NC-205
17.05.2024
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 77ª edizione del Festival di Cannes. Per questo primo appuntamento ci concentreremo sui quattro film che hanno aperto le sezioni principali: da Le Deuxième Act, la nuova esilarante opera di Quentin Dupieux che ha inaugurato la manifestazione, a When the Light Breaks, una toccante storia sul lutto giovanile diretta da Rúnar Rúnarsson e presentata nella sezione Un Certain Regard. Inoltre vi racconteremo anche dei primi due film presentati nel concorso principale: Diamant brut, l’opera prima della talentuosa Agathe Riedinger, e The Girl with the Needle, il nuovo film di Magnus Von Horn, uno dei cineasti più sottovalutati dell’attuale panorama cinematografico europeo. Cogliamo anche l’occasione di scrivere di Furiosa: A Mad Max Story di George Miller, uno dei film che dominerà il box office mondiale nei mesi a venire. Concluderemo infine con una selezione di titoli da Un Certain Regard e Quinzaine des cinéastes, tra cui Les Damnés di Roberto Minervini, lungometraggio che si trova attualmente nelle nostre sale cinematografiche.
Le Deuxième Acte, di Quentin Dupieux
Non c’è modo migliore di aprire un festival cinematografico prestigioso come quello di Cannes se non con un film che omaggia la Settima Arte. Quest’anno l’onore è toccato a Quentin Dupieux, che ritorna sulla Croisette dopo una “lunga” assenza di due anni per presentare Le Deuxième Acte, una provocante ed esilarante esplorazione sul mondo della recitazione e sulla minaccia dell’AI nell’industria cinematografica. Il film ruota attorno ad un concetto piuttosto semplice: Netflix ha deciso di produrre il primo film totalmente scritto e diretto dall’intelligenza artificiale, una commedia romantica stereotipata con dialoghi imbarazzanti; Florence (Léa Seydoux) è innamorata follemente di David (Louis Garrel) e per cercare di conquistarlo una volta per tutte, decide di coinvolgere il padre Guillaume (Vincent Lindon). Ma questo amore non è contraccambiato e David cercherà di reindirizzare la donna verso l’amico Willi (Raphaël Quenard). Come in Yannick (2023) e Daaaali! (2023), il regista francese continua la sua esplorazione del mondo della performance e della reinterpretazione artistica, ma in questo caso, l’approccio utilizzato risulta essere più provocatorio e a tratti fastidioso. Infatti, Dupieux sfrutta uno degli argomenti tabù che sta condizionando l’industria cinematografica per criticare aspramente lo stato del cinema attuale e il mestiere dell’attore in maniera ironica. L’aspetto meta cinematografico diverte anche se non funziona del tutto e, nonostante la breve durata di ottanta minuti, sembra che Dupieux perda il filo della storia nel “terzo atto”, quando si inizia a faticare a capire se quello che si sta vedendo sullo schermo sia ancora parte del “film nel film” o la "realtà". Forse è questo l’intento del cineasta, mixare la realtà e la finzione per mostrare che la vita reale è di per sé un film che chiunque può imbastire. Nonostante queste riserve, Le Deuxième Acte risulta essere comunque un’opera esilarante, soprattutto grazie ad alcune gag comiche ben congeniate. Raphaël Quenard si conferma come una delle star più promettenti del cinema francese e con Dupieux sembra abbia trovato la persona che sappia sfruttare al meglio il suo lato comico. Una menzione speciale va anche a Vincent Lindon, sorprendente ed equilibrato in un ruolo estremamente comico. Non si può dire lo stesso invece per Léa Seydoux e Louis Garrel, che non risultano convincenti quanto le due co-star, soprattutto per la natura limitata dei loro personaggi.
Furiosa: A Mad Max Story, di George Miller
Dopo lo straordinario successo di Mad Max: Fury Road (2015), uno dei migliori film d’azione degli ultimi decenni, George Miller ha deciso di ritentare l’impresa ed espandere ancora una volta la saga di Mad Max, questa volta focalizzandosi non sul personaggio titolare della serie, ma su quello che forse aveva affascinato di più nel film precedente, ovvero Furiosa, interpretata all’epoca da Charlize Theron. Già in Fury Road erano stati accennati alcuni dettagli del passato dell’eroina della Wasteland e con Furiosa: A Mad Max Saga, Miller esplora il passato tormentato del personaggio e la sua sete di vendetta verso il signore della guerra Dementus (un delirante Chris Hemsworth), dopo che da bambina fu rapita e costretta a vedere la madre morire davanti ai suoi occhi. Anche se il film appartiene a questa saga e rappresenta un prequel/spinoff, l’opera di Miller funziona benissimo anche come uno standalone proprio per la revenge story alla base del film. Ma non solo, la durata di due ore e mezza e la struttura in cinque capitoli hanno permesso al regista di esplorare diverse dinamiche che erano state solamente citate in Fury Road, come la lunga battaglia tra Dementus e Immortan Joe per la conquista di Citadel. L’ambizione del cineasta australiano supera di gran lunga quella del film precedente e questo si può evincere dalla portata di certe sequenze d’azione e dall’utilizzo della CGI e di effetti speciali digitali più vistosi rispetto al capitolo precedente. Il film impiega un po’ di tempo ad ingranare, ma una volta che si raggiunge il terzo atto, dove viene introdotta la versione adulta di Furiosa, interpretata da una feroce e minimalista Anya Taylor-Joy, l’opera diventa un crescendo di adrenalina che tiene lo spettatore incollato allo schermo. Furiosa: A Mad Max Saga è l’ennesimo grande successo del cineasta australiano e dimostra che per fare un buon film d’azione e perché no, un franchise, serve pazienza, dedizione e una chiara visione d’insieme, aspetti purtroppo che sono laconici nella maggior parte delle grandi produzioni commerciali hollywoodiane.
When The Light Breaks, di Rúnar Rúnarsson
Il nuovo astro nascente del cinema islandese, Rúnar Rúnarsson, dopo essere stato scelto per ben due volte come candidato all’Oscar per il miglior film straniero per rappresentare la sua terra natìa, l’Islanda, con i suoi due film Eldfjall (2011) e Þrestir (2015), e dopo aver vinto, proprio con quest’ultimo cortometraggio, la Concha De Oro al Festival internazionale del cinema di San Sebastián, sbarca per la prima volta al Festival di Cannes con la sua quarta opera, dal titolo Ljósbrot (2024), tradotto internazionalmente come When The Light Breaks. Un film che dimostra di saper guardare al disagio giovanile con un occhio molto critico, attraverso un coming-of-age in cui l’adolescenza è soprattutto sintomo di paura e di riscoperta globale di sé stessi e dove il regista islandese dimostra di essere ben sintonizzato con una delle tematiche che più stanno imperversando nello scenario cinematografico odierno: quale può essere l’elaborazione del lutto. Il riferimento estetico e tematico principale, anche per via del sentimento alienante che pervade la protagonista, una Elín Hall davvero molto espressiva, è senza dubbio il Gus Van Sant della quadrilogia dell’alienazione, laddove la maturazione di sé stessi passa attraverso il dolore, ma anche tramite sentimenti positivi quali l’amore e l’amicizia, trattati con uno sguardo molto contemporaneo e attento. Forse proprio questa costrizione nelle tematiche moderne depotenzia un po’ il film nella sua prima metà, facendolo poi deflagrare e imporsi nella seconda, anche per via di una sicurezza relativa alle scelte estetiche via via sempre più forte e varia, passando dall’uso particolare degli specchi nelle singole scene fino all’impiego di soluzioni visive - come i contre-plongèe, le carrellate e i long take, che guardano fortemente al linguaggio delle opere teen di Luca Guadagnino - costruite in maniera fresca e per nulla banale, complici anche le ottime musiche, tra le quali spicca sicuramente la splendida Odi Et Amo di Jóhann Jóhannsson, compianto compositore islandese deceduto nel 2018 e autore anche di un film sperimentale, Last And First Men, uscito postumo e presentato nella sezione Speciale del Festival di Berlino nel 2020.
The Girl with the Needle, di Magnus Von Horn
Il volto di una donna appare all’inizio del film. Una musica incalzante si può udire in sottofondo, una cacofonia che fa presagire che qualcosa di sconvolgente sta per accadere. Il viso inizia a mutare e a cambiare aspetto fino a quando non si riesce più a intravedere una sola persona, ma un mix di volti deformati. Quella appena descritta è la strabiliante ouverture di The Girl with the Needle, il secondo film presentato in competizione quest’anno al Festival di Cannes. Questa sequenza, che ad un primo impatto può lasciare lo spettatore spaesato, è in realtà la chiave di lettura del terzo lungometraggio di Magnus Von Horn; una rappresentazione della mutevole realtà della giovane protagonista del film, dove i volti rappresentati sono quelli delle persone che hanno sconvolto e influenzato la sua vita. Ambientato nella città di Copenaghen nel 1919, The Girl with the Needle segue la spirale discendente di Karoline (Victoria Carmen Sonne), una giovane ventitreenne che ha perso tutto, dalla propria abitazione al marito “scomparso” durante la Grande Guerra. Per cercare di ricominciare una nuova vita, la ragazza inizierà a lavorare in un'industria locale, dove incontrerà e si innamorerà di Jørgen, il ricco proprietario della fabbrica. Ma dopo essere rimasta incinta di quest’ultimo, Karoline verrà abbandonata a un destino caratterizzato, ancora una volta, da povertà e da un bambino non voluto. Trovandosi in crisi, la giovane ragazza troverà aiuto e conforto solo da Dagmar (Trine Dyrholm), una donna enigmatica che gestisce una clinica illegale che aiuta giovani madri a trovare una famiglia per i figli non voluti. Tratto da una storia di cronaca nera, The Girl with the Needle rappresenta il primo period drama della carriera di Von Horn, il cineasta sfrutta proprio questa ambientazione storica per raccontare una vicenda cruda che rispecchia la situazione infernale di Karoline. L’uso del bianco e nero mette in risalto ancora di più l’atmosfera austera della vita rurale dello scorso secolo, un’operazione simile a quella compiuta da Michel Haneke con Il Nastro Bianco (2009). Il punto di forza dell’opera si riscontra nelle due interpretazioni centrali; Victoria Carmen Sonne è sensazionale nel mostrare le sfaccettatura dietro ad ogni fase decadente di Karoline e l’espressività del suo volto richiama quello delle grandi dive del cinema muto, mentre Trine Dyrholm si presenta già come una delle favorite per il premio di miglior attrice con una interpretazione enigmatica, ambigua e a tratti terrificante di una donna manipolatrice che pensa di compiere solo del bene. The Girl with the Needle non è esente da difetti e Von Horn indulge troppo su alcune scene scioccanti giusto per creare una reazione forzata e a tratti inutile, ma, nonostante queste piccole sviste, il film non rischia mai di scadere nel misery porn.
I Dannati, di Roberto Minervini
Roberto Minervini giunge a Cannes nella sezione Un certain regard con il suo nuovo progetto: I Dannati. Dopo una lunga carriera come documentarista, Minervini porta in scena la sua prima opera di finzione, ma senza mai abbandonare del tutto le proprie origini. Il film è ambientato nell’inverno del 1862, in piena guerra di secessione, e la camera del regista italiano segue le vicende di un gruppo di volontari inviati a perlustrare e presidiare le terre inesplorate del profondo ovest. Come già specificato, Minervini non perde il suo sguardo documentaristico e mostra la cruda quotidianità che i soldati sono costretti a vivere. Dalle ronde di guardia, alla manutenzione delle armi, fino alle poche conversazioni che inizialmente si basano solo sulla vita del campo, ma che con il passare dei giorni, se non addirittura delle settimane, si fanno più profonde, fino ad affrontare tematiche esistenziali e spirituali. A dare una nota di finzione al film, oltre ai dialoghi e ai personaggi fittizi, è anche l’uso della fotografia interamente basata sul deep focus, dove il soggetto principale è messo a fuoco mentre tutto il resto viene sfocato. Con questa tecnica l’opera si focalizza su ogni singolo uomo protagonista della vicenda, mettendo a fuoco non solo la sua figura, ma anche le sue emozioni, dalla paura, all’indifferenza fino alla rassegnazione di poter morire in qualsiasi istante. Il regista italiano si discosta dalla classica retorica del genere di guerra che si basa quasi sempre sull’epicità del conflitto, mostrando più delle figure eroiche che dei soldati. Minervini, infatti, mostra i suoi “dannati”, uomini che non sanno nemmeno più per cosa stanno combattendo e che vivono ogni giorno con il timore che possa essere l’ultimo. Con questo progetto il regista vuole affrontare il passato per comprendere meglio il presente degli Stati Uniti, una nazione nata sulle macerie di un conflitto che non si è mai del tutto risolto. E come i lupi all’inizio del film si contendono la carcassa di un cervo, gli americani continueranno a contendersi un Paese di ideali che nemmeno loro riconoscono più.
Los hiperbóreos, di Cristóbal León e Joaquín Cociña
Dopo il loro esordio ufficiale sul grande schermo con il lungometraggio La Casa Lobo (2018) e a seguito della collaborazione con il regista Ari Aster per le sequenze animate del suo Beau Is Afraid (2023), i cileni Cristóbal León e Joaquín Cociña, coppia di registi dal tratto video-artistico e tendente all’animazione, sbarcano per la prima volta sulla Croisette con il loro Los Hiperbòreos (2024), lungometraggio in cui Antonia Giesen, regista e psicologa, decide di mettere in scena, come fosse una lunga seduta in cui lei stessa è anche paziente, la sceneggiatura creata dalla mente di uno dei suoi pazienti. Il risultato è una meta-rappresentazione che riflette sul senso delle storie e della Storia al cinema in modo attualissimo - con tanto di riferimenti espliciti all’attuale cambiamento sociale del Cile - tramite una distopia retrofuturista che si occupa anche di ironizzare su alcuni aspetti fondamentali delle dittature odierne (come i presunti complottismi) e in cui, con pochissimi mezzi a disposizione, i due registi ribaltano il linguaggio. Los Hiperbòreos è dunque un mix esplosivo tra cinema, teatro, documentario, videogame e videoarte che riflette sul pericolo nazional-socialista diventato ormai una realtà in Sud America. Un prodotto costruito con pochissimi mezzi, che guarda soprattutto agli usi cinematografici degli elementi fondamentali della cultura orientale e del Teatro No e che gioca tutte le sue carte sul continuo ribaltamento di fronte tra realtà e finzione all’interno del set cinematografico, laddove sono i glitch nel montaggio, le citazioni visive - tra cui i rimandi lynchiani a Twin Peaks (1989-2017) - e i cambi di scenografie e di formati visivi, con omaggi espliciti in bianco e nero al cinema dell’orrore classico, a costruire un futuro delirante, che non ha però molte differenze con il nostro presente.
Simón de la montaña, di Federico Luis
Federico Luis dopo essere già stato a Cannes nel 2019 nella sezione cortometraggi con il suo progetto Siesta, torna nella ridente città francese per presentare il suo primo lungometraggio nella sezione Settimana della critica. Simón de la montaña racconta la vita di un giovane di 21 anni, Simón, e del suo desiderio di trovare il proprio posto nel mondo. Luis, all’inizio del film, fa si che sia lo stesso Simón a presentarsi, incalzato dalle domande che gli pone l’amico Puehen. Il ragazzo racconta di essere un traslocatore, e afferma di non saper cucinare, pulire il bagno o rifare il letto. A un primo sguardo il film del regista argentino sembra presentarci la vita di un gruppo di giovani con diverse disabilità (come l’autismo o la sindrome di Down), tanto che ci porta automaticamente a credere che anche Simón abbia una qualche forma di autismo, ma con l’andare avanti della storia ci si rende conto che lui è l’unica nota stonata del gruppo. Con il suo film Federico Luis riesce a invertire i preconcetti e i pregiudizi che la società abilista ci ha inculcato. Il regista ci mostra realmente le persone con disabilità: piene di sfumature, desideri e anche con una grande voglia di divertirsi. Ed è da questo mondo che Simón rimane affascinato, tanto da voler mentire sulla propria condizione fisica e mentale pur di farne parte. Tom Browning con Freaks (1932) fu uno dei primi nel cinema a cercare di andare oltre la “diversità” per mostrare l’umanità in ogni suo aspetto, e come lui Federico Luis ci porta nella testa di Simón, che ritrova se stesso solo in mezzo a coloro che per per la società intera sono degli outsider…quando forse è solo la cosiddetta “normalità” a fare paura oggi giorno.
Something Old, Something New, Something Borrowed, di Hernàn Rosselli
Hernàn Rosselli ha debuttato ufficialmente con il suo dramma Mauro (2015), presentato per la prima volta all’International Film Fest di Rotterdam, dove ha vinto il concorso Bright Future ed è stato destinatario dell’ambito premio FIPRESCI, prestigioso riconoscimento che gli ha permesso di imporsi al grande pubblico. Ora, dopo aver presentato al BAFICI il suo documentario Casa Del Teatro (2018), Rosselli ha colto la palla al balzo e, per la prima volta, si appresta a cavalcare lo scenario della Croisette grazie al suo nuovo lungometraggio dal titolo Something New, Something Old, Something Borrowed , in lingua originale chiamato Algo Viejo, Algo Nuevo, Algo Prestado. Il film segue il solco tracciato dal nuovo cinema argentino e, soprattutto, dalla lezione data dai prodotti del Pampero Cine, con particolare occhio soprattutto ai film di Mariano Llinás, da cui Rosselli cerca di riprendere, soprattutto nella prima parte della pellicola, una certa attitudine a giocare con le linee narrative del racconto e intrecciarle mediante giochi di montaggio, in modo tale da rendere il racconto più accattivante, e inserendo all’interno del film vari inserti da found footage/mockumentary che vanno ad impreziosire la regia, altrimenti troppo statica e ingolfata. Nonostante questi momenti molto interessanti visivamente, il racconto non ingrana mai e anzi si smarrisce del tutto nella seconda metà, dove il regista gira a vuoto, si impernia in modo sproporzionato sulla componente mnemonica del film e sull’autobiografia dei suoi stessi personaggi, banalizzando, di fatto, quegli spunti visivi che erano stati offerti intelligentemente nella prima metà. Rispetto ai coevi film argentini, dunque, Something New, Something Old, Something Borrowed è purtroppo oltremodo convenzionale e offre pochissimi guizzi degni di nota solo tecnicamente, risultando carente sia nel racconto, piuttosto scontato, che nell’evoluzione dei personaggi.
Locust, di KEFF
KEFF, giovane regista e artista a tutto tondo (è anche DJ e producer musicale) ha attirato l’attenzione di tutto il panorama cinematografico mondiale già tre anni or sono, nel 2020, quando, sfruttando lo scenario pandemico globale, aveva girato un intimo dramma dal titolo Taipei Suicide Story (2020), storia distopica in cui l’attualità socio-politica, rappresentata dal materializzarsi del Covid e delle misure di sicurezza inerenti, rievocava lo stesso spettro dell’alienazione urbana messa in pratica già negli anni ‘80 con il fiorire del cinema di Edward Yang, e intrecciava oscurità e poesia all’interno di uno scenario decisamente poco conciliante. Ma l’importanza del contesto sociale si ripercuote anche sul suo nuovo film, Locust (2024), presentato alla Semaine de la Critique a Cannes 2024. La storia, che prende piede nel 2019, risente ancora una volta delle tensioni create in Asia, e soprattutto a Hong Kong, dove le rivolte che lo stesso KEFF mostra in TV assumono un significato particolare ed anti-tetico rispetto al racconto presentato a Taiwan. Dietro, infatti, una gangster story che rievoca gli inizi del cinema di Tsai Ming-Liang - in particolar modo Rebels Of The Neon God (1992) - si nasconde, infatti, una critica nei confronti dell’ambiente del sottoproletariato taiwanese, laddove il mito americano (mostrato, anche in modo ilare, dalle maschere di Obama e di Hillary Clinton) si tramuta in un materialismo e in un mutismo (come illustra, metaforicamente, un bravissimo Wilson Liu) che mostra come l’arrivismo intacchi anche i più giovani, cresciuti con l’unico mito della vendetta e della sopraffazione. Locust è dunque un’unione tra il crime taiwanese/coreano del post-2000, con tanto di rappresentazioni grafiche violente, che deflagrano su schermo improvvisamente, e l’estetica tipica del nuovo noir d’oltreoceano, con particolare attenzione agli eccessi grafici di Refn (con tanto di shock audiovisivi) e del cinese Diao Yi’nan, con cui condivide anche l’uso della snorricam nelle fasi concitate e di un uso accentuato di neon e di ambienti oscuri illuminati freddamente. Un aspetto che, purtroppo, non permette di colmare alcuni difetti narrativi, soprattutto nella prima parte, che lasciano girare il film a vuoto per un bel po’ di tempo, e che purtroppo danno la sensazione di un prodotto troppo dilungato che avrebbe avuto bisogno di essere asciugato narrativamente.
Diamant brut, di Agathe Riedinger
C’era tanta attesa per Diamant brut, opera prima di Agathe Riedinger e primo film presentato in competizione. La giovane cineasta francese aveva fatto intravedere già il suo talento attraverso i cortometraggi e i videoclip musicali che aveva diretto in passato. Proprio l’estetica di questi video sono alla base del suo primo lungometraggio, un coming of age che ha come protagonista Liane, diciannovenne ossessionata dalla bellezza che spera di avere successo come influencer. Un giorno, grazie al seguito che sta riscontrando tramite le sue pagine social, Liane viene notata da alcuni selezionatori di “Miracle Island”, un reality show statunitense, che la invitano a fare un provino. Questa rappresenterà l’occasione perfetta per la ragazza di sfuggire dalla piccola realtà rurale in cui vive, di esplorare il proprio potenziale e di trovare finalmente un posto dove si possa sentire amata. Ad un primo istante, il film potrebbe ricordare Reality (2012), ma a differenza del film di Matteo Garrone, Riedinger preferisce concentrarsi quasi esclusivamente sul periodo in cui la ragazza deve aspettare l’esito del provino. Questa lunga attesa inizierà a diventare sempre più frustrante e Liane inizierà a prendere decisioni sconsiderate solo per cercare di richiamare l’attenzione sui social media, deteriorando in questo modo i vari rapporti con la famiglia e gli amici. Girato in pellicola e per lo più con l’uso della camera a mano, a differenza delle opere precedenti in cui Riedinger aveva prediletto di più il grandangolo e camere statiche, Diamant brut risulta un film solido ma che presenta diverse lacune, come la mancata caratterizzazione di certi personaggi secondari - come il personaggio della madre, intrappolato nel classico stereotipo del genitore non responsabile. Inoltre, il film mostra una delle peggiori tendenze da parte dei nuovi registi, ovvero l’uso spropositato della musica, in questo caso un brano per archi che viene ripetuto ogni 5/10 minuti, rovinando il ritmo del film e quella sensazione di realismo che caratterizza il cinéma vérité di autori come Andrea Arnold o i fratelli Dardenne. Ciò che rende il film così accattivante è l’interpretazione di Malou Khebizi, attrice non professionista, la cui intensità nel mostrare sia la vulnerabilità che l’intraprendenza di una giovane ragazza pronta a tutto per realizzare il proprio sogno, ci ha affascinato sin da subito.
Ma Vie Ma Gueule, di Sophie Fillières
Ad aprire la Quinzaine des cineastas quest’anno è stata l’opera postuma di Sophie Fillieres, una delle registe più sottovalutate della generazione Femis, corrente cinematografica francese sviluppatasi negli anni ‘90, della quale fanno parte registi del calibro di Arnauld Desplechin e Noemie Lvovsky. La cineasta è venuta a mancare tragicamente nell’agosto del 2023 a seguito di una malattia ed è riuscita a completare le riprese solo qualche settimana prima della morte. Ma Vie, Ma Gueule è stato il suo settimo lungometraggio, una dramedy dal carattere autobiografico che segue le vicende di Barberie (Agnès Jaoui), donna di cinquantacinque anni che si trova in una situazione complicata nella sua vita; si sente sola, non riceve quell’affetto che tanto vorrebbe dai due figli e infine non si sente soddisfatta della propria vita amorosa e lavorativa. Tutti questi aspetti, nel corso degli anni, hanno deteriorato la sanità mentale della donna senza che questa se ne accorgesse e, per combattere le proprie insicurezze, spesso cerca di comportarsi in modo eccentrico e bizzarro per dimostrare che tutto sta andando bene. Quello che affascina dell’opera è la sincerità con cui Fillieres affronta le difficoltà di Barberie, senza mai calcare la mano sui lati più tragici della storia. Bisogna anche menzionare la commovente interpretazione di Agnès Jaoui, il cui charm riesce fin da subito a conquistare lo spettatore, che non riuscirà a non provare empatia per la condizione di Barberie.
NC-205
17.05.2024
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 77ª edizione del Festival di Cannes. Per questo primo appuntamento ci concentreremo sui quattro film che hanno aperto le sezioni principali: da Le Deuxième Act, la nuova esilarante opera di Quentin Dupieux che ha inaugurato la manifestazione, a When the Light Breaks, una toccante storia sul lutto giovanile diretta da Rúnar Rúnarsson e presentata nella sezione Un Certain Regard. Inoltre vi racconteremo anche dei primi due film presentati nel concorso principale: Diamant brut, l’opera prima della talentuosa Agathe Riedinger, e The Girl with the Needle, il nuovo film di Magnus Von Horn, uno dei cineasti più sottovalutati dell’attuale panorama cinematografico europeo. Cogliamo anche l’occasione di scrivere di Furiosa: A Mad Max Story di George Miller, uno dei film che dominerà il box office mondiale nei mesi a venire. Concluderemo infine con una selezione di titoli da Un Certain Regard e Quinzaine des cinéastes, tra cui Les Damnés di Roberto Minervini, lungometraggio che si trova attualmente nelle nostre sale cinematografiche.
Le Deuxième Acte, di Quentin Dupieux
Non c’è modo migliore di aprire un festival cinematografico prestigioso come quello di Cannes se non con un film che omaggia la Settima Arte. Quest’anno l’onore è toccato a Quentin Dupieux, che ritorna sulla Croisette dopo una “lunga” assenza di due anni per presentare Le Deuxième Acte, una provocante ed esilarante esplorazione sul mondo della recitazione e sulla minaccia dell’AI nell’industria cinematografica. Il film ruota attorno ad un concetto piuttosto semplice: Netflix ha deciso di produrre il primo film totalmente scritto e diretto dall’intelligenza artificiale, una commedia romantica stereotipata con dialoghi imbarazzanti; Florence (Léa Seydoux) è innamorata follemente di David (Louis Garrel) e per cercare di conquistarlo una volta per tutte, decide di coinvolgere il padre Guillaume (Vincent Lindon). Ma questo amore non è contraccambiato e David cercherà di reindirizzare la donna verso l’amico Willi (Raphaël Quenard). Come in Yannick (2023) e Daaaali! (2023), il regista francese continua la sua esplorazione del mondo della performance e della reinterpretazione artistica, ma in questo caso, l’approccio utilizzato risulta essere più provocatorio e a tratti fastidioso. Infatti, Dupieux sfrutta uno degli argomenti tabù che sta condizionando l’industria cinematografica per criticare aspramente lo stato del cinema attuale e il mestiere dell’attore in maniera ironica. L’aspetto meta cinematografico diverte anche se non funziona del tutto e, nonostante la breve durata di ottanta minuti, sembra che Dupieux perda il filo della storia nel “terzo atto”, quando si inizia a faticare a capire se quello che si sta vedendo sullo schermo sia ancora parte del “film nel film” o la "realtà". Forse è questo l’intento del cineasta, mixare la realtà e la finzione per mostrare che la vita reale è di per sé un film che chiunque può imbastire. Nonostante queste riserve, Le Deuxième Acte risulta essere comunque un’opera esilarante, soprattutto grazie ad alcune gag comiche ben congeniate. Raphaël Quenard si conferma come una delle star più promettenti del cinema francese e con Dupieux sembra abbia trovato la persona che sappia sfruttare al meglio il suo lato comico. Una menzione speciale va anche a Vincent Lindon, sorprendente ed equilibrato in un ruolo estremamente comico. Non si può dire lo stesso invece per Léa Seydoux e Louis Garrel, che non risultano convincenti quanto le due co-star, soprattutto per la natura limitata dei loro personaggi.
Furiosa: A Mad Max Story, di George Miller
Dopo lo straordinario successo di Mad Max: Fury Road (2015), uno dei migliori film d’azione degli ultimi decenni, George Miller ha deciso di ritentare l’impresa ed espandere ancora una volta la saga di Mad Max, questa volta focalizzandosi non sul personaggio titolare della serie, ma su quello che forse aveva affascinato di più nel film precedente, ovvero Furiosa, interpretata all’epoca da Charlize Theron. Già in Fury Road erano stati accennati alcuni dettagli del passato dell’eroina della Wasteland e con Furiosa: A Mad Max Saga, Miller esplora il passato tormentato del personaggio e la sua sete di vendetta verso il signore della guerra Dementus (un delirante Chris Hemsworth), dopo che da bambina fu rapita e costretta a vedere la madre morire davanti ai suoi occhi. Anche se il film appartiene a questa saga e rappresenta un prequel/spinoff, l’opera di Miller funziona benissimo anche come uno standalone proprio per la revenge story alla base del film. Ma non solo, la durata di due ore e mezza e la struttura in cinque capitoli hanno permesso al regista di esplorare diverse dinamiche che erano state solamente citate in Fury Road, come la lunga battaglia tra Dementus e Immortan Joe per la conquista di Citadel. L’ambizione del cineasta australiano supera di gran lunga quella del film precedente e questo si può evincere dalla portata di certe sequenze d’azione e dall’utilizzo della CGI e di effetti speciali digitali più vistosi rispetto al capitolo precedente. Il film impiega un po’ di tempo ad ingranare, ma una volta che si raggiunge il terzo atto, dove viene introdotta la versione adulta di Furiosa, interpretata da una feroce e minimalista Anya Taylor-Joy, l’opera diventa un crescendo di adrenalina che tiene lo spettatore incollato allo schermo. Furiosa: A Mad Max Saga è l’ennesimo grande successo del cineasta australiano e dimostra che per fare un buon film d’azione e perché no, un franchise, serve pazienza, dedizione e una chiara visione d’insieme, aspetti purtroppo che sono laconici nella maggior parte delle grandi produzioni commerciali hollywoodiane.
When The Light Breaks, di Rúnar Rúnarsson
Il nuovo astro nascente del cinema islandese, Rúnar Rúnarsson, dopo essere stato scelto per ben due volte come candidato all’Oscar per il miglior film straniero per rappresentare la sua terra natìa, l’Islanda, con i suoi due film Eldfjall (2011) e Þrestir (2015), e dopo aver vinto, proprio con quest’ultimo cortometraggio, la Concha De Oro al Festival internazionale del cinema di San Sebastián, sbarca per la prima volta al Festival di Cannes con la sua quarta opera, dal titolo Ljósbrot (2024), tradotto internazionalmente come When The Light Breaks. Un film che dimostra di saper guardare al disagio giovanile con un occhio molto critico, attraverso un coming-of-age in cui l’adolescenza è soprattutto sintomo di paura e di riscoperta globale di sé stessi e dove il regista islandese dimostra di essere ben sintonizzato con una delle tematiche che più stanno imperversando nello scenario cinematografico odierno: quale può essere l’elaborazione del lutto. Il riferimento estetico e tematico principale, anche per via del sentimento alienante che pervade la protagonista, una Elín Hall davvero molto espressiva, è senza dubbio il Gus Van Sant della quadrilogia dell’alienazione, laddove la maturazione di sé stessi passa attraverso il dolore, ma anche tramite sentimenti positivi quali l’amore e l’amicizia, trattati con uno sguardo molto contemporaneo e attento. Forse proprio questa costrizione nelle tematiche moderne depotenzia un po’ il film nella sua prima metà, facendolo poi deflagrare e imporsi nella seconda, anche per via di una sicurezza relativa alle scelte estetiche via via sempre più forte e varia, passando dall’uso particolare degli specchi nelle singole scene fino all’impiego di soluzioni visive - come i contre-plongèe, le carrellate e i long take, che guardano fortemente al linguaggio delle opere teen di Luca Guadagnino - costruite in maniera fresca e per nulla banale, complici anche le ottime musiche, tra le quali spicca sicuramente la splendida Odi Et Amo di Jóhann Jóhannsson, compianto compositore islandese deceduto nel 2018 e autore anche di un film sperimentale, Last And First Men, uscito postumo e presentato nella sezione Speciale del Festival di Berlino nel 2020.
The Girl with the Needle, di Magnus Von Horn
Il volto di una donna appare all’inizio del film. Una musica incalzante si può udire in sottofondo, una cacofonia che fa presagire che qualcosa di sconvolgente sta per accadere. Il viso inizia a mutare e a cambiare aspetto fino a quando non si riesce più a intravedere una sola persona, ma un mix di volti deformati. Quella appena descritta è la strabiliante ouverture di The Girl with the Needle, il secondo film presentato in competizione quest’anno al Festival di Cannes. Questa sequenza, che ad un primo impatto può lasciare lo spettatore spaesato, è in realtà la chiave di lettura del terzo lungometraggio di Magnus Von Horn; una rappresentazione della mutevole realtà della giovane protagonista del film, dove i volti rappresentati sono quelli delle persone che hanno sconvolto e influenzato la sua vita. Ambientato nella città di Copenaghen nel 1919, The Girl with the Needle segue la spirale discendente di Karoline (Victoria Carmen Sonne), una giovane ventitreenne che ha perso tutto, dalla propria abitazione al marito “scomparso” durante la Grande Guerra. Per cercare di ricominciare una nuova vita, la ragazza inizierà a lavorare in un'industria locale, dove incontrerà e si innamorerà di Jørgen, il ricco proprietario della fabbrica. Ma dopo essere rimasta incinta di quest’ultimo, Karoline verrà abbandonata a un destino caratterizzato, ancora una volta, da povertà e da un bambino non voluto. Trovandosi in crisi, la giovane ragazza troverà aiuto e conforto solo da Dagmar (Trine Dyrholm), una donna enigmatica che gestisce una clinica illegale che aiuta giovani madri a trovare una famiglia per i figli non voluti. Tratto da una storia di cronaca nera, The Girl with the Needle rappresenta il primo period drama della carriera di Von Horn, il cineasta sfrutta proprio questa ambientazione storica per raccontare una vicenda cruda che rispecchia la situazione infernale di Karoline. L’uso del bianco e nero mette in risalto ancora di più l’atmosfera austera della vita rurale dello scorso secolo, un’operazione simile a quella compiuta da Michel Haneke con Il Nastro Bianco (2009). Il punto di forza dell’opera si riscontra nelle due interpretazioni centrali; Victoria Carmen Sonne è sensazionale nel mostrare le sfaccettatura dietro ad ogni fase decadente di Karoline e l’espressività del suo volto richiama quello delle grandi dive del cinema muto, mentre Trine Dyrholm si presenta già come una delle favorite per il premio di miglior attrice con una interpretazione enigmatica, ambigua e a tratti terrificante di una donna manipolatrice che pensa di compiere solo del bene. The Girl with the Needle non è esente da difetti e Von Horn indulge troppo su alcune scene scioccanti giusto per creare una reazione forzata e a tratti inutile, ma, nonostante queste piccole sviste, il film non rischia mai di scadere nel misery porn.
I Dannati, di Roberto Minervini
Roberto Minervini giunge a Cannes nella sezione Un certain regard con il suo nuovo progetto: I Dannati. Dopo una lunga carriera come documentarista, Minervini porta in scena la sua prima opera di finzione, ma senza mai abbandonare del tutto le proprie origini. Il film è ambientato nell’inverno del 1862, in piena guerra di secessione, e la camera del regista italiano segue le vicende di un gruppo di volontari inviati a perlustrare e presidiare le terre inesplorate del profondo ovest. Come già specificato, Minervini non perde il suo sguardo documentaristico e mostra la cruda quotidianità che i soldati sono costretti a vivere. Dalle ronde di guardia, alla manutenzione delle armi, fino alle poche conversazioni che inizialmente si basano solo sulla vita del campo, ma che con il passare dei giorni, se non addirittura delle settimane, si fanno più profonde, fino ad affrontare tematiche esistenziali e spirituali. A dare una nota di finzione al film, oltre ai dialoghi e ai personaggi fittizi, è anche l’uso della fotografia interamente basata sul deep focus, dove il soggetto principale è messo a fuoco mentre tutto il resto viene sfocato. Con questa tecnica l’opera si focalizza su ogni singolo uomo protagonista della vicenda, mettendo a fuoco non solo la sua figura, ma anche le sue emozioni, dalla paura, all’indifferenza fino alla rassegnazione di poter morire in qualsiasi istante. Il regista italiano si discosta dalla classica retorica del genere di guerra che si basa quasi sempre sull’epicità del conflitto, mostrando più delle figure eroiche che dei soldati. Minervini, infatti, mostra i suoi “dannati”, uomini che non sanno nemmeno più per cosa stanno combattendo e che vivono ogni giorno con il timore che possa essere l’ultimo. Con questo progetto il regista vuole affrontare il passato per comprendere meglio il presente degli Stati Uniti, una nazione nata sulle macerie di un conflitto che non si è mai del tutto risolto. E come i lupi all’inizio del film si contendono la carcassa di un cervo, gli americani continueranno a contendersi un Paese di ideali che nemmeno loro riconoscono più.
Los hiperbóreos, di Cristóbal León e Joaquín Cociña
Dopo il loro esordio ufficiale sul grande schermo con il lungometraggio La Casa Lobo (2018) e a seguito della collaborazione con il regista Ari Aster per le sequenze animate del suo Beau Is Afraid (2023), i cileni Cristóbal León e Joaquín Cociña, coppia di registi dal tratto video-artistico e tendente all’animazione, sbarcano per la prima volta sulla Croisette con il loro Los Hiperbòreos (2024), lungometraggio in cui Antonia Giesen, regista e psicologa, decide di mettere in scena, come fosse una lunga seduta in cui lei stessa è anche paziente, la sceneggiatura creata dalla mente di uno dei suoi pazienti. Il risultato è una meta-rappresentazione che riflette sul senso delle storie e della Storia al cinema in modo attualissimo - con tanto di riferimenti espliciti all’attuale cambiamento sociale del Cile - tramite una distopia retrofuturista che si occupa anche di ironizzare su alcuni aspetti fondamentali delle dittature odierne (come i presunti complottismi) e in cui, con pochissimi mezzi a disposizione, i due registi ribaltano il linguaggio. Los Hiperbòreos è dunque un mix esplosivo tra cinema, teatro, documentario, videogame e videoarte che riflette sul pericolo nazional-socialista diventato ormai una realtà in Sud America. Un prodotto costruito con pochissimi mezzi, che guarda soprattutto agli usi cinematografici degli elementi fondamentali della cultura orientale e del Teatro No e che gioca tutte le sue carte sul continuo ribaltamento di fronte tra realtà e finzione all’interno del set cinematografico, laddove sono i glitch nel montaggio, le citazioni visive - tra cui i rimandi lynchiani a Twin Peaks (1989-2017) - e i cambi di scenografie e di formati visivi, con omaggi espliciti in bianco e nero al cinema dell’orrore classico, a costruire un futuro delirante, che non ha però molte differenze con il nostro presente.
Simón de la montaña, di Federico Luis
Federico Luis dopo essere già stato a Cannes nel 2019 nella sezione cortometraggi con il suo progetto Siesta, torna nella ridente città francese per presentare il suo primo lungometraggio nella sezione Settimana della critica. Simón de la montaña racconta la vita di un giovane di 21 anni, Simón, e del suo desiderio di trovare il proprio posto nel mondo. Luis, all’inizio del film, fa si che sia lo stesso Simón a presentarsi, incalzato dalle domande che gli pone l’amico Puehen. Il ragazzo racconta di essere un traslocatore, e afferma di non saper cucinare, pulire il bagno o rifare il letto. A un primo sguardo il film del regista argentino sembra presentarci la vita di un gruppo di giovani con diverse disabilità (come l’autismo o la sindrome di Down), tanto che ci porta automaticamente a credere che anche Simón abbia una qualche forma di autismo, ma con l’andare avanti della storia ci si rende conto che lui è l’unica nota stonata del gruppo. Con il suo film Federico Luis riesce a invertire i preconcetti e i pregiudizi che la società abilista ci ha inculcato. Il regista ci mostra realmente le persone con disabilità: piene di sfumature, desideri e anche con una grande voglia di divertirsi. Ed è da questo mondo che Simón rimane affascinato, tanto da voler mentire sulla propria condizione fisica e mentale pur di farne parte. Tom Browning con Freaks (1932) fu uno dei primi nel cinema a cercare di andare oltre la “diversità” per mostrare l’umanità in ogni suo aspetto, e come lui Federico Luis ci porta nella testa di Simón, che ritrova se stesso solo in mezzo a coloro che per per la società intera sono degli outsider…quando forse è solo la cosiddetta “normalità” a fare paura oggi giorno.
Something Old, Something New, Something Borrowed, di Hernàn Rosselli
Hernàn Rosselli ha debuttato ufficialmente con il suo dramma Mauro (2015), presentato per la prima volta all’International Film Fest di Rotterdam, dove ha vinto il concorso Bright Future ed è stato destinatario dell’ambito premio FIPRESCI, prestigioso riconoscimento che gli ha permesso di imporsi al grande pubblico. Ora, dopo aver presentato al BAFICI il suo documentario Casa Del Teatro (2018), Rosselli ha colto la palla al balzo e, per la prima volta, si appresta a cavalcare lo scenario della Croisette grazie al suo nuovo lungometraggio dal titolo Something New, Something Old, Something Borrowed , in lingua originale chiamato Algo Viejo, Algo Nuevo, Algo Prestado. Il film segue il solco tracciato dal nuovo cinema argentino e, soprattutto, dalla lezione data dai prodotti del Pampero Cine, con particolare occhio soprattutto ai film di Mariano Llinás, da cui Rosselli cerca di riprendere, soprattutto nella prima parte della pellicola, una certa attitudine a giocare con le linee narrative del racconto e intrecciarle mediante giochi di montaggio, in modo tale da rendere il racconto più accattivante, e inserendo all’interno del film vari inserti da found footage/mockumentary che vanno ad impreziosire la regia, altrimenti troppo statica e ingolfata. Nonostante questi momenti molto interessanti visivamente, il racconto non ingrana mai e anzi si smarrisce del tutto nella seconda metà, dove il regista gira a vuoto, si impernia in modo sproporzionato sulla componente mnemonica del film e sull’autobiografia dei suoi stessi personaggi, banalizzando, di fatto, quegli spunti visivi che erano stati offerti intelligentemente nella prima metà. Rispetto ai coevi film argentini, dunque, Something New, Something Old, Something Borrowed è purtroppo oltremodo convenzionale e offre pochissimi guizzi degni di nota solo tecnicamente, risultando carente sia nel racconto, piuttosto scontato, che nell’evoluzione dei personaggi.
Locust, di KEFF
KEFF, giovane regista e artista a tutto tondo (è anche DJ e producer musicale) ha attirato l’attenzione di tutto il panorama cinematografico mondiale già tre anni or sono, nel 2020, quando, sfruttando lo scenario pandemico globale, aveva girato un intimo dramma dal titolo Taipei Suicide Story (2020), storia distopica in cui l’attualità socio-politica, rappresentata dal materializzarsi del Covid e delle misure di sicurezza inerenti, rievocava lo stesso spettro dell’alienazione urbana messa in pratica già negli anni ‘80 con il fiorire del cinema di Edward Yang, e intrecciava oscurità e poesia all’interno di uno scenario decisamente poco conciliante. Ma l’importanza del contesto sociale si ripercuote anche sul suo nuovo film, Locust (2024), presentato alla Semaine de la Critique a Cannes 2024. La storia, che prende piede nel 2019, risente ancora una volta delle tensioni create in Asia, e soprattutto a Hong Kong, dove le rivolte che lo stesso KEFF mostra in TV assumono un significato particolare ed anti-tetico rispetto al racconto presentato a Taiwan. Dietro, infatti, una gangster story che rievoca gli inizi del cinema di Tsai Ming-Liang - in particolar modo Rebels Of The Neon God (1992) - si nasconde, infatti, una critica nei confronti dell’ambiente del sottoproletariato taiwanese, laddove il mito americano (mostrato, anche in modo ilare, dalle maschere di Obama e di Hillary Clinton) si tramuta in un materialismo e in un mutismo (come illustra, metaforicamente, un bravissimo Wilson Liu) che mostra come l’arrivismo intacchi anche i più giovani, cresciuti con l’unico mito della vendetta e della sopraffazione. Locust è dunque un’unione tra il crime taiwanese/coreano del post-2000, con tanto di rappresentazioni grafiche violente, che deflagrano su schermo improvvisamente, e l’estetica tipica del nuovo noir d’oltreoceano, con particolare attenzione agli eccessi grafici di Refn (con tanto di shock audiovisivi) e del cinese Diao Yi’nan, con cui condivide anche l’uso della snorricam nelle fasi concitate e di un uso accentuato di neon e di ambienti oscuri illuminati freddamente. Un aspetto che, purtroppo, non permette di colmare alcuni difetti narrativi, soprattutto nella prima parte, che lasciano girare il film a vuoto per un bel po’ di tempo, e che purtroppo danno la sensazione di un prodotto troppo dilungato che avrebbe avuto bisogno di essere asciugato narrativamente.
Diamant brut, di Agathe Riedinger
C’era tanta attesa per Diamant brut, opera prima di Agathe Riedinger e primo film presentato in competizione. La giovane cineasta francese aveva fatto intravedere già il suo talento attraverso i cortometraggi e i videoclip musicali che aveva diretto in passato. Proprio l’estetica di questi video sono alla base del suo primo lungometraggio, un coming of age che ha come protagonista Liane, diciannovenne ossessionata dalla bellezza che spera di avere successo come influencer. Un giorno, grazie al seguito che sta riscontrando tramite le sue pagine social, Liane viene notata da alcuni selezionatori di “Miracle Island”, un reality show statunitense, che la invitano a fare un provino. Questa rappresenterà l’occasione perfetta per la ragazza di sfuggire dalla piccola realtà rurale in cui vive, di esplorare il proprio potenziale e di trovare finalmente un posto dove si possa sentire amata. Ad un primo istante, il film potrebbe ricordare Reality (2012), ma a differenza del film di Matteo Garrone, Riedinger preferisce concentrarsi quasi esclusivamente sul periodo in cui la ragazza deve aspettare l’esito del provino. Questa lunga attesa inizierà a diventare sempre più frustrante e Liane inizierà a prendere decisioni sconsiderate solo per cercare di richiamare l’attenzione sui social media, deteriorando in questo modo i vari rapporti con la famiglia e gli amici. Girato in pellicola e per lo più con l’uso della camera a mano, a differenza delle opere precedenti in cui Riedinger aveva prediletto di più il grandangolo e camere statiche, Diamant brut risulta un film solido ma che presenta diverse lacune, come la mancata caratterizzazione di certi personaggi secondari - come il personaggio della madre, intrappolato nel classico stereotipo del genitore non responsabile. Inoltre, il film mostra una delle peggiori tendenze da parte dei nuovi registi, ovvero l’uso spropositato della musica, in questo caso un brano per archi che viene ripetuto ogni 5/10 minuti, rovinando il ritmo del film e quella sensazione di realismo che caratterizza il cinéma vérité di autori come Andrea Arnold o i fratelli Dardenne. Ciò che rende il film così accattivante è l’interpretazione di Malou Khebizi, attrice non professionista, la cui intensità nel mostrare sia la vulnerabilità che l’intraprendenza di una giovane ragazza pronta a tutto per realizzare il proprio sogno, ci ha affascinato sin da subito.
Ma Vie Ma Gueule, di Sophie Fillières
Ad aprire la Quinzaine des cineastas quest’anno è stata l’opera postuma di Sophie Fillieres, una delle registe più sottovalutate della generazione Femis, corrente cinematografica francese sviluppatasi negli anni ‘90, della quale fanno parte registi del calibro di Arnauld Desplechin e Noemie Lvovsky. La cineasta è venuta a mancare tragicamente nell’agosto del 2023 a seguito di una malattia ed è riuscita a completare le riprese solo qualche settimana prima della morte. Ma Vie, Ma Gueule è stato il suo settimo lungometraggio, una dramedy dal carattere autobiografico che segue le vicende di Barberie (Agnès Jaoui), donna di cinquantacinque anni che si trova in una situazione complicata nella sua vita; si sente sola, non riceve quell’affetto che tanto vorrebbe dai due figli e infine non si sente soddisfatta della propria vita amorosa e lavorativa. Tutti questi aspetti, nel corso degli anni, hanno deteriorato la sanità mentale della donna senza che questa se ne accorgesse e, per combattere le proprie insicurezze, spesso cerca di comportarsi in modo eccentrico e bizzarro per dimostrare che tutto sta andando bene. Quello che affascina dell’opera è la sincerità con cui Fillieres affronta le difficoltà di Barberie, senza mai calcare la mano sui lati più tragici della storia. Bisogna anche menzionare la commovente interpretazione di Agnès Jaoui, il cui charm riesce fin da subito a conquistare lo spettatore, che non riuscirà a non provare empatia per la condizione di Barberie.