di Omar Franini, Antonio Orrico, Arturo Garavaglia, Diana Incorvaia e Beatrice Gangi
NC-230
07.09.2024
In questo ultimo appuntamento vi racconteremo degli ultimi film presentati in Concorso, tra cui il controverso e discusso April, secondo lungometraggio di Dea Kulumbegashvili che segue le vicende di un’ostetrica che esegue aborti in un villaggio rurale, e Stranger Eyes di Yeo Siew Hua, thriller psicologico incentrato sulla sparizione di una giovane bambina. Continueremo con gli ultimi due film presentati in Concorso, che sono anche i capitoli conclusivi di due trilogie, ovvero Youth: Homecoming di Wang Bing e Love di Dag Johan Haugerud. Infine daremo una prospettiva su alcuni titoli dalla sezione Orizzonti, come L’Attachememt di Carine Tardieu, dramma con protagonista Valeria Bruni Tedeschi, il sudafricano Carissa di Jason Jacobs e Devon Delma e infine One of Those Days When Hemme Dies di Murat Fıratoğlu, mentre dal fuori concorso vi parleremo del documentario Songs of Slow Burning Earth di Olha Zhurba.
One Of Those Days When Hemme Dies, di Murat Fıratoğlu
Murat Fıratoğlu è uno dei “nuovi nomi” di questa Mostra del Cinema di Venezia 2024. Tra il 2004 e il 2008, il 41enne regista turco ha partecipato e completato un workshop registico, in cui ha imparato anche a muoversi sul set, scrivere, settare le luci e tanti altri aspetti fondamentali per fare cinema. Uscito dal Diyarbakır Art Center Cinema Club, ha frequentato altri programmi di regia cinematografica organizzati dal Kars Film Festival tra il 2007 e il 2011. Ha partecipato ai workshop di produzione e regia cinematografica organizzati da Reha Erdem nel 2013. Nel 2016 ha aderito al programma di formazione per la scrittura di sceneggiature tenuto da Altyazı Cinema Magazine. Nel 2017 ha frequentato un workshop di produzione cinematografica tenuto da Yapımlab. Attualmente, Fıratoğlu è un sedicente avvocato di Istanbul, che però ha portato a coronamento una delle sue più grandi passioni: quella cinematografica. Infatti, il suo esordio One Of Those Days When Hemme Dies (2024) è stato ufficialmente scelto tra i partecipanti della sezione Orizzonti di quest’anno. Il film è una commedia con una forte matrice surreale, un’opera che porta agli estremi, adottando in modo netto un registro parossistico, l’ingiustizia sociale relativa al lavoro in Turchia. La storia di Eyüp, lavoratore in un campo di pomodori, assume sempre più una parabola “scorsesiana” da “fuori orario”, dove il giorno si sostituisce alla notte e laddove la discesa nella follia progressiva del protagonista porta a galla tutti i problemi di uno Stato che non fa nulla, o quasi, per tutelare il suo proletariato. Fıratoğlu è abile nell’evidenziare questo sentimento astioso già nell’incipit grazie all’uso grafico della palette, caratterizzata da colori molto accesi e fondali quasi bruciati, che mette in evidenza un Paese tutt’altro che accogliente, ma anzi contraddittorio e fondamentalmente scisso a metà (soprattutto per quel che concerne il rapporto con l’Europa, come viene richiamato in un paio di dialoghi importanti), sospeso tra il cambiamento sotto l’egida del potere della borghesia e l’abbandono, di contro, da parte dei proletari più poveri. Quello di cui One Of Those Days When Hemme Dies parla è dunque una lotta di classe aspra e rigida, che contrariamente a quanto si possa pensare, è condotta in modo intelligente dal suo regista, che nega gli eccessi drammatici del racconto e bilancia, piuttosto, con la commedia e con un meccanismo narrativo che si rifà molto alla slapstick, soprattutto nella costruzione dell’umorismo dei suoi personaggi. Paradossalmente, però, è proprio questo che blocca la vena più anarchica (iniziale) del film, che dopo un'apertura interessante, con molte gag ben riuscite e momenti corali tutto sommato godibili, vive un po’ di rendita e si adagia su un tono più cupo che non giova al racconto e anzi lo porta ad essere discontinuo soprattutto nella parte centrale, dove Fıratoğlu recupera molti leit-motiv visivi del cinema mediorientale recente (con un occhio di riguardo soprattutto alla semplicità di Jafar Panahi), senza però averne minimamente la stessa forza e lo stesso impeto.
Carissa, di Jason Jacobs e Devon Delmar
Presentato nella sezione Orizzonti, Carissa è il primo film di finzione di Jason Jacobs e Devon Delmar e porta con sé diverse ingenuità. Ambientato in una piccola comunità rurale del Sudafrica minacciata dalla speculazione edilizia, il film segue il processo di maturazione della giovane Carissa, divisa fra due tipologie di vita opposte. Nonostante l’interessante spunto di partenza - che viene valorizzato dalla suggestiva ambientazione - il film della coppia Jacobs-Delmar non è sorretto da un’adeguata struttura narrativa. Il coming of age, infatti, viene sviluppato schematicamente e lo spettatore non riesce mai ad entrare in empatia con l’attrice protagonista. Character study fiacco, privo del necessario approfondimento psicologico in grado di comunicare i drammi della maturazione della ragazza, Carissa sembra puntare tutto su un’estetica abbacinante che prova a “nascondere sotto il tappeto” le gravi mancanze della scrittura. Il film non decolla mai e, minuto dopo minuto, l’interesse per il racconto si affievolisce fino a scomparire nel momento in cui - paradossalmente - il dramma dovrebbe diventare più intenso. Neanche la prova attoriale della giovane protagonista riesce a dare al film una marcia in più. Tutto rimane sulla superficie, i dialoghi appaiono scontati così come lo sono gli spunti di riflessione che vengono proposti sul tema del rapporto tra vita rurale e vità di città. Anche la fotografia, nonostante l’eccellente lavoro compiuto sulle luci e sui colori, estetizza sin troppo gli ambienti e fa perdere a Carissa le premesse e le promesse di realismo che sembra esigere. Un film troppo incolore, che non riesce a trovare una propria voce neanche in una sezione dedicata a opere più “piccole” come Orizzonti.
Sugar Island, di Johanné Gómez Terrero
Una gravidanza inattesa mette la tredicenne Makenya alle prese con una serie di responsabilità. Le incertezze economiche che muovono i lavoratori neri delle canne da zucchero della Repubblica Dominicana, fra i quali figura suo nonno, la spingono a dover fare i conti con un mondo nuovo, a dover rivedere le proprie priorità e a una forte presa di coscienza della condizione in cui lei e la sua famiglia vivono. L’esordio nel cinema di finzione dell’artista Johanné Gómez Terrero prova con coraggio a legare il processo di maturazione della giovane alle tensioni sociali che vedono come protagonisti i lavoratori senza cittadinanza della Repubblica Dominicana e ai riti misterici che vengono compiuti dagli abitanti di origine africana dell’isola. Fra documentario antropologico, film di denuncia e coming of age, Sugar Island assume lo sguardo degli sfruttati, dei lavoratori delle canne da zucchero costretti a una forma di servitù della gleba che si protrae nella contemporaneità, ignorati dalle istituzioni. In questo contesto viene abilmente collocata la figura prorompente della giovane protagonista che lotta contro il sistema per avere una propria indipendenza. Un’indipendenza che ha il carattere dell’assunzione di un’identità: sia quella garantita da un documento, sia quella riscoperta partecipando a misteriosi riti iniziatici. Purtroppo, le varie istanze che muovono Sugar Island non sono perfettamente coniugate ed emergono nel film in maniera sin troppo disordinata. Se nelle parti dedicate alla denuncia della condizione dei lavoratori lo sguardo documentaristico della regista appare ben rodato e le soluzioni nella messa in scena appaiono varie - si veda la decisione forte di non mostrare mai i burocrati che si rapportano ai lavoratori o l’improvvisa galleria di ritratti che emerge in seno a una manifestazione - non si può dire lo stesso delle altre sezioni del film, soprattutto quella dedicata ai riti a cui partecipa la giovane protagonista. Lo sguardo - che si presume antropologico - di Johanné Gómez Terrero appare confuso, più interessato a un’estetizzazione del rito rispetto a quelle che sono le sue componenti. L’oscurità che si cela dietro alle celebrazioni viene resa grazie al lavoro sulle luci e sulla fotografia, ma a venir fuori è un’immagine patinata - quasi pubblicitaria - di esse. Come se l’unico modo per coinvolgere lo spettatore dentro questi avvenimenti fosse avvolgerlo in luci e colori al neon. Manca quindi a Sugar Island il coraggio di andare in profondità nelle sue scelte artistiche. Di farsi sguardo in grado di svelare a noi spettatori esterni senza adottare per forza codici espressivi sclerotizzati che vanno ad appiattire la nostra percezione. Nonostante la superficialità formale della sua componente antropologica, il film funziona ugualmente sia come coming of age sia come film di denuncia. La giovane Makenya e il resto del cast hanno il carisma necessario per colpire lo spettatore e la chiarezza espositiva della regista non si traduce mai in superficialità. E, viste le delicate tematiche affrontate dal film, non è poco.
L’Attachement, di Carine Tardieu
Dal romanzo L'Intimité di Alice Ferney, Carine Tardieu porta a Venezia L’Attachement, la storia di una famiglia non legata dal sangue. Un film corale costruito su percorsi apparentemente paralleli, L’Attachement è in realtà una narrazione di incontri. L’incontro di una bibliotecaria femminista con un bambino che ha perso la mamma. Di un uomo rimasto vedovo con una donna che gli permette di amare di nuovo. Di una neonata con il mondo che l’ha appena accolta. Il delicato film della Tardieu sonda i delicati concetti di amore e affezione, intrecciando un elegante mosaico di emozionalità umana. Il personaggio di Sandra, interpretata da Valeria Bruni Tedeschi, regala una rappresentazione di femminilità non limitata al semplice rifiuto o accettazione del ruolo di madre e moglie, ed è probabilmente il personaggio più sfaccettato e riuscito della pellicola. L’intero cast di personaggi è ottimamente diretto dalla regista, e la sceneggiatura ben ne adatta la tridimensionalità e quindi anche gli aspetti più ambigui, e, come nel caso del protagonista maschile, Alex (Pio Marmaï), spiacevoli. L’Attachement, in concorso nella sezione Orizzonti, conferma la raffinatezza registica della sua autrice, che ha saputo sapientemente portare un intimo scorcio di umanità quotidiana in questa edizione del Festival di Venezia.
Songs Of A Slow Burning Earth, di Olha Zhurba
La guerra tra Ucraina e Russia ha fortemente segnato, in modo indelebile, la quotidianità di tutto il mondo, spaccandola fortemente e costringendola a riflettere, ancora oggi, sugli orrori dettati dai conflitti bellici e, soprattutto, sulle persone che, loro malgrado, sono protagoniste attive di suddetti orrori. Songs Of A Slow Burning Earth, nuova opera della documentarista Olha Zhurba, è una testimonianza molto atipica e particolare, in quanto il formato tradizionale da reportage è continuamente disatteso e dismesso, in favore di un registro molto più intimo e personale, tale da evadere qualsiasi tentativo di didascalismo o di spiegazione e presa di posizione nei confronti del conflitto. Zhurba sceglie di concentrarsi, piuttosto, su dettagli molto sottovalutati - ne sono un esempio le voci fuori campo al telefono nell’incipit, che ricordano vagamente la struttura misteriosa della serie TV audio di Fede Álvarez, Calls (2021) che sono parte effettiva del conflitto, senza che siano solitamente menzionati. I punti macchina inusuali e atipici che la regista sceglie per narrare la “dispersione” di un intero Stato, combinati ai vari silenzi che attraversano l’intero film, spostano Songs Of A Slow Burning Earth su un polo ricettivo opposto rispetto a quanto presentato solitamente nei reportage classici, ma soprattutto creano un affascinante contrasto tra il silenzio dei campi di battaglia e il “rumore” espansivo del continuo afflusso di notizie e dell’onnipresente bombardamento mediatico a cui il pubblico di tutto il mondo è sottoposto. A “parlare”, piuttosto, sono i visi di coloro che la guerra la vivono sulla propria pelle ogni giorno, l’uso (sempre fine) dei primi piani scelto dalla regista per raccontare l’umore inesistente di madri e bambini a cui è stata tolta una casa e che, improvvisamente, si ritrovano a vagare all’interno di un paesaggio inquietante, ai limiti dell’Apocalisse. Olha Zhurba “vince” metaforicamente la sua battaglia proprio grazie a questa peculiarità: il puntare sull’annullamento della didattica e della spiegazione e il lasciare che sia l’immagine, semplicemente, a raccontare, adottando un registro contemporaneo e medialmente pregnante, soprattutto nel momento in cui il registro adottato gioca perlopiù per sottrazione, salvo poi fare da contraltare nel finale, dove mostra il “vero” orrore nascosto dietro la guerra. Le sequenze finali, infatti, che riprendono l’addestramento imposto ai bambini nelle scuole da parte dei militari russi, lasciano alquanto sgomenti, in quanto impongono una riflessione seria su quanto il conflitto influenzi in modo negativo anche l’educazione dei più piccoli, portandoli su un’attitudine orrorifica e abituandoli alla possibilità di diventare semplici corpi vaganti predestinati alla mattanza, semplici significanti vuoti in grado di attendere solamente il proprio destino.
Little Jaffna, di Lawrence Valin
Little Jaffna è il nome di un quartiere di Parigi a prevalenza indiana. È qui che vive Michael, giovane Tamil trasferitosi in Francia all’età di quattro anni per scampare al genocidio che il governo dello Sri Lanka stava mettendo in atto contro la sua etnia. Sulle spalle un passato familiare doloroso, traumi non risolti ed una perdita ancora troppo dolorosa. Una volta adulto Michael diviene poliziotto e gli viene affidata la missione di infiltrarsi all’interno della sua comunità d’origine presieduta dall’anziano boss, Aya, che gestisce diversi traffici criminali a sostegno della comunità di ribelli rimasti in Sri Lanka. Opera prima del regista Lawrence Valin, Little Jaffna è in realtà un ampliamento del corto omonimo. È un film d’azione godibile, dal buon ritmo, che predilige un linguaggio non verbale. Qui forse sta anche il limite di quest’opera prima che talvolta pecca nel voler essere troppo evocativa, troppo essenziale. A non convincere non è l’intenzione chiaramente, ma il non saper sfruttare a sufficienza gli elementi cinematografici a disposizione in modo tale da non tradire l’intenzione stessa. Il dramma di Michael è tangibile, ha bisogno di essere riconosciuto ed essere rispettato come un francese. Ma perché questo avvenga non può annullare le sue origini, deve fare i conti con la macchia del suo passato legato a suo padre, alle sue colpe. Tanti i temi interessanti, forse però non pienamente sfruttati. Un gangster movie dai colori sgargianti che vibra di intenti e buone intenzioni peccando però nella forma, a tratti didascalica e poco interessante.
Youth: Homecoming, di Wang Bing
Uno degli ultimi titoli presentati in Concorso al festival è stato Youth: Homecoming, l’ultima parte del trittico di documentari che esplora le vite dei giovani lavoratori tessili del distretto di Zhili. Mentre i primi due capitoli erano per lo più concentrati sulla dura realtà dei ragazzi all’interno di questi dipartimenti industriali, nello specifico sullo stato di alienazione in Spring (2023) e sugli scontri per avere un compenso migliore in Hard Times (presentato al Festival di Locarno il mese scorso), Homecoming è incentrato sul ritorno a casa dei giovani per festeggiare le vacanze di fine anno con le proprie famiglie, prima di ritornare all’opprimente vita lavorativa. Ne consegue un film piuttosto differente rispetto ai primi due; la durata è inferiore di circa un’ora e la struttura a macrosequenze di venticinque minuti che aveva caratterizzato Spring e Hard Times di conseguenza cambia. Inoltre non si ha più un punto di vista corale e Wang opta di seguire per lo più le vicende di Shi Wei e Fang Lingping, due lavoratori che tornano a casa per i rispettivi matrimoni. Di conseguenza, ogni personaggio viene introdotto a seconda del legame famigliare che ha con il protagonista. Tramite questo approccio Wang riesce ad esplorare non solo le difficoltà dei lavoratori emigrati, ma anche la povertà delle comunità rurali, aspetto non affrontato nei capitoli precedenti. Nonostante vengano mostrati vari momenti gioiosi e di festa, un tono melanconico permane l’opera, i lavoratori sono ben consapevoli che questi momenti fugaci non rappresentano un ritorno a casa. Il sistema capitalista opprimente li ha ormai deumanizzati, la loro vita è esclusivamente in funzione del lavoro che svolgono e tornare in queste fabbriche è il loro vero “homecoming”. Il terzo capitolo di Youth è un film struggente, un finale più che degno di uno dei progetti più ambiziosi della carriera di Wang Bing.
Love , di Dag Johan Haugerud
Love è il capitolo conclusivo della trilogia Sex Dreams Love di Dag Johan Haugerud, serie di film che esplora il desidero, l’identità sessuale e la ricerca di libertà sentimentale. La prima parte del trittico era stata presentata alla Berlinale di quest’anno e si focalizzava su come diverse persone si rapportano con la propria sessualità e come si passi da attimi di gioia a un senso di vergogna in poco tempo. L’opera aveva affascinato per il modo in cui analizzava le molteplici visioni sull’argomento e Love non è da meno, Haugerud prende due personaggi caratterialmente diversi per esplorare le varie sfumature di ciò che è per loro l’amore; da una parte Marianne (Andrea Bræin Hovig), una dottoressa dall’indole pragmatica e dall’altra Tor (Tayo Cittadella Jacobsen), il collega infermiere dall’anima compassionevole, due persone che non cercano la classica relazione convenzionale. L’amicizia tra i due diventa sempre più stretta durante i viaggi in traghetto che li conducono verso il posto di lavoro e, durante la sera, Tor spiega alla collega come questi “viaggi” siano il momento perfetto per incontrare sconosciuti tramite app per siti d’incontri. Quella stessa sera Tor incontra Bjorn (Lars Jacob Holm) e anche se sembra nascere qualcosa tra loro, quest’ultimo sembra restio davanti alle avance di Tor. Dopo un altro incontro casuale si scopre che il rifiuto apparente era per via del cancro di cui l’uomo soffre e in poco tempo tra loro si instaura una relazione affettuosa. D’altro canto, Marianne, nonostante abbia intrapreso una semi relazione con il divorziato Ole (Thomas Gullestad), inizia ad incontrare uomini e avere incontri fugaci, ma questi non ricambiano la sua concezione di “amore” e cercano solo un’avventura occasionale. Le due interpretazioni centrali, tra cui spicca un superbo e toccante Cittadella Jacobson e la scrittura minuziosa e veritiera di Haugerud, in grado di raccontare situazioni sentimentali che viviamo tutti i giorni, rendono Love una visione piacevole ed arguta, che pone nello spettatore una domanda fondamentale: cosa è l’amore? Che concezione abbiamo verso questo sentimento? Come mostra Haugerud, la risposta è diversa per ogni persona. Il tono leggero, ma non superficiale, con cui il regista si pone questo quesito e la narrativa, scandita tramite i giorni del mese di agosto, richiama le grandi opere di Eric Rohmer, soprattutto Le rayon vert (1986). Love è un film squisito e delicato, una delle visioni più soddisfacenti dell’intero festival.
April, di Dea Kulumbegashvili
Una creatura, simil donna, vaga in un limbo oscuro, inquadrata in penombra si può notare il suo aspetto deteriorato, la pelle è cadente, la peluria è inesistente e il respiro affannoso, come se volesse comunicare qualcosa, ma non è in grado di farlo. Mentre si allontana in questa realtà ignota si iniziano ad unire diversi suoni, dal rumore della pioggia che cade sul terreno ad un innocente conversazione tra due bambine. Dopo questa accattivante scena iniziale, susseguita da due sequenze che mostrano la pioggia e la sua duplice natura innocua e distruttiva, Kulumbegashvili trasporta lo spettatore in una sala operatoria, dove l’ostetrica e ginecologa Nina (Ia Sukitashvili) sta cercando di far nascere il figlio di una giovane donna. Il parto non va a buon fine e il bambino nasce già morto. Questo evento da inizio ad una investigazione interna all’ospedale avviata da parte del marito della donna, che accusa Nina di non aver fatto il possibile per salvare la situazione. Finito l’interrogatorio iniziale, l’uomo, rimasto faccia a faccia con Nina, le dice con tono accusatorio che conosce la sua verità riguardo la sua seconda “professione”, ovvero quella di medico abortista nei paesi rurali. Nina svolge questo lavoro nonostante sia consapevole dei rischi che corre perché, come ripete diverse volte nel film, "non ci sarebbe nessun altro a fare quello che fa lei". Da questo senso del dovere le deriva un obbligo morale, ma il fardello che questo comporta si fa sempre più imponente su di lei e, pian piano che il film prosegue, si intuisce che la creatura misteriosa apparsa all’inizio non è altro che una proiezione della protagonista, ovvero una persona bloccata in una certa condizione, muta, sofferente e non in grado di comunicare e spiegare la sua condizione. Questa riflessione sullo stato d’isolazione della protagonista è messa in risalto anche dal desidero sessuale di questa, che cerca incontri fugaci e grezzi sulla strada, come se fosse una sorta di autopunizione per compensare le sue stesse azioni. Nel raccontare questa storia, Dea Kulumbegashvili mostra una certa evoluzione rispetto al rigore formale di Beginning (2020), una delle opere prime più imponenti degli ultimi anni. Nel suo esordio, la regista georgiana aveva adoperato in maniera esemplare dei tableaux vivants per raccontare lo stato di presunta quiete della protagonista, mentre in April la camera raramente è fissa, anche nelle sequenze immobili più prolungante, come se la regista volesse sottolineare lo stato di continua pressione ed incertezza di Nina. Tramite l’utilizzo di lunghi piani sequenza, la visione di April risulta estenuante ed impegnativa, ma è l’approccio necessario per trasmettere il punto di vista di Nina, esemplificativa è una sequenza di nove minuti dove la protagonista effettua un aborto su una giovane ragazza sordomuta. Il tono leggermente surreale e metaforico che permea l’opera è messo in risalto anche tra il confronto uomo/natura, dove Kulumbegashvili inserisce diverse sequenze che mostrano la bellezza naturale dell’ambiente circostante con la casuale distruzione di esso tramite dei temporali. Non a caso questi eventi si giustappongono con le azioni “illegali” che Nina compie. Nonostante l’aborto sia diventato legale in Georgia, questo non è ben visto nelle comunità rurali e, come si evince dal film, ciò può comportare gravi conseguenze. April è di sicuro la visione più controversa del festival, e conferma con gran prepotenza la voce di una delle registe più interessanti del panorama cinematografico europeo.
Stranger Eyes, di Yeo Siew Hua
Yeo Siew Hua, giovanissimo regista singaporiano, è stato, fin dal suo annuncio nella line-up del Concorso di Venezia 81, un grande oggetto di discussione. Le perplessità legate alla sua presenza nel roster dei papabili vincitori del Leone d’Oro 2024 erano moltissime, in quanto il regista era inattivo dal 2018, anno in cui il suo A Land Imagined (2018), esordio nel lungometraggio fiction, è stato presentato al Festival di Locarno, aggiudicandosi con grande sorpresa il Pardo d’Oro. Dopo ben sei anni, Yeo Siew Hua è tornato con un nuovo film, Stranger Eyes (2024), la cui scelta alla Mostra del Cinema di Venezia è del tutto giustificata da un film enormemente interessante. Infatti, dietro l’apparente meccanismo thriller che questo lavoro mette in atto già a partire dal primo main event della sua trama, si nasconde in realtà un’indagine su come le immagini e il loro utilizzo siano lo specchio di una società “fredda”, iper-protettiva e davvero attaccata alla sorveglianza del proprio essere. L’uso dei multipli schermi, delle telecamere disseminate all’interno dello spazio privato della coppia protagonista ricorda in un primo momento veri capisaldi del cinema europeo contemporaneo - il riferimento, naturalmente, è a Caché (2005) di Michael Haneke, ricordato e citato anche nell’utilizzo catchy delle cassette-, ma ad uno sguardo più attento diventano strumento di critica nei confronti di una genitorialità non sempre corrisposta e di una maturità non sempre specchio dell’età che si ha. La condizione di iper-visibilità, messa in evidenza da Yeo Siew Hua anche tramite la moltiplicazione di schermi che si materializza più volte nel corso del film, diventa un modo per raccontare il mondo odierno, piegato alle forze del digitale, che garantisce la possibilità per gli esseri umani di un’iper-ricezione delle informazioni a cui sono sottoposti quotidianamente, soprattutto tramite i display. Ma l’ossessione dello sguardo, dell’atto del voyeur e della distanza, sempre intermediata da strumenti di vario tipo, tra osservatore e osservato è soprattutto un modo per il regista di palesare l’incapacità di comunicazione che i membri della società iper-medializzata odierna vivono in modo giornaliera, rimpiazzata dall’ossessione del voler essere guardati. Stranger Eyes, in questo senso, è un film davvero particolare, perché azzera la percezione alterata dello sguardo attraverso l’utilizzo di strumenti (come cannocchiali e binocoli, che assurgono al ruolo di “schermi” analogici) e permette, attraverso essi, di dare corpo al desiderio femminile di essere guardate. Lo sguardo, dunque, non è più veicolo di paranoia e d’inganno, quanto piuttosto un modo per materializzare la paura della perdita degli affetti, in un mondo in cui anche le persone sono quasi delle entità fantasmatiche. Proprio per questo motivo, ha senso anche il cambio di registro del racconto che Yeo Siew Hua opera nel corso della seconda parte del film, dove, da thriller paranoico, il film acquista una nuova prospettiva e una nuova natura, ovvero quella di un vero e proprio melò da camera, in cui la freddezza dell’individuo è dettata non tanto dalla paranoia, quanto piuttosto alla paura della perdita dei propri affetti. In questo senso, è interessante notare come la natura metamorfica di Stranger Eyes rispecchi precisamente quella delle immagini nel contesto mediale odierno, un contesto in cui la visualità sopperisce all’incapacità, da parte degli uomini, di comunicare. E proprio l’incomunicabilità, inevitabilmente, fornisce un filo rosso che intreccia e collega il film del regista di Singapore a quello di un altro collega di Taiwan che ha calcato i palcoscenici festivalieri un bel po’ di tempo fa. Il riferimento, naturalmente, è al grande regista taiwanese Edward Yang e, in particolare, al suo splendido Terrorizers (1986), premiato a Locarno nel 1987 con il Pardo d’Argento, con cui Stranger Eyes condivide proprio l’impercettibilità della realtà da parte dell’occhio, che nel frattempo, causa evoluzione del dispositivo, è passato da uno sguardo analogico a digitale, ma non ha ampliato la sua capacità e riesce ancora a cogliere solamente delle semplici schegge di realtà.
di Omar Franini, Antonio Orrico, Arturo Garavaglia, Diana Incorvaia e Beatrice Gangi
NC-230
07.09.2024
In questo ultimo appuntamento vi racconteremo degli ultimi film presentati in Concorso, tra cui il controverso e discusso April, secondo lungometraggio di Dea Kulumbegashvili che segue le vicende di un’ostetrica che esegue aborti in un villaggio rurale, e Stranger Eyes di Yeo Siew Hua, thriller psicologico incentrato sulla sparizione di una giovane bambina. Continueremo con gli ultimi due film presentati in Concorso, che sono anche i capitoli conclusivi di due trilogie, ovvero Youth: Homecoming di Wang Bing e Love di Dag Johan Haugerud. Infine daremo una prospettiva su alcuni titoli dalla sezione Orizzonti, come L’Attachememt di Carine Tardieu, dramma con protagonista Valeria Bruni Tedeschi, il sudafricano Carissa di Jason Jacobs e Devon Delma e infine One of Those Days When Hemme Dies di Murat Fıratoğlu, mentre dal fuori concorso vi parleremo del documentario Songs of Slow Burning Earth di Olha Zhurba.
One Of Those Days When Hemme Dies, di Murat Fıratoğlu
Murat Fıratoğlu è uno dei “nuovi nomi” di questa Mostra del Cinema di Venezia 2024. Tra il 2004 e il 2008, il 41enne regista turco ha partecipato e completato un workshop registico, in cui ha imparato anche a muoversi sul set, scrivere, settare le luci e tanti altri aspetti fondamentali per fare cinema. Uscito dal Diyarbakır Art Center Cinema Club, ha frequentato altri programmi di regia cinematografica organizzati dal Kars Film Festival tra il 2007 e il 2011. Ha partecipato ai workshop di produzione e regia cinematografica organizzati da Reha Erdem nel 2013. Nel 2016 ha aderito al programma di formazione per la scrittura di sceneggiature tenuto da Altyazı Cinema Magazine. Nel 2017 ha frequentato un workshop di produzione cinematografica tenuto da Yapımlab. Attualmente, Fıratoğlu è un sedicente avvocato di Istanbul, che però ha portato a coronamento una delle sue più grandi passioni: quella cinematografica. Infatti, il suo esordio One Of Those Days When Hemme Dies (2024) è stato ufficialmente scelto tra i partecipanti della sezione Orizzonti di quest’anno. Il film è una commedia con una forte matrice surreale, un’opera che porta agli estremi, adottando in modo netto un registro parossistico, l’ingiustizia sociale relativa al lavoro in Turchia. La storia di Eyüp, lavoratore in un campo di pomodori, assume sempre più una parabola “scorsesiana” da “fuori orario”, dove il giorno si sostituisce alla notte e laddove la discesa nella follia progressiva del protagonista porta a galla tutti i problemi di uno Stato che non fa nulla, o quasi, per tutelare il suo proletariato. Fıratoğlu è abile nell’evidenziare questo sentimento astioso già nell’incipit grazie all’uso grafico della palette, caratterizzata da colori molto accesi e fondali quasi bruciati, che mette in evidenza un Paese tutt’altro che accogliente, ma anzi contraddittorio e fondamentalmente scisso a metà (soprattutto per quel che concerne il rapporto con l’Europa, come viene richiamato in un paio di dialoghi importanti), sospeso tra il cambiamento sotto l’egida del potere della borghesia e l’abbandono, di contro, da parte dei proletari più poveri. Quello di cui One Of Those Days When Hemme Dies parla è dunque una lotta di classe aspra e rigida, che contrariamente a quanto si possa pensare, è condotta in modo intelligente dal suo regista, che nega gli eccessi drammatici del racconto e bilancia, piuttosto, con la commedia e con un meccanismo narrativo che si rifà molto alla slapstick, soprattutto nella costruzione dell’umorismo dei suoi personaggi. Paradossalmente, però, è proprio questo che blocca la vena più anarchica (iniziale) del film, che dopo un'apertura interessante, con molte gag ben riuscite e momenti corali tutto sommato godibili, vive un po’ di rendita e si adagia su un tono più cupo che non giova al racconto e anzi lo porta ad essere discontinuo soprattutto nella parte centrale, dove Fıratoğlu recupera molti leit-motiv visivi del cinema mediorientale recente (con un occhio di riguardo soprattutto alla semplicità di Jafar Panahi), senza però averne minimamente la stessa forza e lo stesso impeto.
Carissa, di Jason Jacobs e Devon Delmar
Presentato nella sezione Orizzonti, Carissa è il primo film di finzione di Jason Jacobs e Devon Delmar e porta con sé diverse ingenuità. Ambientato in una piccola comunità rurale del Sudafrica minacciata dalla speculazione edilizia, il film segue il processo di maturazione della giovane Carissa, divisa fra due tipologie di vita opposte. Nonostante l’interessante spunto di partenza - che viene valorizzato dalla suggestiva ambientazione - il film della coppia Jacobs-Delmar non è sorretto da un’adeguata struttura narrativa. Il coming of age, infatti, viene sviluppato schematicamente e lo spettatore non riesce mai ad entrare in empatia con l’attrice protagonista. Character study fiacco, privo del necessario approfondimento psicologico in grado di comunicare i drammi della maturazione della ragazza, Carissa sembra puntare tutto su un’estetica abbacinante che prova a “nascondere sotto il tappeto” le gravi mancanze della scrittura. Il film non decolla mai e, minuto dopo minuto, l’interesse per il racconto si affievolisce fino a scomparire nel momento in cui - paradossalmente - il dramma dovrebbe diventare più intenso. Neanche la prova attoriale della giovane protagonista riesce a dare al film una marcia in più. Tutto rimane sulla superficie, i dialoghi appaiono scontati così come lo sono gli spunti di riflessione che vengono proposti sul tema del rapporto tra vita rurale e vità di città. Anche la fotografia, nonostante l’eccellente lavoro compiuto sulle luci e sui colori, estetizza sin troppo gli ambienti e fa perdere a Carissa le premesse e le promesse di realismo che sembra esigere. Un film troppo incolore, che non riesce a trovare una propria voce neanche in una sezione dedicata a opere più “piccole” come Orizzonti.
Sugar Island, di Johanné Gómez Terrero
Una gravidanza inattesa mette la tredicenne Makenya alle prese con una serie di responsabilità. Le incertezze economiche che muovono i lavoratori neri delle canne da zucchero della Repubblica Dominicana, fra i quali figura suo nonno, la spingono a dover fare i conti con un mondo nuovo, a dover rivedere le proprie priorità e a una forte presa di coscienza della condizione in cui lei e la sua famiglia vivono. L’esordio nel cinema di finzione dell’artista Johanné Gómez Terrero prova con coraggio a legare il processo di maturazione della giovane alle tensioni sociali che vedono come protagonisti i lavoratori senza cittadinanza della Repubblica Dominicana e ai riti misterici che vengono compiuti dagli abitanti di origine africana dell’isola. Fra documentario antropologico, film di denuncia e coming of age, Sugar Island assume lo sguardo degli sfruttati, dei lavoratori delle canne da zucchero costretti a una forma di servitù della gleba che si protrae nella contemporaneità, ignorati dalle istituzioni. In questo contesto viene abilmente collocata la figura prorompente della giovane protagonista che lotta contro il sistema per avere una propria indipendenza. Un’indipendenza che ha il carattere dell’assunzione di un’identità: sia quella garantita da un documento, sia quella riscoperta partecipando a misteriosi riti iniziatici. Purtroppo, le varie istanze che muovono Sugar Island non sono perfettamente coniugate ed emergono nel film in maniera sin troppo disordinata. Se nelle parti dedicate alla denuncia della condizione dei lavoratori lo sguardo documentaristico della regista appare ben rodato e le soluzioni nella messa in scena appaiono varie - si veda la decisione forte di non mostrare mai i burocrati che si rapportano ai lavoratori o l’improvvisa galleria di ritratti che emerge in seno a una manifestazione - non si può dire lo stesso delle altre sezioni del film, soprattutto quella dedicata ai riti a cui partecipa la giovane protagonista. Lo sguardo - che si presume antropologico - di Johanné Gómez Terrero appare confuso, più interessato a un’estetizzazione del rito rispetto a quelle che sono le sue componenti. L’oscurità che si cela dietro alle celebrazioni viene resa grazie al lavoro sulle luci e sulla fotografia, ma a venir fuori è un’immagine patinata - quasi pubblicitaria - di esse. Come se l’unico modo per coinvolgere lo spettatore dentro questi avvenimenti fosse avvolgerlo in luci e colori al neon. Manca quindi a Sugar Island il coraggio di andare in profondità nelle sue scelte artistiche. Di farsi sguardo in grado di svelare a noi spettatori esterni senza adottare per forza codici espressivi sclerotizzati che vanno ad appiattire la nostra percezione. Nonostante la superficialità formale della sua componente antropologica, il film funziona ugualmente sia come coming of age sia come film di denuncia. La giovane Makenya e il resto del cast hanno il carisma necessario per colpire lo spettatore e la chiarezza espositiva della regista non si traduce mai in superficialità. E, viste le delicate tematiche affrontate dal film, non è poco.
L’Attachement, di Carine Tardieu
Dal romanzo L'Intimité di Alice Ferney, Carine Tardieu porta a Venezia L’Attachement, la storia di una famiglia non legata dal sangue. Un film corale costruito su percorsi apparentemente paralleli, L’Attachement è in realtà una narrazione di incontri. L’incontro di una bibliotecaria femminista con un bambino che ha perso la mamma. Di un uomo rimasto vedovo con una donna che gli permette di amare di nuovo. Di una neonata con il mondo che l’ha appena accolta. Il delicato film della Tardieu sonda i delicati concetti di amore e affezione, intrecciando un elegante mosaico di emozionalità umana. Il personaggio di Sandra, interpretata da Valeria Bruni Tedeschi, regala una rappresentazione di femminilità non limitata al semplice rifiuto o accettazione del ruolo di madre e moglie, ed è probabilmente il personaggio più sfaccettato e riuscito della pellicola. L’intero cast di personaggi è ottimamente diretto dalla regista, e la sceneggiatura ben ne adatta la tridimensionalità e quindi anche gli aspetti più ambigui, e, come nel caso del protagonista maschile, Alex (Pio Marmaï), spiacevoli. L’Attachement, in concorso nella sezione Orizzonti, conferma la raffinatezza registica della sua autrice, che ha saputo sapientemente portare un intimo scorcio di umanità quotidiana in questa edizione del Festival di Venezia.
Songs Of A Slow Burning Earth, di Olha Zhurba
La guerra tra Ucraina e Russia ha fortemente segnato, in modo indelebile, la quotidianità di tutto il mondo, spaccandola fortemente e costringendola a riflettere, ancora oggi, sugli orrori dettati dai conflitti bellici e, soprattutto, sulle persone che, loro malgrado, sono protagoniste attive di suddetti orrori. Songs Of A Slow Burning Earth, nuova opera della documentarista Olha Zhurba, è una testimonianza molto atipica e particolare, in quanto il formato tradizionale da reportage è continuamente disatteso e dismesso, in favore di un registro molto più intimo e personale, tale da evadere qualsiasi tentativo di didascalismo o di spiegazione e presa di posizione nei confronti del conflitto. Zhurba sceglie di concentrarsi, piuttosto, su dettagli molto sottovalutati - ne sono un esempio le voci fuori campo al telefono nell’incipit, che ricordano vagamente la struttura misteriosa della serie TV audio di Fede Álvarez, Calls (2021) che sono parte effettiva del conflitto, senza che siano solitamente menzionati. I punti macchina inusuali e atipici che la regista sceglie per narrare la “dispersione” di un intero Stato, combinati ai vari silenzi che attraversano l’intero film, spostano Songs Of A Slow Burning Earth su un polo ricettivo opposto rispetto a quanto presentato solitamente nei reportage classici, ma soprattutto creano un affascinante contrasto tra il silenzio dei campi di battaglia e il “rumore” espansivo del continuo afflusso di notizie e dell’onnipresente bombardamento mediatico a cui il pubblico di tutto il mondo è sottoposto. A “parlare”, piuttosto, sono i visi di coloro che la guerra la vivono sulla propria pelle ogni giorno, l’uso (sempre fine) dei primi piani scelto dalla regista per raccontare l’umore inesistente di madri e bambini a cui è stata tolta una casa e che, improvvisamente, si ritrovano a vagare all’interno di un paesaggio inquietante, ai limiti dell’Apocalisse. Olha Zhurba “vince” metaforicamente la sua battaglia proprio grazie a questa peculiarità: il puntare sull’annullamento della didattica e della spiegazione e il lasciare che sia l’immagine, semplicemente, a raccontare, adottando un registro contemporaneo e medialmente pregnante, soprattutto nel momento in cui il registro adottato gioca perlopiù per sottrazione, salvo poi fare da contraltare nel finale, dove mostra il “vero” orrore nascosto dietro la guerra. Le sequenze finali, infatti, che riprendono l’addestramento imposto ai bambini nelle scuole da parte dei militari russi, lasciano alquanto sgomenti, in quanto impongono una riflessione seria su quanto il conflitto influenzi in modo negativo anche l’educazione dei più piccoli, portandoli su un’attitudine orrorifica e abituandoli alla possibilità di diventare semplici corpi vaganti predestinati alla mattanza, semplici significanti vuoti in grado di attendere solamente il proprio destino.
Little Jaffna, di Lawrence Valin
Little Jaffna è il nome di un quartiere di Parigi a prevalenza indiana. È qui che vive Michael, giovane Tamil trasferitosi in Francia all’età di quattro anni per scampare al genocidio che il governo dello Sri Lanka stava mettendo in atto contro la sua etnia. Sulle spalle un passato familiare doloroso, traumi non risolti ed una perdita ancora troppo dolorosa. Una volta adulto Michael diviene poliziotto e gli viene affidata la missione di infiltrarsi all’interno della sua comunità d’origine presieduta dall’anziano boss, Aya, che gestisce diversi traffici criminali a sostegno della comunità di ribelli rimasti in Sri Lanka. Opera prima del regista Lawrence Valin, Little Jaffna è in realtà un ampliamento del corto omonimo. È un film d’azione godibile, dal buon ritmo, che predilige un linguaggio non verbale. Qui forse sta anche il limite di quest’opera prima che talvolta pecca nel voler essere troppo evocativa, troppo essenziale. A non convincere non è l’intenzione chiaramente, ma il non saper sfruttare a sufficienza gli elementi cinematografici a disposizione in modo tale da non tradire l’intenzione stessa. Il dramma di Michael è tangibile, ha bisogno di essere riconosciuto ed essere rispettato come un francese. Ma perché questo avvenga non può annullare le sue origini, deve fare i conti con la macchia del suo passato legato a suo padre, alle sue colpe. Tanti i temi interessanti, forse però non pienamente sfruttati. Un gangster movie dai colori sgargianti che vibra di intenti e buone intenzioni peccando però nella forma, a tratti didascalica e poco interessante.
Youth: Homecoming, di Wang Bing
Uno degli ultimi titoli presentati in Concorso al festival è stato Youth: Homecoming, l’ultima parte del trittico di documentari che esplora le vite dei giovani lavoratori tessili del distretto di Zhili. Mentre i primi due capitoli erano per lo più concentrati sulla dura realtà dei ragazzi all’interno di questi dipartimenti industriali, nello specifico sullo stato di alienazione in Spring (2023) e sugli scontri per avere un compenso migliore in Hard Times (presentato al Festival di Locarno il mese scorso), Homecoming è incentrato sul ritorno a casa dei giovani per festeggiare le vacanze di fine anno con le proprie famiglie, prima di ritornare all’opprimente vita lavorativa. Ne consegue un film piuttosto differente rispetto ai primi due; la durata è inferiore di circa un’ora e la struttura a macrosequenze di venticinque minuti che aveva caratterizzato Spring e Hard Times di conseguenza cambia. Inoltre non si ha più un punto di vista corale e Wang opta di seguire per lo più le vicende di Shi Wei e Fang Lingping, due lavoratori che tornano a casa per i rispettivi matrimoni. Di conseguenza, ogni personaggio viene introdotto a seconda del legame famigliare che ha con il protagonista. Tramite questo approccio Wang riesce ad esplorare non solo le difficoltà dei lavoratori emigrati, ma anche la povertà delle comunità rurali, aspetto non affrontato nei capitoli precedenti. Nonostante vengano mostrati vari momenti gioiosi e di festa, un tono melanconico permane l’opera, i lavoratori sono ben consapevoli che questi momenti fugaci non rappresentano un ritorno a casa. Il sistema capitalista opprimente li ha ormai deumanizzati, la loro vita è esclusivamente in funzione del lavoro che svolgono e tornare in queste fabbriche è il loro vero “homecoming”. Il terzo capitolo di Youth è un film struggente, un finale più che degno di uno dei progetti più ambiziosi della carriera di Wang Bing.
Love , di Dag Johan Haugerud
Love è il capitolo conclusivo della trilogia Sex Dreams Love di Dag Johan Haugerud, serie di film che esplora il desidero, l’identità sessuale e la ricerca di libertà sentimentale. La prima parte del trittico era stata presentata alla Berlinale di quest’anno e si focalizzava su come diverse persone si rapportano con la propria sessualità e come si passi da attimi di gioia a un senso di vergogna in poco tempo. L’opera aveva affascinato per il modo in cui analizzava le molteplici visioni sull’argomento e Love non è da meno, Haugerud prende due personaggi caratterialmente diversi per esplorare le varie sfumature di ciò che è per loro l’amore; da una parte Marianne (Andrea Bræin Hovig), una dottoressa dall’indole pragmatica e dall’altra Tor (Tayo Cittadella Jacobsen), il collega infermiere dall’anima compassionevole, due persone che non cercano la classica relazione convenzionale. L’amicizia tra i due diventa sempre più stretta durante i viaggi in traghetto che li conducono verso il posto di lavoro e, durante la sera, Tor spiega alla collega come questi “viaggi” siano il momento perfetto per incontrare sconosciuti tramite app per siti d’incontri. Quella stessa sera Tor incontra Bjorn (Lars Jacob Holm) e anche se sembra nascere qualcosa tra loro, quest’ultimo sembra restio davanti alle avance di Tor. Dopo un altro incontro casuale si scopre che il rifiuto apparente era per via del cancro di cui l’uomo soffre e in poco tempo tra loro si instaura una relazione affettuosa. D’altro canto, Marianne, nonostante abbia intrapreso una semi relazione con il divorziato Ole (Thomas Gullestad), inizia ad incontrare uomini e avere incontri fugaci, ma questi non ricambiano la sua concezione di “amore” e cercano solo un’avventura occasionale. Le due interpretazioni centrali, tra cui spicca un superbo e toccante Cittadella Jacobson e la scrittura minuziosa e veritiera di Haugerud, in grado di raccontare situazioni sentimentali che viviamo tutti i giorni, rendono Love una visione piacevole ed arguta, che pone nello spettatore una domanda fondamentale: cosa è l’amore? Che concezione abbiamo verso questo sentimento? Come mostra Haugerud, la risposta è diversa per ogni persona. Il tono leggero, ma non superficiale, con cui il regista si pone questo quesito e la narrativa, scandita tramite i giorni del mese di agosto, richiama le grandi opere di Eric Rohmer, soprattutto Le rayon vert (1986). Love è un film squisito e delicato, una delle visioni più soddisfacenti dell’intero festival.
April, di Dea Kulumbegashvili
Una creatura, simil donna, vaga in un limbo oscuro, inquadrata in penombra si può notare il suo aspetto deteriorato, la pelle è cadente, la peluria è inesistente e il respiro affannoso, come se volesse comunicare qualcosa, ma non è in grado di farlo. Mentre si allontana in questa realtà ignota si iniziano ad unire diversi suoni, dal rumore della pioggia che cade sul terreno ad un innocente conversazione tra due bambine. Dopo questa accattivante scena iniziale, susseguita da due sequenze che mostrano la pioggia e la sua duplice natura innocua e distruttiva, Kulumbegashvili trasporta lo spettatore in una sala operatoria, dove l’ostetrica e ginecologa Nina (Ia Sukitashvili) sta cercando di far nascere il figlio di una giovane donna. Il parto non va a buon fine e il bambino nasce già morto. Questo evento da inizio ad una investigazione interna all’ospedale avviata da parte del marito della donna, che accusa Nina di non aver fatto il possibile per salvare la situazione. Finito l’interrogatorio iniziale, l’uomo, rimasto faccia a faccia con Nina, le dice con tono accusatorio che conosce la sua verità riguardo la sua seconda “professione”, ovvero quella di medico abortista nei paesi rurali. Nina svolge questo lavoro nonostante sia consapevole dei rischi che corre perché, come ripete diverse volte nel film, "non ci sarebbe nessun altro a fare quello che fa lei". Da questo senso del dovere le deriva un obbligo morale, ma il fardello che questo comporta si fa sempre più imponente su di lei e, pian piano che il film prosegue, si intuisce che la creatura misteriosa apparsa all’inizio non è altro che una proiezione della protagonista, ovvero una persona bloccata in una certa condizione, muta, sofferente e non in grado di comunicare e spiegare la sua condizione. Questa riflessione sullo stato d’isolazione della protagonista è messa in risalto anche dal desidero sessuale di questa, che cerca incontri fugaci e grezzi sulla strada, come se fosse una sorta di autopunizione per compensare le sue stesse azioni. Nel raccontare questa storia, Dea Kulumbegashvili mostra una certa evoluzione rispetto al rigore formale di Beginning (2020), una delle opere prime più imponenti degli ultimi anni. Nel suo esordio, la regista georgiana aveva adoperato in maniera esemplare dei tableaux vivants per raccontare lo stato di presunta quiete della protagonista, mentre in April la camera raramente è fissa, anche nelle sequenze immobili più prolungante, come se la regista volesse sottolineare lo stato di continua pressione ed incertezza di Nina. Tramite l’utilizzo di lunghi piani sequenza, la visione di April risulta estenuante ed impegnativa, ma è l’approccio necessario per trasmettere il punto di vista di Nina, esemplificativa è una sequenza di nove minuti dove la protagonista effettua un aborto su una giovane ragazza sordomuta. Il tono leggermente surreale e metaforico che permea l’opera è messo in risalto anche tra il confronto uomo/natura, dove Kulumbegashvili inserisce diverse sequenze che mostrano la bellezza naturale dell’ambiente circostante con la casuale distruzione di esso tramite dei temporali. Non a caso questi eventi si giustappongono con le azioni “illegali” che Nina compie. Nonostante l’aborto sia diventato legale in Georgia, questo non è ben visto nelle comunità rurali e, come si evince dal film, ciò può comportare gravi conseguenze. April è di sicuro la visione più controversa del festival, e conferma con gran prepotenza la voce di una delle registe più interessanti del panorama cinematografico europeo.
Stranger Eyes, di Yeo Siew Hua
Yeo Siew Hua, giovanissimo regista singaporiano, è stato, fin dal suo annuncio nella line-up del Concorso di Venezia 81, un grande oggetto di discussione. Le perplessità legate alla sua presenza nel roster dei papabili vincitori del Leone d’Oro 2024 erano moltissime, in quanto il regista era inattivo dal 2018, anno in cui il suo A Land Imagined (2018), esordio nel lungometraggio fiction, è stato presentato al Festival di Locarno, aggiudicandosi con grande sorpresa il Pardo d’Oro. Dopo ben sei anni, Yeo Siew Hua è tornato con un nuovo film, Stranger Eyes (2024), la cui scelta alla Mostra del Cinema di Venezia è del tutto giustificata da un film enormemente interessante. Infatti, dietro l’apparente meccanismo thriller che questo lavoro mette in atto già a partire dal primo main event della sua trama, si nasconde in realtà un’indagine su come le immagini e il loro utilizzo siano lo specchio di una società “fredda”, iper-protettiva e davvero attaccata alla sorveglianza del proprio essere. L’uso dei multipli schermi, delle telecamere disseminate all’interno dello spazio privato della coppia protagonista ricorda in un primo momento veri capisaldi del cinema europeo contemporaneo - il riferimento, naturalmente, è a Caché (2005) di Michael Haneke, ricordato e citato anche nell’utilizzo catchy delle cassette-, ma ad uno sguardo più attento diventano strumento di critica nei confronti di una genitorialità non sempre corrisposta e di una maturità non sempre specchio dell’età che si ha. La condizione di iper-visibilità, messa in evidenza da Yeo Siew Hua anche tramite la moltiplicazione di schermi che si materializza più volte nel corso del film, diventa un modo per raccontare il mondo odierno, piegato alle forze del digitale, che garantisce la possibilità per gli esseri umani di un’iper-ricezione delle informazioni a cui sono sottoposti quotidianamente, soprattutto tramite i display. Ma l’ossessione dello sguardo, dell’atto del voyeur e della distanza, sempre intermediata da strumenti di vario tipo, tra osservatore e osservato è soprattutto un modo per il regista di palesare l’incapacità di comunicazione che i membri della società iper-medializzata odierna vivono in modo giornaliera, rimpiazzata dall’ossessione del voler essere guardati. Stranger Eyes, in questo senso, è un film davvero particolare, perché azzera la percezione alterata dello sguardo attraverso l’utilizzo di strumenti (come cannocchiali e binocoli, che assurgono al ruolo di “schermi” analogici) e permette, attraverso essi, di dare corpo al desiderio femminile di essere guardate. Lo sguardo, dunque, non è più veicolo di paranoia e d’inganno, quanto piuttosto un modo per materializzare la paura della perdita degli affetti, in un mondo in cui anche le persone sono quasi delle entità fantasmatiche. Proprio per questo motivo, ha senso anche il cambio di registro del racconto che Yeo Siew Hua opera nel corso della seconda parte del film, dove, da thriller paranoico, il film acquista una nuova prospettiva e una nuova natura, ovvero quella di un vero e proprio melò da camera, in cui la freddezza dell’individuo è dettata non tanto dalla paranoia, quanto piuttosto alla paura della perdita dei propri affetti. In questo senso, è interessante notare come la natura metamorfica di Stranger Eyes rispecchi precisamente quella delle immagini nel contesto mediale odierno, un contesto in cui la visualità sopperisce all’incapacità, da parte degli uomini, di comunicare. E proprio l’incomunicabilità, inevitabilmente, fornisce un filo rosso che intreccia e collega il film del regista di Singapore a quello di un altro collega di Taiwan che ha calcato i palcoscenici festivalieri un bel po’ di tempo fa. Il riferimento, naturalmente, è al grande regista taiwanese Edward Yang e, in particolare, al suo splendido Terrorizers (1986), premiato a Locarno nel 1987 con il Pardo d’Argento, con cui Stranger Eyes condivide proprio l’impercettibilità della realtà da parte dell’occhio, che nel frattempo, causa evoluzione del dispositivo, è passato da uno sguardo analogico a digitale, ma non ha ampliato la sua capacità e riesce ancora a cogliere solamente delle semplici schegge di realtà.