometraggio di Robert Eggers.
Sin dalle prime proiezioni al Sundance Film Festival, The VVitch è stato circondato da un alone di ammirazione e di mistero, un po’ come sarebbe accaduto pochi anni dopo con un’altra grandiosa opera prima horror, Hereditary di Ari Aster. Uno degli aspetti di The VVitch che più colpiva l’immaginazione di spettatori e critici stava nella doppia didascalia che, al termine dei titoli di testa e prima dell’inizio dei titoli di coda, ricordava al pubblico che quanto visto aveva un fondamento storico - chiaramente non nei fatti soprannaturali narrati, bensì nelle accuse mosse alle streghe. «Questo film è ispirato da un gran numero di leggende popolari, fiabe e racconti scritti su stregonerie del passato, tra cui diari, taccuini e verbali di processi. Molti dialoghi sono stati tratti direttamente da tali fonti storiche», si legge subito dopo aver visto la protagonista Thomasin unirsi a un sabba delle streghe e librarsi in volo in un gemito di piacere. Per tutti i novanta minuti precedenti del film avevamo assistito al fallimentare insediamento di una famiglia di origini inglesi nei pressi di un bosco del New England; un susseguirsi di disgrazie, incominciata con l’improvvisa scomparsa del figlio più piccolo ancora in fasce, inducono a poco a poco tutti gli altri famigliari a sospettare che la figlia maggiore Thomasin, quindicenne, sia una strega.
Che un horror possa provare a dirsi «tratto da una storia vera» anche per ragioni di cassetta non è una novità, parecchie pellicole si ispirano a esorcismi realmente avvenuti oppure a casi di poltergeist rivendicati per veri da chi li ha vissuti. Ciò che stupiva di The VVitch era che, in un horror di ambientazione storica che già non è molto usuale, ci fosse una tale attenzione per la verosimiglianza storica. Non a caso, diverse interviste a Eggers sono state volte espressamente a capire il processo creativo e documentativo dietro alla stesura della sceneggiatura. Come ha raccontato in una conversazione con IndieWire , Eggers è andato a cercare nelle biblioteche statunitensi dei testi storici consultabili pubblicamente, sia fiabeschi che giudiziari che privati, per scoprire che «le leggende popolari e le fiabe del XVII secolo raccontano le stesse storie dei processi di stregoneria».
Partendo da questa scoperta, Eggers ha ben presto intuito che «la giusta chiave per creare questo film stava nel capire che il mondo ‘reale’ e il mondo dei racconti di magia di fatto coincidevano ancora all’inizio dell’età moderna, facevano eccezione solo le persone più colte della società. La vita di tutti i giorni era imbevuta di soprannaturale. Le streghe erano reali come reale era il fango, come reali erano gli escrementi degli animali, come reali potevano essere il vento o Dio». Partendo quindi da questo grumo eterogeneo di racconti popolari e di atti di processi per stregoneria, Eggers ha cercato di costruire una storia al tempo stesso inventata e pienamente rispettosa delle parole e delle credenze di chi davvero ha vissuto in quel secolo, nelle colonie oltreoceano ancora sotto l’egida della corona britannica. «Le prime stesure della sceneggiatura erano dei collage piuttosto mostruosi di lavori e parole altrui, che poi ho dovuto ritagliare in battute che sembrassero dare voci ai personaggi», avrebbe confermato Eggers in un’altra intervista rilasciata a Vulture , «ma alcune cose sono state lasciate deliberatamente immutate. Le parole che i gemellini dicono quando sono posseduti sono delle cose che i bambini posseduti dicevano davvero», almeno secondo le fonti inquisitoriali e private consultate dal regista.
Per quanto profondamente diversi siano i linguaggi d'appartenenza, per quanto in un caso si tratti di un corpus di saggi storici basato su uno studio attentissimo delle fonti d'archivio e nell'altro di un film horror «di finzione» fondato anch’esso su documenti d’epoca, Ginzburg ed Eggers mostrano molti punti di contatto nell'approccio al tema della stregoneria. Innanzitutto, quella scelta giovanile di Ginzburg, che riflettendo sul suo futuro nella biblioteca della Normale di Pisa decise d'impulso di «studiare non i meccanismi di persecuzione ma i perseguitati», riecheggia nella scelta prospettica adottata da Eggers. La sua non è la prospettiva classica di un film horror: solitamente, gli horror occidentali sono molto più manichei. In The Vvitch, al contrario, i confini tra il bene e il male sono molto più sfumati, per non parlare di quelli che separano il male soprannaturale autentico dal male del dogmatismo e dell'ostinazione, che facilmente può condurre all'autosuggestione. Di più: i famigliari tendono via via sempre più ad escludere Thomasin e a sospettarla di essere una strega, così come tutta la famiglia, in blocco, nei primi minuti del film viene esclusa dalla comunità in cui viveva a causa delle idee fin troppo ortodosse ed integraliste del padre.
Lo stesso personaggio di Thomasin, che ha segnato il debutto cinematografico dell'ormai superstar Anya Taylor-Joy, è da ogni punto di vista un personaggio liminare. Innanzitutto per età: è un personaggio in piena crescita, un'adolescente, né donna né bambina, di cui assistiamo al menarca verso la metà del film. Ma soprattutto è un personaggio cangiante che, come in un assunto foucaultiano, alla fine del film si ritrova a diventare davvero ciò che tutti la sospettavano essere sin dall'inizio: una strega. Fino a quel momento, i sospetti su di lei sono irrisori, ma vengono presto ingigantiti dalla suggestione della madre, affranta per la scomparsa del figlio minore, e dall'estremismo religioso del padre.
The VVitch è un horror atipico proprio perché non separa mai chiaramente la sfera del bene da quella del male, o la sfera del soprannaturale da quella della suggestione, dell’incidente fortuito, della coincidenza. Che un horror decida di prendere per vera la propria dimensione soprannaturale, come The VVitch sempre più fa via via che si avvicina al suo esplosivo finale, è tutt’altro che atipico: ma se anche un film controverso come L’esorcista era sostanzialmente e profondamente cristiano nel suo assunto finale, The VVitch racconta la sua storia senza prendere posizione per nessuna delle due «parti in gara», né per il credo cristiano che smuove il padre di Thomasin né per il richiamo della foresta lanciato da quell’insieme di satanismo e animismo che tenta la ragazza; anzi, nel finale, The VVitch sembra parteggiare per quello che negli horror classici sarebbe stato bollato come il «Male», e che quindi coincide con una liberazione, anche fisica – il volo… –, del corpo della ragazza.
Particolarmente vivida, e particolarmente inaspettata in un film horror «di cassetta», è l’attenzione ai dati sociologici anche più piccoli, come l’elemento ossessionante della fame che permea tanto i discorsi quotidiani della famiglia quanto le supposte tentazioni diaboliche. Nel finale, è con la promessa di assaggiare del burro che il diavolo, per bocca del caprone nero Black Philip, sembra conquistare l'anima di Thomasin; e già all’inizio del film la fame induceva un uomo di fede a mentire, e a cedere in cambio di soldi una ricca coppa liturgica d’argento che rappresentava un ricordo della famiglia della moglie. Allo stesso modo, nelle sue opere Carlo Ginzburg aveva costantemente rimarcato lo stato di penuria, di caducità, di precarietà innanzitutto fisica in cui gli strati più bassi della popolazione rurale giacevano, ai tempi delle streghe e dei benandanti: e in questo si voleva richiamare tanto a certe pagine di Ernesto de Martino sul nesso tra magia e invidia in Sud e magia, quanto a tutto ciò che poteva intendere Antonio Gramsci dietro all’opposizione tra cultura egemone e culture subalterne.
«Le streghe si trovano per tutto il mondo, le quali fanno le stregarie, e mangiano le creature… Vanno in qua et in là in tutte e case che lor vogliono senza esser vedute da nessuno… Nella congregatione si balla e si mangia, cioè pare che si balli e che si mangi; le streghe nella congregatione vanno tutte a basciare il culo al diavolo, e doppo il diavolo gli dà autorità di far del male, cioè di far le malie». Se non fosse per il dialetto friulano, queste parole potrebbero essere attribuite tanto a uno dei libri di Ginzburg quanto a uno dei personaggi dei film di Eggers: in realtà, è una delle tante testimonianze dei benandanti contro gli stregoni raccolte da Ginzburg nel suo primo libro. Il riconoscimento di un «terreno ancora quasi inesplorato di rapporti e migrazioni culturali» che legano fra loro gli strati popolari e contadini di paesi occidentali anche molto lontani fra loro rappresentava un punto di svolta dell’analisi del successivo Il formaggio e i vermi; e riguardando a I benandanti mentre scriveva le prime pagine di Storia notturna, Ginzburg non nascondeva di aver provato «una sensazione vagamente simile alla vertigine» nell’accorgersi a suo tempo della connessione tra benandanti friulani e sciamani del Nord e dell’Est d’Europa. Allo stesso modo,anche un personaggio fittizio ma filologicamente fondato nel folklore locale, come la Thomasin di Anya Taylor-Joy, può richiamare per molti aspetti il nucleo di credenze riconosciuto da Ginzburg a proposito delle streghe friulane per la descrizione denigratoria che ne facevano i benandanti.
In realtà, i più profondi punti di contatto tra lo storico e il regista si potevano trovare già scandagliando le parole con cui Eggers spiegava il lavoro da lui condotto a partire dalle fonti storiche. Colpisce innanzitutto l’attenzione che ha dimostrato il regista nel riportare le parole di chi visse nel New England o in altre colonie inglesi in un Seicento fragile e povero, nel cercare di ricostruire sia scenicamente che dialogicamente il loro universo mentale. Ancora più sorprendente è la sua affermazione secondo cui «le leggende popolari e le fiabe del XVII secolo raccontano le stesse storie dei processi di stregoneria». A ben vedere, questo potrebbe essere il punto di partenza, ma anche l’esito opposto, delle ricerche di Ginzburg – che è andato a indagare proprio come, rispetto alle «verità» denunciate nei processi di stregoneria, le storie sulle streghe e sui benandanti celassero un sostrato di culture popolari di gran lunga più antico e fertile. Che è un po’ la stessa operazione che compie Eggers quando, senza mai abbandonare il riferimento all’immaginario diabolico, lo problematizza, rendendo molto più sfumata e catartica l’opposizione standard tra Bene e Male. Ma questo gioco di corrispondenze e contraddizioni tra le opere di Ginzburg ed Eggers rischia di non avere mai fine, se non si apre a connessioni nuove e più precise.
Per quanto rileggere The VVitch sotto un prisma ginzburghiano possa essere affascinante e rivelatorio, neanche un’opera come Storia notturna permette di sviscerare appieno uno dei più importanti sottotesti del primo film di Eggers, o, quantomeno, una delle chiavi interpretative che ha preso più rapidamente piede dopo la sua uscita: la lettura femminista del film. Una simile chiave di lettura del fenomeno della stregoneria, dal suo sorgere persecutorio fino alle rielaborazioni filmiche più recenti, potrebbe contribuire a spiegare l’ampiezza e l’estensione di quelle «migrazioni culturali» riconosciute da Ginzburg ne Il formaggio e i vermi, nell’ambito di società bene o male «patriarcali». Del resto molti elementi nello stesso The VVitch possono essere riletti come una sorta di allegoria dell’empowerment femminile: sospendendo la questione se tutti gli «incidenti» più o meno gravi che si abbattono sulla famiglia della protagonista siano realmente suscitati da forze demoniache o meno, fatto sta che al termine di The VVitch Thomasin si libera e, apparentemente, prende pieno possesso del suo corpo.
È probabilmente l’inquadratura più nota del film: dopo che già si era tolta l’abito sporco del sangue della madre appena uccisa, istigata dal caprone Black Philip che ormai si è rivelato essere il diavolo, si toglie di dosso anche la sottoveste, e nuda raggiunge le altre streghe che stanno celebrando il sabba nel cuore del bosco. A questo punto, mettendo da parte Ginzburg, le sue Storie notturne e i suoi echi di Gramsci e de Martino, può essere interessante consultare uno dei testi più celebri del femminismo contemporaneo, Il mostruoso femminile di Jude Ellison Sady Doyle.
A differenza di Carlo Ginzburg, e della sua visione morfologica della storia, Jude Doyle, firma di punta del Guardian e di Elle, opera una vera e propria critica dell’immaginario, traendo abbondanti esempi da film, serie tv e romanzi contemporanei – ed essendo il libro uscito nel 2019, The VVitch fa parte delle opere oggetto d’analisi. A differenza di altri horror e slasher più o meno contemporanei, per il film di Eggers Doyle non ha che parole di lode, e nel dizionarietto in fondo al libro The VVitch viene scherzosamente definito «molto bello, anche se finisce con una capra che parla a una ragazzina del fascino proibito dei latticini grassi». Se grazie a Ginzburg abbiamo capito l’importanza che questi infimi beni materiali avevano ai tempi dei processi contro le streghe e gli stregoni, è quello che dice Doyle nell’ultimo capitolo del libro, dedicato non a caso proprio alle streghe, che può aiutarci a capire come mai il film di Robert Eggers è entrato a far parte dell’immaginario femminista contemporaneo.
«La strega – rozza, egoista, furba, crudele, dall’insaziabile e perversa sessualità – è chiaramente un tipo di donna opposto alla madre. Le ‘brave’ donne sacrificano loro stesse per i figli: la strega sacrifica bambini per sé stessa». Non a caso in The VVitch il contrasto più forte e violento sarà proprio quello fra Thomasin e sua madre, che in una delle ultime scene del film la ragazza dovrà uccidere a coltellate per non essere a sua volta strozzata. Storicamente, la strega è sempre stata oggetto di persecuzione, e Ginzburg ci insegnava proprio che la leggenda nera della stregoneria medioevale può essere contro-interpretata come un fraintendimento, da parte degli inquisitori, di un insieme di antichi culti agrari rimasti in vita, e di fantasie e autosuggestioni di uomini del popolo che vivevano in condizioni di miseria assoluta. Ma proprio come in Perù la figura di Tupac Amaru, l’ultimo sovrano del paese prima dell’arrivo dei conquistadores spagnoli, è stato oggetto di una rivendicazione nazionalista ai tempi del decolonialismo, allo stesso modo a partire dagli anni settanta il femminismo si è impossessato della figura della strega e l’ha resa oggetto di una rivendicazione. La stessa cosa che è accaduta con The VVitch, che rispetto ad horror classici come il primo Suspiria mostra chiaramente i segni di questo cambiamento di percezione.
«La strega vive tra luce e ombra, tra la sicurezza del villaggio e le selvagge e sconosciute estensioni del bosco. Il contraccolpo dei primi anni del XXI secolo» – e qui Doyle si riferisce a come, nel corso degli anni duemila, tutta una serie di diritti delle donne, in primis divorzio e aborto, sono stati duramente contestati negli USA da parte dei gruppi più conservatori – «ha rivelato a molte donne quello che abbiamo sempre sospettato: non siamo mai appartenute a quel mondo di luce. Ci abbiamo provato, abbiamo lavorato, siamo rimaste fedeli alle leggi e ai valori della società per come l’abbiamo conosciuta» ma «nella storia che racconta di sé il patriarcato noi eravamo sempre l’antagonista, e se è davvero così, tanto vale ricavarne un po’ di magia». A questo punto, prima di lanciare a tutte le donne un appello finale a diventare streghe, Doyle scrive una frase che ricalca perfettamente la scena finale di The VVitch: «se il villaggio non ci vuole possiamo sempre dirigerci verso i boschi».
È interessante notare come, da pochi anni ma in maniera sempre più incisiva, i film e soprattutto i film di genere sembrino rispecchiare le “critiche all’immaginario” che da più parti vengono rivolte soprattutto per quanto riguarda la rappresentazione delle minoranze e delle marginalità. E dopo molte rappresentazioni in chiave negativa o biecamente sessualizzata delle streghe, è arrivato The VVitch, che, pur precedendo di un paio d’anni la battaglia mediatica e giudiziaria contro Harvey Weinstein e altri sexual offender hollywoodiani, retrospettivamente sembra anticipare certe questioni sollevate anche, ma non solo, dal #MeToo. Ormai è vistoso come la sopraggiunta attenzione a quella questione sociale di fondo che è, semplificando, la rappresentazione generalista delle minoranze, ha portato soprattutto all’interno del cinema di genere alla realizzazione di veri e propri film «revisionisti», o decostruzionisti. Un robusto revenge thriller come Una donna promettente con cui l’esordiente Emerald Fennell ha vinto un Oscar per la sceneggiatura è pienamente figlio del #MeToo, e se non fosse per il suo carattere pop, scoppiettante e in fondo autoironico avrebbe rischiato di essere retorico. Retrodatando di secoli la sua ambientazione, e rendendo molto più sfumati i confini tra bene e male, tra verità e immaginazione, tra religione ortodossa e superstizione, The VVitch compie un’operazione meno scontata e forse anche più inquietante.
Di qui l’importanza di The VVitch, il suo carattere di crocevia. Il suo essere, al tempo stesso, un horror classico e un horror filologico. Il suo saper sposare, in chiave contemporanea, sia la visione classica della stregoneria come male, sia una visione moderna, e quasi empatica, della strega come donna liberatasi dai vincoli della società. Di qui il suo valore politico, e la sua rilevanza sociologica. The VVitch rappresenta uno di quei casi, fecondi ma rari, in cui un film si nutre di suggestioni e stimoli provenienti dalla nostra società, ma la influenza a sua volta in termini di immaginario: realtà e fantasia così si respirano addosso, e arrivano a creare un film al tempo stesso semplice e stratificato. Se al termine della sua introduzione originaria a Storia Notturna Ginzburg faceva riferimento a quello della stregoneria come a uno «stereotipo composito», adesso sappiamo perché. E al contempo, grazie a The VVitch e ad autrici come Doyle, ci accorgiamo che quello della strega è un archetipo inesauribile. «They're strange, so strange/It's very strange to me… You've got to pick up every stitch/Must be the season of the witch» cantava già nel ’66 Donavan.
Echi e corrispondenze fra
lo storico italiano Carlo Ginzburg
e il cinema di Robert Eggers,
di Ludovico Cantisani
TR-39
07.11.2021
«Tutto quello che è interessante accade nell'ombra, davvero. Non si sa nulla della vera storia degli uomini». Presa dal Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Céline, questa frase si trova in esergo a uno dei libri più noti di Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi, e introduce bene il carattere indagatore e l’attenzione alla marginalità che hanno caratterizzato tutta la sua opera di storico. Classe 1939, figlio della Natalia di Lessico famigliare, Ginzburg è considerato fra i più importanti studiosi italiani della sua generazione, e nel corso della sua lunga carriera accademica è stato fra i principali promotori di una concezione della storiografia posta in costante dialogo con l’antropologia. Per parafrasare una delle sue frasi più ricorrenti, il suo percorso ha ripetutamente tentato di interpretare in maniera razionale e non razionalista dei nuclei di credenze «irrazionali».
Mettiamolo in chiaro da subito: Carlo Ginzburg non c’entra nulla con il cinema. E un po’ sorprende: l’immaginario popolare scomodato da lui, o dal suo maestro Ernesto de Martino, o anche da un altro maestro della letteratura italiana quale Italo Calvino nelle Fiabe italiane, si sarebbe potuto trasporre facilmente in una narrazione cinematografica. Ma è un dato di fatto che, nella storia del cinema italiano, il realismo magico è stato pressoché assente, e l’horror alla Dario Argento ha avuto un decorso completamente diverso quanto a radici culturali, rispetto alle tradizioni popolari e spesso ereticali raccolte da Ginzburg: e quindi, più che nel cinema italiano, echi e corrispondenze con le ricerche di Ginzburg vanno cercati altrove, verso gli USA.
L’opera di Ginzburg è incredibilmente complessa e stratificata, ma le opere per cui lo studioso torinese è più noto sono quelle in cui si spinge davvero a indagare «quello che accade nell’ombra»: risalendo i secoli attraverso i documenti d’archivio, queste ricerche storiografiche si muovono tutte nella stessa dimensione storico-culturale, nell’andare a rivangare le cosiddette «superstizioni» e le supposte «eresie» nel Nord d’Italia del XVI secolo. Questa indagine nell’ombra accomuna quelli che possono essere considerati di buon diritto i tre libri più noti di Ginzburg: I benandanti, la sua opera d’esordio, Il formaggio e i vermi e soprattutto Storia notturna, pubblicato nel 1977 e incentrato integralmente sulle tradizioni della stregoneria per tentare di operare «una decifrazione del sabba».
Se c’è una materia storiografica che ben si presta ad attirare su di sé le interpretazioni più varie e contraddittorie, che riflettono molto più le idee sull’uomo e sulla società di chi le espone piuttosto che la verità storica dell’argomento in sé, questa è la stregoneria. È una delle poche ma ineludibili pietre di scandalo della storiografia: chi parla di streghe deve prendere inevitabilmente posizione su un gran numero di questioni delicate e disparate, dall’inconscio collettivo al ruolo della donna nella società, dalla natura della ragione umana alla possibile presenza di agenti soprannaturali nella realtà che ci circonda. È difficile già solo circoscrivere cosa la stregoneria sia, o sia stata, a ben vedere.
L’ambiguità intrinseca della stregoneria si trova già nella radice etimologica del termine «superstizione»: dal super-est, o super-esse latino, quindi «ciò che sopravvive». La stregoneria medioevale è il segno di una sopravvivenza nelle aree rurali italiane ed europee di antichi culti «pagani» legati alla fertilità? La differenza, piuttosto chiara agli indiziati ma completamente sfuggita ai giudici, tra stregoni e benandanti apre ulteriori snodi problematici a tal riguardo. Quanto ciò di cui si preserva traccia quasi esclusivamente nei registri degli inquisitori riflette un vissuto autentico degli «eretici» e degli «stregoni» di volta in volta indiziati, e quanto invece è soltanto il frutto di una deformazione, introiettata da un certo momento storico in poi nell’immaginario degli stessi accusati?
Ed è così che arriviamo al cinema. Non perché esista un film che si rifà dichiaratamente alle tesi di Ginzburg: l’unica parziale eccezione sarebbe Menocchio di Alberto Fasulo, arrivato in sala nel 2018 e incentrato sull’eretico friulano già protagonista de Il formaggio e i vermi; ma la sceneggiatura del film non era basata sul saggio di Ginzburg, bensì sulle ricerche di Andrea Del Col. C’è però un film horror americano che, in maniera del tutto indipendente, per molti versi si è mosso lungo lo stesso solco tracciato da Ginzburg – un caso più unico che raro di «horror filologico». Stiamo parlando chiaramente di The VVitch, l’esordio al lungometraggio di Robert Eggers.
Sin dalle prime proiezioni al Sundance Film Festival, The VVitch è stato circondato da un alone di ammirazione e di mistero, un po’ come sarebbe accaduto pochi anni dopo con un’altra grandiosa opera prima horror, Hereditary di Ari Aster. Uno degli aspetti di The VVitch che più colpiva l’immaginazione di spettatori e critici stava nella doppia didascalia che, al termine dei titoli di testa e prima dell’inizio dei titoli di coda, ricordava al pubblico che quanto visto aveva un fondamento storico - chiaramente non nei fatti soprannaturali narrati, bensì nelle accuse mosse alle streghe. «Questo film è ispirato da un gran numero di leggende popolari, fiabe e racconti scritti su stregonerie del passato, tra cui diari, taccuini e verbali di processi. Molti dialoghi sono stati tratti direttamente da tali fonti storiche», si legge subito dopo aver visto la protagonista Thomasin unirsi a un sabba delle streghe e librarsi in volo in un gemito di piacere. Per tutti i novanta minuti precedenti del film avevamo assistito al fallimentare insediamento di una famiglia di origini inglesi nei pressi di un bosco del New England; un susseguirsi di disgrazie, incominciata con l’improvvisa scomparsa del figlio più piccolo ancora in fasce, inducono a poco a poco tutti gli altri famigliari a sospettare che la figlia maggiore Thomasin, quindicenne, sia una strega.
Che un horror possa provare a dirsi «tratto da una storia vera» anche per ragioni di cassetta non è una novità, parecchie pellicole si ispirano a esorcismi realmente avvenuti oppure a casi di poltergeist rivendicati per veri da chi li ha vissuti. Ciò che stupiva di The VVitch era che, in un horror di ambientazione storica che già non è molto usuale, ci fosse una tale attenzione per la verosimiglianza storica. Non a caso, diverse interviste a Eggers sono state volte espressamente a capire il processo creativo e documentativo dietro alla stesura della sceneggiatura. Come ha raccontato in una conversazione con IndieWire , Eggers è andato a cercare nelle biblioteche statunitensi dei testi storici consultabili pubblicamente, sia fiabeschi che giudiziari che privati, per scoprire che «le leggende popolari e le fiabe del XVII secolo raccontano le stesse storie dei processi di stregoneria».
Partendo da questa scoperta, Eggers ha ben presto intuito che «la giusta chiave per creare questo film stava nel capire che il mondo ‘reale’ e il mondo dei racconti di magia di fatto coincidevano ancora all’inizio dell’età moderna, facevano eccezione solo le persone più colte della società. La vita di tutti i giorni era imbevuta di soprannaturale. Le streghe erano reali come reale era il fango, come reali erano gli escrementi degli animali, come reali potevano essere il vento o Dio». Partendo quindi da questo grumo eterogeneo di racconti popolari e di atti di processi per stregoneria, Eggers ha cercato di costruire una storia al tempo stesso inventata e pienamente rispettosa delle parole e delle credenze di chi davvero ha vissuto in quel secolo, nelle colonie oltreoceano ancora sotto l’egida della corona britannica. «Le prime stesure della sceneggiatura erano dei collage piuttosto mostruosi di lavori e parole altrui, che poi ho dovuto ritagliare in battute che sembrassero dare voci ai personaggi», avrebbe confermato Eggers in un’altra intervista rilasciata a Vulture , «ma alcune cose sono state lasciate deliberatamente immutate. Le parole che i gemellini dicono quando sono posseduti sono delle cose che i bambini posseduti dicevano davvero», almeno secondo le fonti inquisitoriali e private consultate dal regista.
Per quanto profondamente diversi siano i linguaggi d'appartenenza, per quanto in un caso si tratti di un corpus di saggi storici basato su uno studio attentissimo delle fonti d'archivio e nell'altro di un film horror «di finzione» fondato anch’esso su documenti d’epoca, Ginzburg ed Eggers mostrano molti punti di contatto nell'approccio al tema della stregoneria. Innanzitutto, quella scelta giovanile di Ginzburg, che riflettendo sul suo futuro nella biblioteca della Normale di Pisa decise d'impulso di «studiare non i meccanismi di persecuzione ma i perseguitati», riecheggia nella scelta prospettica adottata da Eggers. La sua non è la prospettiva classica di un film horror: solitamente, gli horror occidentali sono molto più manichei. In The Vvitch, al contrario, i confini tra il bene e il male sono molto più sfumati, per non parlare di quelli che separano il male soprannaturale autentico dal male del dogmatismo e dell'ostinazione, che facilmente può condurre all'autosuggestione. Di più: i famigliari tendono via via sempre più ad escludere Thomasin e a sospettarla di essere una strega, così come tutta la famiglia, in blocco, nei primi minuti del film viene esclusa dalla comunità in cui viveva a causa delle idee fin troppo ortodosse ed integraliste del padre.
Lo stesso personaggio di Thomasin, che ha segnato il debutto cinematografico dell'ormai superstar Anya Taylor-Joy, è da ogni punto di vista un personaggio liminare. Innanzitutto per età: è un personaggio in piena crescita, un'adolescente, né donna né bambina, di cui assistiamo al menarca verso la metà del film. Ma soprattutto è un personaggio cangiante che, come in un assunto foucaultiano, alla fine del film si ritrova a diventare davvero ciò che tutti la sospettavano essere sin dall'inizio: una strega. Fino a quel momento, i sospetti su di lei sono irrisori, ma vengono presto ingigantiti dalla suggestione della madre, affranta per la scomparsa del figlio minore, e dall'estremismo religioso del padre.
The VVitch è un horror atipico proprio perché non separa mai chiaramente la sfera del bene da quella del male, o la sfera del soprannaturale da quella della suggestione, dell’incidente fortuito, della coincidenza. Che un horror decida di prendere per vera la propria dimensione soprannaturale, come The VVitch sempre più fa via via che si avvicina al suo esplosivo finale, è tutt’altro che atipico: ma se anche un film controverso come L’esorcista era sostanzialmente e profondamente cristiano nel suo assunto finale, The VVitch racconta la sua storia senza prendere posizione per nessuna delle due «parti in gara», né per il credo cristiano che smuove il padre di Thomasin né per il richiamo della foresta lanciato da quell’insieme di satanismo e animismo che tenta la ragazza; anzi, nel finale, The VVitch sembra parteggiare per quello che negli horror classici sarebbe stato bollato come il «Male», e che quindi coincide con una liberazione, anche fisica – il volo… –, del corpo della ragazza.
Particolarmente vivida, e particolarmente inaspettata in un film horror «di cassetta», è l’attenzione ai dati sociologici anche più piccoli, come l’elemento ossessionante della fame che permea tanto i discorsi quotidiani della famiglia quanto le supposte tentazioni diaboliche. Nel finale, è con la promessa di assaggiare del burro che il diavolo, per bocca del caprone nero Black Philip, sembra conquistare l'anima di Thomasin; e già all’inizio del film la fame induceva un uomo di fede a mentire, e a cedere in cambio di soldi una ricca coppa liturgica d’argento che rappresentava un ricordo della famiglia della moglie. Allo stesso modo, nelle sue opere Carlo Ginzburg aveva costantemente rimarcato lo stato di penuria, di caducità, di precarietà innanzitutto fisica in cui gli strati più bassi della popolazione rurale giacevano, ai tempi delle streghe e dei benandanti: e in questo si voleva richiamare tanto a certe pagine di Ernesto de Martino sul nesso tra magia e invidia in Sud e magia, quanto a tutto ciò che poteva intendere Antonio Gramsci dietro all’opposizione tra cultura egemone e culture subalterne.
«Le streghe si trovano per tutto il mondo, le quali fanno le stregarie, e mangiano le creature… Vanno in qua et in là in tutte e case che lor vogliono senza esser vedute da nessuno… Nella congregatione si balla e si mangia, cioè pare che si balli e che si mangi; le streghe nella congregatione vanno tutte a basciare il culo al diavolo, e doppo il diavolo gli dà autorità di far del male, cioè di far le malie». Se non fosse per il dialetto friulano, queste parole potrebbero essere attribuite tanto a uno dei libri di Ginzburg quanto a uno dei personaggi dei film di Eggers: in realtà, è una delle tante testimonianze dei benandanti contro gli stregoni raccolte da Ginzburg nel suo primo libro. Il riconoscimento di un «terreno ancora quasi inesplorato di rapporti e migrazioni culturali» che legano fra loro gli strati popolari e contadini di paesi occidentali anche molto lontani fra loro rappresentava un punto di svolta dell’analisi del successivo Il formaggio e i vermi; e riguardando a I benandanti mentre scriveva le prime pagine di Storia notturna, Ginzburg non nascondeva di aver provato «una sensazione vagamente simile alla vertigine» nell’accorgersi a suo tempo della connessione tra benandanti friulani e sciamani del Nord e dell’Est d’Europa. Allo stesso modo,anche un personaggio fittizio ma filologicamente fondato nel folklore locale, come la Thomasin di Anya Taylor-Joy, può richiamare per molti aspetti il nucleo di credenze riconosciuto da Ginzburg a proposito delle streghe friulane per la descrizione denigratoria che ne facevano i benandanti.
In realtà, i più profondi punti di contatto tra lo storico e il regista si potevano trovare già scandagliando le parole con cui Eggers spiegava il lavoro da lui condotto a partire dalle fonti storiche. Colpisce innanzitutto l’attenzione che ha dimostrato il regista nel riportare le parole di chi visse nel New England o in altre colonie inglesi in un Seicento fragile e povero, nel cercare di ricostruire sia scenicamente che dialogicamente il loro universo mentale. Ancora più sorprendente è la sua affermazione secondo cui «le leggende popolari e le fiabe del XVII secolo raccontano le stesse storie dei processi di stregoneria». A ben vedere, questo potrebbe essere il punto di partenza, ma anche l’esito opposto, delle ricerche di Ginzburg – che è andato a indagare proprio come, rispetto alle «verità» denunciate nei processi di stregoneria, le storie sulle streghe e sui benandanti celassero un sostrato di culture popolari di gran lunga più antico e fertile. Che è un po’ la stessa operazione che compie Eggers quando, senza mai abbandonare il riferimento all’immaginario diabolico, lo problematizza, rendendo molto più sfumata e catartica l’opposizione standard tra Bene e Male. Ma questo gioco di corrispondenze e contraddizioni tra le opere di Ginzburg ed Eggers rischia di non avere mai fine, se non si apre a connessioni nuove e più precise.
Per quanto rileggere The VVitch sotto un prisma ginzburghiano possa essere affascinante e rivelatorio, neanche un’opera come Storia notturna permette di sviscerare appieno uno dei più importanti sottotesti del primo film di Eggers, o, quantomeno, una delle chiavi interpretative che ha preso più rapidamente piede dopo la sua uscita: la lettura femminista del film. Una simile chiave di lettura del fenomeno della stregoneria, dal suo sorgere persecutorio fino alle rielaborazioni filmiche più recenti, potrebbe contribuire a spiegare l’ampiezza e l’estensione di quelle «migrazioni culturali» riconosciute da Ginzburg ne Il formaggio e i vermi, nell’ambito di società bene o male «patriarcali». Del resto molti elementi nello stesso The VVitch possono essere riletti come una sorta di allegoria dell’empowerment femminile: sospendendo la questione se tutti gli «incidenti» più o meno gravi che si abbattono sulla famiglia della protagonista siano realmente suscitati da forze demoniache o meno, fatto sta che al termine di The VVitch Thomasin si libera e, apparentemente, prende pieno possesso del suo corpo.
È probabilmente l’inquadratura più nota del film: dopo che già si era tolta l’abito sporco del sangue della madre appena uccisa, istigata dal caprone Black Philip che ormai si è rivelato essere il diavolo, si toglie di dosso anche la sottoveste, e nuda raggiunge le altre streghe che stanno celebrando il sabba nel cuore del bosco. A questo punto, mettendo da parte Ginzburg, le sue Storie notturne e i suoi echi di Gramsci e de Martino, può essere interessante consultare uno dei testi più celebri del femminismo contemporaneo, Il mostruoso femminile di Jude Ellison Sady Doyle.
A differenza di Carlo Ginzburg, e della sua visione morfologica della storia, Jude Doyle, firma di punta del Guardian e di Elle, opera una vera e propria critica dell’immaginario, traendo abbondanti esempi da film, serie tv e romanzi contemporanei – ed essendo il libro uscito nel 2019, The VVitch fa parte delle opere oggetto d’analisi. A differenza di altri horror e slasher più o meno contemporanei, per il film di Eggers Doyle non ha che parole di lode, e nel dizionarietto in fondo al libro The VVitch viene scherzosamente definito «molto bello, anche se finisce con una capra che parla a una ragazzina del fascino proibito dei latticini grassi». Se grazie a Ginzburg abbiamo capito l’importanza che questi infimi beni materiali avevano ai tempi dei processi contro le streghe e gli stregoni, è quello che dice Doyle nell’ultimo capitolo del libro, dedicato non a caso proprio alle streghe, che può aiutarci a capire come mai il film di Robert Eggers è entrato a far parte dell’immaginario femminista contemporaneo.
«La strega – rozza, egoista, furba, crudele, dall’insaziabile e perversa sessualità – è chiaramente un tipo di donna opposto alla madre. Le ‘brave’ donne sacrificano loro stesse per i figli: la strega sacrifica bambini per sé stessa». Non a caso in The VVitch il contrasto più forte e violento sarà proprio quello fra Thomasin e sua madre, che in una delle ultime scene del film la ragazza dovrà uccidere a coltellate per non essere a sua volta strozzata. Storicamente, la strega è sempre stata oggetto di persecuzione, e Ginzburg ci insegnava proprio che la leggenda nera della stregoneria medioevale può essere contro-interpretata come un fraintendimento, da parte degli inquisitori, di un insieme di antichi culti agrari rimasti in vita, e di fantasie e autosuggestioni di uomini del popolo che vivevano in condizioni di miseria assoluta. Ma proprio come in Perù la figura di Tupac Amaru, l’ultimo sovrano del paese prima dell’arrivo dei conquistadores spagnoli, è stato oggetto di una rivendicazione nazionalista ai tempi del decolonialismo, allo stesso modo a partire dagli anni settanta il femminismo si è impossessato della figura della strega e l’ha resa oggetto di una rivendicazione. La stessa cosa che è accaduta con The VVitch, che rispetto ad horror classici come il primo Suspiria mostra chiaramente i segni di questo cambiamento di percezione.
«La strega vive tra luce e ombra, tra la sicurezza del villaggio e le selvagge e sconosciute estensioni del bosco. Il contraccolpo dei primi anni del XXI secolo» – e qui Doyle si riferisce a come, nel corso degli anni duemila, tutta una serie di diritti delle donne, in primis divorzio e aborto, sono stati duramente contestati negli USA da parte dei gruppi più conservatori – «ha rivelato a molte donne quello che abbiamo sempre sospettato: non siamo mai appartenute a quel mondo di luce. Ci abbiamo provato, abbiamo lavorato, siamo rimaste fedeli alle leggi e ai valori della società per come l’abbiamo conosciuta» ma «nella storia che racconta di sé il patriarcato noi eravamo sempre l’antagonista, e se è davvero così, tanto vale ricavarne un po’ di magia». A questo punto, prima di lanciare a tutte le donne un appello finale a diventare streghe, Doyle scrive una frase che ricalca perfettamente la scena finale di The VVitch: «se il villaggio non ci vuole possiamo sempre dirigerci verso i boschi».
È interessante notare come, da pochi anni ma in maniera sempre più incisiva, i film e soprattutto i film di genere sembrino rispecchiare le “critiche all’immaginario” che da più parti vengono rivolte soprattutto per quanto riguarda la rappresentazione delle minoranze e delle marginalità. E dopo molte rappresentazioni in chiave negativa o biecamente sessualizzata delle streghe, è arrivato The VVitch, che, pur precedendo di un paio d’anni la battaglia mediatica e giudiziaria contro Harvey Weinstein e altri sexual offender hollywoodiani, retrospettivamente sembra anticipare certe questioni sollevate anche, ma non solo, dal #MeToo. Ormai è vistoso come la sopraggiunta attenzione a quella questione sociale di fondo che è, semplificando, la rappresentazione generalista delle minoranze, ha portato soprattutto all’interno del cinema di genere alla realizzazione di veri e propri film «revisionisti», o decostruzionisti. Un robusto revenge thriller come Una donna promettente con cui l’esordiente Emerald Fennell ha vinto un Oscar per la sceneggiatura è pienamente figlio del #MeToo, e se non fosse per il suo carattere pop, scoppiettante e in fondo autoironico avrebbe rischiato di essere retorico. Retrodatando di secoli la sua ambientazione, e rendendo molto più sfumati i confini tra bene e male, tra verità e immaginazione, tra religione ortodossa e superstizione, The VVitch compie un’operazione meno scontata e forse anche più inquietante.
Di qui l’importanza di The VVitch, il suo carattere di crocevia. Il suo essere, al tempo stesso, un horror classico e un horror filologico. Il suo saper sposare, in chiave contemporanea, sia la visione classica della stregoneria come male, sia una visione moderna, e quasi empatica, della strega come donna liberatasi dai vincoli della società. Di qui il suo valore politico, e la sua rilevanza sociologica. The VVitch rappresenta uno di quei casi, fecondi ma rari, in cui un film si nutre di suggestioni e stimoli provenienti dalla nostra società, ma la influenza a sua volta in termini di immaginario: realtà e fantasia così si respirano addosso, e arrivano a creare un film al tempo stesso semplice e stratificato. Se al termine della sua introduzione originaria a Storia Notturna Ginzburg faceva riferimento a quello della stregoneria come a uno «stereotipo composito», adesso sappiamo perché. E al contempo, grazie a The VVitch e ad autrici come Doyle, ci accorgiamo che quello della strega è un archetipo inesauribile. «They're strange, so strange/It's very strange to me… You've got to pick up every stitch/Must be the season of the witch» cantava già nel ’66 Donavan.