di Omar Franini, Antonio Orrico, Arturo Garavaglia e Beatrice Gangi
NC-228
05.09.2024
In questo terzo appuntamento ci concentreremo su due delle opere più attese del Concorso: Queer di Luca Guadagnino, l’adattamento del celeberrimo romanzo di William S. Burroughs, e The Room Next Door, il primo film di Pedro Almodóvar girato completamente in lingua inglese con protagoniste Tilda Swinton e Julianne Moore. Inoltre vi racconteremo anche di altri due titoli italiani presentati al Festival, come Vermiglio, opera seconda di Maura Delpero e Familia di Francesco Costabile. Continueremo anche con alcuni titoli che ci hanno convinto per il modo in cui si sono approcciati al cinema di genere, tra cui King Ivory di John Swab, Maldoror di Fabrice Du Weltz e Sanatorium of Hour Glass dei fratelli Quay. Concluderemo infine con una piccola digressione in Asia con Phantosmia, il nuovo lungometraggio di Lav Diaz, e Happyend di Neo Sora, uno dei cineasti più promettenti del Giappone.
The Room Next Door, di Pedro Almodóvar
Sono ormai anni che Pedro Almodóvar promette di girare un film in lingua inglese e dopo aver “sperimentato” con i due cortometraggi Strange Way of Life (2023) e The Human Voice (2020), ha deciso di mettersi alla prova con The Room Next Door, adattamento del romanzo What Are You Going Through (2020) di Sigrid Nunez. La trama del film è incentrata sull’amicizia tra la scrittrice Ingrid (Julianne Moore) e l’ex giornalista di guerra Martha (Tilda Swinton), dopo che la prima viene a sapere da una conoscente che Martha è malata di cancro e in fin di vita. Dopo una lontananza di diversi anni, questo complicato periodo sarà in grado di riavvicinare le due amiche, arrivando ad un certo estremo dopo che Martha inviterà l’amica in una casa per vacanze in modo da farsi "accompagnare" nel suicidio assistito. Infatti, Martha ha comprato una pillola illegale in grado di ucciderla, ma non sa ancora quando la userà e, per far capire all’amica il momento esatto del suo gesto estremo, le dirà che quando la porta della sua camera sarà “chiusa” quello sarà il segnale della sua dipartita. C’erano diversi timori per questo film, soprattutto sul modo in cui lo stile eclettico, ma soprattutto narrativo, dell'autore spagnolo si sarebbe sposato con la lingua inglese, e dispiace affermare che tali dubbi erano corretti; nella prima parte infatti si possono intuire delle lacune a livello di sceneggiatura, le conversazioni sembrano semplici nella loro sintassi, ma eccessivamente distraenti dal punto di vista del tono. All’inizio sembra che questi difetti facciano parte di una sorta di satira che Almodóvar ha intenzione di compiere nei confronti di se stesso, ma man mano che il film prosegue, e prende una direzione più melodrammatica, si capisce che questo non rientrava nei suoi intenti. Il mix tragicomico non è ben equilibrato all’interno dell’opera e le due attrici protagoniste ne risentono in parte; esemplificativa è una delle sequenze iniziali dove un brillante monologo della Swinton viene interrotto dall’inserimento di alcuni flashback piuttosto inutili e irritanti. Quando Almodóvar si concentra esclusivamente sulle sue due nuove muse il film risulta piuttosto accattivante, anche se il melodramma “sirkiano” non raggiunge gli apici delle sue opere passate. Non aiuta il fatto che il regista iberico introduca anche dei personaggi che stonano con il ritmo dell’opera, come la breve e confusionaria sottotrama riguardante un poliziotto religioso interpretato da Alessandro Nivola. Nonostante questi difetti, The Room Next Door emoziona grazie alle due imperfette, ma pur sempre struggenti, interpretazioni centrali.
Happyend, di Neo Sora
Il controsenso di una società xenofobica formata da immigrati, Happyend si ambienta nella Tokyo di un futuro prossimo, tra le aule di una scuola superiore non troppo dissimile da quelle che conosciamo oggi. Regia di Neo Sora, qui al suo primo lungometraggio narrativo dopo la presentazione a Venezia 80 del film-concerto Opus (2023), dedicato al padre Ryuichi Sakamoto, il film è estremizzazione e denuncia del sistema socio-politico giapponese. Nel quotidiano della città futura raccontataci da Sora, la minaccia di un terremoto senza precedenti, che, da un momento all’altro potrebbe spazzare via una fragile quotidianità condivisa. All’interno della vita scolastica, la presenza capillare del mondo, regolare e regolato, degli adulti, l’imposizione di un livello di sicurezza grottescamente fuori posto in un universo inerentemente insicuro. Nell’immediato, un paradossale mondo ordinato ma senza futuro. La narrazione segue i due (inconciliabili e insperabili) migliori amici Yuta (Hayato Kurihara) e Kou (Yukito Hidaka), e la loro, tipicamente adolescenziale, risposta a una realtà poco allettante. Appassionato desiderio di cambiamento da un lato, confortevole apatia dall’altro. Posizioni su cui, Sora, non ha comunque la pretesa di dare un giudizio di parte. L’obiettivo è osservare, a livello ipotetico, un disagio moderno, l’inquietudine e la paura per un futuro incerto. La generazione contemporanea a Yuta e Kou è probabilmente rassegnata. Non ha più voglia di lottare per cause più grandi, e neanche ne vede il senso. In un certa prospettiva, è quella che probabilmente dovrà pagare le colpe delle precedenti. I giovani attori, tutti ottimi, rappresentano diverse sfaccettature di questo concetto, che così bene riflette le nuove generazioni di oggi. Kou, non sopporta più i suoi coetanei fintamente ignari, ma è, tra tutti, quello che ha più da perdere per un eccesso di lucidità. Yuta, etichettato insensibile, è invece forse il personaggio che ha maggiormente a cuore la protezione della sua unica certezza: i suoi amici, l’oggi. Il resto del gruppo principale si posiziona a diversi livelli tra i due estremi, ed è eccellente il lavoro di Sora nel dare a ognuno dei componenti una reale profondità oltre lo stereotipo. Con la stessa premura sono portati in scena anche gli appartenenti a una generazione più adulta, tra essi il Preside dell’istituto, interpretato da Shiro Sano. Quello di Sora è un ottimo debutto - tematicamente e sul lato della gestione del ritmo e del montaggio - e risulta una pellicola dallo scorrimento assolutamente fluido. Brillano inoltre le sequenze dedicate alla musica techno, probabilmente in virtù della precedente regia di Opus. Tra le sorprese principali della sezione Orizzonti di Venezia 81, e nonostante l’ambizione nel mettere in scena argomenti estremamente complessi, Happyend è una riflessione centralissima sulla nostra contemporaneità e sulla reale profondità della, banalmente definita, apatia moderna.
Queer, di Luca Guadagnino
La vita di William S. Burroughs, uno dei più importanti esponenti letterari della Beat Generation, è stata costellata da periodi difficili, basti pensare alle varie dipendenze da oppiacei e alcool o la relazione travagliata con la moglie che, dopo la sua morte “inaspettata”, costringerà l’autore ad emigrare fuori dagli Stati Uniti. Come ogni grande scrittore, Burroughs ha tratto ispirazione dalla propria esperienza personale per confezionare alcuni dei romanzi più importanti del Novecento, tra cui Queer, che racconta proprio il periodo citato pocanzi attraverso il punto di vista di William Lee, un feticcio dell'autore stesso. Oltre ai suoi originali toni di scrittura la peculiarità del romanzo si trova nella sua assenza di conclusione, dal momento che Burroughs non riuscì mai a completarlo.
Quando fu annunciato l’adattamento cinematografico di Luca Guadagnino, sceneggiato da Justin Kurizkes - già collaboratore del regista in Challengers (2024) -, le aspettative sono salite alle stelle poiché il tono tossico, assurdo e psicotropico del romanzo si sposavano perfettamente con l’estetica del suo cinema e il costante leitmotif sulla co-dipendenza dei personaggi che la sua filmografia. Strutturato in tre capitoli, il lungometraggio analizza la relazione tormentata tra Lee (Daniel Craig) e Eugene Allerton (Drew Starkey), giovane ragazzo di cui lo scrittore si infatua durante uno dei suoi battuage nei locali notturni di Città del Messico. Il capitolo iniziale mostra il “pellegrinaggio” del protagonista in questi Club e Guadagnino sfrutta alla perfezione questi incontri fugaci per caratterizzare Lee, una persona resa patetica dalla dipendenze per i rapporti carnali fugaci. La sua sessualità famelica inizia a decadere una volta che intravede il giovane Allerton in una strada, la cui introduzione tramite uno slow motion sulle note di Come As You Are dei Nirvana, dove i due personaggi si scambiano degli sguardi intensi, è uno di quei tocchi stilistici che rendono Guadagnino un regista unico nel suo genere. L’aspetto stoico e impassibile di Allerton, la cui apatia e indifferenza nei confronti di Lee lo rendono ancora di più un oggetto del desiderio proibito, è la base della prima parte dell'opera. L’aspetto travagliato del rapporto raggiunge però il suo apice quando Lee invita Allerton ad accompagnarlo in Sud America alla ricerca di una droga psicadelica estratta da una radice e con effetti simili all’ayahuasca. In questa sezione Guadagnino si focalizza per lo più sulla dipendenza e sull’astinenza del protagonista che, se ad un primo impatto sembra allontanare i due amanti, in seguito li avvicinerà. In questi momenti spicca un piano sequenza di quattro minuti sulle note di Leave Me Alone dei New Order, nel quale Lee assume dell’eroina. Arrivati nella foresta, il film prende una direzione psichedelica, dove tramite l’uso della sostanza tanto ricercata, e donata loro da uno sciamano (un’indimenticabile ed inquietante Lesley Manville), i corpi dei due protagonisti perderanno la propria corporalità fino ad unirsi in uno solo. Quest’ultima parte segue un crescendo allucinogeno fino a raggiungere un climax kaleidoscopico dove la realtà si unisce alla dimensione ultraterrena e onirica. Il successo del film appartiene sopratutto ai due interpreti centrali, le cui performance agiscono all’unisono; da una parte Craig (nella sua interpretazione migliore) con il suo drunk acting al limite del ridicolo, che viene compensato dall’approccio più minimalista ed enigmatico di Starkey. Il cut iniziale del film doveva essere sulle tre ore e speriamo che un giorno venga reso disponibile poiché un maggiore focus su ogni singola sezione avrebbe giovato ancora di più all'opera, che comunque rimane l’ennesima straordinaria sorpresa di Luca Guadagnino.
King Ivory, di John Swab
King Ivory è uno dei vari soprannomi dati al fentanyl, un potente oppioide sintetico che, negli ultimi anni, sta mietendo molte vittime per via della sua dipendenza. Proprio questo fenomeno globalmente diffuso è l’ispirazione dietro al nuovo lungometraggio di John Swab, cineasta riconosciuto per i suoi film d’azione spietati e dai toni esagerati. King Ivory, presentato nella sezione Orizzonti Extra, è un film corale con struttura ad intreccio che segue vari personaggi il cui mondo è condizionato dalla sostanza illegale; da una parte ci sono le varie gang che cercano di prevalere l’una sull’altra per conquistare più zone possibili per la vendita, mentre dall’altra ci sono le forze dell’ordine che stanno operando per smantellare il regno della droga. Nonostante la storia sia piuttosto prevedibile - l’aspetto poliziesco risulta derivativo da altri film sulla lotta alle sostanze stupefacenti - il lungometraggio intrattiene per tutta la sua durata e soprattutto non cerca di adottare un approccio eccessivamente moralistico nell’affrontare il soggetto della dipendenza; il messaggio è presente, ma, ad esempio, non è ridondante quanto il recente Asphalt City (2023) di Jean-Stéphane Sauvaire. La struttura ad ensemble non funziona del tutto poiché certi personaggi, soprattutto quelli adolescenziali, risultano piuttosto superflui, forse un maggiore focus sulla caccia all’uomo avrebbe giovato alla resa finale. Uno dei punti di forza dell’opera sono le interpretazioni di Michael Mando (il Nacho di Better Call Saul), uno dei capi delle varie gang, e Ben Foster, un enigmatico ex galeotto che si trova nel limbo di questa “guerra”. Quest’ultimo regala al pubblico un altro personaggio affascinante, spietato e a tratti compassionevole, peccato che Swab non si concentri abbastanza sul grande talento dell’attore statunitense nella parte conclusiva del film.
Familia, di Francesco Costabile
Secondo lungometraggio del regista italiano Francesco Costabile, e conferma dell’interesse dell’autore verso un modello di cinema sociale, Familia è una, autentica, storia di violenza. Il film, tratto dal romanzo autobiografico Non sarà sempre così di Luigi Celeste, è il lascito di un uomo, Franco (Francesco di Leva), padre veemente e marito dispotico, che da dieci anni è stato forzatamente allontanato dalla sua famiglia, composta dalla moglie Licia (Barbara Ronchi) e dai due figli, Luigi (Francesco Gheghi) e Alessandro (Marco Cicalese). Descritto da Constabile come un melodramma nero, Familia è un film di sperimentazione all’interno della tematica sociale, in cui lo strumento cinematografico, diventa mezzo, parimerito alla narrazione tradizionale, di racconto del microcosmo della violenza privata. Questa forma autoriale appare ben visibile nel succedersi di tecniche di ripresa eterogenee ma, spesso, incoerenti, che sacrificano una più profonda introspezione emotiva a trovate estetiche poco convincenti. Allo stesso tempo, la direzione sonora, dalla presenza persistente, risulta invasiva e fuori tono. Più di tutto, Familia fallisce nel condannare il perpetuarsi della violenza nelle situazioni di abuso, apparentemente (e probabilmente in modo involontario) giustificandola come via obbligata. Presentato nella sezione Orizzonti del Festival, il film di Costabile soffre la mancanza di una direzione registica matura e delineata, questo nonostante l'apprezzabile tentativo di portare sullo schermo una rappresentazione di violenza (ovvero della sua recidività) che si discosti dalla narrazione inflazionata del cinema contemporaneo.
Le Mohican, di Frédéric Farrucci
Frédéric Farrucci ha esordito nel panorama internazionale con il crime multi-etnico La Nuit Venue (2019), film che ha ricevuto una nomination ai César 2021 per il miglior esordio, constatando, di fatto, l’ascesa di un nuovo astro del cinema francese. Cinque anni dopo il suo esordio, e dopo alcune esperienze televisive, Farrucci sbarca per la prima volta ad un festival internazionale presentando il suo Le Mohican (2024) nella sezione Orizzonti Extra. Un film amaro, che constata le pressioni e l’influenza della criminalità nei confronti della popolazione circostante. Le premesse e l’evoluzione del thriller francese sono molto simili a quelle di un altro film presentato in ambito festivaliero giusto due anni fa, vale a dire As Bestas (2022) di Rodrigo Sorogoyen, da cui il lungometraggio di Farrucci riprende le ambientazioni selvagge e “retrogradate” e le scenografie “en plein air” collocandosi nella stessa tipologia di cinema e ricalcandone le orme. Rispetto al film spagnolo, però, Le Mohican si distacca per la sua natura manifestamente più politica e meno antropologica, in cui l’indagine sull’uomo come bestia è temporaneamente messa da parte per favorire, piuttosto, una storia di resistenza proletaria degli abitanti corsi, pronti a combattere per difendere il proprio territorio e per non abbandonare il luogo che li ha da sempre accolti e formati. Proprio per questi motivi, il film diventa cinema di genere puro, una lotta senza quartiere che piano piano si affaccia anche alle logiche introiettate del western, in cui lo Stato francese è smembrato e inesistente nei confronti dell’ambiente circostante. Ne risulta un ritratto nero che ricorda molto le recenti opere di genere del crime italiano - con un occhio alla serie ZeroZeroZero (2020) di Stefano Sollima-, ma che, a differenza di queste ultime, pone l’accento su una visione diversa di criminalità. Quest’ultima non risulta più affiliata agli estremismi e investita di una carica politicizzata, ma piuttosto è una presenza antropologicamente radicata e legata indissolubilmente al territorio, tale da ricordare lo stesso meccanismo narrativo alla base dei film della banlieue, che vengono ripresi anche stilisticamente. Farrucci, infatti, sceglie di privilegiare riprese ariose ed ampie, zeppe di campi medi e lunghi e di esterne che minimizzano e rimpiccioliscono l’uomo all’interno della natura, lasciando presagire, di fatto, il pericolo che essa rappresenta nel contesto francese, senza lesinare su esplosioni improvvise di violenza e su un meccanismo di tensione crescente. In più, riesce anche a porre in primo piano la modernità, la tecnologia e i social (dal ruolo quasi alieno in un contesto così povero e arretrato) come veicolo di lotta alla criminalità organizzata, laddove proprio la presenza del networking e delle iniziative da parte dei giovani abitanti (tra cui la brava Mara Taquin) garantisce al film una risoluzione effettiva, palesando come al giorno d’oggi sia indispensabile passare per Internet per denunciare un qualsiasi fenomeno territoriale.
Phantosmia, di Lav Diaz
Habitué della Mostra, Lav Diaz torna al Lido con Phantosmia. Come in When the Waves are Gone, l'ultimo film del regista filippino presentato a Venezia adopera la malattia che colpisce un soggetto esecutore del potere come punto di partenza per un’indagine sulla violenza, un vero e proprio miasma che contagia il paese da oltre 80 anni. La puzza che l’ex sergente Hilarion Zabala - l’ottimo Ronnie Lazaro - percepisce intorno a lui è lungi dall’essere un’allucinazione olfattiva - la fantosmia che dà titolo al film -, è semmai il risveglio di una coscienza assuefatta a compiere meccanicamente il male. Una coscienza a cui però viene concessa quella possibilità di redenzione che manca nei film precedenti di Diaz. Lo spazio d’azione - una colonia penale che occupa l’isola di Pulo - assume i tratti di un paradiso perduto, ridotto dall’uomo a gabbia in cui perpetrare violenza, non solo nei confronti di chi è detenuto. Un luogo in cui il mito - rappresentato dal leggendario felino Haring Musang - è scomparso, sopraffatto dal male. La lunga durata del film - tratto stilistico del regista Leone d’Oro - permette allo spettatore di immergersi dentro l’ambiente e nelle inquadrature, di familiarizzare con il protagonista e con il suo dramma, di fare esperienza di un processo di analisi che trova sfogo in un’azione sovversiva di libertà. Lo stile del regista appare qui più grezzo rispetto alle opere precedenti. Le lunghe inquadrature fisse non si traducono sempre in un rifiuto del montaggio, la stessa fotografia - rigorosamente in bianco e nero - in alcune sequenze appare meno elaborata ed è singolare la scelta di girare alcune scene con degli fps inferiori. A bilanciare queste soluzioni estetiche inconsuete c’è però un film estremamente limpido nella sua narrazione e chiaro nella propria parabola. Un’opera che emoziona, dalla quale è molto difficile "uscire" a visione terminata, capace di arrivare senza eccessivi sforzi anche a spettatori meno avvezzi alla filmografia dell'autore. Inspiegabile ci appare quindi la sua collocazione fuori concorso, specialmente in un’edizione della Mostra in cui la lunghezza media dei film in competizione è molto alta.
Vermiglio, di Maura Delpero
Ambientato nell’inverno del 1944 nel paesino di Vermiglio, in Val di Sole, il secondo lungometraggio di Maura Delpero esplora le vicende di una cospicua famiglia formata dal patriarca Cesare (Tommaso Ragno), la moglie Adele e i numerosi figli. L’esistenza pacata di questo nucleo verrà stravolta una volta che il figlio maggiore Attilio tornerà al paesello insieme al compagno di fronte Pietro. L’amico, di origini sicule, ben presto si innamorerà della diciassettenne Lucia (Martina Scrinzi), il cui amore verrà corrisposto e, da questa relazione, ne scaturirà una gravidanza e il conseguente matrimonio. Ma una volta che Pietro sarà costretto a tornare in Sicilia per sistemare alcune faccende di famiglia, una serie di disgrazie inizieranno a susseguirsi. Traendo chiaramente ispirazione dal cinema di Ermanno Olmi, tra cui L’Albero degli Zoccoli (1978), Delpero gira un film che riflette la vita rurale di montagna, non solo la tranquillità in mezzo alla natura, ma anche l’aspra verità di un’esistenza alienante e a tratti senza futuro. Anche se il film si focalizza principalmente su Lucia, Delpero riesce abilmente a costruire un mosaico dove ogni singolo personaggio è risaltato: come ad esempio Dino, ragazzo portato per il lavoro manuale che mostrerà una certa volontà nell’imparare a leggere e a scrivere ma verrà represso dal padre e dall’insegnante della scuola locale, oppure il rapporto tra le due sorelle Ada e Livia, che si dividono i favoritismi del padre tramite la religione e l’istruzione scolastica. Tutte queste sottotrame non vengono sviluppate separatamente ma sono sempre collegate da un filo narrativo o dalla presenza dei figli più piccoli della famiglia, la cui innocenza funge da coro greco. Delpero è in grado di risaltare questo mondo rurale scandendo i ritmi delle attività quotidiane e stagionali tramite l’utilizzo di lunghi piani sequenza e tableaux vivants, oltre che a mostrare come questo paesaggio naturale può aiutare la comunità quanto farle del male. Nella parte finale c’era il rischio di decadere in un eccesso di pietismo, ma la cineasta permane l’opera con una certa umanità e speranza che ci ha colpito ed emozionato.
Maldoror, di Fabrice du Welz
Nel 2004, il belga Fabrice Du Welz esordisce ufficialmente con il suo primo lungometraggio, dal titolo Calvaire (2004). Il film è selezionato alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes edizione 2005. Già con questo esordio, lo stile di Du Welz si forma, soprattutto per ciò che riguarda la rappresentazione della provincia transalpina, contornata da personaggi del tutto fuori calibro e decisamente grotteschi, talmente inquietanti da risaltare l’atmosfera macabra costruita attorno ai luoghi del film. Dopo aver partecipato per la prima volta alla Mostra del Cinema di Venezia con il suo Vinyan (2008), e aver affrontato avventure “tossiche” sul set di Colt 45 (2014), il regista ha vissuto un periodo di ripresa, soprattutto con il suo Adoration (2019), insignito del Premio André Cavens per il miglior film dalla Belgian Film Critics Association. A distanza di sedici anni è tornato al Lido con il suo nuovo lavoro: Maldoror (2024), thriller/noir molto atipico chiaramente ispirato al famigerato caso di Marc Dutroux, il serial killer e pedofilo soprannominato il mostro di Marcinelle. Nel raccontare questo true crime, Du Welz immerge lo spettatore in un contesto tetro, in cui il percorso dei protagonisti riprende nuovamente il “martirio” di Calvaire (2004), ricordato soprattutto tramite alcuni eccessi del racconto che, contrariamente al film del 2004, si riscoprono più seriosi e molto più ingabbiati nel sistema del racconto di genere, in quanto hanno un approccio perlopiù rigoroso e inizialmente molto compassato. Nel corso di Maldoror, però, Du Welz sfrutta il suo mondo di “anime in pena”, della sua provincia malsana e colma d’inquietudini (viene alla mente l’aria dei racconti di Simenon, dei noir anni ‘30/’40 con protagonista Michel Simon e, soprattutto, l’inesorabilità del racconto corale del primo Dumont, ambientato in una provincia popolata da “freak” e immerso in segni e codici quasi inafferrabili) per instillare nello spettatore la sua caratteristica aria macabra e nera. Proprio in questo caso, c’è spazio nuovamente per gli emarginati del film del 2004 e per il contesto folkloristico che ritorna nuovamente ad essere il centro dell’atmosfera e del “disturbo”, laddove l’indagine è solo l’escamotage per un affresco tradizionale del noir, a 360°. La componente davvero interessante di Maldoror, però, non risiede tanto nel suo voler raccontare la provincia come fonte di ignoranza, ossessioni e discese nel baratro della follia - nonostante il detective interpretato da Bajon risulti, a conti fatti, un martire in attesa di una catarsi e di una liberazione che arriva nel nerissimo finale, molto vicino al destino di un altro detective francofono, ovvero Pharaon, interpretato da Emmanuel Schotté ne L’Humanité (1999) del già citato Bruno Dumont -, quanto piuttosto nel narrare l’ossessione umana per il senso di giustizia e come questa possa far crollare anche le vite più felici. Proprio in questo senso, Du Welz sprigiona le sue migliori carte, quando muove la macchina da presa per suggestioni e relega il montaggio ad una confusione che rispecchia quella provata da Bajon stesso, attraverso soluzioni intelligenti quali sovraesposizioni, dissolvenze incrociate, stop-framing del montaggio, lens flare che fanno sprofondare il film in una dimensione catatonica, in un incubo abissale in cui il regista relega tutto il potere e la forza del suo racconto all’accumulo sensoriale di simboli, immagini e suoni (soprattutto nelle sequenze in casa), mostrando la forza di un cinema di genere che è capace ancora di sfruttare intelligentemente le sue componenti primigenie (luci e sonoro su tutte).
Sanatorium Under The Sign Of The Hourglass, di Quay Brothers
I Quay Brothers, ormai longevi registi e tra i più rivoluzionari e interessanti animatori del cinema mondiale, sono sempre stati molto affezionati ad un formato cinematografico molto inusuale rispetto alla massa, concentrati più che altro sul cortometraggio e le sue notevoli sfaccettature ibridate con l’arte della stop-motion, piuttosto che su lunghi film. Quest’anno, però, si presentano alla Mostra del Cinema di Venezia con il loro Sanatorium Under The Sign Of The Hourglass. I fratelli tornano ad affrontare Bruno Schulz, dopo i corti Street Of Crocodiles (1986) e The Art Teacher From Drohobycz (2022), firmando il secondo adattamento dell’omonimo romanzo già portato sul grande schermo dal maestro della Nova Vlna Wojciech Has, il quale lo rielaborò nel 1973. Rispetto all’adattamento di Has, quello dei Quay si caratterizza per essere un viaggio nelle memorie d’infanzia del protagonista, il quale prende vita soprattutto attraverso una rielaborazione fortissima e intelligente delle invenzioni visive e della macchina-cinema. Quest’ultima è riportata dai Quay ad uno stadio primordiale, facendo rivivere in essa il gusto delle immagini e delle alterazioni schermiche ormai obsolete, appartenenti alle origini del cinema e che, in qualche modo, aiutano lo spettatore a comprendere meglio lo scopo di Sanatorium Under The Sign Of The Hourglass. Quella dei Quay è una masterclass su quali siano i processi di formazione di un’immagine (adottati in tutte le forme possibili, dalle doppie esposizioni alle dissolvenze incrociate), la quale è scomposta in unità elementari allo scopo di analizzarla nei minimi particolari. Alla base del film vi è, dunque, proprio la metafora della creazione come atto cinematografico, laddove l’immagine si svincola da orpelli interpretativi di tutti i tipi e subisce un processo che si occupa di spogliarla semanticamente portandola a diventare semplice significante, di cui lo spettatore deve semplicemente godere e di cui deve scoprire le caratteristiche da zero. Proprio la gioia della scoperta e della creazione del processo-cinema dona al film un fascino unico, che va al di là della cinefilia degli stessi registi (come si può notare dalla citazione ibrida al “Cabinet Of Doctor Godard”, capace di coniugare più avanguardie in un solo termine) e che, soprattutto, si forgia di una forma che attinge da immaginari diversi, dallo steampunk al surreale di “svankmajeriana” memoria, riconducendo lo spettatore all’abbattimento del proprio ordine mentale e al cedimento delle logiche delle percezione, costantemente sfidate e abbattute da un linguaggio, come quello dei Quay, che si riscopre sovversivo e totalmente anarchico. Proprio in virtù di questo, i linguaggi stessi si intersecano senza soluzione di continuità, e così in Sanatorium Under The Sign Of The Hourglass si passa rapidamente dal cinema al videogame (come dimostra la seconda parte del film, in cui i meccanismi riprendono quelli delle avventure grafiche più celebri), in una destrutturazione che si occupa di mostrare in modo diacronico cos’è stata, cos’è e cosa sarà la Settima Arte.
di Omar Franini, Antonio Orrico, Arturo Garavaglia e Beatrice Gangi
NC-228
05.09.2024
In questo terzo appuntamento ci concentreremo su due delle opere più attese del Concorso: Queer di Luca Guadagnino, l’adattamento del celeberrimo romanzo di William S. Burroughs, e The Room Next Door, il primo film di Pedro Almodóvar girato completamente in lingua inglese con protagoniste Tilda Swinton e Julianne Moore. Inoltre vi racconteremo anche di altri due titoli italiani presentati al Festival, come Vermiglio, opera seconda di Maura Delpero e Familia di Francesco Costabile. Continueremo anche con alcuni titoli che ci hanno convinto per il modo in cui si sono approcciati al cinema di genere, tra cui King Ivory di John Swab, Maldoror di Fabrice Du Weltz e Sanatorium of Hour Glass dei fratelli Quay. Concluderemo infine con una piccola digressione in Asia con Phantosmia, il nuovo lungometraggio di Lav Diaz, e Happyend di Neo Sora, uno dei cineasti più promettenti del Giappone.
The Room Next Door, di Pedro Almodóvar
Sono ormai anni che Pedro Almodóvar promette di girare un film in lingua inglese e dopo aver “sperimentato” con i due cortometraggi Strange Way of Life (2023) e The Human Voice (2020), ha deciso di mettersi alla prova con The Room Next Door, adattamento del romanzo What Are You Going Through (2020) di Sigrid Nunez. La trama del film è incentrata sull’amicizia tra la scrittrice Ingrid (Julianne Moore) e l’ex giornalista di guerra Martha (Tilda Swinton), dopo che la prima viene a sapere da una conoscente che Martha è malata di cancro e in fin di vita. Dopo una lontananza di diversi anni, questo complicato periodo sarà in grado di riavvicinare le due amiche, arrivando ad un certo estremo dopo che Martha inviterà l’amica in una casa per vacanze in modo da farsi "accompagnare" nel suicidio assistito. Infatti, Martha ha comprato una pillola illegale in grado di ucciderla, ma non sa ancora quando la userà e, per far capire all’amica il momento esatto del suo gesto estremo, le dirà che quando la porta della sua camera sarà “chiusa” quello sarà il segnale della sua dipartita. C’erano diversi timori per questo film, soprattutto sul modo in cui lo stile eclettico, ma soprattutto narrativo, dell'autore spagnolo si sarebbe sposato con la lingua inglese, e dispiace affermare che tali dubbi erano corretti; nella prima parte infatti si possono intuire delle lacune a livello di sceneggiatura, le conversazioni sembrano semplici nella loro sintassi, ma eccessivamente distraenti dal punto di vista del tono. All’inizio sembra che questi difetti facciano parte di una sorta di satira che Almodóvar ha intenzione di compiere nei confronti di se stesso, ma man mano che il film prosegue, e prende una direzione più melodrammatica, si capisce che questo non rientrava nei suoi intenti. Il mix tragicomico non è ben equilibrato all’interno dell’opera e le due attrici protagoniste ne risentono in parte; esemplificativa è una delle sequenze iniziali dove un brillante monologo della Swinton viene interrotto dall’inserimento di alcuni flashback piuttosto inutili e irritanti. Quando Almodóvar si concentra esclusivamente sulle sue due nuove muse il film risulta piuttosto accattivante, anche se il melodramma “sirkiano” non raggiunge gli apici delle sue opere passate. Non aiuta il fatto che il regista iberico introduca anche dei personaggi che stonano con il ritmo dell’opera, come la breve e confusionaria sottotrama riguardante un poliziotto religioso interpretato da Alessandro Nivola. Nonostante questi difetti, The Room Next Door emoziona grazie alle due imperfette, ma pur sempre struggenti, interpretazioni centrali.
Happyend, di Neo Sora
Il controsenso di una società xenofobica formata da immigrati, Happyend si ambienta nella Tokyo di un futuro prossimo, tra le aule di una scuola superiore non troppo dissimile da quelle che conosciamo oggi. Regia di Neo Sora, qui al suo primo lungometraggio narrativo dopo la presentazione a Venezia 80 del film-concerto Opus (2023), dedicato al padre Ryuichi Sakamoto, il film è estremizzazione e denuncia del sistema socio-politico giapponese. Nel quotidiano della città futura raccontataci da Sora, la minaccia di un terremoto senza precedenti, che, da un momento all’altro potrebbe spazzare via una fragile quotidianità condivisa. All’interno della vita scolastica, la presenza capillare del mondo, regolare e regolato, degli adulti, l’imposizione di un livello di sicurezza grottescamente fuori posto in un universo inerentemente insicuro. Nell’immediato, un paradossale mondo ordinato ma senza futuro. La narrazione segue i due (inconciliabili e insperabili) migliori amici Yuta (Hayato Kurihara) e Kou (Yukito Hidaka), e la loro, tipicamente adolescenziale, risposta a una realtà poco allettante. Appassionato desiderio di cambiamento da un lato, confortevole apatia dall’altro. Posizioni su cui, Sora, non ha comunque la pretesa di dare un giudizio di parte. L’obiettivo è osservare, a livello ipotetico, un disagio moderno, l’inquietudine e la paura per un futuro incerto. La generazione contemporanea a Yuta e Kou è probabilmente rassegnata. Non ha più voglia di lottare per cause più grandi, e neanche ne vede il senso. In un certa prospettiva, è quella che probabilmente dovrà pagare le colpe delle precedenti. I giovani attori, tutti ottimi, rappresentano diverse sfaccettature di questo concetto, che così bene riflette le nuove generazioni di oggi. Kou, non sopporta più i suoi coetanei fintamente ignari, ma è, tra tutti, quello che ha più da perdere per un eccesso di lucidità. Yuta, etichettato insensibile, è invece forse il personaggio che ha maggiormente a cuore la protezione della sua unica certezza: i suoi amici, l’oggi. Il resto del gruppo principale si posiziona a diversi livelli tra i due estremi, ed è eccellente il lavoro di Sora nel dare a ognuno dei componenti una reale profondità oltre lo stereotipo. Con la stessa premura sono portati in scena anche gli appartenenti a una generazione più adulta, tra essi il Preside dell’istituto, interpretato da Shiro Sano. Quello di Sora è un ottimo debutto - tematicamente e sul lato della gestione del ritmo e del montaggio - e risulta una pellicola dallo scorrimento assolutamente fluido. Brillano inoltre le sequenze dedicate alla musica techno, probabilmente in virtù della precedente regia di Opus. Tra le sorprese principali della sezione Orizzonti di Venezia 81, e nonostante l’ambizione nel mettere in scena argomenti estremamente complessi, Happyend è una riflessione centralissima sulla nostra contemporaneità e sulla reale profondità della, banalmente definita, apatia moderna.
Queer, di Luca Guadagnino
La vita di William S. Burroughs, uno dei più importanti esponenti letterari della Beat Generation, è stata costellata da periodi difficili, basti pensare alle varie dipendenze da oppiacei e alcool o la relazione travagliata con la moglie che, dopo la sua morte “inaspettata”, costringerà l’autore ad emigrare fuori dagli Stati Uniti. Come ogni grande scrittore, Burroughs ha tratto ispirazione dalla propria esperienza personale per confezionare alcuni dei romanzi più importanti del Novecento, tra cui Queer, che racconta proprio il periodo citato pocanzi attraverso il punto di vista di William Lee, un feticcio dell'autore stesso. Oltre ai suoi originali toni di scrittura la peculiarità del romanzo si trova nella sua assenza di conclusione, dal momento che Burroughs non riuscì mai a completarlo.
Quando fu annunciato l’adattamento cinematografico di Luca Guadagnino, sceneggiato da Justin Kurizkes - già collaboratore del regista in Challengers (2024) -, le aspettative sono salite alle stelle poiché il tono tossico, assurdo e psicotropico del romanzo si sposavano perfettamente con l’estetica del suo cinema e il costante leitmotif sulla co-dipendenza dei personaggi che la sua filmografia. Strutturato in tre capitoli, il lungometraggio analizza la relazione tormentata tra Lee (Daniel Craig) e Eugene Allerton (Drew Starkey), giovane ragazzo di cui lo scrittore si infatua durante uno dei suoi battuage nei locali notturni di Città del Messico. Il capitolo iniziale mostra il “pellegrinaggio” del protagonista in questi Club e Guadagnino sfrutta alla perfezione questi incontri fugaci per caratterizzare Lee, una persona resa patetica dalla dipendenze per i rapporti carnali fugaci. La sua sessualità famelica inizia a decadere una volta che intravede il giovane Allerton in una strada, la cui introduzione tramite uno slow motion sulle note di Come As You Are dei Nirvana, dove i due personaggi si scambiano degli sguardi intensi, è uno di quei tocchi stilistici che rendono Guadagnino un regista unico nel suo genere. L’aspetto stoico e impassibile di Allerton, la cui apatia e indifferenza nei confronti di Lee lo rendono ancora di più un oggetto del desiderio proibito, è la base della prima parte dell'opera. L’aspetto travagliato del rapporto raggiunge però il suo apice quando Lee invita Allerton ad accompagnarlo in Sud America alla ricerca di una droga psicadelica estratta da una radice e con effetti simili all’ayahuasca. In questa sezione Guadagnino si focalizza per lo più sulla dipendenza e sull’astinenza del protagonista che, se ad un primo impatto sembra allontanare i due amanti, in seguito li avvicinerà. In questi momenti spicca un piano sequenza di quattro minuti sulle note di Leave Me Alone dei New Order, nel quale Lee assume dell’eroina. Arrivati nella foresta, il film prende una direzione psichedelica, dove tramite l’uso della sostanza tanto ricercata, e donata loro da uno sciamano (un’indimenticabile ed inquietante Lesley Manville), i corpi dei due protagonisti perderanno la propria corporalità fino ad unirsi in uno solo. Quest’ultima parte segue un crescendo allucinogeno fino a raggiungere un climax kaleidoscopico dove la realtà si unisce alla dimensione ultraterrena e onirica. Il successo del film appartiene sopratutto ai due interpreti centrali, le cui performance agiscono all’unisono; da una parte Craig (nella sua interpretazione migliore) con il suo drunk acting al limite del ridicolo, che viene compensato dall’approccio più minimalista ed enigmatico di Starkey. Il cut iniziale del film doveva essere sulle tre ore e speriamo che un giorno venga reso disponibile poiché un maggiore focus su ogni singola sezione avrebbe giovato ancora di più all'opera, che comunque rimane l’ennesima straordinaria sorpresa di Luca Guadagnino.
King Ivory, di John Swab
King Ivory è uno dei vari soprannomi dati al fentanyl, un potente oppioide sintetico che, negli ultimi anni, sta mietendo molte vittime per via della sua dipendenza. Proprio questo fenomeno globalmente diffuso è l’ispirazione dietro al nuovo lungometraggio di John Swab, cineasta riconosciuto per i suoi film d’azione spietati e dai toni esagerati. King Ivory, presentato nella sezione Orizzonti Extra, è un film corale con struttura ad intreccio che segue vari personaggi il cui mondo è condizionato dalla sostanza illegale; da una parte ci sono le varie gang che cercano di prevalere l’una sull’altra per conquistare più zone possibili per la vendita, mentre dall’altra ci sono le forze dell’ordine che stanno operando per smantellare il regno della droga. Nonostante la storia sia piuttosto prevedibile - l’aspetto poliziesco risulta derivativo da altri film sulla lotta alle sostanze stupefacenti - il lungometraggio intrattiene per tutta la sua durata e soprattutto non cerca di adottare un approccio eccessivamente moralistico nell’affrontare il soggetto della dipendenza; il messaggio è presente, ma, ad esempio, non è ridondante quanto il recente Asphalt City (2023) di Jean-Stéphane Sauvaire. La struttura ad ensemble non funziona del tutto poiché certi personaggi, soprattutto quelli adolescenziali, risultano piuttosto superflui, forse un maggiore focus sulla caccia all’uomo avrebbe giovato alla resa finale. Uno dei punti di forza dell’opera sono le interpretazioni di Michael Mando (il Nacho di Better Call Saul), uno dei capi delle varie gang, e Ben Foster, un enigmatico ex galeotto che si trova nel limbo di questa “guerra”. Quest’ultimo regala al pubblico un altro personaggio affascinante, spietato e a tratti compassionevole, peccato che Swab non si concentri abbastanza sul grande talento dell’attore statunitense nella parte conclusiva del film.
Familia, di Francesco Costabile
Secondo lungometraggio del regista italiano Francesco Costabile, e conferma dell’interesse dell’autore verso un modello di cinema sociale, Familia è una, autentica, storia di violenza. Il film, tratto dal romanzo autobiografico Non sarà sempre così di Luigi Celeste, è il lascito di un uomo, Franco (Francesco di Leva), padre veemente e marito dispotico, che da dieci anni è stato forzatamente allontanato dalla sua famiglia, composta dalla moglie Licia (Barbara Ronchi) e dai due figli, Luigi (Francesco Gheghi) e Alessandro (Marco Cicalese). Descritto da Constabile come un melodramma nero, Familia è un film di sperimentazione all’interno della tematica sociale, in cui lo strumento cinematografico, diventa mezzo, parimerito alla narrazione tradizionale, di racconto del microcosmo della violenza privata. Questa forma autoriale appare ben visibile nel succedersi di tecniche di ripresa eterogenee ma, spesso, incoerenti, che sacrificano una più profonda introspezione emotiva a trovate estetiche poco convincenti. Allo stesso tempo, la direzione sonora, dalla presenza persistente, risulta invasiva e fuori tono. Più di tutto, Familia fallisce nel condannare il perpetuarsi della violenza nelle situazioni di abuso, apparentemente (e probabilmente in modo involontario) giustificandola come via obbligata. Presentato nella sezione Orizzonti del Festival, il film di Costabile soffre la mancanza di una direzione registica matura e delineata, questo nonostante l'apprezzabile tentativo di portare sullo schermo una rappresentazione di violenza (ovvero della sua recidività) che si discosti dalla narrazione inflazionata del cinema contemporaneo.
Le Mohican, di Frédéric Farrucci
Frédéric Farrucci ha esordito nel panorama internazionale con il crime multi-etnico La Nuit Venue (2019), film che ha ricevuto una nomination ai César 2021 per il miglior esordio, constatando, di fatto, l’ascesa di un nuovo astro del cinema francese. Cinque anni dopo il suo esordio, e dopo alcune esperienze televisive, Farrucci sbarca per la prima volta ad un festival internazionale presentando il suo Le Mohican (2024) nella sezione Orizzonti Extra. Un film amaro, che constata le pressioni e l’influenza della criminalità nei confronti della popolazione circostante. Le premesse e l’evoluzione del thriller francese sono molto simili a quelle di un altro film presentato in ambito festivaliero giusto due anni fa, vale a dire As Bestas (2022) di Rodrigo Sorogoyen, da cui il lungometraggio di Farrucci riprende le ambientazioni selvagge e “retrogradate” e le scenografie “en plein air” collocandosi nella stessa tipologia di cinema e ricalcandone le orme. Rispetto al film spagnolo, però, Le Mohican si distacca per la sua natura manifestamente più politica e meno antropologica, in cui l’indagine sull’uomo come bestia è temporaneamente messa da parte per favorire, piuttosto, una storia di resistenza proletaria degli abitanti corsi, pronti a combattere per difendere il proprio territorio e per non abbandonare il luogo che li ha da sempre accolti e formati. Proprio per questi motivi, il film diventa cinema di genere puro, una lotta senza quartiere che piano piano si affaccia anche alle logiche introiettate del western, in cui lo Stato francese è smembrato e inesistente nei confronti dell’ambiente circostante. Ne risulta un ritratto nero che ricorda molto le recenti opere di genere del crime italiano - con un occhio alla serie ZeroZeroZero (2020) di Stefano Sollima-, ma che, a differenza di queste ultime, pone l’accento su una visione diversa di criminalità. Quest’ultima non risulta più affiliata agli estremismi e investita di una carica politicizzata, ma piuttosto è una presenza antropologicamente radicata e legata indissolubilmente al territorio, tale da ricordare lo stesso meccanismo narrativo alla base dei film della banlieue, che vengono ripresi anche stilisticamente. Farrucci, infatti, sceglie di privilegiare riprese ariose ed ampie, zeppe di campi medi e lunghi e di esterne che minimizzano e rimpiccioliscono l’uomo all’interno della natura, lasciando presagire, di fatto, il pericolo che essa rappresenta nel contesto francese, senza lesinare su esplosioni improvvise di violenza e su un meccanismo di tensione crescente. In più, riesce anche a porre in primo piano la modernità, la tecnologia e i social (dal ruolo quasi alieno in un contesto così povero e arretrato) come veicolo di lotta alla criminalità organizzata, laddove proprio la presenza del networking e delle iniziative da parte dei giovani abitanti (tra cui la brava Mara Taquin) garantisce al film una risoluzione effettiva, palesando come al giorno d’oggi sia indispensabile passare per Internet per denunciare un qualsiasi fenomeno territoriale.
Phantosmia, di Lav Diaz
Habitué della Mostra, Lav Diaz torna al Lido con Phantosmia. Come in When the Waves are Gone, l'ultimo film del regista filippino presentato a Venezia adopera la malattia che colpisce un soggetto esecutore del potere come punto di partenza per un’indagine sulla violenza, un vero e proprio miasma che contagia il paese da oltre 80 anni. La puzza che l’ex sergente Hilarion Zabala - l’ottimo Ronnie Lazaro - percepisce intorno a lui è lungi dall’essere un’allucinazione olfattiva - la fantosmia che dà titolo al film -, è semmai il risveglio di una coscienza assuefatta a compiere meccanicamente il male. Una coscienza a cui però viene concessa quella possibilità di redenzione che manca nei film precedenti di Diaz. Lo spazio d’azione - una colonia penale che occupa l’isola di Pulo - assume i tratti di un paradiso perduto, ridotto dall’uomo a gabbia in cui perpetrare violenza, non solo nei confronti di chi è detenuto. Un luogo in cui il mito - rappresentato dal leggendario felino Haring Musang - è scomparso, sopraffatto dal male. La lunga durata del film - tratto stilistico del regista Leone d’Oro - permette allo spettatore di immergersi dentro l’ambiente e nelle inquadrature, di familiarizzare con il protagonista e con il suo dramma, di fare esperienza di un processo di analisi che trova sfogo in un’azione sovversiva di libertà. Lo stile del regista appare qui più grezzo rispetto alle opere precedenti. Le lunghe inquadrature fisse non si traducono sempre in un rifiuto del montaggio, la stessa fotografia - rigorosamente in bianco e nero - in alcune sequenze appare meno elaborata ed è singolare la scelta di girare alcune scene con degli fps inferiori. A bilanciare queste soluzioni estetiche inconsuete c’è però un film estremamente limpido nella sua narrazione e chiaro nella propria parabola. Un’opera che emoziona, dalla quale è molto difficile "uscire" a visione terminata, capace di arrivare senza eccessivi sforzi anche a spettatori meno avvezzi alla filmografia dell'autore. Inspiegabile ci appare quindi la sua collocazione fuori concorso, specialmente in un’edizione della Mostra in cui la lunghezza media dei film in competizione è molto alta.
Vermiglio, di Maura Delpero
Ambientato nell’inverno del 1944 nel paesino di Vermiglio, in Val di Sole, il secondo lungometraggio di Maura Delpero esplora le vicende di una cospicua famiglia formata dal patriarca Cesare (Tommaso Ragno), la moglie Adele e i numerosi figli. L’esistenza pacata di questo nucleo verrà stravolta una volta che il figlio maggiore Attilio tornerà al paesello insieme al compagno di fronte Pietro. L’amico, di origini sicule, ben presto si innamorerà della diciassettenne Lucia (Martina Scrinzi), il cui amore verrà corrisposto e, da questa relazione, ne scaturirà una gravidanza e il conseguente matrimonio. Ma una volta che Pietro sarà costretto a tornare in Sicilia per sistemare alcune faccende di famiglia, una serie di disgrazie inizieranno a susseguirsi. Traendo chiaramente ispirazione dal cinema di Ermanno Olmi, tra cui L’Albero degli Zoccoli (1978), Delpero gira un film che riflette la vita rurale di montagna, non solo la tranquillità in mezzo alla natura, ma anche l’aspra verità di un’esistenza alienante e a tratti senza futuro. Anche se il film si focalizza principalmente su Lucia, Delpero riesce abilmente a costruire un mosaico dove ogni singolo personaggio è risaltato: come ad esempio Dino, ragazzo portato per il lavoro manuale che mostrerà una certa volontà nell’imparare a leggere e a scrivere ma verrà represso dal padre e dall’insegnante della scuola locale, oppure il rapporto tra le due sorelle Ada e Livia, che si dividono i favoritismi del padre tramite la religione e l’istruzione scolastica. Tutte queste sottotrame non vengono sviluppate separatamente ma sono sempre collegate da un filo narrativo o dalla presenza dei figli più piccoli della famiglia, la cui innocenza funge da coro greco. Delpero è in grado di risaltare questo mondo rurale scandendo i ritmi delle attività quotidiane e stagionali tramite l’utilizzo di lunghi piani sequenza e tableaux vivants, oltre che a mostrare come questo paesaggio naturale può aiutare la comunità quanto farle del male. Nella parte finale c’era il rischio di decadere in un eccesso di pietismo, ma la cineasta permane l’opera con una certa umanità e speranza che ci ha colpito ed emozionato.
Maldoror, di Fabrice du Welz
Nel 2004, il belga Fabrice Du Welz esordisce ufficialmente con il suo primo lungometraggio, dal titolo Calvaire (2004). Il film è selezionato alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes edizione 2005. Già con questo esordio, lo stile di Du Welz si forma, soprattutto per ciò che riguarda la rappresentazione della provincia transalpina, contornata da personaggi del tutto fuori calibro e decisamente grotteschi, talmente inquietanti da risaltare l’atmosfera macabra costruita attorno ai luoghi del film. Dopo aver partecipato per la prima volta alla Mostra del Cinema di Venezia con il suo Vinyan (2008), e aver affrontato avventure “tossiche” sul set di Colt 45 (2014), il regista ha vissuto un periodo di ripresa, soprattutto con il suo Adoration (2019), insignito del Premio André Cavens per il miglior film dalla Belgian Film Critics Association. A distanza di sedici anni è tornato al Lido con il suo nuovo lavoro: Maldoror (2024), thriller/noir molto atipico chiaramente ispirato al famigerato caso di Marc Dutroux, il serial killer e pedofilo soprannominato il mostro di Marcinelle. Nel raccontare questo true crime, Du Welz immerge lo spettatore in un contesto tetro, in cui il percorso dei protagonisti riprende nuovamente il “martirio” di Calvaire (2004), ricordato soprattutto tramite alcuni eccessi del racconto che, contrariamente al film del 2004, si riscoprono più seriosi e molto più ingabbiati nel sistema del racconto di genere, in quanto hanno un approccio perlopiù rigoroso e inizialmente molto compassato. Nel corso di Maldoror, però, Du Welz sfrutta il suo mondo di “anime in pena”, della sua provincia malsana e colma d’inquietudini (viene alla mente l’aria dei racconti di Simenon, dei noir anni ‘30/’40 con protagonista Michel Simon e, soprattutto, l’inesorabilità del racconto corale del primo Dumont, ambientato in una provincia popolata da “freak” e immerso in segni e codici quasi inafferrabili) per instillare nello spettatore la sua caratteristica aria macabra e nera. Proprio in questo caso, c’è spazio nuovamente per gli emarginati del film del 2004 e per il contesto folkloristico che ritorna nuovamente ad essere il centro dell’atmosfera e del “disturbo”, laddove l’indagine è solo l’escamotage per un affresco tradizionale del noir, a 360°. La componente davvero interessante di Maldoror, però, non risiede tanto nel suo voler raccontare la provincia come fonte di ignoranza, ossessioni e discese nel baratro della follia - nonostante il detective interpretato da Bajon risulti, a conti fatti, un martire in attesa di una catarsi e di una liberazione che arriva nel nerissimo finale, molto vicino al destino di un altro detective francofono, ovvero Pharaon, interpretato da Emmanuel Schotté ne L’Humanité (1999) del già citato Bruno Dumont -, quanto piuttosto nel narrare l’ossessione umana per il senso di giustizia e come questa possa far crollare anche le vite più felici. Proprio in questo senso, Du Welz sprigiona le sue migliori carte, quando muove la macchina da presa per suggestioni e relega il montaggio ad una confusione che rispecchia quella provata da Bajon stesso, attraverso soluzioni intelligenti quali sovraesposizioni, dissolvenze incrociate, stop-framing del montaggio, lens flare che fanno sprofondare il film in una dimensione catatonica, in un incubo abissale in cui il regista relega tutto il potere e la forza del suo racconto all’accumulo sensoriale di simboli, immagini e suoni (soprattutto nelle sequenze in casa), mostrando la forza di un cinema di genere che è capace ancora di sfruttare intelligentemente le sue componenti primigenie (luci e sonoro su tutte).
Sanatorium Under The Sign Of The Hourglass, di Quay Brothers
I Quay Brothers, ormai longevi registi e tra i più rivoluzionari e interessanti animatori del cinema mondiale, sono sempre stati molto affezionati ad un formato cinematografico molto inusuale rispetto alla massa, concentrati più che altro sul cortometraggio e le sue notevoli sfaccettature ibridate con l’arte della stop-motion, piuttosto che su lunghi film. Quest’anno, però, si presentano alla Mostra del Cinema di Venezia con il loro Sanatorium Under The Sign Of The Hourglass. I fratelli tornano ad affrontare Bruno Schulz, dopo i corti Street Of Crocodiles (1986) e The Art Teacher From Drohobycz (2022), firmando il secondo adattamento dell’omonimo romanzo già portato sul grande schermo dal maestro della Nova Vlna Wojciech Has, il quale lo rielaborò nel 1973. Rispetto all’adattamento di Has, quello dei Quay si caratterizza per essere un viaggio nelle memorie d’infanzia del protagonista, il quale prende vita soprattutto attraverso una rielaborazione fortissima e intelligente delle invenzioni visive e della macchina-cinema. Quest’ultima è riportata dai Quay ad uno stadio primordiale, facendo rivivere in essa il gusto delle immagini e delle alterazioni schermiche ormai obsolete, appartenenti alle origini del cinema e che, in qualche modo, aiutano lo spettatore a comprendere meglio lo scopo di Sanatorium Under The Sign Of The Hourglass. Quella dei Quay è una masterclass su quali siano i processi di formazione di un’immagine (adottati in tutte le forme possibili, dalle doppie esposizioni alle dissolvenze incrociate), la quale è scomposta in unità elementari allo scopo di analizzarla nei minimi particolari. Alla base del film vi è, dunque, proprio la metafora della creazione come atto cinematografico, laddove l’immagine si svincola da orpelli interpretativi di tutti i tipi e subisce un processo che si occupa di spogliarla semanticamente portandola a diventare semplice significante, di cui lo spettatore deve semplicemente godere e di cui deve scoprire le caratteristiche da zero. Proprio la gioia della scoperta e della creazione del processo-cinema dona al film un fascino unico, che va al di là della cinefilia degli stessi registi (come si può notare dalla citazione ibrida al “Cabinet Of Doctor Godard”, capace di coniugare più avanguardie in un solo termine) e che, soprattutto, si forgia di una forma che attinge da immaginari diversi, dallo steampunk al surreale di “svankmajeriana” memoria, riconducendo lo spettatore all’abbattimento del proprio ordine mentale e al cedimento delle logiche delle percezione, costantemente sfidate e abbattute da un linguaggio, come quello dei Quay, che si riscopre sovversivo e totalmente anarchico. Proprio in virtù di questo, i linguaggi stessi si intersecano senza soluzione di continuità, e così in Sanatorium Under The Sign Of The Hourglass si passa rapidamente dal cinema al videogame (come dimostra la seconda parte del film, in cui i meccanismi riprendono quelli delle avventure grafiche più celebri), in una destrutturazione che si occupa di mostrare in modo diacronico cos’è stata, cos’è e cosa sarà la Settima Arte.