NC-227
03.09.2024
In questo secondo appuntamento ci concentreremo su opere presentate in Concorso come The Brutalist, il nuovo, colossale, lavoro di Brady Corbet, I’m Still Here di Walter Salles, dramma politico brasiliano con protagonista Fernanda Torres e The Order, l’avvincente thriller con protagonisti Jude Law e Nicholas Hoult. Inoltre vi racconteremo anche dei due titoli francesi Trois amies di Emmanuel Mouret e Leurs enfants après eux di Ludovic e Zoran Boukherma. Continueremo con i film di Orizzonti, tra i quali spiccano Mistress Dispeller di Elizabeth Lo e Wishing on a Star, del cineasta ungherese Peter Kerekes. Infine vi racconteremo di due affascinanti pellicole presentate nel Fuori Concorso; il documentario Israel Palestine on Swedish TV 1958-1989, firmato dallo svedese Göran Hugo Olsson e Baby Invasion, la nuova folle opera sperimentale di Harmony Korine.
The Brutalist, di Brady Corbet
Con solo tre lungometraggi all’attivo Brady Corbet è diventato, in breve tempo, uno delle voci predominanti del panorama cinematografico odierno e, quando nel 2020 fu annunciato che il suo nuovo progetto si sarebbe focalizzato sulla figura di un architetto ungherese che cerca di ricostruirsi una nuova vita negli Stati Uniti, si era generata molta curiosità a riguardo. Dopo una produzione travagliata, condizionata in primis dalla pandemia e, in seguito, da inaspettati cambi di cast, finalmente Corbet è riuscito a presentare The Brutalist al Festival di Venezia. Ambientato nel corso di trentatré anni, la mastodontica opera narra le storia di Laszlo Tóth (Adrian Brody), sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald, un uomo che cerca di inseguire l’American Dream e costruire un futuro stabile per la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Szofia (Raffy Cassidy), anch’esse sopravvissute agli orrori dell’Olocausto e ancora bloccate in Austria in attesa dei visti per emigrare. Dopo un periodo travagliato a New York, Laszlo riesce a raggiungere il cugino Attila (Alessandro Nivola) in Pennsylvania e, in seguito al fortunato incontro con il figlio di un magnate, verrà assunto per rinnovare il design di uno studio. Nonostante un inizio difficile, caratterizzato da vari conflitti tra Laszlo e il suo ricco cliente, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), dove la visione architettonica brutalista del primo si scontrerà con la volontà estetica e capitalista del secondo, tra i due inizierà a nascere un rapporto di potere che durerà diversi decenni. Una dinamica che ricorda quella tra Daniel Plainview ed Eli Sunday in There Will Be Blood (2007) di Paul Thomas Anderson, e che metterà a repentaglio la salute mentale e fisica di una persona ancora traumatizzata dal proprio passato. In questo periodo Van Buren metterà alla prova il talento dell’architetto affidandogli le redini di uno progetto piuttosto ambizioso: la costruzione di un immenso edificio per alimentare il suo smisurato ego e cementare la sua legacy. Una volta finita la visione del film la sensazione è quella di avere assistito ad uno dei lungometraggi più monumentali degli ultimi anni; questo si può riscontrare nella ricerca stilistica di Corbet e dal modo in cui il film viene girato. Infatti il cineasta ha optato di filmare l’intera opera attraverso il VistaVision, un formato cinematografico con un rapporto dimensionale leggermente superiore al 35mm, la cui grana è in grado di esaltare certe palette di colori vibranti e sottolineare il periodo storico raccontato, gli anni '50. Il risultato è la creazione di un film che sembra non appartenere al cinema dei nostri giorni, basti pensare che a metà della pellicola vi è un intervallo di quindici minuti e, una volta finito questo lasso di tempo, la storia prende una direzione narrativa leggermente diversa. L’arrivo di Erzsebet servirà come mezzo narrativo per accentuare ancora di più le differenze socio-culturali tra i Van Buren e Laszlo. Significativa è infatti una conversazione tra i due coniugi e la famiglia mecenate dove, tramite la frase “we tolerate you”, si può comprendere il disprezzo di questi verso gli outsiders e la loro intenzione di sfruttare il lavoro dell'architetto. Nella parte finale, The Brutalist tocca il suo apice quando il rapporto Laszlo/Van Buren raggiunge un climax tanto brutale quanto scioccante, dove entrambi i personaggi perderanno la propria umanità in maniera definitiva. L’opera monumentale di Corbet presenta anche alcune delle interpretazioni più notevoli viste al Festival: Brody porta sullo schermo una delle sue migliori performance riuscendo a trasmettere la desolazione e disperazione del suo personaggio tramite uno sguardo espressivo e un physical acting impressionante, Jones invece ruba la scena con una toccante prova recitativa dove mostra un eccellente accento ungherese e yiddish. Da citare è anche la colonna sonora di Daniel Blumberg, le cui sinfonie cacofoniche riescono a creare un’atmosfera claustrofobica che ricorda da vicino le colonne sonore di Mica Levi. The Brutalist è un prodotto destinato a entrare nella storia del cinema, un lungometraggio di cui si parlerà a lungo e dove l’ambizione "brutalista" del suo autore domina dal primo all’ultimo minuto.
Israel Palestine on Swedish TV 1958-1989, di Göran Hugo Olsson
“Il materiale d’archivio non ci dirà mai cosa è successo veramente, ma dice molto su come esso viene raccontato”. Questa la frase che apre il nuovo lavoro di Göran Hugo Olsson, documentarista che da più di 20 anni lavora con le immagini d’archivio. La sfida del regista, iniziata cinque anni fa, è stata quella di raccogliere e selezionare il materiale inerente al conflitto israelo-palestinese prodotto dalla televisione nazionale svedese, dalla sua nascita fino alla caduta del muro di Berlino. La Svezia, negli anni della Guerra Fredda, è sempre stata un paese neutrale fra i due blocchi e la televisione nazionale proiettava solo materiale prodotto da reporter svedesi. L’immensa mole di contenuti selezionati si traduce nella forma del film, la cui durata supera abbondantemente le tre ore. Eppure la visione del documentario di Olsson non è mai ostica. Il merito è senz’altro della capacità del regista nel proporre una prospettiva non scontata sugli avvenimenti, di restituire una nuova rappresentazione delle immagini del conflitto che scava in profondità nella questione e restituisce molteplici punti di vista. Lungi dall’essere una mera giustapposizione di immagini d’archivio, il film di Olsson mette efficacemente in comunicazione i vari materiali creando, in diversi momenti, dei veri e propri campi-controcampi fra fonti diverse. Collisioni dialettiche che diventano portatrici di un nuovo sguardo, quello di Olsson, che offre allo spettatore diversi stimoli e interrogativi. Questo “nuovo sguardo”, però, ci fa tornare inevitabilmente alla frase che apre il documentario. Il film non può dirci cosa sia successo veramente, ci può solo offrire un nuovo modo di vedere le immagini che rimarrà però sempre vincolato a ciò che il regista sceglie - e non sceglie - di includere e di mettere in sequenza. A noi spettatori la capacità di cogliere questo aspetto, fondamentale per poter apprezzare al meglio il lavoro di Olsson e la sua metodologia senza caderne vittime.
The Order, di Justin Kurzel
Justin Kurzel è stato da sempre un ipnotico “cantore” di vicende tenebrose e impenetrabili. Fin dal suo esordio nel lungometraggio con Snowtown (2011), il regista di origini australiane si è fatto portatore di narrative impregnate di morte e una certa vena di elegiaca follia. Dalla perturbante e personale versione del Macbeth shakespeariano (2016), fino al visionario The Kelly Gang (2019) e all’alienante Nitram (2021), Kurzel ha avuto occasione di dimostrare una straordinaria capacità nel filmare la “stortezza” umana e le sue imprevedibili espressioni. Oramai ospite fisso nei maggiori festival internazionali, quest’anno il regista ha avuto l’occasione di sbarcare in concorso alla Mostra d’arte Cinematografica di Venezia per presentare il suo nuovo film, The Order. Tratto da un reale episodio di cronaca avvenuto negli anni Ottanta, il lungometraggio narra la storia di un’estenuante caccia che l’FBI ha dovuto perpetuare nei confronti di un gruppo suprematista bianco che, tramite una serie di rapine e violente azioni criminali, ha cercato di scatenare una guerra civile contro il governo americano. Nonostante una struttura narrativa estremamente classica, The Order trionfa e stupisce per i suoi toni. Di fatto il film trova una straordinaria forza nel raccontare le vite di personaggi "al limite", poiché, tramite essi, gli eventi mostrati acquiescono un reale “senso umano” deostruendo un’oscura vicenda e creando un evidente parallelismo con il clima di violenza sempre maggiore che sta caratterizzando il nostro presente. I protagonisti non sono altro che l’espressione di un universo allo sbaraglio, figli della rabbia e delle perverse dinamiche della violenza essi si muovono negli scenari, desolanti e desolati, di un Idaho che sembra la manifestazione di un dopo-apocalisse, un non luogo dove non vi è spazio per la redenzione tanto agognata dal personaggio di Robert Mathews - interpretato da un fantastico Nicholas Hoult che grazie a questo ruolo trova la piena maturazione artistica. In grande forma anche l’inglese Jude Law che, dopo la fantastica interpretazione del folle Enrico VIII in Firebrand (2023), caratterizza nuovamente un personaggio sfaccettato, diviso, ed estremamente complesso.
Mistress Dispeller, di Elizabeth Lo
Elizabeth Lo rappresenta una delle nuove voci che, negli ultimi anni, hanno contribuito all'incremento del “rapporto cinematografico” tra Asia e America, portando ad evolverne le relazioni. Sempre più produzioni cinesi guardano, ormai, verso l’Occidente, e di contro anche l’America è stata influenzata, in larga parte, da alcuni prodotti orientali che si sono succeduti in modo molto significativo sul mercato internazionale. Dopo aver vinto lo Spirit Award al Brooklyn Film Festival nel 2015, con il cortometraggio Treasure Island (2015), la regista ha debuttato definitivamente con il suo lungometraggio Stray (2020), con il quale è stata candidata agli Independent Spirit Awards e ai Critics’ Choice, vincendo vari premi. Mistress Dispeller (2024), presentato nella sezione Orizzonti, è l’ampliamento di un suo corto girato nel 2021, la cui struttura è stata ricalcata in modo molto accurato. Nel narrare la storia, a metà tra il documentario e il racconto finzionale, di una donna di Hong Kong alle prese con il salvataggio del proprio matrimonio, la regista indaga, in modo molto intelligente, su una “nuova industria” sorta nella società cinese: l’assistenza di coppie con un alto grado d’infedeltà all’interno del matrimonio. Questo argomento di partenza diviene uno spunto molto interessante per mostrare, dall’interno, l’ipocrisia che, ormai sempre più spesso, si cela all’interno del “sacro vincolo”. Inoltre, è un escamotage che la registra sfrutta per indagare su come, al giorno d’oggi, la dimensione pubblica annulli totalmente quella privata. Il discorso, naturalmente, è metaforico e strettamente legato alla Cina, in quanto risulta un corrispettivo dell’apparato statale, sommerso da una serie di conflitti interni, in cui si rispecchia l’ambiguità di un’intera popolazione. La regista smaschera e fa cadere questa barriera, facendoci entrare nella vita di Wang Zhenxi tramite un formato che sicuramente agevola il racconto realista, ma che di contro non riesce mai a placare quel sentore di finzione che aleggia nel corso di tutta la durata dell’opera. Le scelte di regia di Elizabeth Lo, inoltre, rendono il lungometraggio molto sui generis, figlio di quella commistione tra cinema orientale e occidentale (soprattutto tra Cina e USA, come indicano anche le nazionalità dei produttori) che sta caratterizzando tutto il panorama mondiale a partire dalla celebrata vittoria agli Oscar di Parasite (2019). L’effetto di quella vittoria sembra essere ancora tangibile e apre una questione molto profonda su come i film risultino globalizzati anche dal punto di vista tecnico. Le scelte di regia della Lo, infatti, nonostante non siano mai invadenti nei confronti della realtà documentata (i punti macchina restano sempre molto distaccati dai personaggi ed è chiaro l’intento di voler restituire a tutti i costi una realtà oggettiva), si rifanno molto al decentramento tipico del formato del cinema indie americano degli ultimi anni, disattendendo in molti casi la non applicazione dei filtri a ciò che viene filmato (ne è un esempio la scena del massaggio). Anche dal punto di vista delle tematiche - nonostante la messa a nudo e l’indagine di come il capitale influenzi irrimediabilmente il modo di agire delle varie classi sociali e su come culture diverse regolino le relazioni tra individui appartenenti a realtà diverse - il lungometraggio appare già visto, tutto appannaggio di una finta risoluzione che non aggiunge nulla di nuovo al cinema di quest’ultimo decennio.
To Kill a Mongolian Horse, di Xiaoxuan Jiang
È un’opera d’esordio discreta, To Kill a Mongolian Horse. La regista mongola Xiaoxuan Jiang dipinge con precisione lo stato attuale del proprio paese, alle prese con una colonizzazione cinese che si riflette su vari aspetti, dall’economia alla cultura, e con un cambiamento climatico che crea seri danni all’economia basata sull’allevamento. L’uccisione del cavallo mongolo che dà titolo al film è quindi duplice e causata da fattori che Jiang indaga attraverso i volti di un mandriano e di un cavallerizzo. Due personaggi che conducono esistenze precarie, ritratti dalla regista con uno sguardo umano che mira a svelarne insicurezze e drammi. Vicina nello stile al cinema geografico-antropologico di Jia Zhang-ke e a una certa filmografia cinese di denuncia che trova spesso come unico spazio i festival cinematografici, l’opera di Xiaoxuan Jiang sembra sin troppo ancorata a quelli che sono i propri riferimenti formali. L’urgenza dei contenuti rischia inoltre di soffocare nella scolasticità di una regia che ha pochi guizzi e si regge su reiterati dualismi estetici. Contrapposizioni certo interessanti - si vedano la fotografia patinata delle scene dell’esibizione dei cavalieri e quella ruvida delle scene girate nella steppa - ma che non riescono a dare al lungometraggio una marcia in più, quello scarto fondamentale che rende un film non solo interessante per ciò che racconta, ma anche per le modalità con cui la storia viene messa in scena.
Trois Aimes, di Emmanuel Mouret
Il cinema di Emmanuel Mouret si è sempre potuto definire come il punto d’incontro tra Woody Allen e Éric Rohmer; per quanto riguarda il cineasta newyorkese ha saputo trarre ispirazione dai suoi personaggi nevrotici, mentre del secondo si può notare una certa influenza nel tono spensierato e nell'interesse verso quelle relazioni effimere che si instaurano tra i loro protagonisti. Trois amies non fa eccezione, e rappresenta la continuazione di un affascinante discorso che riguarda le relazioni fugaci all’interno di coppie di mezz’età. Questo leit motif, che aveva già trovato successo in Les choses qu'on dit, les choses qu'on fait (2020) e Chronique d'une liaison passagère (2022), due delle commedie romantiche più squisite degli ultimi anni, si può ritrovare anche in Trois amies, dove il cineasta approfondisce questa tematica tramite il triplice punto di vista di un gruppo di amiche: Joan (India Hair) che non ama più il marito Victor, Alice (Camille Cottin), che non ha mai amato il marito Éric e che intraprende una relazione proibita con un celebre pittore, e infine Rebecca (Sara Forestier), che crede che l’amore sia un’avventura e inizia una liaison con il marito di Alice. Il film risulta essere una visione più che piacevole e divertente, ma bisogna ammettere che la storyline che riguarda Joan non convince appieno; infatti, tramite questo personaggio, Mouret prova a imbastire un discorso sul lutto sottolineando il lato più tragico di queste relazioni a tratti disfunzionali, ma l’interpretazione centrale della Hair e alcune sequenze melanconiche che la riguardano stonano con il tono leggero dell’opera. Nonostante ciò, fa sempre piacere visionare una “commedia” ai festival internazionali e ne consigliamo ampiamente la visione quando il film raggiungerà le nostre sale grazie alla Lucky Red.
I’m Still Here, di Walter Salles
Nel corso degli anni ‘70, le dittature militari in America Latina hanno mietuto centinaia di vittime tramite rapimenti e conseguenti uccisioni, dando vita al fenomeno dei desaparecidos. Da questo tema sono stati tratti diversi lungometraggi - tra cui il celebre Missing (1982) di Costa-Gavras - e ora è arrivato il turno di Walter Salles, uno dei più grandi cineasti brasiliani di sempre, che dirige la sua prima opera dopo un’assenza durata dodici anni. Adattato dall’omonimo romanzo autobiografico di Marcelo Rubens Paiva - che racconta la storia della sua famiglia tra il 1971 e il 2015 - il film si concentra sulla lunga lotta intrapresa da Eunice (Fernanda Torres), madre dello scrittore, per scoprire la verità dietro alla sparizione del marito Rubens (Selton Mello) a seguito di un interrogatorio di “routine”. Come le precedenti opere del cineasta brasiliano ambientate in patria, Salles osserva la storia e il trauma di un nucleo familiare qualunque per rappresentare il disagio e il turbamento di una Nazione. Questo si può evincere già nella prima mezz’ora, dove il regista si focalizza sui legami personali della famiglia Paiva e l’amorevole figura del padre. La vita agiata dei Paiva rappresenta infatti lo stato di un Paese che in pochi anni avrebbe subito una regressione politica ed economica. Inoltre, questo device narrativo assume un ruolo chiave dal punto di vista emotivo poiché, dopo la scomparsa del padre, il pubblico riesce immediatamente ad immedesimarsi nel personaggio di Eunice e capire l’enorme dolore della donna. Quello che segue è un brillante mix tra un thriller politico e un character study su una donna dalla forte indole pronta a tutto pur di scoprire la verità. La potenza emotiva dell’opera è soprattutto messa in risalto dalla performance di Torres, non solo una delle migliori del festival, ma anche dell’intera annata cinematografica. La celebre attrice brasiliana porta sullo schermo un ritratto, complesso ed equilibrato, grazie alla quale, sia lei che Salles, riescono a documentare il dolore e la sofferenza di una donna senza scadere in un approccio eccessivamente melodrammatico. La compostezza a livello stilistico e narrativo è quello che rende I’m Still Here una visione imperdibile ed estremamente struggente. Da segnalare anche il piccolo cameo nella parte finale di Fernanda Montenegro, madre di Fernanda Torres e collaboratrice storica di Salles, nel ruolo della versione anziana di Eunice.
Wishing on a star, di Péter Kerekes
Luciana vive a Napoli ed esercita la professione di astrologa. Accoglie i suoi clienti nel suo studio, entra in confidenza con loro e si fa raccontare i loro desideri più intimi. Il suo compito è quello di accontentarli, di far sì che i suddetti desideri prendano vita. Tutto quello che devono fare è partire e trovarsi nel giorno del loro compleanno in una meta specifica indicata dalla "stregona". Questo viaggio gli permetterà di rinascere sotto nuove configurazioni celesti. Wishing on a star del regista ungherese Péter Kerekes è un documentario fotografato in maniera affascinante che alterna momenti di realismo ad un racconto denso di magia. Il racconto filmico si compone in un alternarsi di “sedute” tenute da Luciana e momenti della vita quotidiana dei suoi clienti, spesso anche in contraddizione con i racconti fatti nel suo studio. La stessa Luciana si interroga sul suo ruolo, sulle sue responsabilità. Lei stessa è una donna piena di dubbi e desideri. A stupire è la capacità del regista di abbracciare le storie dei suoi protagonisti al punto tale da renderle estremamente coinvolgenti, mantenendo però uno stile documentaristico. Una fiaba del reale dal ritmo interessante, estremamente umana ed affascinante.
Leurs enfants après eux, di Ludovic e Zoran Boukherma
Tratta dall’omonimo e complesso romanzo di Nicolas Mathieu, il quarto lungometraggio dei registi e sceneggiatori Ludovic e Zoran Boukherma ha rappresentato una delle delusioni più cocenti del festival. Prometteva di essere una storia di crescita, nostalgia e lotta di classe, ma purtroppo Leurs enfants après eux si è rivelato un film con personaggi mal sviluppati e poco interessanti, slegato e dal ritmo ondivago. La sua caratterizzazione di una vicenda ambientata nella realtà della provincia - con i suoi amori, le sue lotte, i suoi piccoli drammi - non apporta niente di nuovo a una storia già vista e rivista, che qui sfocia, purtroppo, in una tediosità insopportabile e in un ermetismo che impossibilita il pubblico ad empatizzare con la condizione dei protagonisti. La pellicola gira a vuoto, probabilmente a causa di una sceneggiatura insufficiente e non in grado di comprendere le reali intenzioni della matrice romanzesca. Un cast mal sfruttato e uno spropositato uso di grandi hit del passato completano il tutto. Guardando il film viene da pensare se, forse, non sarebbe stato meglio da parte dei due fratelli abbandonare l’intento di trasporre un’opera troppo densa di suggestioni per sopportare la visualità della trasposizione in immagini.
Baby Invasion, di Harmony Korine
Negli ultimi anni il cinema di Harmony Korine ha subito una certa evoluzione e il controverso cineasta ha iniziato a sperimentare di più sulla forma stilistica rispetto che portare avanti una narrativa coesa. Questo periodo è iniziato l’anno scorso quando presentò, sempre al festival di Venezia, AGGRO DR1FT, film completamente girato tramite l’utilizzo della camera termica per rappresentare la realtà infernale del protagonista, un assassino spietato. L’ambizione stilistica di Korine era riuscita a sovrastare una narrativa ridondante e problematica, e si potrebbe dire lo stesso di Baby Invasion, la sua nuova opera presentata fuori concorso qualche giorno fa. La nuova provocatoria pellicola del cineasta racconta di un videogame, creato da una programmatrice pentitasi della sua stessa creazione, dove diverse persone sono in grado di raggiungere una realtà virtuale in cui i giocatori hanno la possibilità di derubare e dare fantasia ai propri desideri violenti più remoti. Korine immerge lo spettatore nel mondo del gaming, in un’ambiente tanto intossicante quanto ipnotico, in cui una preponderante soundtrack EDM e la classica interfaccia da game streaming perdurano per tutti gli ottanta minuti di visione. Quando Korine cerca di portare avanti una narrativa “classica”, inserendo eccessive allegorie, tra cui il bianconiglio di Alice nel Paese delle Mervaviglie, per simboleggiare l’entrata in questo mondo spietato, il film perde di ritmo ponendo lo spettatore in una dimensione alienante. Quello che si può evincere dalla visione di Baby Invasion però è la volontà di un cineasta che vuole sperimentare e cercare di rivoluzionare la forma cinematografica moderna, è probabilmente per questo motivo che i suoi ultimi film risultano così affascinanti.
Manas, di Marianna Bonnard
Il primo film di finzione di Marianna Bonnard presenta l'urgenza e il realismo tipico dei suoi documentari. Partendo da alcune testimonianze di giovani donne dello stato di Parà, la regista brasiliana porta in scena un duro coming of age che vede come protagonista una ragazza di 13 anni, Tiella, che sogna di fuggire dall’opprimente contesto domestico in cui vive. Manas è un film scomodo, non pacificante, che rifiuta in ogni modo la semplicità narrativa e formale per far emergere, lentamente, le inquietudini e gli spettri che si annidano nella famiglia della protagonista. La camera della Bonnard si muove affannosa tra i volti degli attori protagonisti, fluttua nervosa come le chiatte che fanno da casa e da prigione per Tiella. Lascia sovente fuori fuoco l’ambiente e costringe così lo spettatore a vivere le inquietudini dei personaggi. Nel non visibile, oltre i volti dei personaggi, si svolge una violenza sottile, mai esplicitata e proprio per questo ancora più efferata. Una violenza normalizzata e difficile da metabolizzare, che emerge sotto l’epidermide di un’estetica dell’immagine molto raffinata. Eccellente il lavoro dell’intero cast, che dona ai personaggi una complessità psicologica e un realismo antropologico che supera ogni facile dicotomia e garantisce al film solidità anche quando, nel terzo atto, il racconto giunge troppo repentinamente a una conclusione.
NC-227
03.09.2024
In questo secondo appuntamento ci concentreremo su opere presentate in Concorso come The Brutalist, il nuovo, colossale, lavoro di Brady Corbet, I’m Still Here di Walter Salles, dramma politico brasiliano con protagonista Fernanda Torres e The Order, l’avvincente thriller con protagonisti Jude Law e Nicholas Hoult. Inoltre vi racconteremo anche dei due titoli francesi Trois amies di Emmanuel Mouret e Leurs enfants après eux di Ludovic e Zoran Boukherma. Continueremo con i film di Orizzonti, tra i quali spiccano Mistress Dispeller di Elizabeth Lo e Wishing on a Star, del cineasta ungherese Peter Kerekes. Infine vi racconteremo di due affascinanti pellicole presentate nel Fuori Concorso; il documentario Israel Palestine on Swedish TV 1958-1989, firmato dallo svedese Göran Hugo Olsson e Baby Invasion, la nuova folle opera sperimentale di Harmony Korine.
The Brutalist, di Brady Corbet
Con solo tre lungometraggi all’attivo Brady Corbet è diventato, in breve tempo, uno delle voci predominanti del panorama cinematografico odierno e, quando nel 2020 fu annunciato che il suo nuovo progetto si sarebbe focalizzato sulla figura di un architetto ungherese che cerca di ricostruirsi una nuova vita negli Stati Uniti, si era generata molta curiosità a riguardo. Dopo una produzione travagliata, condizionata in primis dalla pandemia e, in seguito, da inaspettati cambi di cast, finalmente Corbet è riuscito a presentare The Brutalist al Festival di Venezia. Ambientato nel corso di trentatré anni, la mastodontica opera narra le storia di Laszlo Tóth (Adrian Brody), sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald, un uomo che cerca di inseguire l’American Dream e costruire un futuro stabile per la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Szofia (Raffy Cassidy), anch’esse sopravvissute agli orrori dell’Olocausto e ancora bloccate in Austria in attesa dei visti per emigrare. Dopo un periodo travagliato a New York, Laszlo riesce a raggiungere il cugino Attila (Alessandro Nivola) in Pennsylvania e, in seguito al fortunato incontro con il figlio di un magnate, verrà assunto per rinnovare il design di uno studio. Nonostante un inizio difficile, caratterizzato da vari conflitti tra Laszlo e il suo ricco cliente, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), dove la visione architettonica brutalista del primo si scontrerà con la volontà estetica e capitalista del secondo, tra i due inizierà a nascere un rapporto di potere che durerà diversi decenni. Una dinamica che ricorda quella tra Daniel Plainview ed Eli Sunday in There Will Be Blood (2007) di Paul Thomas Anderson, e che metterà a repentaglio la salute mentale e fisica di una persona ancora traumatizzata dal proprio passato. In questo periodo Van Buren metterà alla prova il talento dell’architetto affidandogli le redini di uno progetto piuttosto ambizioso: la costruzione di un immenso edificio per alimentare il suo smisurato ego e cementare la sua legacy. Una volta finita la visione del film la sensazione è quella di avere assistito ad uno dei lungometraggi più monumentali degli ultimi anni; questo si può riscontrare nella ricerca stilistica di Corbet e dal modo in cui il film viene girato. Infatti il cineasta ha optato di filmare l’intera opera attraverso il VistaVision, un formato cinematografico con un rapporto dimensionale leggermente superiore al 35mm, la cui grana è in grado di esaltare certe palette di colori vibranti e sottolineare il periodo storico raccontato, gli anni '50. Il risultato è la creazione di un film che sembra non appartenere al cinema dei nostri giorni, basti pensare che a metà della pellicola vi è un intervallo di quindici minuti e, una volta finito questo lasso di tempo, la storia prende una direzione narrativa leggermente diversa. L’arrivo di Erzsebet servirà come mezzo narrativo per accentuare ancora di più le differenze socio-culturali tra i Van Buren e Laszlo. Significativa è infatti una conversazione tra i due coniugi e la famiglia mecenate dove, tramite la frase “we tolerate you”, si può comprendere il disprezzo di questi verso gli outsiders e la loro intenzione di sfruttare il lavoro dell'architetto. Nella parte finale, The Brutalist tocca il suo apice quando il rapporto Laszlo/Van Buren raggiunge un climax tanto brutale quanto scioccante, dove entrambi i personaggi perderanno la propria umanità in maniera definitiva. L’opera monumentale di Corbet presenta anche alcune delle interpretazioni più notevoli viste al Festival: Brody porta sullo schermo una delle sue migliori performance riuscendo a trasmettere la desolazione e disperazione del suo personaggio tramite uno sguardo espressivo e un physical acting impressionante, Jones invece ruba la scena con una toccante prova recitativa dove mostra un eccellente accento ungherese e yiddish. Da citare è anche la colonna sonora di Daniel Blumberg, le cui sinfonie cacofoniche riescono a creare un’atmosfera claustrofobica che ricorda da vicino le colonne sonore di Mica Levi. The Brutalist è un prodotto destinato a entrare nella storia del cinema, un lungometraggio di cui si parlerà a lungo e dove l’ambizione "brutalista" del suo autore domina dal primo all’ultimo minuto.
Israel Palestine on Swedish TV 1958-1989, di Göran Hugo Olsson
“Il materiale d’archivio non ci dirà mai cosa è successo veramente, ma dice molto su come esso viene raccontato”. Questa la frase che apre il nuovo lavoro di Göran Hugo Olsson, documentarista che da più di 20 anni lavora con le immagini d’archivio. La sfida del regista, iniziata cinque anni fa, è stata quella di raccogliere e selezionare il materiale inerente al conflitto israelo-palestinese prodotto dalla televisione nazionale svedese, dalla sua nascita fino alla caduta del muro di Berlino. La Svezia, negli anni della Guerra Fredda, è sempre stata un paese neutrale fra i due blocchi e la televisione nazionale proiettava solo materiale prodotto da reporter svedesi. L’immensa mole di contenuti selezionati si traduce nella forma del film, la cui durata supera abbondantemente le tre ore. Eppure la visione del documentario di Olsson non è mai ostica. Il merito è senz’altro della capacità del regista nel proporre una prospettiva non scontata sugli avvenimenti, di restituire una nuova rappresentazione delle immagini del conflitto che scava in profondità nella questione e restituisce molteplici punti di vista. Lungi dall’essere una mera giustapposizione di immagini d’archivio, il film di Olsson mette efficacemente in comunicazione i vari materiali creando, in diversi momenti, dei veri e propri campi-controcampi fra fonti diverse. Collisioni dialettiche che diventano portatrici di un nuovo sguardo, quello di Olsson, che offre allo spettatore diversi stimoli e interrogativi. Questo “nuovo sguardo”, però, ci fa tornare inevitabilmente alla frase che apre il documentario. Il film non può dirci cosa sia successo veramente, ci può solo offrire un nuovo modo di vedere le immagini che rimarrà però sempre vincolato a ciò che il regista sceglie - e non sceglie - di includere e di mettere in sequenza. A noi spettatori la capacità di cogliere questo aspetto, fondamentale per poter apprezzare al meglio il lavoro di Olsson e la sua metodologia senza caderne vittime.
The Order, di Justin Kurzel
Justin Kurzel è stato da sempre un ipnotico “cantore” di vicende tenebrose e impenetrabili. Fin dal suo esordio nel lungometraggio con Snowtown (2011), il regista di origini australiane si è fatto portatore di narrative impregnate di morte e una certa vena di elegiaca follia. Dalla perturbante e personale versione del Macbeth shakespeariano (2016), fino al visionario The Kelly Gang (2019) e all’alienante Nitram (2021), Kurzel ha avuto occasione di dimostrare una straordinaria capacità nel filmare la “stortezza” umana e le sue imprevedibili espressioni. Oramai ospite fisso nei maggiori festival internazionali, quest’anno il regista ha avuto l’occasione di sbarcare in concorso alla Mostra d’arte Cinematografica di Venezia per presentare il suo nuovo film, The Order. Tratto da un reale episodio di cronaca avvenuto negli anni Ottanta, il lungometraggio narra la storia di un’estenuante caccia che l’FBI ha dovuto perpetuare nei confronti di un gruppo suprematista bianco che, tramite una serie di rapine e violente azioni criminali, ha cercato di scatenare una guerra civile contro il governo americano. Nonostante una struttura narrativa estremamente classica, The Order trionfa e stupisce per i suoi toni. Di fatto il film trova una straordinaria forza nel raccontare le vite di personaggi "al limite", poiché, tramite essi, gli eventi mostrati acquiescono un reale “senso umano” deostruendo un’oscura vicenda e creando un evidente parallelismo con il clima di violenza sempre maggiore che sta caratterizzando il nostro presente. I protagonisti non sono altro che l’espressione di un universo allo sbaraglio, figli della rabbia e delle perverse dinamiche della violenza essi si muovono negli scenari, desolanti e desolati, di un Idaho che sembra la manifestazione di un dopo-apocalisse, un non luogo dove non vi è spazio per la redenzione tanto agognata dal personaggio di Robert Mathews - interpretato da un fantastico Nicholas Hoult che grazie a questo ruolo trova la piena maturazione artistica. In grande forma anche l’inglese Jude Law che, dopo la fantastica interpretazione del folle Enrico VIII in Firebrand (2023), caratterizza nuovamente un personaggio sfaccettato, diviso, ed estremamente complesso.
Mistress Dispeller, di Elizabeth Lo
Elizabeth Lo rappresenta una delle nuove voci che, negli ultimi anni, hanno contribuito all'incremento del “rapporto cinematografico” tra Asia e America, portando ad evolverne le relazioni. Sempre più produzioni cinesi guardano, ormai, verso l’Occidente, e di contro anche l’America è stata influenzata, in larga parte, da alcuni prodotti orientali che si sono succeduti in modo molto significativo sul mercato internazionale. Dopo aver vinto lo Spirit Award al Brooklyn Film Festival nel 2015, con il cortometraggio Treasure Island (2015), la regista ha debuttato definitivamente con il suo lungometraggio Stray (2020), con il quale è stata candidata agli Independent Spirit Awards e ai Critics’ Choice, vincendo vari premi. Mistress Dispeller (2024), presentato nella sezione Orizzonti, è l’ampliamento di un suo corto girato nel 2021, la cui struttura è stata ricalcata in modo molto accurato. Nel narrare la storia, a metà tra il documentario e il racconto finzionale, di una donna di Hong Kong alle prese con il salvataggio del proprio matrimonio, la regista indaga, in modo molto intelligente, su una “nuova industria” sorta nella società cinese: l’assistenza di coppie con un alto grado d’infedeltà all’interno del matrimonio. Questo argomento di partenza diviene uno spunto molto interessante per mostrare, dall’interno, l’ipocrisia che, ormai sempre più spesso, si cela all’interno del “sacro vincolo”. Inoltre, è un escamotage che la registra sfrutta per indagare su come, al giorno d’oggi, la dimensione pubblica annulli totalmente quella privata. Il discorso, naturalmente, è metaforico e strettamente legato alla Cina, in quanto risulta un corrispettivo dell’apparato statale, sommerso da una serie di conflitti interni, in cui si rispecchia l’ambiguità di un’intera popolazione. La regista smaschera e fa cadere questa barriera, facendoci entrare nella vita di Wang Zhenxi tramite un formato che sicuramente agevola il racconto realista, ma che di contro non riesce mai a placare quel sentore di finzione che aleggia nel corso di tutta la durata dell’opera. Le scelte di regia di Elizabeth Lo, inoltre, rendono il lungometraggio molto sui generis, figlio di quella commistione tra cinema orientale e occidentale (soprattutto tra Cina e USA, come indicano anche le nazionalità dei produttori) che sta caratterizzando tutto il panorama mondiale a partire dalla celebrata vittoria agli Oscar di Parasite (2019). L’effetto di quella vittoria sembra essere ancora tangibile e apre una questione molto profonda su come i film risultino globalizzati anche dal punto di vista tecnico. Le scelte di regia della Lo, infatti, nonostante non siano mai invadenti nei confronti della realtà documentata (i punti macchina restano sempre molto distaccati dai personaggi ed è chiaro l’intento di voler restituire a tutti i costi una realtà oggettiva), si rifanno molto al decentramento tipico del formato del cinema indie americano degli ultimi anni, disattendendo in molti casi la non applicazione dei filtri a ciò che viene filmato (ne è un esempio la scena del massaggio). Anche dal punto di vista delle tematiche - nonostante la messa a nudo e l’indagine di come il capitale influenzi irrimediabilmente il modo di agire delle varie classi sociali e su come culture diverse regolino le relazioni tra individui appartenenti a realtà diverse - il lungometraggio appare già visto, tutto appannaggio di una finta risoluzione che non aggiunge nulla di nuovo al cinema di quest’ultimo decennio.
To Kill a Mongolian Horse, di Xiaoxuan Jiang
È un’opera d’esordio discreta, To Kill a Mongolian Horse. La regista mongola Xiaoxuan Jiang dipinge con precisione lo stato attuale del proprio paese, alle prese con una colonizzazione cinese che si riflette su vari aspetti, dall’economia alla cultura, e con un cambiamento climatico che crea seri danni all’economia basata sull’allevamento. L’uccisione del cavallo mongolo che dà titolo al film è quindi duplice e causata da fattori che Jiang indaga attraverso i volti di un mandriano e di un cavallerizzo. Due personaggi che conducono esistenze precarie, ritratti dalla regista con uno sguardo umano che mira a svelarne insicurezze e drammi. Vicina nello stile al cinema geografico-antropologico di Jia Zhang-ke e a una certa filmografia cinese di denuncia che trova spesso come unico spazio i festival cinematografici, l’opera di Xiaoxuan Jiang sembra sin troppo ancorata a quelli che sono i propri riferimenti formali. L’urgenza dei contenuti rischia inoltre di soffocare nella scolasticità di una regia che ha pochi guizzi e si regge su reiterati dualismi estetici. Contrapposizioni certo interessanti - si vedano la fotografia patinata delle scene dell’esibizione dei cavalieri e quella ruvida delle scene girate nella steppa - ma che non riescono a dare al lungometraggio una marcia in più, quello scarto fondamentale che rende un film non solo interessante per ciò che racconta, ma anche per le modalità con cui la storia viene messa in scena.
Trois Aimes, di Emmanuel Mouret
Il cinema di Emmanuel Mouret si è sempre potuto definire come il punto d’incontro tra Woody Allen e Éric Rohmer; per quanto riguarda il cineasta newyorkese ha saputo trarre ispirazione dai suoi personaggi nevrotici, mentre del secondo si può notare una certa influenza nel tono spensierato e nell'interesse verso quelle relazioni effimere che si instaurano tra i loro protagonisti. Trois amies non fa eccezione, e rappresenta la continuazione di un affascinante discorso che riguarda le relazioni fugaci all’interno di coppie di mezz’età. Questo leit motif, che aveva già trovato successo in Les choses qu'on dit, les choses qu'on fait (2020) e Chronique d'une liaison passagère (2022), due delle commedie romantiche più squisite degli ultimi anni, si può ritrovare anche in Trois amies, dove il cineasta approfondisce questa tematica tramite il triplice punto di vista di un gruppo di amiche: Joan (India Hair) che non ama più il marito Victor, Alice (Camille Cottin), che non ha mai amato il marito Éric e che intraprende una relazione proibita con un celebre pittore, e infine Rebecca (Sara Forestier), che crede che l’amore sia un’avventura e inizia una liaison con il marito di Alice. Il film risulta essere una visione più che piacevole e divertente, ma bisogna ammettere che la storyline che riguarda Joan non convince appieno; infatti, tramite questo personaggio, Mouret prova a imbastire un discorso sul lutto sottolineando il lato più tragico di queste relazioni a tratti disfunzionali, ma l’interpretazione centrale della Hair e alcune sequenze melanconiche che la riguardano stonano con il tono leggero dell’opera. Nonostante ciò, fa sempre piacere visionare una “commedia” ai festival internazionali e ne consigliamo ampiamente la visione quando il film raggiungerà le nostre sale grazie alla Lucky Red.
I’m Still Here, di Walter Salles
Nel corso degli anni ‘70, le dittature militari in America Latina hanno mietuto centinaia di vittime tramite rapimenti e conseguenti uccisioni, dando vita al fenomeno dei desaparecidos. Da questo tema sono stati tratti diversi lungometraggi - tra cui il celebre Missing (1982) di Costa-Gavras - e ora è arrivato il turno di Walter Salles, uno dei più grandi cineasti brasiliani di sempre, che dirige la sua prima opera dopo un’assenza durata dodici anni. Adattato dall’omonimo romanzo autobiografico di Marcelo Rubens Paiva - che racconta la storia della sua famiglia tra il 1971 e il 2015 - il film si concentra sulla lunga lotta intrapresa da Eunice (Fernanda Torres), madre dello scrittore, per scoprire la verità dietro alla sparizione del marito Rubens (Selton Mello) a seguito di un interrogatorio di “routine”. Come le precedenti opere del cineasta brasiliano ambientate in patria, Salles osserva la storia e il trauma di un nucleo familiare qualunque per rappresentare il disagio e il turbamento di una Nazione. Questo si può evincere già nella prima mezz’ora, dove il regista si focalizza sui legami personali della famiglia Paiva e l’amorevole figura del padre. La vita agiata dei Paiva rappresenta infatti lo stato di un Paese che in pochi anni avrebbe subito una regressione politica ed economica. Inoltre, questo device narrativo assume un ruolo chiave dal punto di vista emotivo poiché, dopo la scomparsa del padre, il pubblico riesce immediatamente ad immedesimarsi nel personaggio di Eunice e capire l’enorme dolore della donna. Quello che segue è un brillante mix tra un thriller politico e un character study su una donna dalla forte indole pronta a tutto pur di scoprire la verità. La potenza emotiva dell’opera è soprattutto messa in risalto dalla performance di Torres, non solo una delle migliori del festival, ma anche dell’intera annata cinematografica. La celebre attrice brasiliana porta sullo schermo un ritratto, complesso ed equilibrato, grazie alla quale, sia lei che Salles, riescono a documentare il dolore e la sofferenza di una donna senza scadere in un approccio eccessivamente melodrammatico. La compostezza a livello stilistico e narrativo è quello che rende I’m Still Here una visione imperdibile ed estremamente struggente. Da segnalare anche il piccolo cameo nella parte finale di Fernanda Montenegro, madre di Fernanda Torres e collaboratrice storica di Salles, nel ruolo della versione anziana di Eunice.
Wishing on a star, di Péter Kerekes
Luciana vive a Napoli ed esercita la professione di astrologa. Accoglie i suoi clienti nel suo studio, entra in confidenza con loro e si fa raccontare i loro desideri più intimi. Il suo compito è quello di accontentarli, di far sì che i suddetti desideri prendano vita. Tutto quello che devono fare è partire e trovarsi nel giorno del loro compleanno in una meta specifica indicata dalla "stregona". Questo viaggio gli permetterà di rinascere sotto nuove configurazioni celesti. Wishing on a star del regista ungherese Péter Kerekes è un documentario fotografato in maniera affascinante che alterna momenti di realismo ad un racconto denso di magia. Il racconto filmico si compone in un alternarsi di “sedute” tenute da Luciana e momenti della vita quotidiana dei suoi clienti, spesso anche in contraddizione con i racconti fatti nel suo studio. La stessa Luciana si interroga sul suo ruolo, sulle sue responsabilità. Lei stessa è una donna piena di dubbi e desideri. A stupire è la capacità del regista di abbracciare le storie dei suoi protagonisti al punto tale da renderle estremamente coinvolgenti, mantenendo però uno stile documentaristico. Una fiaba del reale dal ritmo interessante, estremamente umana ed affascinante.
Leurs enfants après eux, di Ludovic e Zoran Boukherma
Tratta dall’omonimo e complesso romanzo di Nicolas Mathieu, il quarto lungometraggio dei registi e sceneggiatori Ludovic e Zoran Boukherma ha rappresentato una delle delusioni più cocenti del festival. Prometteva di essere una storia di crescita, nostalgia e lotta di classe, ma purtroppo Leurs enfants après eux si è rivelato un film con personaggi mal sviluppati e poco interessanti, slegato e dal ritmo ondivago. La sua caratterizzazione di una vicenda ambientata nella realtà della provincia - con i suoi amori, le sue lotte, i suoi piccoli drammi - non apporta niente di nuovo a una storia già vista e rivista, che qui sfocia, purtroppo, in una tediosità insopportabile e in un ermetismo che impossibilita il pubblico ad empatizzare con la condizione dei protagonisti. La pellicola gira a vuoto, probabilmente a causa di una sceneggiatura insufficiente e non in grado di comprendere le reali intenzioni della matrice romanzesca. Un cast mal sfruttato e uno spropositato uso di grandi hit del passato completano il tutto. Guardando il film viene da pensare se, forse, non sarebbe stato meglio da parte dei due fratelli abbandonare l’intento di trasporre un’opera troppo densa di suggestioni per sopportare la visualità della trasposizione in immagini.
Baby Invasion, di Harmony Korine
Negli ultimi anni il cinema di Harmony Korine ha subito una certa evoluzione e il controverso cineasta ha iniziato a sperimentare di più sulla forma stilistica rispetto che portare avanti una narrativa coesa. Questo periodo è iniziato l’anno scorso quando presentò, sempre al festival di Venezia, AGGRO DR1FT, film completamente girato tramite l’utilizzo della camera termica per rappresentare la realtà infernale del protagonista, un assassino spietato. L’ambizione stilistica di Korine era riuscita a sovrastare una narrativa ridondante e problematica, e si potrebbe dire lo stesso di Baby Invasion, la sua nuova opera presentata fuori concorso qualche giorno fa. La nuova provocatoria pellicola del cineasta racconta di un videogame, creato da una programmatrice pentitasi della sua stessa creazione, dove diverse persone sono in grado di raggiungere una realtà virtuale in cui i giocatori hanno la possibilità di derubare e dare fantasia ai propri desideri violenti più remoti. Korine immerge lo spettatore nel mondo del gaming, in un’ambiente tanto intossicante quanto ipnotico, in cui una preponderante soundtrack EDM e la classica interfaccia da game streaming perdurano per tutti gli ottanta minuti di visione. Quando Korine cerca di portare avanti una narrativa “classica”, inserendo eccessive allegorie, tra cui il bianconiglio di Alice nel Paese delle Mervaviglie, per simboleggiare l’entrata in questo mondo spietato, il film perde di ritmo ponendo lo spettatore in una dimensione alienante. Quello che si può evincere dalla visione di Baby Invasion però è la volontà di un cineasta che vuole sperimentare e cercare di rivoluzionare la forma cinematografica moderna, è probabilmente per questo motivo che i suoi ultimi film risultano così affascinanti.
Manas, di Marianna Bonnard
Il primo film di finzione di Marianna Bonnard presenta l'urgenza e il realismo tipico dei suoi documentari. Partendo da alcune testimonianze di giovani donne dello stato di Parà, la regista brasiliana porta in scena un duro coming of age che vede come protagonista una ragazza di 13 anni, Tiella, che sogna di fuggire dall’opprimente contesto domestico in cui vive. Manas è un film scomodo, non pacificante, che rifiuta in ogni modo la semplicità narrativa e formale per far emergere, lentamente, le inquietudini e gli spettri che si annidano nella famiglia della protagonista. La camera della Bonnard si muove affannosa tra i volti degli attori protagonisti, fluttua nervosa come le chiatte che fanno da casa e da prigione per Tiella. Lascia sovente fuori fuoco l’ambiente e costringe così lo spettatore a vivere le inquietudini dei personaggi. Nel non visibile, oltre i volti dei personaggi, si svolge una violenza sottile, mai esplicitata e proprio per questo ancora più efferata. Una violenza normalizzata e difficile da metabolizzare, che emerge sotto l’epidermide di un’estetica dell’immagine molto raffinata. Eccellente il lavoro dell’intero cast, che dona ai personaggi una complessità psicologica e un realismo antropologico che supera ogni facile dicotomia e garantisce al film solidità anche quando, nel terzo atto, il racconto giunge troppo repentinamente a una conclusione.