di Omar Franini, Antonio Orrico, Arturo Garavaglia, Diana Incorvaia e Beatrice Gangi
NC-229
06.09.2024
In questo quarto appuntamento continueremo a raccontarvi dei film presentati in Concorso, tra cui Joker: Folie à Deux di Todd Philips, il tanto atteso sequel del vincitore del Leone d’Oro nel 2019, Harvest, l’ultimo lungometraggio di Rachel Atina Tsangari interpretato da Caleb Landry Jones, Jouer avec le feu di Delphine e Muriel Coulin, dramma sociale con protagonista Vincent Lindon ed infine Diva Futura di Giulia Louise Steigerwalt, film incentrato sull’omonima e rivoluzionaria agenzia di Riccardo Schicchi, interpretato da Pietro Castellitto. Continueremo anche con alcuni documentari presentati nel fuori concorso, come 2073 di Asif Kapadia e TWST - Things We Said Today di Andrei Ujiča. Concluderemo infine con Pavements di Alex Ross Perry dalla sezione Orizzonti, Boomerang di Shahab Fotohui e Alpha di Jan-Willem van Ewijk dalla sezione Giornate degli Autori.
Joker: Folie à Deux, di Todd Phillips
Nei fumetti, nelle più riuscite interpretazioni cinematografiche, il Joker è più che un semplice cattivo, è il principe degli emarginati. Se non ha un nome, e non ha un passato, più che per una loro insignificanza è probabilmente perché, scavare troppo, sarebbe poco confacente all’icona del pagliaccio sorridente. Un passato e un vissuto, una madre e un padre e la vulnerabilità mentale lascerebbero troppo spazio per emozioni e sfaccettature che, la personificazione del caos, non dovrebbe avere. Nel Joker di Todd Phillips, uno dei maggiori successi al botteghino della storia, Joker ha un nome, Arthur Fleck, e un passato patetico. Eppure, una vita di soprusi lo conduce a un brutale omicidio in diretta nazionale che, del pagliaccio DC fatto e finito, avrebbe dovuto firmare l’atto di nascita. Nel 2024, Arthur Fleck torna al cinema in Joker: Folie à Deux, ed è bizzarro perché Arthur e il Joker non potrebbero essere più slegati. Arthur Fleck continua ad essere un uomo debole, fragile, malato, e passivo, pronto ad accendersi e spegnersi per il minimo input. Il Joker è invece rientrato nel mondo che gli appartiene, quello dell’aspirazionale fantasia dei folli. Arthur ne ha, per un attimo, indossato la maschera e ora gli viene richiesto a gran voce che se la rimetta, altrimenti di lui non si interessa nessuno, dentro e fuori dallo schermo. Nonostante il progetto sia stato etichettato, sin dall’annuncio, come un errore, e dalla notizia che si sarebbe orientato nel genere musicale con la partecipazione di Lady Gaga, come una barzelletta, Joker: Folie à Deux è un’interessante decostruzione tanto di un’icona quanto delle aspettative del pubblico. Inaspettatamente, la forma del musical ben si adatta a questo secondo capitolo, risultando, in una serie di numeri in cui i personaggi cantano o pensano di farlo, ben inserito nella realtà della storia. Arthur inizia a cantare perché Lee (Harley Quinn, interpretata da Lady Gaga) canta, il Joker, nel suo regno di fantasia, canta perché lo diverte e perché è uno dei tanti modi di fare intrattenimento. I brani, una selezione di classici rivisitati, ben si inseriscono nella storia e sono ottimamente interpretati dai due personaggi principali, sia da Lady Gaga in qualità di cantante professionista che da Joaquin Phoenix, già esibitosi vocalmente nella brillante interpretazione di Johnny Cash in Walk the Line (2005). Ma, dove l’enorme talento di Phoenix gli permette di colmare elementi di sceneggiatura più zoppicanti, il personaggio di Gaga non ha né la tridimensionalità né una performance attoriale tale da risultare particolarmente convincente. Nonostante la scrittura a più riprese traballante, anche in questo secondo atto il film di Phillips si regge sull’innegabile capacità del suo interprete protagonista, e da una serie di sequenze e scelte di messa in scena sicuramente potenti. In competizione per il Leone d’Oro, già conquistato dal suo primo atto, Joker: Folie à Deux è sicuramente destinato ad essere un prodotto divisivo. Rimane comunque, nei suoi pregi e difetti, e per la delizia del Joker del mondo dei sogni, un film memorabile.
Diva Futura, di Giulia Louise Steigerwalt
Secondo lungometraggio di Giulia Louise Steigerwalt, Diva Futura (in concorso nella sezione principale di Venezia 81) porta sullo schermo la vita di Riccardo Schicchi, l’uomo che, negli anni Ottanta, ha introdotto l’Italia al cinema porno. Interpretato da Pietro Castellitto, è il ritratto di una figura ambivalente: da un lato, promotore dell’amore libero e rivendicatore della domanda maschile al ricevere piacere; dall’altro, mercificatorio di quella femminile a fornirlo. La sceneggiatura si basa sul romanzo Non dite alla mamma che faccio la segretaria di Debora Attanasi, da cui riprende il punto di vista privilegiato di Debora (Barbara Ronchi), segretaria dell’agenzia di Schicchi (la Diva Futura, da cui deriva il nome della pellicola). Il film, dal ritmo serrato, è una panoramica pop della nascita delle prime tre grandi pornodive italiane, Ilona Staller (Lidija Kordic), Moana Pozzi (Denise Capezza), ed Eva Henger (Tesa Litvan). Il film della Steigerwalt, nonostante il coraggioso tentativo della regista di sondare le contraddizioni del mondo del cinema per adulti, appare derivativo e privo di direzione. Immediatamente paragonabile a Boogie Nights (1996), il lungometraggio riprende quindi le tematiche della crew come di una grande “famiglia” votata all’eccesso e del profondo pregiudizio riservato alle attrici del cinema a luci rosse risultando però una versione più debole, e quasi caricaturale, dell'opera di Anderson. Nel film si può anche scorgere un facile rimando a Pleasure, dramma del 2021 diretto da Ninja Thyberg e selezionato per la 73a edizione del Festival di Cannes, cruda rappresentazione delle pressioni e dei pericoli, fisici e psicologici, a cui sono sottoposte le attrici del moderno cinema pornografico. Discussione che la Steigerwalt, tenta, timidamente, di emulare, in quella che ne è purtroppo un’estrema banalizzazione. A livello ritmico, il montaggio schizofrenico strutturato a sbalzi temporali continui risulta, a più riprese, una narrazione tronca e inconcludente, quanto malagevole alla visione. I personaggi e la loro caratterizzazione soffrono della stessa incostanza gestionale, di conseguenza le performance di Pietro Castellitto e del cast femminile faticano nel convincere nelle situazioni di maggior pathos e drammaticità. Diva Futura è un film, purtroppo, con diverse sbavature, su tutte l’incapacità della Steigerwalt di superare la rapacità di quello sguardo maschile diretto alle attrici di una pellicola che vorrebbe, all’opposto, denunciarne la mercificazione. Un viaggio nel cinema dell’eccesso con il freno costantemente tirato, che soffre di una rappresentazione scialba, banale e banalizzata di storia italiana e che poteva essere gestito con maggiore consapevolezza.
After Party, di Vojtĕch Strakatý
Il cinema ceco, da alcuni anni a questa parte, ha preso a rifiorire in modo insistentemente florido tramite vari autori che hanno sfruttato in modo accurato la Storia del Paese. Desta, quindi, sorpresa trovare un film come After Party, lungometraggio d’esordio che si caratterizza soprattutto per infondere ai classici coming-of-age una sterzata netta dal punto di vista dell’impostazione del racconto, che porta l’opera stessa ad essere accostata ad altri corrispettivi di oltreoceano. Nel raccontare la storia di Jindřiška, giovane 23enne alle prese con una situazione familiare del tutto precaria e decisamente poco accomodante, in quanto il padre ha contratto un numero di debiti tale da farsi confiscare la propria abitazione, il regista Vojtěch Strakatý scombussola più e più volte l’emotività della sua protagonista, portando allo scoperto la proprio esperienza personale, molto analoga a quanto visto all’interno del film. Il risultato è un dramma da camera molto intimista e interessante per la sua ambiguità, in quanto il racconto di formazione è sfruttato da un lato per alleggerire l’incombenza della narrazione “negativa” e fortemente drammatica del film, mentre dall’altro tenta di narrare la crescita interiore della sua protagonista, inevitabilmente sconvolta dall’accaduto e alla ricerca di punti fissi nella sua vita. Una ricerca che Strakatý mette in evidenza tramite una forzata prospettiva individuale nel racconto, la quale passa attraverso le mani della regia. La camera è, infatti, molto attaccata alla brava Eliska Basusová - che conferisce alla sua Jindřiška un buon spessore caratteriale ed emotivo - ed esalta la sua bravura nell’interpretare lo stress sotteso della protagonista costringendola in piani sequenza che ne seguono ogni singolo passo, atti ad evidenziare una dimensione opprimente e a porla come centro dell’universo narrativo del racconto, laddove ogni stacco di montaggio riporta il focus proprio sulle sue azioni. Una scelta che paga, grossomodo, nella prima metà del film, dove ad essere messo in evidenza è proprio il turbamento e l’inquietudine provata dalla povera protagonista, succube di una situazione di cui non ha, inizialmente, il controllo, ma che risulta poi ribaltata nella seconda metà del film. After Party, infatti, narra di una liberazione dai pesi e dalle ossessioni tipiche dell’adolescenza,ricordando, da vicino, il percorso compiuto dai giovani protagonisti di un altro film di Orizzonti proiettato nel corso della scorsa edizione di Venezia, ovvero Gasoline Rainbow (2023). Rispetto a quest’ultimo, però, si dota di una maggiore prospettiva di racconto prettamente individualistica, che banalizza ed annulla le intuizioni interessanti della parte centrale, dove il racconto si libera e anche le riprese appaiono più sciolte, con una macchina da presa che risulta più mobile, salvo poi ritornare nei suoi binari con il finale, esempio ottimo su come bilanciare toni diversi in un film, ma che qui purtroppo finisce per appiattire la sua potenziale esplosività.
Alpha, di Jan-Willem van Ewijk
Bastano due ottimi interpreti e un’eccellente configurazione delle immagini per rendere Alpha, quarto lungometraggio dell’olandese Jan-Willem van Ewijk, un film in grado di colpire e sconvolgere lo spettatore. Lo straordinario paesaggio delle Alpi Svizzere, compresse nel formato 1:1, è luogo dello scontro fra un padre e un figlio separati da un rapporto irrimediabilmente logoro. Partendo da un’alternanza abbastanza scolastica di dramma e commedia, la pellicola muta i propri ritmi in quelli di un thriller psicologico per divenire, infine, un survival movie. Nonostante la gestione dei vari segmenti di racconto e dei rispettivi snodi non sia perfetta, la coerenza dello stile di van Ewijk riesce a fare da collante e a garantire al film un’inaspettata uniformità. Le splendide prove di Reinout e Gijs Scholten van Aschat - il primo abbiamo avuto modo di apprezzarlo in Italia in Capri Revolution (2018) - vengono valorizzate da una messa in scena che sfrutta egregiamente il formato per rendere "scomodi" gli spazi - sia interni sia esterni - entro cui i due personaggi si muovono. La maniacalità della composizione delle inquadrature è tutt’altro che gratuita. Al contrario, traduce perfettamente il senso di inadeguatezza e di insofferenza che permea la relazione fra i due personaggi. Una relazione fra due mascolinità congelate, algide, che trova specchio nelle immobili montagne innevate nelle quali si svolge la vicenda. La macchina da presa asseconda i vari cambi di registro del film tenendosi sempre alla giusta distanza dagli uomini che immortala, li osserva silente disgregarsi, ricompattarsi e congelarsi. Tramuta ogni compresenza dei due protagonisti nell’immagine in uno scontro, traccia linee di tensione, simmetrie e asimmetrie con una precisione geometrica che ricorda molto i film di maestri nord-europei come Ruben Östlund e Roy Andersson.
Rifuggendo facili soluzioni estetiche - la scelta del formato è emblematica - e semplici sviluppi narrativi, Alpha è un film tutt’altro che perfetto, ma che osa andare oltre e riesce ad arrivare, quasi sorprendentemente, a una sintesi. Risultato non scontato per un’opera che si candida seriamente ad ottenere un premio alle Giornate degli Autori.
TWST, di Andrei Ujică
Andrei Ujică è uno dei teorici e dei registi più importanti nel campo del found footage a livello mondiale. Il professore di Mediologia della Karlsruhe University of Arts and Design è arrivato alla ribalta del cinema mondiale grazie alla sua collaborazione con il tedesco Harun Farocki, con cui ha co-diretto Videograms of a revolution (1992), vera e propria pietra miliare del documentario che indaga direttamente sul rapporto tra i media (e le immagini in generale) e il potere politico in Europa alla fine dell’era comunista. Dopo altri vari lavori significativi, quali Out of the present (1995), inchiesta/saggio sul prolungato viaggio nello spazio del cosmonauta russo Sergei Krikalev, e soprattutto The Autobiography of Nicolae Ceaușescu (2010), documentario di tre ore sul rapporto tra il segretario generale del Partito Comunista rumeno e la politica locale, quest’anno Ujică è tornato nuovamente alla ribalta con il suo nuovo documentario, TWST, acronimo celebre di Things We Said Today, ricostruzione d’archivio del celebre tour nordamericano dei Beatles. Un’operazione ambiziosa e davvero interessante, in cui Ujică parte dal concerto del 1965 dei Fab Four allo Shea Stadium di New York per condurre una maxi-indagine di costume sull’epoca pre-rivoluzionaria. La parte più interessante che però Ujică introduce all’interno del suo documentario è legata all’uso del footage, alquanto bizzarro e molto particolare. Accanto alle riprese d’epoca, infatti, il regista costruisce un mondo-altro formato da inserti d’animazione - che ricorda da vicino le sperimentazioni di Alain Resnais in un film quasi dimenticato come I Want To Go Home (1989) -, i quali diventano veicolo in primis di nostalgia, per un’epoca ormai andata e scomparsa definitivamente, e successivamente per costruire un’indagine di costume basata sull’extra-diegesi, partendo da uno degli eventi pop che ha scombussolato l’arte contemporanea per raccontare il cambiamento di una società che si avviava verso libertà e sperimentazioni mai provate prima. Proprio l’uso delle animazioni come corpo effettivo del racconto permette a Ujică di aggiungere un carico profondamente attuale al documentario più classico e di dargli un tocco sperimentale, puntando perlopiù sul montaggio “collage” di immagini che scorrono su schermo senza particolari fili conduttori. Proprio quest’assenza di collegamenti rende in modo intelligente il caos di un’epoca turbolenta che diventa il soggetto delle riprese del regista, e in questo modo la forma diventa automaticamente la sostanza di quanto è raccontato su schermo, in una modalità fresca e contemporanea che diverte da un lato, ma che dall’altro rischia pesantemente di risultare pedante e fastidioso alla lunga, in cui il senso nostalgico pervade l’atmosfera solamente in un primo momento, salvo poi abbandonarsi alla carica dirompente e confusionaria delle immagini.
Jouer avec le Feu, di Delphine Coulin e Muriel Coulin
Figlio mio, posso davvero perdonarti tutto? Posso accettare ogni tua scelta? La violenza, davvero la trovi così affascinante? Ti amo e mi ripugni, per te darei la vita ma, se potessi, non vorrei essere il tuo, di padre. Jouer Avec Le Feu, giocare col fuoco, è la tragedia privata di un padre, Pierre, e di suo figlio, Fus. Il film, in concorso nella sezione principale del Festival di Venezia, è diretto dalle sorelle francesi Delphine e Muriel Coulin, alla loro terza regia. Le sorelle Coulin portano sullo schermo un conflitto ideologico e generazionale, la lotta morale di Pierre, sapientemente interpretato da Vincent Lidon, di fronte alla deriva estremista e violenta del suo figlio maggiore. Fus (Benjamin Voisin), a cui si contrappone il sensibile fratello Louis (Stefan Crepom), è uno dei tanti giovani che, mancante di reali prospettive, trova la sua dimensione nell’ideale distorto di comunità dell’estrema destra. Non per una particolare consapevolezza, ma per il conforto di sentirsi parte di un virtuoso “noi”, contrapposto a un disprezzabile “loro”. Valori spesso allineati, famiglia e moralità, diventano quindi inconciliabili. Il film, ben costruito, indaga sul rapporto genitoriale con delicatezza, dipingendolo come un filo, che nonostante le differenze e al di là delle volontà, non può essere spezzato. Seppur l’opera sappia a più riprese di inflazionato e a tratti didascalico, le sorelle Coulin fanno un buon lavoro nel co-dirigere e co-sceneggiare questa storia conflittuale, riflettendo in modo lucido sulle sfaccettature della realtà moderna, del nucleo familiare, e delle contraddizioni di una gioventù ambivalentemente simbolo di regresso e di speranza.
Harvest, di Athina Rachel Tsangari
Adattato dall’omonimo romanzo di Jim Crace, Harvest narra le vicende di un villaggio nel corso di sette giorni e di come l’arrivo di tre forestieri (un cartografo, un migrante e un uomo d’affari) provocherà la scomparsa di questo piccolo ecostistema rurale. Di fatto, queste figure fungono come simbolo di un cambiamento improvviso, un avvento della modernità che coglie alla sprovvista la comunità agricola. La nuova opera di Rachel Atina Tsangari parte da una premessa piuttosto intrigante sullo scontro tra modernità e tradizione, sulla perdita d’innocenza e sull’impatto che un sistema capitalista opprimente può avere sull’ambiente naturale, un preambolo dell’industrializzazione contemporanea, ma l’ambiziosa narrazione non trova un riscontro con le tematiche affrontate. Infatti, la cineasta perde le redini della storia man mano che questa prosegue, pur di rispettare fedelmente il romanzo da cui è tratto il film. Questo si evince nell’ultima mezz’ora, dove Tsangari cerca di risolvere in maniera affrettata ogni sottotrama introdotta, rendendo la visione di Harvest piuttosto frustrante e, a tratti, noiosa. Il film comunque non è privo di pregi, Caleb Landry Jones, che interpreta un villeggiante dall’indole naïf, restituisce un’interpretazione più che degna, i cui sguardi silenziosi trasmettono il dolore dell’intera comunità, mentre la fotografia in 16mm del DOP Sean Price Williams, in grado di risaltare non solo lo stupendo ambiente naturale, ma anche la quotidianità folkloristica del villaggio, risulta l’aspetto maggiormente riuscito dell’opera. Tutto sommato, il lungometraggio delude e ci si aspettava qualcosa di più da Tsangari.
2073, di Asif Kapadia
Anno 2073. Ghost (Samantha Morton) vive nel piano sotterraneo di quello che era un centro commerciale. La vita in “superficie” è diventata insostenibile dopo che, ventinove anni prima, un disastro climatico ha portato distruzione e miseria. Tramite il suo voiceover, la donna misteriosa inizia a narrare ciò che è accaduto in passato, e quindi ciò che accadrà nel futuro dello spettatore. Kapadia utilizza il personaggio principale per mostrare la sua visione pessimistica del futuro, una visione che invita l’umanità ad agire e a “fare qualcosa”. Il problema principale di questo approccio è che il documentarista cerca di inserire troppi elementi per giustificare la propria tesi, ma la maggior parte di questi sono solo accennati o affrontati in maniera troppo superficiale, come se il film fosse stato diretto da un influencer di TikTok che legge un articolo sullo stato della politica mondiale. Infatti, 2073 diventa in poco tempo un susseguirsi di clip video che analizzano l’impatto dei miliardari a capo delle società tecnologiche più importanti al mondo, l’avvento dell’AI, la diffusione delle fake news, il cambiamento climatico e infine i vari diritti umani violati dal governo. Con una durata di soli ottanta minuti è impossibile intraprendere un discorso talmente complesso, Kapadia ha buone intenzioni e il messaggio che vuole trasmettere è piuttosto chiaro, l’esecuzione però risulta laconica e approssimativa. 2073 è uno dei film più deludenti del Festival e ci si aspettava di più dall’acclamato documentarista di Amy (2015) e Senna (2010).
Pavements, di Alex Ross Perry
Nel 1999, i Pavement, storica band indie rock degli anni ‘90, si sciolse per via dei conflitti interni tra i vari membri del gruppo. Dopo diversi anni decisero di riunirsi temporaneamente per un tour mondiale, prima del ritorno in piena attività nel 2022. Le vicende riguardanti la band sono il soggetto del documentario Pavements di Alex Ross Perry. All’inizio si pensava che il nuovo progetto del regista indie americano doveva essere un biopic sulla band, con protagonisti Joe Keery e Jason Schwarzman, ma il cineasta capì che per raccontare l’assurda storia di questo gruppo musicale doveva adottare un approccio più sperimentale, un ibrido tra documentario e finzione con forti connotazioni ironiche. La parte documentaristica risulta piuttosto semplice, il cineasta sovrappone immagini d’archivio di concerti e interazioni varie con interviste del giorno d’oggi dove i membri riflettono sul passato e il presente della band. La parte fiction è invece ciò che sorprende di più poiché Perry si prende gioco dei classici biopic hollywoodiani realizzando un mockumentary esilarante che mostra il dietro le scene degli attori e alcune sequenze del film mai realizzato. Il punto di vista satirico, che critica esplicitamente il biopic musicale e come spesso questi lungometraggi siano realizzati con il solo intento di vincere premi, è messo in risalto soprattutto dalle “interviste” condotte a Joe Keery, il quale ripete più volte la sua volontà di ricevere una nomination all’Oscar tramite questo film. Malgrado l’approccio creativo, Pavements non è in grado di trovare un equilibrio tra le sue due anime, ma rimane comunque una visione che intrattiene e che è in grado di omaggiare una "band disfunzionale" in maniera più che degna.
Boomerang, di Shahab Fotouhi
Due giovanissimi ai lati opposti di una strada assai trafficata incrociano i loro sguardi, si sorridono complici e cominciano a scambiarsi sguardi e smorfie buffe. Non si conoscono ancora ma c’è già una forte sintonia. I loro nomi sono Minoo e Keyvan (rispettivamente Yes Farkhondeh e Ali Hanafian molto amici anche nella vita reale) e li seguiamo o in una spensierata passeggiata fluttuante. Un incontro casuale che ha un sapore magico. Ad accendersi tra i due una scintilla che li spinge a raccontarsi le proprie vite e i loro segreti più intimi. Quasi in maniera speculare a questo flirt intenso appena scoccato il racconto si sposta, nella sequenza successiva, sul rapporto tra i genitori di Minoo: Sima (Leili Rashidi), e Behzad (Arash Naimian). Il matrimonio tra i due è stanco e logoro, Sima vuole andarsene di casa e cercare un appartamento per lei e la figlia, mentre Behzad è focalizzato su un incontro che ha programmato con una sua vecchia fiamma. Boomerang opera prima del regista iraniano Shabbat Fotouhi è una fotografia, anzi un’istantanea della Teheran moderna. Uno spaccato sociologico che ci racconta in maniera speculare due generazioni attraverso le due emblematiche protagoniste: Minoo e sua madre Sima. Ad una generazione ormai stanca ed apparentemente senza speranza fa da contraltare la spensieratezza esplosiva dell’incontro tra i due giovani. Il film non segue un percorso lineare, non c’è un rapporto di causa effetto tra le sequenza che si susseguono. Si tratta piuttosto di una struttura narrativa a mosaico in cui ogni tessera deve essere riordinata dallo sguardo dello spettatore. Le vere protagoniste di Boomerang sono le donne, Sima coraggiosa e pronta a non arrendersi e Minoo nel suo percorso di scoperta della vita e dell’amore, libera e padrona della sua esistenza. Un film che somiglia ad un flusso continuo, che richiede di immergersi senza farsi troppe domande.
di Omar Franini, Antonio Orrico, Arturo Garavaglia, Diana Incorvaia e Beatrice Gangi
NC-229
06.09.2024
In questo quarto appuntamento continueremo a raccontarvi dei film presentati in Concorso, tra cui Joker: Folie à Deux di Todd Philips, il tanto atteso sequel del vincitore del Leone d’Oro nel 2019, Harvest, l’ultimo lungometraggio di Rachel Atina Tsangari interpretato da Caleb Landry Jones, Jouer avec le feu di Delphine e Muriel Coulin, dramma sociale con protagonista Vincent Lindon ed infine Diva Futura di Giulia Louise Steigerwalt, film incentrato sull’omonima e rivoluzionaria agenzia di Riccardo Schicchi, interpretato da Pietro Castellitto. Continueremo anche con alcuni documentari presentati nel fuori concorso, come 2073 di Asif Kapadia e TWST - Things We Said Today di Andrei Ujiča. Concluderemo infine con Pavements di Alex Ross Perry dalla sezione Orizzonti, Boomerang di Shahab Fotohui e Alpha di Jan-Willem van Ewijk dalla sezione Giornate degli Autori.
Joker: Folie à Deux, di Todd Phillips
Nei fumetti, nelle più riuscite interpretazioni cinematografiche, il Joker è più che un semplice cattivo, è il principe degli emarginati. Se non ha un nome, e non ha un passato, più che per una loro insignificanza è probabilmente perché, scavare troppo, sarebbe poco confacente all’icona del pagliaccio sorridente. Un passato e un vissuto, una madre e un padre e la vulnerabilità mentale lascerebbero troppo spazio per emozioni e sfaccettature che, la personificazione del caos, non dovrebbe avere. Nel Joker di Todd Phillips, uno dei maggiori successi al botteghino della storia, Joker ha un nome, Arthur Fleck, e un passato patetico. Eppure, una vita di soprusi lo conduce a un brutale omicidio in diretta nazionale che, del pagliaccio DC fatto e finito, avrebbe dovuto firmare l’atto di nascita. Nel 2024, Arthur Fleck torna al cinema in Joker: Folie à Deux, ed è bizzarro perché Arthur e il Joker non potrebbero essere più slegati. Arthur Fleck continua ad essere un uomo debole, fragile, malato, e passivo, pronto ad accendersi e spegnersi per il minimo input. Il Joker è invece rientrato nel mondo che gli appartiene, quello dell’aspirazionale fantasia dei folli. Arthur ne ha, per un attimo, indossato la maschera e ora gli viene richiesto a gran voce che se la rimetta, altrimenti di lui non si interessa nessuno, dentro e fuori dallo schermo. Nonostante il progetto sia stato etichettato, sin dall’annuncio, come un errore, e dalla notizia che si sarebbe orientato nel genere musicale con la partecipazione di Lady Gaga, come una barzelletta, Joker: Folie à Deux è un’interessante decostruzione tanto di un’icona quanto delle aspettative del pubblico. Inaspettatamente, la forma del musical ben si adatta a questo secondo capitolo, risultando, in una serie di numeri in cui i personaggi cantano o pensano di farlo, ben inserito nella realtà della storia. Arthur inizia a cantare perché Lee (Harley Quinn, interpretata da Lady Gaga) canta, il Joker, nel suo regno di fantasia, canta perché lo diverte e perché è uno dei tanti modi di fare intrattenimento. I brani, una selezione di classici rivisitati, ben si inseriscono nella storia e sono ottimamente interpretati dai due personaggi principali, sia da Lady Gaga in qualità di cantante professionista che da Joaquin Phoenix, già esibitosi vocalmente nella brillante interpretazione di Johnny Cash in Walk the Line (2005). Ma, dove l’enorme talento di Phoenix gli permette di colmare elementi di sceneggiatura più zoppicanti, il personaggio di Gaga non ha né la tridimensionalità né una performance attoriale tale da risultare particolarmente convincente. Nonostante la scrittura a più riprese traballante, anche in questo secondo atto il film di Phillips si regge sull’innegabile capacità del suo interprete protagonista, e da una serie di sequenze e scelte di messa in scena sicuramente potenti. In competizione per il Leone d’Oro, già conquistato dal suo primo atto, Joker: Folie à Deux è sicuramente destinato ad essere un prodotto divisivo. Rimane comunque, nei suoi pregi e difetti, e per la delizia del Joker del mondo dei sogni, un film memorabile.
Diva Futura, di Giulia Louise Steigerwalt
Secondo lungometraggio di Giulia Louise Steigerwalt, Diva Futura (in concorso nella sezione principale di Venezia 81) porta sullo schermo la vita di Riccardo Schicchi, l’uomo che, negli anni Ottanta, ha introdotto l’Italia al cinema porno. Interpretato da Pietro Castellitto, è il ritratto di una figura ambivalente: da un lato, promotore dell’amore libero e rivendicatore della domanda maschile al ricevere piacere; dall’altro, mercificatorio di quella femminile a fornirlo. La sceneggiatura si basa sul romanzo Non dite alla mamma che faccio la segretaria di Debora Attanasi, da cui riprende il punto di vista privilegiato di Debora (Barbara Ronchi), segretaria dell’agenzia di Schicchi (la Diva Futura, da cui deriva il nome della pellicola). Il film, dal ritmo serrato, è una panoramica pop della nascita delle prime tre grandi pornodive italiane, Ilona Staller (Lidija Kordic), Moana Pozzi (Denise Capezza), ed Eva Henger (Tesa Litvan). Il film della Steigerwalt, nonostante il coraggioso tentativo della regista di sondare le contraddizioni del mondo del cinema per adulti, appare derivativo e privo di direzione. Immediatamente paragonabile a Boogie Nights (1996), il lungometraggio riprende quindi le tematiche della crew come di una grande “famiglia” votata all’eccesso e del profondo pregiudizio riservato alle attrici del cinema a luci rosse risultando però una versione più debole, e quasi caricaturale, dell'opera di Anderson. Nel film si può anche scorgere un facile rimando a Pleasure, dramma del 2021 diretto da Ninja Thyberg e selezionato per la 73a edizione del Festival di Cannes, cruda rappresentazione delle pressioni e dei pericoli, fisici e psicologici, a cui sono sottoposte le attrici del moderno cinema pornografico. Discussione che la Steigerwalt, tenta, timidamente, di emulare, in quella che ne è purtroppo un’estrema banalizzazione. A livello ritmico, il montaggio schizofrenico strutturato a sbalzi temporali continui risulta, a più riprese, una narrazione tronca e inconcludente, quanto malagevole alla visione. I personaggi e la loro caratterizzazione soffrono della stessa incostanza gestionale, di conseguenza le performance di Pietro Castellitto e del cast femminile faticano nel convincere nelle situazioni di maggior pathos e drammaticità. Diva Futura è un film, purtroppo, con diverse sbavature, su tutte l’incapacità della Steigerwalt di superare la rapacità di quello sguardo maschile diretto alle attrici di una pellicola che vorrebbe, all’opposto, denunciarne la mercificazione. Un viaggio nel cinema dell’eccesso con il freno costantemente tirato, che soffre di una rappresentazione scialba, banale e banalizzata di storia italiana e che poteva essere gestito con maggiore consapevolezza.
After Party, di Vojtĕch Strakatý
Il cinema ceco, da alcuni anni a questa parte, ha preso a rifiorire in modo insistentemente florido tramite vari autori che hanno sfruttato in modo accurato la Storia del Paese. Desta, quindi, sorpresa trovare un film come After Party, lungometraggio d’esordio che si caratterizza soprattutto per infondere ai classici coming-of-age una sterzata netta dal punto di vista dell’impostazione del racconto, che porta l’opera stessa ad essere accostata ad altri corrispettivi di oltreoceano. Nel raccontare la storia di Jindřiška, giovane 23enne alle prese con una situazione familiare del tutto precaria e decisamente poco accomodante, in quanto il padre ha contratto un numero di debiti tale da farsi confiscare la propria abitazione, il regista Vojtěch Strakatý scombussola più e più volte l’emotività della sua protagonista, portando allo scoperto la proprio esperienza personale, molto analoga a quanto visto all’interno del film. Il risultato è un dramma da camera molto intimista e interessante per la sua ambiguità, in quanto il racconto di formazione è sfruttato da un lato per alleggerire l’incombenza della narrazione “negativa” e fortemente drammatica del film, mentre dall’altro tenta di narrare la crescita interiore della sua protagonista, inevitabilmente sconvolta dall’accaduto e alla ricerca di punti fissi nella sua vita. Una ricerca che Strakatý mette in evidenza tramite una forzata prospettiva individuale nel racconto, la quale passa attraverso le mani della regia. La camera è, infatti, molto attaccata alla brava Eliska Basusová - che conferisce alla sua Jindřiška un buon spessore caratteriale ed emotivo - ed esalta la sua bravura nell’interpretare lo stress sotteso della protagonista costringendola in piani sequenza che ne seguono ogni singolo passo, atti ad evidenziare una dimensione opprimente e a porla come centro dell’universo narrativo del racconto, laddove ogni stacco di montaggio riporta il focus proprio sulle sue azioni. Una scelta che paga, grossomodo, nella prima metà del film, dove ad essere messo in evidenza è proprio il turbamento e l’inquietudine provata dalla povera protagonista, succube di una situazione di cui non ha, inizialmente, il controllo, ma che risulta poi ribaltata nella seconda metà del film. After Party, infatti, narra di una liberazione dai pesi e dalle ossessioni tipiche dell’adolescenza,ricordando, da vicino, il percorso compiuto dai giovani protagonisti di un altro film di Orizzonti proiettato nel corso della scorsa edizione di Venezia, ovvero Gasoline Rainbow (2023). Rispetto a quest’ultimo, però, si dota di una maggiore prospettiva di racconto prettamente individualistica, che banalizza ed annulla le intuizioni interessanti della parte centrale, dove il racconto si libera e anche le riprese appaiono più sciolte, con una macchina da presa che risulta più mobile, salvo poi ritornare nei suoi binari con il finale, esempio ottimo su come bilanciare toni diversi in un film, ma che qui purtroppo finisce per appiattire la sua potenziale esplosività.
Alpha, di Jan-Willem van Ewijk
Bastano due ottimi interpreti e un’eccellente configurazione delle immagini per rendere Alpha, quarto lungometraggio dell’olandese Jan-Willem van Ewijk, un film in grado di colpire e sconvolgere lo spettatore. Lo straordinario paesaggio delle Alpi Svizzere, compresse nel formato 1:1, è luogo dello scontro fra un padre e un figlio separati da un rapporto irrimediabilmente logoro. Partendo da un’alternanza abbastanza scolastica di dramma e commedia, la pellicola muta i propri ritmi in quelli di un thriller psicologico per divenire, infine, un survival movie. Nonostante la gestione dei vari segmenti di racconto e dei rispettivi snodi non sia perfetta, la coerenza dello stile di van Ewijk riesce a fare da collante e a garantire al film un’inaspettata uniformità. Le splendide prove di Reinout e Gijs Scholten van Aschat - il primo abbiamo avuto modo di apprezzarlo in Italia in Capri Revolution (2018) - vengono valorizzate da una messa in scena che sfrutta egregiamente il formato per rendere "scomodi" gli spazi - sia interni sia esterni - entro cui i due personaggi si muovono. La maniacalità della composizione delle inquadrature è tutt’altro che gratuita. Al contrario, traduce perfettamente il senso di inadeguatezza e di insofferenza che permea la relazione fra i due personaggi. Una relazione fra due mascolinità congelate, algide, che trova specchio nelle immobili montagne innevate nelle quali si svolge la vicenda. La macchina da presa asseconda i vari cambi di registro del film tenendosi sempre alla giusta distanza dagli uomini che immortala, li osserva silente disgregarsi, ricompattarsi e congelarsi. Tramuta ogni compresenza dei due protagonisti nell’immagine in uno scontro, traccia linee di tensione, simmetrie e asimmetrie con una precisione geometrica che ricorda molto i film di maestri nord-europei come Ruben Östlund e Roy Andersson.
Rifuggendo facili soluzioni estetiche - la scelta del formato è emblematica - e semplici sviluppi narrativi, Alpha è un film tutt’altro che perfetto, ma che osa andare oltre e riesce ad arrivare, quasi sorprendentemente, a una sintesi. Risultato non scontato per un’opera che si candida seriamente ad ottenere un premio alle Giornate degli Autori.
TWST, di Andrei Ujică
Andrei Ujică è uno dei teorici e dei registi più importanti nel campo del found footage a livello mondiale. Il professore di Mediologia della Karlsruhe University of Arts and Design è arrivato alla ribalta del cinema mondiale grazie alla sua collaborazione con il tedesco Harun Farocki, con cui ha co-diretto Videograms of a revolution (1992), vera e propria pietra miliare del documentario che indaga direttamente sul rapporto tra i media (e le immagini in generale) e il potere politico in Europa alla fine dell’era comunista. Dopo altri vari lavori significativi, quali Out of the present (1995), inchiesta/saggio sul prolungato viaggio nello spazio del cosmonauta russo Sergei Krikalev, e soprattutto The Autobiography of Nicolae Ceaușescu (2010), documentario di tre ore sul rapporto tra il segretario generale del Partito Comunista rumeno e la politica locale, quest’anno Ujică è tornato nuovamente alla ribalta con il suo nuovo documentario, TWST, acronimo celebre di Things We Said Today, ricostruzione d’archivio del celebre tour nordamericano dei Beatles. Un’operazione ambiziosa e davvero interessante, in cui Ujică parte dal concerto del 1965 dei Fab Four allo Shea Stadium di New York per condurre una maxi-indagine di costume sull’epoca pre-rivoluzionaria. La parte più interessante che però Ujică introduce all’interno del suo documentario è legata all’uso del footage, alquanto bizzarro e molto particolare. Accanto alle riprese d’epoca, infatti, il regista costruisce un mondo-altro formato da inserti d’animazione - che ricorda da vicino le sperimentazioni di Alain Resnais in un film quasi dimenticato come I Want To Go Home (1989) -, i quali diventano veicolo in primis di nostalgia, per un’epoca ormai andata e scomparsa definitivamente, e successivamente per costruire un’indagine di costume basata sull’extra-diegesi, partendo da uno degli eventi pop che ha scombussolato l’arte contemporanea per raccontare il cambiamento di una società che si avviava verso libertà e sperimentazioni mai provate prima. Proprio l’uso delle animazioni come corpo effettivo del racconto permette a Ujică di aggiungere un carico profondamente attuale al documentario più classico e di dargli un tocco sperimentale, puntando perlopiù sul montaggio “collage” di immagini che scorrono su schermo senza particolari fili conduttori. Proprio quest’assenza di collegamenti rende in modo intelligente il caos di un’epoca turbolenta che diventa il soggetto delle riprese del regista, e in questo modo la forma diventa automaticamente la sostanza di quanto è raccontato su schermo, in una modalità fresca e contemporanea che diverte da un lato, ma che dall’altro rischia pesantemente di risultare pedante e fastidioso alla lunga, in cui il senso nostalgico pervade l’atmosfera solamente in un primo momento, salvo poi abbandonarsi alla carica dirompente e confusionaria delle immagini.
Jouer avec le Feu, di Delphine Coulin e Muriel Coulin
Figlio mio, posso davvero perdonarti tutto? Posso accettare ogni tua scelta? La violenza, davvero la trovi così affascinante? Ti amo e mi ripugni, per te darei la vita ma, se potessi, non vorrei essere il tuo, di padre. Jouer Avec Le Feu, giocare col fuoco, è la tragedia privata di un padre, Pierre, e di suo figlio, Fus. Il film, in concorso nella sezione principale del Festival di Venezia, è diretto dalle sorelle francesi Delphine e Muriel Coulin, alla loro terza regia. Le sorelle Coulin portano sullo schermo un conflitto ideologico e generazionale, la lotta morale di Pierre, sapientemente interpretato da Vincent Lidon, di fronte alla deriva estremista e violenta del suo figlio maggiore. Fus (Benjamin Voisin), a cui si contrappone il sensibile fratello Louis (Stefan Crepom), è uno dei tanti giovani che, mancante di reali prospettive, trova la sua dimensione nell’ideale distorto di comunità dell’estrema destra. Non per una particolare consapevolezza, ma per il conforto di sentirsi parte di un virtuoso “noi”, contrapposto a un disprezzabile “loro”. Valori spesso allineati, famiglia e moralità, diventano quindi inconciliabili. Il film, ben costruito, indaga sul rapporto genitoriale con delicatezza, dipingendolo come un filo, che nonostante le differenze e al di là delle volontà, non può essere spezzato. Seppur l’opera sappia a più riprese di inflazionato e a tratti didascalico, le sorelle Coulin fanno un buon lavoro nel co-dirigere e co-sceneggiare questa storia conflittuale, riflettendo in modo lucido sulle sfaccettature della realtà moderna, del nucleo familiare, e delle contraddizioni di una gioventù ambivalentemente simbolo di regresso e di speranza.
Harvest, di Athina Rachel Tsangari
Adattato dall’omonimo romanzo di Jim Crace, Harvest narra le vicende di un villaggio nel corso di sette giorni e di come l’arrivo di tre forestieri (un cartografo, un migrante e un uomo d’affari) provocherà la scomparsa di questo piccolo ecostistema rurale. Di fatto, queste figure fungono come simbolo di un cambiamento improvviso, un avvento della modernità che coglie alla sprovvista la comunità agricola. La nuova opera di Rachel Atina Tsangari parte da una premessa piuttosto intrigante sullo scontro tra modernità e tradizione, sulla perdita d’innocenza e sull’impatto che un sistema capitalista opprimente può avere sull’ambiente naturale, un preambolo dell’industrializzazione contemporanea, ma l’ambiziosa narrazione non trova un riscontro con le tematiche affrontate. Infatti, la cineasta perde le redini della storia man mano che questa prosegue, pur di rispettare fedelmente il romanzo da cui è tratto il film. Questo si evince nell’ultima mezz’ora, dove Tsangari cerca di risolvere in maniera affrettata ogni sottotrama introdotta, rendendo la visione di Harvest piuttosto frustrante e, a tratti, noiosa. Il film comunque non è privo di pregi, Caleb Landry Jones, che interpreta un villeggiante dall’indole naïf, restituisce un’interpretazione più che degna, i cui sguardi silenziosi trasmettono il dolore dell’intera comunità, mentre la fotografia in 16mm del DOP Sean Price Williams, in grado di risaltare non solo lo stupendo ambiente naturale, ma anche la quotidianità folkloristica del villaggio, risulta l’aspetto maggiormente riuscito dell’opera. Tutto sommato, il lungometraggio delude e ci si aspettava qualcosa di più da Tsangari.
2073, di Asif Kapadia
Anno 2073. Ghost (Samantha Morton) vive nel piano sotterraneo di quello che era un centro commerciale. La vita in “superficie” è diventata insostenibile dopo che, ventinove anni prima, un disastro climatico ha portato distruzione e miseria. Tramite il suo voiceover, la donna misteriosa inizia a narrare ciò che è accaduto in passato, e quindi ciò che accadrà nel futuro dello spettatore. Kapadia utilizza il personaggio principale per mostrare la sua visione pessimistica del futuro, una visione che invita l’umanità ad agire e a “fare qualcosa”. Il problema principale di questo approccio è che il documentarista cerca di inserire troppi elementi per giustificare la propria tesi, ma la maggior parte di questi sono solo accennati o affrontati in maniera troppo superficiale, come se il film fosse stato diretto da un influencer di TikTok che legge un articolo sullo stato della politica mondiale. Infatti, 2073 diventa in poco tempo un susseguirsi di clip video che analizzano l’impatto dei miliardari a capo delle società tecnologiche più importanti al mondo, l’avvento dell’AI, la diffusione delle fake news, il cambiamento climatico e infine i vari diritti umani violati dal governo. Con una durata di soli ottanta minuti è impossibile intraprendere un discorso talmente complesso, Kapadia ha buone intenzioni e il messaggio che vuole trasmettere è piuttosto chiaro, l’esecuzione però risulta laconica e approssimativa. 2073 è uno dei film più deludenti del Festival e ci si aspettava di più dall’acclamato documentarista di Amy (2015) e Senna (2010).
Pavements, di Alex Ross Perry
Nel 1999, i Pavement, storica band indie rock degli anni ‘90, si sciolse per via dei conflitti interni tra i vari membri del gruppo. Dopo diversi anni decisero di riunirsi temporaneamente per un tour mondiale, prima del ritorno in piena attività nel 2022. Le vicende riguardanti la band sono il soggetto del documentario Pavements di Alex Ross Perry. All’inizio si pensava che il nuovo progetto del regista indie americano doveva essere un biopic sulla band, con protagonisti Joe Keery e Jason Schwarzman, ma il cineasta capì che per raccontare l’assurda storia di questo gruppo musicale doveva adottare un approccio più sperimentale, un ibrido tra documentario e finzione con forti connotazioni ironiche. La parte documentaristica risulta piuttosto semplice, il cineasta sovrappone immagini d’archivio di concerti e interazioni varie con interviste del giorno d’oggi dove i membri riflettono sul passato e il presente della band. La parte fiction è invece ciò che sorprende di più poiché Perry si prende gioco dei classici biopic hollywoodiani realizzando un mockumentary esilarante che mostra il dietro le scene degli attori e alcune sequenze del film mai realizzato. Il punto di vista satirico, che critica esplicitamente il biopic musicale e come spesso questi lungometraggi siano realizzati con il solo intento di vincere premi, è messo in risalto soprattutto dalle “interviste” condotte a Joe Keery, il quale ripete più volte la sua volontà di ricevere una nomination all’Oscar tramite questo film. Malgrado l’approccio creativo, Pavements non è in grado di trovare un equilibrio tra le sue due anime, ma rimane comunque una visione che intrattiene e che è in grado di omaggiare una "band disfunzionale" in maniera più che degna.
Boomerang, di Shahab Fotouhi
Due giovanissimi ai lati opposti di una strada assai trafficata incrociano i loro sguardi, si sorridono complici e cominciano a scambiarsi sguardi e smorfie buffe. Non si conoscono ancora ma c’è già una forte sintonia. I loro nomi sono Minoo e Keyvan (rispettivamente Yes Farkhondeh e Ali Hanafian molto amici anche nella vita reale) e li seguiamo o in una spensierata passeggiata fluttuante. Un incontro casuale che ha un sapore magico. Ad accendersi tra i due una scintilla che li spinge a raccontarsi le proprie vite e i loro segreti più intimi. Quasi in maniera speculare a questo flirt intenso appena scoccato il racconto si sposta, nella sequenza successiva, sul rapporto tra i genitori di Minoo: Sima (Leili Rashidi), e Behzad (Arash Naimian). Il matrimonio tra i due è stanco e logoro, Sima vuole andarsene di casa e cercare un appartamento per lei e la figlia, mentre Behzad è focalizzato su un incontro che ha programmato con una sua vecchia fiamma. Boomerang opera prima del regista iraniano Shabbat Fotouhi è una fotografia, anzi un’istantanea della Teheran moderna. Uno spaccato sociologico che ci racconta in maniera speculare due generazioni attraverso le due emblematiche protagoniste: Minoo e sua madre Sima. Ad una generazione ormai stanca ed apparentemente senza speranza fa da contraltare la spensieratezza esplosiva dell’incontro tra i due giovani. Il film non segue un percorso lineare, non c’è un rapporto di causa effetto tra le sequenza che si susseguono. Si tratta piuttosto di una struttura narrativa a mosaico in cui ogni tessera deve essere riordinata dallo sguardo dello spettatore. Le vere protagoniste di Boomerang sono le donne, Sima coraggiosa e pronta a non arrendersi e Minoo nel suo percorso di scoperta della vita e dell’amore, libera e padrona della sua esistenza. Un film che somiglia ad un flusso continuo, che richiede di immergersi senza farsi troppe domande.