NC-207
21.05.2024
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 77ª edizione del Festival di Cannes. Per questo terzo appuntamento ci concentreremo su tre titoli della competizione che ci hanno affascinato e in parte deluso per diversi motivi, tra cui Limonov: The Ballad, la nuova e confusionaria odissea punk di Kirill Serebrennikov, Emilia Perez, il musical di Jacques Audiard, Caught by the Tides di Jia Zhangke e infine The Substance di Coralie Fargeat, finora una delle più grandi sorprese di questo festival. Continueremo anche a raccontarvi degli ultimi titoli presentati in Un Certain Regard e Quinzaine des cineastes, come Volvereis di Jonas Trueba, Eephus di Carson Lund e L’Histoire du Suleiman di Boris Lojkine. Cogliamo anche l’occasione per raccontarvi di due documentari che ci hanno impressionato molto, Apprendre di Claire Simon, che segue le attività creative di una classe elementare, e An Unfinished Film, l’ultima, struggente, opera di Lou Ye sulla pandemia di COVID 19.
Emilia Perez, di Jacques Audiard
Rita (Zoe Saldana), un’avvocato che lavora per una grossa compagnia, si trova costretta a combattere ogni giorno su due fronti: da una parte sta cercando di fare il possibile per fermare le attività criminali e portare giustizia, dall’altra deve sopportare un ambiente lavorativo tossico che la sfrutta e si prende i suoi meriti. Tutto cambia quando un giorno entra in contatto con Manitas (Karla Sofía Gascón), boss criminale del cartello che ha bisogno del suo aiuto per stravolgere la propria invita; il malavitoso vuole cambiare sesso e nel frattempo cercare di costruire un futuro sicuro e privo di pericoli per la moglie Jessie (Selena Gomez) e i due figli. Grazie all’aiuto di Rita, Manitas rinascerà come Emilia Pérez e, rendendosi conto di tutto il dolore che ha provocato verso le famiglie che hanno perso i propri cari, cercherà di rimediare organizzando una società che possa aiutarle. Emilia Perez è la nuova opera di Jacques Audiard che mette in mostra l’abilità camaleontica del regista. Se si prende in considerazione la sua filmografia si potrà notare come Audiard abbia sempre cercato di districarsi tra diversi generi e storie, esplicativi in questo senso sono il western The Sister Brothers (2018) o Deepham, il dramma sull’immigrazione che lo portò a vincere la Palma d’Oro nel 2015. Con Emilia Perez, il cineasta si approccia al musical con successo; la maggior parte delle sequenze musicali sono avvincenti e intrattengono sia per l’originalità dei brani che per le coreografie, aspetti messi in risalto anche attraverso i fluidi movimenti di camera. Ma la buona riuscita del film è dovuta per lo più alle interpretazioni centrali di Zoe Saldana e Sofía Gascón: la prima sorprende in ogni stacco musicale in cui è presente, tra cui le sequenze dei brani ¿De que hablamos hoy y ahora? e Habla, este gente habla, mentre la seconda impressiona per il modo in cui porta sullo schermo la vulnerabilità e la grazia dei “due” personaggi che si trova ad interpretare. Lo stesso non si può dire invece di Selena Gomez, il punto debole del film, la cui performance sopra le righe non convince riflettendosi sui poco riusciti stacchi musicali in cui è presente. Oltre ad essere un ottimo musical, dove ci si diverte ed emoziona, la natura da crowd pleaser del lungometraggio ha tutte le potenzialità per rendere Emilia Perez un grande successo commerciale. Nonostante fosse la prima volta che Audiard si approccia al genere musical, la sua nuova opera risulta essere l’ennesimo successo di uno degli autori più poliedrici in circolazione.
Caught by the Tides, di Jia Zhangke
A seguito della pandemia di COVID 19 il cineasta cinese Jia Zhangke ha dovuto rivoluzionare la struttura narrativa e stilistica della sua ultima opera a causa dell’impossibilità di girare. Caught by the Tides è un film che analizza i primi due decenni del ventunesimo secolo della società cinese e il modo in cui questa si è evoluta da un punto di vista socio-economico. Per fare questo Jia utilizza un approccio sperimentale, nel quale adopera del materiale d’archivio e diverse sequenze di alcune delle sue opere precedenti, tra cui Platform (2000), Unknown Pleasure (2002), Still Life (2006) e Mountains May Depart (2015). Questo approccio trasforma la pellicola in una sorta di saggio filmico, dove il regista coglie l’occasione per riprendere tematiche analizzate in precedenza e rendere omaggio alla moglie Zhao Tao, musa e protagonista della maggior parte dei suoi film, compiendo un’importante analisi sul mezzo cinematografico, aspetto messo in risalto nell’ultima parte dell’opera ambientata ai giorni nostri. Nonostante l’approccio così radicale stia già dividendo la critica - per comprendere appieno l’opera la conoscenza della filmografia di Jia risulta piuttosto fondamentale - noi di ODG abbiamo trovato l’esperienza davvero affascinante e sorprendente.
C’est pas moi, di Leos Carax
Qualche anno fa era stato proposto all’innovativo cineasta francese di preparare un’esposizione artistica al Centro Pompidou nel quale doveva rispondere alla domanda “chi è Leos Carax?” associando delle immagini e dei video. L’idea è naufragata in poco tempo ma, siccome il regista era rimasto affascinato dall’idea, decide di riprendere questo concetto e trasformarlo in un progetto cinematografico. C’est pas moi è un mediometraggio della durata di quaranta minuti, dove Leos Carax ripercorre la propria carriera, un trip allucinogeno che trasporta il pubblico all’interno della sua mente . Facendo ciò, il regista affronta anche altre tematiche personali, come la sua visione politica e il difficile passato famigliare. L’approccio sperimentale di Carax sull’immagine e sul medium cinematografico, che ricorda appieno le ultime opere di Jean-Luc Godard, incanta per tutta la durata, soprattutto per il tono provocatorio con cui tratta determinati argomenti, come le “pessime” figure paterne o argomenti tabù su personalità dell’industria cinematografica come Román Polanski. Troviamo difficile parlare nel dettaglio di C’est pas moi per via della sua natura estremamente sperimentale, possiamo solo consigliarne la visione e anticipare che Baby Annette farà il suo grande ritorno sullo schermo, omaggiando il cineasta e ricreando una delle scene più iconiche della sua carriera sulle note di Modern Love di David Bowie.
Apprendre, di Claire Simon
Nel corso degli ultimi anni sono stati presentati diversi documentari sulle istituzioni scolastiche e più nello specifico sulla dinamica tra alunno ed insegnante, come lo splendido Mr. Bachmann and His Class (2021) di Marian Speth o il più recente Favoriten (2024) di Ruth Beckermann. Al Festival è stata presentata la new entry in questo genere, Apprendre di Claire Simon, documentario che, con un sguardo piuttosto intimo, mostra la routine quotidiana di alcuni insegnanti e la loro dedizione verso i propri alunni. Nel 1993, Simon aveva già approcciato il mondo dell’istruzione, raccontando il microcosmo e le dinamiche tra i bambini di un asilo. Ma, a differenza dell’opera appena citata, Simon sposta la propria attenzione su quelle attività creative che gli insegnanti fanno svolgere ai bambini, che vanno oltre le classiche materie scolastiche, come l’aritmetica o lo studio della lingua francese in questo caso. Facendo ciò, la regista mette in risalto l’importanza di inserire determinate attività all’interno del programma scolastico, esemplificative sono in questo senso le varie scene musicali, nelle quali gli insegnanti e gli alunni cantano alcuni brani rap e pop, come Dommage di Bigflo & Oli e Diamonds di Rihanna. Oltre a queste, vanno citate anche le sequenze nelle quali i piccoli protagonisti esprimono la propria opinione su questioni legate alla religione, dove risulta estremamente affascinante vedere come già in tenera età i bambini abbiano una forte concezione di determinati, e difficoltosi, argomenti. Da un punto di vista stilistico, l’opera ricorda i lavori di Nicholas Phillibert, come ad esempio Être et avoir (2002), dove la camera è sempre vicina ai personaggi, ma non c’è mai quella sensazione intrusiva. Apprendre è un documentario perspicace, l’ennesima grande opera di una delle registe più sottovalutate del panorama cinematografico francese.
The Substance, di Coralie Fargeat
“Avete mai desiderato una versione migliore di voi stessi? Magari più giovane ed attraente? C’è soltanto un soluzione. Seriamente. Bisogna provare the substance. È in grado di generare un’altra versione più giovane di te. C’è solo una regola: è necessario condividere il tempo, una settimana ciascuna, e bisogna rispettare questo equilibrio. Facile, no? Cosa potrebbe andare mai storto?”. Quella appena descritta, è la sinossi ufficiale di The Substance, la sconvolgente opera seconda di Coralie Fargeat. Al centro della storia c’è Elisabeth (una straordinaria Demi Moore), un’attrice premio Oscar e conduttrice di un programma di fitness che giorno viene licenziata in tronco: l’industria non è più disposta a dare un lavoro ad una donna di mezza età e sta cercando una ragazza più giovane e attraente. Dopo essere stata ricoverata a causa di un incidente stradale, Elisabeth incontrerà una misteriosa figura che la introdurrà a una sostanza in grado di restituirle la giovinezza perduta. Sull’orlo della disperazione la donna decide di provare l’esperimento e “genera” Sue (Margaret Qualley), la sua versione più giovane che in poco tempo riprenderà il suo posto di lavoro nel programma televisivo. Ma queste due versioni inizieranno a scontrarsi, cercando di conquistare il dominio sull’altra. Fargeat mostra un impressionante visione stilistica sin dalla prima inquadratura, dove immerge lo spettatore in un mondo grottesco, dimostrando di possedere uno straordinario controllo della propria mise en scène. La satira sull’ossessione che la società ha sulla bellezza femminile e la propria immagine può sembrare piuttosto scontata sulla carta, ma il modo in cui la regista reinterpreta queste tematiche approcciandosi al body horror, con citazioni al cinema di Cronenberg e Lynch, ci ha lasciato senza parole; ogni aspetto tecnico è immacolato, dal sound design inquietante all’eccellente make-up, ma quello che stupisce di più è il modo in cui la Fargeat gestisce la lunga durata e la coerenza nel tono grottesco. The Substance risulta essere una visione accattivante per le prime due ore, ma compie lo step successivo nell’ultima parte del film, dove l’eccessivo uso della violenza affascina e turba allo stesso momento. Non c’erano alte aspettative sul film prima del festival, ma dobbiamo ammettere che The Substance ci ha conquistato e non sorprenderebbe il fatto di vedere il film nel palmarès.
An Unfinished Film, di Lou Ye
Nel gennaio del 2020, una crew cinematografica scopre del materiale d’archivio di un film incompleto risalente a dieci anni prima e, dopo aver valutato attentamente, decide di cercare di terminare l’opera girando le scene mancanti. Dopo aver riunito il team, tutto sembra pronto per ricominciare... ma una nuova difficoltà incomberà sulle persone legate al progetto: quella della pandemia di COVID-19. An Unfinished Film è il nuovo film di Lou Ye, un ibrido tra fiction e documentario che parte da una premessa speranzosa, ovvero quella di completare un progetto cinematografico caro a tante persone, per poi evolversi in un struggente documentario sul trauma collettivo di una nazione. Infatti, Lou non si focalizza soltanto sul duro periodo che la crew ha dovuto passare, caratterizzato da un lockdown forzato e dalla violenza delle autorità, ma coglie anche l’occasione per raccontare la dolorosa esperienza della popolazione locale tramite l’inserimento di videoclip tratti dai social media. L’abilità con cui il regista contrappone le diverse realtà che la gente ha vissuto è impressionante e rende An Unfinished Film un’opera estremamente rappresentativa di una difficile parentesi storica che la nostra società ha dovuto affrontare.
Limonov: The Ballad, di Kirill Serebrennikov
Kirill Serebrennikov è uno dei nomi di punta del cinema russo ormai da più di un decennio. Dopo gli inizi molto interessanti con Izobražaja žertvu (2006), rivisitazione molto inusuale e stilisticamente ancora acerba dell’Amleto shakespeariano, il regista è giunto alla ribalta grazie al suo quinto lungometraggio, Izmena (2012), che nel 2012 venne presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Da lì in poi, per Serebrennikov si aprono le porte delle maggiori manifestazioni cinematografiche europee. Il regista, infatti, è diventato un habitué della Croisette, partecipando prima al Festival di Cannes 2016, nella sezione Un Certain Regard, con il film (M)ucenik - lungometraggio con cui si aggiudicò il premio François Chalais - e tornando con altri tre film, ovvero Summer (2018), Petrovy v grippe (2021) e Žena Čajkovskogo (2018) senza mai riuscire ad aggiudicarsi la Palma d’Oro. Serebrennikov torna anche quest’anno con Limonov: The Ballad (2024), ispirato dall’omonimo romanzo dello scrittore/regista Emmanuel Carrère. La storia, autobiografica, tratta della figura di Ėduard Limonov, un rivoluzionario russo che dagli anni del Dopoguerra fino al periodo post-sovietico ha vissuto un’intera vita da agitatore e sobillatore delle masse, diventando poi inaspettatamente uno dei riferimenti dell’opposizione al contemporaneo Vladimir Putin. Un film, dunque, inevitabilmente legato all’attualità. Il regista, però, non riesce del tutto a sfruttare l’aura mitologica del suo soggetto, rappresentandolo come un uomo paranoico, complottista, libertino, ma anche come una personalità fortemente reazionaria. Il Limonov di Ben Whishaw è un Travis Bickle europeo, un dissidente attraverso il quale Serebrennikov filtra l’immagine di due imperi, quello russo e americano, connotando quest’ultimo come un luogo solitario, confuso e confondente, in grado di alienare chiunque provenga dall’esterno e di porsi come un ambiente tutt’altro che ospitale. Whishaw dona una rappresentazione a tratti grottesca del suo personaggio, non riuscendo a caratterizzarlo del tutto e risultando anzi caricaturale, preferendo nascondersi dietro a delle modalità già viste e riviste - non sono poche le somiglianze con il Joker (2019) di Todd Phillips. Gli intenti sono dunque confusi, così come è confusa la rappresentazione dei vari luoghi della vicenda. Serebrennikov sfoga tutta la sua inventiva tecnica, passando dal bianco e nero al colore con una rapidità estrema, puntando su virtuosismi (tra cui zoom out, inserti da schermo nello schermo, jump-cut di godardiana memoria e uso accentuato di macchine a mano, split-screen in momenti topici e piani sequenza) che divertono in larga parte, ma che alla lunga diventano velleitari e fuori contesto a causa del cambio di decenni nel racconto. Così, non aderendo alla rappresentazione e restando fortemente ancorati ad un linguaggio da Nouvelle Vague, tutti questi elementi funzionano nella prima parte del racconto, anche per via del suo accordo con il periodo narrato all’interno del film, ma nella seconda diventano poco più di un vezzo, un vizio di forma che non ha uno scopo ben preciso, se non quello di esaltare le indubbie capacità tecniche del regista russo. Limonov, dunque, è un film che funziona solamente a fasi alterne, soprattutto per via di una preponderanza di eccessi grafici a cui, con ogni probabilità, avrebbe giovato una maggiore sobrietà.
Volvereis, di Jonás Trueba
Regista attivo ormai da quindici anni, Jonás Trueba è un figlio d’arte (il padre è il famoso regista madrileno Fernando Trueba, mentre la madre è la famosa produttrice cinematografica spagnola Cristina Huete) che ha debuttato sulla scia del nuovo cinema spagnolo. Rispetto ad Almodòvar, però, Trueba preferisce agire in modo più minimale, senza permettere ai soggetti e ai protagonisti dei suoi film di perdersi in comportamenti estroversi o di spingere il pedale sull’acceleratore del grottesco. Il cinema, per Trueba, è uno strumento di connessione con la realtà, l’unico mezzo per garantire una linea di demarcazione nei confronti della finzione filmica, sempre più difficile da intercettare. Anche nel suo ultimo film, The Other Way Around (2024), in lingua originale Volveréis, questa peculiarità di mischiare fiction con elementi quasi documentaristici diventa estremamente preponderante. In The Other Way Around, tutto si svolge sulla base di una separazione affettiva tra i due protagonisti principali della vicenda, ovvero Ale (Itsaso Arana) e Alex (Vito Sanz), che dopo aver vissuto quindici anni della loro vita insieme decidono di interrompere il loro matrimonio. Per l’occasione, dunque, hanno organizzato una festa di separazione per dirsi addio, a cui parteciperanno i loro principali amici, che restano però molto scettici su una loro eventuale separazione definitiva. La coppia, in un primo momento, sembra sicurissima della decisione, almeno fin quando non riaffiorano i ricordi e i due protagonisti si trovano faccia a faccia con gli esiti pratici della loro separazione, trovandosi non più così sicuri delle scelte intraprese. Dunque The Other Way Around è un vero e proprio dilemma matrimoniale, strutturato sulla base di un tipo di cinema che innegabilmente prende a modello l’opera di Bergman (citato anche direttamente dagli stessi protagonisti in un dialogo) e soprattutto quello di Woody Allen per l’umorismo fine e intelligente utilizzato al suo interno. Il risultato è una commedia molto divertente, leggera e spensierata, sia per la letterarietà dei suoi dialoghi sia per le situazioni assurde. The Other Way Around è un gioco scherzoso in cui lo stesso regista punta sulla ripetizione delle sequenze, sulla teoria kierkegaardiana del ricordo, la quale serve a provare nuovamente qualcosa senza però ripercorrere strade già battute, ma tentando di ravvivare una relazione mediante soluzioni nuove. Proprio per questo motivo, la spazialità e la prossemica dei due attori principali diventa fondamentale. Trueba, infatti, per la maggior parte del tempo non li riprende mai insieme nella stessa inquadratura, e quando lo fa utilizza strumenti di montaggio (come gli split-screen, un vero e proprio must del cinema latino degli ultimi anni) oppure degli oggetti diegetici (finestre, porte, anche un semplice vaso) per dividerli e dare contezza della relazione distanziale che scorre tra i due, supportato anche da un montaggio molto fine e intelligente, che articola inquadrature in modo da tenere a distanza i due protagonisti. Ma a riportare il sereno tra la coppia, paradossalmente, è l’uso del passato, del vintage, ovvero di quel Super 8 che in teoria rappresenterebbe un modello superato di dispositivo visuale, ma che invece riesce a riappacificare due mondi contemporaneamente distanti e paralleli. Trueba lo usa per ricongiungere le anime, e proprio nelle sequenze in Super 8 assistiamo, per la prima volta, a delle inquadrature in campo/controcampo in cui i due protagonisti condividono la dimensione diegetica, addirittura scontrandosi e portando a galla la passione tramite il contatto fisico, che nel resto del film era rimasto invece una pura chimera. The Other Way Around è dunque la metafora per far comprendere come un dispositivo come quello cinematografico possa unire le menti più diverse e appianare qualsiasi tipologia di conflitto…Trueba ci riesce con semplicità, arguzia e soprattutto divertendo lo spettatore.
Misericorde, di Alain Guiraudie
Gli effetti che un ambiente isolato e bucolico possono esercitare su un individuo è sempre stata una delle tematiche chiave del cinema di Alain Guiraudie, basti pensare a L’inconnue du lac (2013) o Rester Vertical (2016), due dei suoi film più acclamati. Partendo proprio da questo incipit, Misericorde, la nuova opera del cineasta francese presentata in Cannes Premiere, esplora la dinamica tra Jérémie (uno spettacolare Félix Kysyl), trentenne che torna nel suo paesino d’origine per il funerale di un vecchio “amico”, e il resto della popolazione locale, tra cui spiccano Vincent (Jean-Baptiste Durand), amico di vecchia data, sua madre Martine (Catherine Frot) e il parroco locale (Jacques Develay). Quando Jérémie commetterà un atto irreparabile e verrà indagato dalla polizia, le dinamiche tra il giovane e la piccola comunità inizieranno a mutare, creando una rete complessa di sospetti e bugie. Sfruttando l'ambiente austero delle location, contornate da una fitta foresta, Guiraudie infonde al suo film un’atmosfera ambigua e misteriosa, che disorienta non solo i personaggi del film, ma anche lo spettatore stesso, poiché sarà quasi impossibile prevedere la prossima mossa di Jérémie. Questa ambiguità di fondo è messa in risalto soprattutto dal contributo alla fotografia di Claire Mathon, le cui composizioni mostrano la complessa relazione tra individuo e l’ambiente circostante. Tra Dostoyevsky e Patricia Smith, Teorema di Pasolini e il cinema di Bruno Dumont, Misericorde è un film impressionante sotto ogni punto di vista, che analizza il desiderio e l’amore puro e incondizionato verso una persona, in questo caso l’outsider Jérémie, o un’entità non ben definita, con il solito sotto-testo erotico che caratterizza le opere di Guiraudie. Arguto ed estremamente ironico, Misericorde è uno dei film più riusciti del festival, l’ennesimo trionfo di Guiraudie, la cui mancata selezione nella Competizione ci ha lasciato perplessi.
L'Histoire de Souleymane, di Boris Lojkine
Dieci anni dopo aver presentato Hope (2014), il suo primo lungometraggio, al Festival di Cannes 2014, vincendo anche il premio SACD, il regista francese Boris Lojkine torna nuovamente nella sezione della Semaine de la Critique con il suo terzo lavoro dal titolo L'histoire de Souleymane (2024). Un film che si fa forte di un’interpretazione molto sentita da parte del protagonista principale, un bravissimo Mamadou Barry, e che discende direttamente da quel cinema sociale che registi come i fratelli Dardenne, qui nome tutelare esplicito, e il compianto Laurent Cantet hanno saputo portare in modo molto intelligente e sempre puntuale su schermo. L'histoire de Souleymane è dunque un film che descrive, in modo molto routinario, la vita degli immigrati nel tessuto sociale francese, costretti ad una vita che non vorrebbero e ad essere stigmatizzati negativamente. La storia del protagonista diventa un pretesto per immergere lo spettatore nel tragico fenomeno dell’immigrazione e nelle sue storture, ma soprattutto per evidenziare le evidenti falle di un apparato burocratico ancora lontano dall’essere pienamente accettabile, in un mondo dove lo sfruttamento la fa da padrone e la condizione di diffidenza nei confronti dello straniero (come mostra lo stesso Lojkine, soprattutto nella scena del pullman) diventa preponderante. Nel complesso, però, L'histoire de Souleymane non riesce mai a sfondare del tutto, prendendo un impianto che strizza l’occhio anche al road movie e mettendolo in primo piano tramite movimenti di macchina a mano che, alla lunga, diventano velleitari e talvolta anche fastidiosi, restando sì aderente a quanto raccontato, ma palesando anche alcune falle ritmiche che semplificano le soluzioni stilistiche utilizzate, costringendo il protagonista in piani americani nei momenti di maggior dialogo e accelerando improvvisamente, in modo abbastanza scontato, nelle scene in esterni. Un film, dunque, a cui manca sicuramente il coraggio di osare, e che si fa forte perlopiù di un messaggio urgente ma già visto e rivisto.
My Sunshine, di Hiroshi Okuyama
Come preannuncia lo stesso titolo, My Sunshine di Hiroshi Okuyama è un film che riesce a scaldare il cuore di chiunque lo guardi. Il giovane regista giapponese, classe 1996 e con un lungometraggio (Jesus, 2018) e una serie in collaborazione con Kore-eda Hirokazu (Makanai, 2023) alle spalle, si presenta alla 77a edizione di Cannes, nella sezione Un Certain Regard, con il suo secondo film. In un paesino su un’isola a nord del Giappone, facciamo la conoscenza di Takuma, un bambino all’ultimo anno delle elementari timido e introverso a causa della sua balbuzia che un giorno, a causa dell’arrivo dell’inverno, smette la divisa da baseball per indossare quella di hockey. Nella palazzina del ghiaccio, conosciamo gli altri due personaggi: Sakura, una giovanissima pattinatrice che incanta il giovane Takuma, e il suo allenatore Asakawa, ex pattinatore professionista. Un giorno quest’ultimo troverà il ragazzo allenarsi da solo nel pattinaggio e deciderà di dargli una mano. Okuyama non solo crea un film dove lo sport riesce ad avvicinare le persone e a saldare dei legami, ma va anche contro gli stereotipi che spesso questo genere si porta dietro, soprattutto in Giappone (basti pensare a tutti gli anime sportivi). Infatti, il rapporto tra maestro e discepolo, non si basa su un insegnamento tramandato attraverso le punizioni fisiche e le urla, ma su un rapporto di rispetto reciproco e di gioco. Asakuwa e Takuma, attraverso il pattinaggio, creano un legame di amicizia e complicità. Il regista nipponico con una regia fresca, mai opprimente e che segue i suoi personaggi con una certa distanza, regala al pubblico dei momenti di pura gioia e dolcezza. La fotografia, fatta di colori chiari a tratti pastello, richiama molto la fotografia dei film anni ‘90, tanto che in una scena Okuyama ricrea proprio la sensazione di assistere ad un filmino amatoriale. Elemento curioso della regia di Okuyama, è come riesca a rendere espliciti i suoi registi di riferimento, come il già citato Kore-eda e anche (forse) Wes Anderson, senza mai copiarli e riuscendo a mettere sempre del suo. My Sunshine si può considerare assolutamente un piccolo gioiellino di quest’anno e sicuramente ci farà tenere d’occhio i futuri lavori di questo giovane regista.
Eephus, di Carson Lund
Omnes Films é una casa di produzione americana indipendente che nel corso degli ultimi anni ha dato spazio a una nuova generazione di autori e registi, tra cui Tyler Taormina, Jonathan Davies e Carson Lund. Quest’ultimo, dopo aver lavorato per anni come direttore della fotografia per i due cineasti appena citati, decide di avventurarsi nel mondo della regia e, dopo aver diretto il cortometraggio Starr Farm (2016), presenta Eephus nella sezione Quinzaine de réalisateurs, il suo primo lungometraggio. Al centro della storia c’è una partita di baseball amatoriale giocata tra due squadre di uomini di mezza età del New England. A differenza di altri film sul mondo dello sport che si concentrano sul lato fisico e competitivo, come ad esempio il recente Challengers (2024) di Luca Guadagnino, il regista sovverte questa concezione osservando un gruppo di persone che stanno solo cercando di godersi un momento insieme e accentuando il lato goffo e impacciato dei giocatori. Facendo ciò, Lund infonde all’opera un’atmosfera melanconica e nostalgica, anche perché questa partita rappresenta l’ultima che verrà giocata nello stadio locale e probabilmente anche dai protagonisti. Il baseball, anche se centrale all’interno dell’opera, viene posto in secondo piano, o come base, per raccontare uno spaccato della società americana e quella sensazione di “cameratismo” che accomuna le persone. Con un pacato senso dell’umorismo, Eephus é una visione più che piacevole ed è forse una delle poche opere che negli ultimi anni ha saputo rappresentare efficacemente il mondo amatoriale dello sport.
Mongrel, di Chiang Wei Liang e You Qiao Yin
Tre nazioni diverse unite sotto lo stesso tetto. Taiwan, Singapore e Francia, per la prima volta, collaborano in un film e, soprattutto, presentano il loro operato al Festival di Cannes 2024. Mongrel (2024), il nuovo lungometraggio di Chiang Wei Liang e You Qiao Yin è stato ufficialmente presentato al pubblico nella sezione Quinzaine des Cinéastes 2024. Si tratta di un esordio assoluto per i due registi, che finora avevano presentato solamente cortometraggi, tra cui il significativo Anchorage Prohibited (2016), presentato alla Berlinale del 2016. In parte, Chiang Wei Liang, con Mongrel, prosegue proprio la poetica già vista nel suo primo cortometraggio. In Anchorage Prohibited, infatti, il regista si poneva, in modo molto coraggioso, l’obiettivo di sensibilizzare una tematica alquanto incresciosa e di difficile risoluzione come quella dell’immigrazione. Mongrel, primo lungometraggio dei registi, è infatti la storia di un migrante dal nome Oom - un ragazzo che lavora come badante su richiesta all’interno di famiglie rurali del Taiwan - che si ritrova però, clandestinamente, sprovvisto di documenti. Proprio per questo è costretto a lottare contro la burocrazia, a difesa dei più deboli, per garantire loro il suo servizio e non lasciarli completamente soli. Il film è molto particolare, recupera davvero tantissime nozioni provenienti dal cinema di Taiwan degli ultimi trent’anni. In particolare, Chiang sceglie un approccio alla vicenda, e nel racconto, che ricorda da vicino quello dei film di Tsai Ming-Liang, in cui i campi fissi si susseguono e diventano preponderanti per raccontare non solo di un problema molto importante quale quello della diaspora che sta coinvolgendo tutto il sud-est asiatico (soprattutto ai giorni nostri), ma anche di una storia intima e molto interessante, in cui la scena è, in particolar modo, “tirannizzata” dall’ottimo protagonista: Wanlop Rungkamjad. Quest’ultimo dà vita ad una figura che ricorda da vicino quelle dei primi film di Bruno Dumont, in particolare de L’Humanitè (1999), che tramite atteggiamenti silenziosi e una quotidianità routinaria osservata nei minimi particolari dai piani laterali del regista, dà volto ad un protagonista che, per molti versi, appare quasi cristologico, meticoloso nel dare la propria assistenza agli altri e impossibilitato a scappare dalla sua doppia vita. In molti punti del racconto, il regista taiwanese non manca di sottolineare questa particolare predisposizione del protagonista ad immolarsi tramite inquadrature in campo lungo che lo pongono al centro di una prospettiva “sacralizzata”. Mongrel è dunque sì interessante per via di come affronta una questione annosa e ancora irrisolta all’interno della realtà taiwanese, ma allo stesso tempo appare discontinuo, in cui il ritmo della regia non raggiunge un equilibrio vero e proprio e, anzi, in molte parti del racconto combina il registro aulico con quello popolare in modo poco efficace, restando molto compassato e regalando anche un mood pietista che sicuramente non nobilita per nulla il film.
NC-207
21.05.2024
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 77ª edizione del Festival di Cannes. Per questo terzo appuntamento ci concentreremo su tre titoli della competizione che ci hanno affascinato e in parte deluso per diversi motivi, tra cui Limonov: The Ballad, la nuova e confusionaria odissea punk di Kirill Serebrennikov, Emilia Perez, il musical di Jacques Audiard, Caught by the Tides di Jia Zhangke e infine The Substance di Coralie Fargeat, finora una delle più grandi sorprese di questo festival. Continueremo anche a raccontarvi degli ultimi titoli presentati in Un Certain Regard e Quinzaine des cineastes, come Volvereis di Jonas Trueba, Eephus di Carson Lund e L’Histoire du Suleiman di Boris Lojkine. Cogliamo anche l’occasione per raccontarvi di due documentari che ci hanno impressionato molto, Apprendre di Claire Simon, che segue le attività creative di una classe elementare, e An Unfinished Film, l’ultima, struggente, opera di Lou Ye sulla pandemia di COVID 19.
Emilia Perez, di Jacques Audiard
Rita (Zoe Saldana), un’avvocato che lavora per una grossa compagnia, si trova costretta a combattere ogni giorno su due fronti: da una parte sta cercando di fare il possibile per fermare le attività criminali e portare giustizia, dall’altra deve sopportare un ambiente lavorativo tossico che la sfrutta e si prende i suoi meriti. Tutto cambia quando un giorno entra in contatto con Manitas (Karla Sofía Gascón), boss criminale del cartello che ha bisogno del suo aiuto per stravolgere la propria invita; il malavitoso vuole cambiare sesso e nel frattempo cercare di costruire un futuro sicuro e privo di pericoli per la moglie Jessie (Selena Gomez) e i due figli. Grazie all’aiuto di Rita, Manitas rinascerà come Emilia Pérez e, rendendosi conto di tutto il dolore che ha provocato verso le famiglie che hanno perso i propri cari, cercherà di rimediare organizzando una società che possa aiutarle. Emilia Perez è la nuova opera di Jacques Audiard che mette in mostra l’abilità camaleontica del regista. Se si prende in considerazione la sua filmografia si potrà notare come Audiard abbia sempre cercato di districarsi tra diversi generi e storie, esplicativi in questo senso sono il western The Sister Brothers (2018) o Deepham, il dramma sull’immigrazione che lo portò a vincere la Palma d’Oro nel 2015. Con Emilia Perez, il cineasta si approccia al musical con successo; la maggior parte delle sequenze musicali sono avvincenti e intrattengono sia per l’originalità dei brani che per le coreografie, aspetti messi in risalto anche attraverso i fluidi movimenti di camera. Ma la buona riuscita del film è dovuta per lo più alle interpretazioni centrali di Zoe Saldana e Sofía Gascón: la prima sorprende in ogni stacco musicale in cui è presente, tra cui le sequenze dei brani ¿De que hablamos hoy y ahora? e Habla, este gente habla, mentre la seconda impressiona per il modo in cui porta sullo schermo la vulnerabilità e la grazia dei “due” personaggi che si trova ad interpretare. Lo stesso non si può dire invece di Selena Gomez, il punto debole del film, la cui performance sopra le righe non convince riflettendosi sui poco riusciti stacchi musicali in cui è presente. Oltre ad essere un ottimo musical, dove ci si diverte ed emoziona, la natura da crowd pleaser del lungometraggio ha tutte le potenzialità per rendere Emilia Perez un grande successo commerciale. Nonostante fosse la prima volta che Audiard si approccia al genere musical, la sua nuova opera risulta essere l’ennesimo successo di uno degli autori più poliedrici in circolazione.
Caught by the Tides, di Jia Zhangke
A seguito della pandemia di COVID 19 il cineasta cinese Jia Zhangke ha dovuto rivoluzionare la struttura narrativa e stilistica della sua ultima opera a causa dell’impossibilità di girare. Caught by the Tides è un film che analizza i primi due decenni del ventunesimo secolo della società cinese e il modo in cui questa si è evoluta da un punto di vista socio-economico. Per fare questo Jia utilizza un approccio sperimentale, nel quale adopera del materiale d’archivio e diverse sequenze di alcune delle sue opere precedenti, tra cui Platform (2000), Unknown Pleasure (2002), Still Life (2006) e Mountains May Depart (2015). Questo approccio trasforma la pellicola in una sorta di saggio filmico, dove il regista coglie l’occasione per riprendere tematiche analizzate in precedenza e rendere omaggio alla moglie Zhao Tao, musa e protagonista della maggior parte dei suoi film, compiendo un’importante analisi sul mezzo cinematografico, aspetto messo in risalto nell’ultima parte dell’opera ambientata ai giorni nostri. Nonostante l’approccio così radicale stia già dividendo la critica - per comprendere appieno l’opera la conoscenza della filmografia di Jia risulta piuttosto fondamentale - noi di ODG abbiamo trovato l’esperienza davvero affascinante e sorprendente.
C’est pas moi, di Leos Carax
Qualche anno fa era stato proposto all’innovativo cineasta francese di preparare un’esposizione artistica al Centro Pompidou nel quale doveva rispondere alla domanda “chi è Leos Carax?” associando delle immagini e dei video. L’idea è naufragata in poco tempo ma, siccome il regista era rimasto affascinato dall’idea, decide di riprendere questo concetto e trasformarlo in un progetto cinematografico. C’est pas moi è un mediometraggio della durata di quaranta minuti, dove Leos Carax ripercorre la propria carriera, un trip allucinogeno che trasporta il pubblico all’interno della sua mente . Facendo ciò, il regista affronta anche altre tematiche personali, come la sua visione politica e il difficile passato famigliare. L’approccio sperimentale di Carax sull’immagine e sul medium cinematografico, che ricorda appieno le ultime opere di Jean-Luc Godard, incanta per tutta la durata, soprattutto per il tono provocatorio con cui tratta determinati argomenti, come le “pessime” figure paterne o argomenti tabù su personalità dell’industria cinematografica come Román Polanski. Troviamo difficile parlare nel dettaglio di C’est pas moi per via della sua natura estremamente sperimentale, possiamo solo consigliarne la visione e anticipare che Baby Annette farà il suo grande ritorno sullo schermo, omaggiando il cineasta e ricreando una delle scene più iconiche della sua carriera sulle note di Modern Love di David Bowie.
Apprendre, di Claire Simon
Nel corso degli ultimi anni sono stati presentati diversi documentari sulle istituzioni scolastiche e più nello specifico sulla dinamica tra alunno ed insegnante, come lo splendido Mr. Bachmann and His Class (2021) di Marian Speth o il più recente Favoriten (2024) di Ruth Beckermann. Al Festival è stata presentata la new entry in questo genere, Apprendre di Claire Simon, documentario che, con un sguardo piuttosto intimo, mostra la routine quotidiana di alcuni insegnanti e la loro dedizione verso i propri alunni. Nel 1993, Simon aveva già approcciato il mondo dell’istruzione, raccontando il microcosmo e le dinamiche tra i bambini di un asilo. Ma, a differenza dell’opera appena citata, Simon sposta la propria attenzione su quelle attività creative che gli insegnanti fanno svolgere ai bambini, che vanno oltre le classiche materie scolastiche, come l’aritmetica o lo studio della lingua francese in questo caso. Facendo ciò, la regista mette in risalto l’importanza di inserire determinate attività all’interno del programma scolastico, esemplificative sono in questo senso le varie scene musicali, nelle quali gli insegnanti e gli alunni cantano alcuni brani rap e pop, come Dommage di Bigflo & Oli e Diamonds di Rihanna. Oltre a queste, vanno citate anche le sequenze nelle quali i piccoli protagonisti esprimono la propria opinione su questioni legate alla religione, dove risulta estremamente affascinante vedere come già in tenera età i bambini abbiano una forte concezione di determinati, e difficoltosi, argomenti. Da un punto di vista stilistico, l’opera ricorda i lavori di Nicholas Phillibert, come ad esempio Être et avoir (2002), dove la camera è sempre vicina ai personaggi, ma non c’è mai quella sensazione intrusiva. Apprendre è un documentario perspicace, l’ennesima grande opera di una delle registe più sottovalutate del panorama cinematografico francese.
The Substance, di Coralie Fargeat
“Avete mai desiderato una versione migliore di voi stessi? Magari più giovane ed attraente? C’è soltanto un soluzione. Seriamente. Bisogna provare the substance. È in grado di generare un’altra versione più giovane di te. C’è solo una regola: è necessario condividere il tempo, una settimana ciascuna, e bisogna rispettare questo equilibrio. Facile, no? Cosa potrebbe andare mai storto?”. Quella appena descritta, è la sinossi ufficiale di The Substance, la sconvolgente opera seconda di Coralie Fargeat. Al centro della storia c’è Elisabeth (una straordinaria Demi Moore), un’attrice premio Oscar e conduttrice di un programma di fitness che giorno viene licenziata in tronco: l’industria non è più disposta a dare un lavoro ad una donna di mezza età e sta cercando una ragazza più giovane e attraente. Dopo essere stata ricoverata a causa di un incidente stradale, Elisabeth incontrerà una misteriosa figura che la introdurrà a una sostanza in grado di restituirle la giovinezza perduta. Sull’orlo della disperazione la donna decide di provare l’esperimento e “genera” Sue (Margaret Qualley), la sua versione più giovane che in poco tempo riprenderà il suo posto di lavoro nel programma televisivo. Ma queste due versioni inizieranno a scontrarsi, cercando di conquistare il dominio sull’altra. Fargeat mostra un impressionante visione stilistica sin dalla prima inquadratura, dove immerge lo spettatore in un mondo grottesco, dimostrando di possedere uno straordinario controllo della propria mise en scène. La satira sull’ossessione che la società ha sulla bellezza femminile e la propria immagine può sembrare piuttosto scontata sulla carta, ma il modo in cui la regista reinterpreta queste tematiche approcciandosi al body horror, con citazioni al cinema di Cronenberg e Lynch, ci ha lasciato senza parole; ogni aspetto tecnico è immacolato, dal sound design inquietante all’eccellente make-up, ma quello che stupisce di più è il modo in cui la Fargeat gestisce la lunga durata e la coerenza nel tono grottesco. The Substance risulta essere una visione accattivante per le prime due ore, ma compie lo step successivo nell’ultima parte del film, dove l’eccessivo uso della violenza affascina e turba allo stesso momento. Non c’erano alte aspettative sul film prima del festival, ma dobbiamo ammettere che The Substance ci ha conquistato e non sorprenderebbe il fatto di vedere il film nel palmarès.
An Unfinished Film, di Lou Ye
Nel gennaio del 2020, una crew cinematografica scopre del materiale d’archivio di un film incompleto risalente a dieci anni prima e, dopo aver valutato attentamente, decide di cercare di terminare l’opera girando le scene mancanti. Dopo aver riunito il team, tutto sembra pronto per ricominciare... ma una nuova difficoltà incomberà sulle persone legate al progetto: quella della pandemia di COVID-19. An Unfinished Film è il nuovo film di Lou Ye, un ibrido tra fiction e documentario che parte da una premessa speranzosa, ovvero quella di completare un progetto cinematografico caro a tante persone, per poi evolversi in un struggente documentario sul trauma collettivo di una nazione. Infatti, Lou non si focalizza soltanto sul duro periodo che la crew ha dovuto passare, caratterizzato da un lockdown forzato e dalla violenza delle autorità, ma coglie anche l’occasione per raccontare la dolorosa esperienza della popolazione locale tramite l’inserimento di videoclip tratti dai social media. L’abilità con cui il regista contrappone le diverse realtà che la gente ha vissuto è impressionante e rende An Unfinished Film un’opera estremamente rappresentativa di una difficile parentesi storica che la nostra società ha dovuto affrontare.
Limonov: The Ballad, di Kirill Serebrennikov
Kirill Serebrennikov è uno dei nomi di punta del cinema russo ormai da più di un decennio. Dopo gli inizi molto interessanti con Izobražaja žertvu (2006), rivisitazione molto inusuale e stilisticamente ancora acerba dell’Amleto shakespeariano, il regista è giunto alla ribalta grazie al suo quinto lungometraggio, Izmena (2012), che nel 2012 venne presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Da lì in poi, per Serebrennikov si aprono le porte delle maggiori manifestazioni cinematografiche europee. Il regista, infatti, è diventato un habitué della Croisette, partecipando prima al Festival di Cannes 2016, nella sezione Un Certain Regard, con il film (M)ucenik - lungometraggio con cui si aggiudicò il premio François Chalais - e tornando con altri tre film, ovvero Summer (2018), Petrovy v grippe (2021) e Žena Čajkovskogo (2018) senza mai riuscire ad aggiudicarsi la Palma d’Oro. Serebrennikov torna anche quest’anno con Limonov: The Ballad (2024), ispirato dall’omonimo romanzo dello scrittore/regista Emmanuel Carrère. La storia, autobiografica, tratta della figura di Ėduard Limonov, un rivoluzionario russo che dagli anni del Dopoguerra fino al periodo post-sovietico ha vissuto un’intera vita da agitatore e sobillatore delle masse, diventando poi inaspettatamente uno dei riferimenti dell’opposizione al contemporaneo Vladimir Putin. Un film, dunque, inevitabilmente legato all’attualità. Il regista, però, non riesce del tutto a sfruttare l’aura mitologica del suo soggetto, rappresentandolo come un uomo paranoico, complottista, libertino, ma anche come una personalità fortemente reazionaria. Il Limonov di Ben Whishaw è un Travis Bickle europeo, un dissidente attraverso il quale Serebrennikov filtra l’immagine di due imperi, quello russo e americano, connotando quest’ultimo come un luogo solitario, confuso e confondente, in grado di alienare chiunque provenga dall’esterno e di porsi come un ambiente tutt’altro che ospitale. Whishaw dona una rappresentazione a tratti grottesca del suo personaggio, non riuscendo a caratterizzarlo del tutto e risultando anzi caricaturale, preferendo nascondersi dietro a delle modalità già viste e riviste - non sono poche le somiglianze con il Joker (2019) di Todd Phillips. Gli intenti sono dunque confusi, così come è confusa la rappresentazione dei vari luoghi della vicenda. Serebrennikov sfoga tutta la sua inventiva tecnica, passando dal bianco e nero al colore con una rapidità estrema, puntando su virtuosismi (tra cui zoom out, inserti da schermo nello schermo, jump-cut di godardiana memoria e uso accentuato di macchine a mano, split-screen in momenti topici e piani sequenza) che divertono in larga parte, ma che alla lunga diventano velleitari e fuori contesto a causa del cambio di decenni nel racconto. Così, non aderendo alla rappresentazione e restando fortemente ancorati ad un linguaggio da Nouvelle Vague, tutti questi elementi funzionano nella prima parte del racconto, anche per via del suo accordo con il periodo narrato all’interno del film, ma nella seconda diventano poco più di un vezzo, un vizio di forma che non ha uno scopo ben preciso, se non quello di esaltare le indubbie capacità tecniche del regista russo. Limonov, dunque, è un film che funziona solamente a fasi alterne, soprattutto per via di una preponderanza di eccessi grafici a cui, con ogni probabilità, avrebbe giovato una maggiore sobrietà.
Volvereis, di Jonás Trueba
Regista attivo ormai da quindici anni, Jonás Trueba è un figlio d’arte (il padre è il famoso regista madrileno Fernando Trueba, mentre la madre è la famosa produttrice cinematografica spagnola Cristina Huete) che ha debuttato sulla scia del nuovo cinema spagnolo. Rispetto ad Almodòvar, però, Trueba preferisce agire in modo più minimale, senza permettere ai soggetti e ai protagonisti dei suoi film di perdersi in comportamenti estroversi o di spingere il pedale sull’acceleratore del grottesco. Il cinema, per Trueba, è uno strumento di connessione con la realtà, l’unico mezzo per garantire una linea di demarcazione nei confronti della finzione filmica, sempre più difficile da intercettare. Anche nel suo ultimo film, The Other Way Around (2024), in lingua originale Volveréis, questa peculiarità di mischiare fiction con elementi quasi documentaristici diventa estremamente preponderante. In The Other Way Around, tutto si svolge sulla base di una separazione affettiva tra i due protagonisti principali della vicenda, ovvero Ale (Itsaso Arana) e Alex (Vito Sanz), che dopo aver vissuto quindici anni della loro vita insieme decidono di interrompere il loro matrimonio. Per l’occasione, dunque, hanno organizzato una festa di separazione per dirsi addio, a cui parteciperanno i loro principali amici, che restano però molto scettici su una loro eventuale separazione definitiva. La coppia, in un primo momento, sembra sicurissima della decisione, almeno fin quando non riaffiorano i ricordi e i due protagonisti si trovano faccia a faccia con gli esiti pratici della loro separazione, trovandosi non più così sicuri delle scelte intraprese. Dunque The Other Way Around è un vero e proprio dilemma matrimoniale, strutturato sulla base di un tipo di cinema che innegabilmente prende a modello l’opera di Bergman (citato anche direttamente dagli stessi protagonisti in un dialogo) e soprattutto quello di Woody Allen per l’umorismo fine e intelligente utilizzato al suo interno. Il risultato è una commedia molto divertente, leggera e spensierata, sia per la letterarietà dei suoi dialoghi sia per le situazioni assurde. The Other Way Around è un gioco scherzoso in cui lo stesso regista punta sulla ripetizione delle sequenze, sulla teoria kierkegaardiana del ricordo, la quale serve a provare nuovamente qualcosa senza però ripercorrere strade già battute, ma tentando di ravvivare una relazione mediante soluzioni nuove. Proprio per questo motivo, la spazialità e la prossemica dei due attori principali diventa fondamentale. Trueba, infatti, per la maggior parte del tempo non li riprende mai insieme nella stessa inquadratura, e quando lo fa utilizza strumenti di montaggio (come gli split-screen, un vero e proprio must del cinema latino degli ultimi anni) oppure degli oggetti diegetici (finestre, porte, anche un semplice vaso) per dividerli e dare contezza della relazione distanziale che scorre tra i due, supportato anche da un montaggio molto fine e intelligente, che articola inquadrature in modo da tenere a distanza i due protagonisti. Ma a riportare il sereno tra la coppia, paradossalmente, è l’uso del passato, del vintage, ovvero di quel Super 8 che in teoria rappresenterebbe un modello superato di dispositivo visuale, ma che invece riesce a riappacificare due mondi contemporaneamente distanti e paralleli. Trueba lo usa per ricongiungere le anime, e proprio nelle sequenze in Super 8 assistiamo, per la prima volta, a delle inquadrature in campo/controcampo in cui i due protagonisti condividono la dimensione diegetica, addirittura scontrandosi e portando a galla la passione tramite il contatto fisico, che nel resto del film era rimasto invece una pura chimera. The Other Way Around è dunque la metafora per far comprendere come un dispositivo come quello cinematografico possa unire le menti più diverse e appianare qualsiasi tipologia di conflitto…Trueba ci riesce con semplicità, arguzia e soprattutto divertendo lo spettatore.
Misericorde, di Alain Guiraudie
Gli effetti che un ambiente isolato e bucolico possono esercitare su un individuo è sempre stata una delle tematiche chiave del cinema di Alain Guiraudie, basti pensare a L’inconnue du lac (2013) o Rester Vertical (2016), due dei suoi film più acclamati. Partendo proprio da questo incipit, Misericorde, la nuova opera del cineasta francese presentata in Cannes Premiere, esplora la dinamica tra Jérémie (uno spettacolare Félix Kysyl), trentenne che torna nel suo paesino d’origine per il funerale di un vecchio “amico”, e il resto della popolazione locale, tra cui spiccano Vincent (Jean-Baptiste Durand), amico di vecchia data, sua madre Martine (Catherine Frot) e il parroco locale (Jacques Develay). Quando Jérémie commetterà un atto irreparabile e verrà indagato dalla polizia, le dinamiche tra il giovane e la piccola comunità inizieranno a mutare, creando una rete complessa di sospetti e bugie. Sfruttando l'ambiente austero delle location, contornate da una fitta foresta, Guiraudie infonde al suo film un’atmosfera ambigua e misteriosa, che disorienta non solo i personaggi del film, ma anche lo spettatore stesso, poiché sarà quasi impossibile prevedere la prossima mossa di Jérémie. Questa ambiguità di fondo è messa in risalto soprattutto dal contributo alla fotografia di Claire Mathon, le cui composizioni mostrano la complessa relazione tra individuo e l’ambiente circostante. Tra Dostoyevsky e Patricia Smith, Teorema di Pasolini e il cinema di Bruno Dumont, Misericorde è un film impressionante sotto ogni punto di vista, che analizza il desiderio e l’amore puro e incondizionato verso una persona, in questo caso l’outsider Jérémie, o un’entità non ben definita, con il solito sotto-testo erotico che caratterizza le opere di Guiraudie. Arguto ed estremamente ironico, Misericorde è uno dei film più riusciti del festival, l’ennesimo trionfo di Guiraudie, la cui mancata selezione nella Competizione ci ha lasciato perplessi.
L'Histoire de Souleymane, di Boris Lojkine
Dieci anni dopo aver presentato Hope (2014), il suo primo lungometraggio, al Festival di Cannes 2014, vincendo anche il premio SACD, il regista francese Boris Lojkine torna nuovamente nella sezione della Semaine de la Critique con il suo terzo lavoro dal titolo L'histoire de Souleymane (2024). Un film che si fa forte di un’interpretazione molto sentita da parte del protagonista principale, un bravissimo Mamadou Barry, e che discende direttamente da quel cinema sociale che registi come i fratelli Dardenne, qui nome tutelare esplicito, e il compianto Laurent Cantet hanno saputo portare in modo molto intelligente e sempre puntuale su schermo. L'histoire de Souleymane è dunque un film che descrive, in modo molto routinario, la vita degli immigrati nel tessuto sociale francese, costretti ad una vita che non vorrebbero e ad essere stigmatizzati negativamente. La storia del protagonista diventa un pretesto per immergere lo spettatore nel tragico fenomeno dell’immigrazione e nelle sue storture, ma soprattutto per evidenziare le evidenti falle di un apparato burocratico ancora lontano dall’essere pienamente accettabile, in un mondo dove lo sfruttamento la fa da padrone e la condizione di diffidenza nei confronti dello straniero (come mostra lo stesso Lojkine, soprattutto nella scena del pullman) diventa preponderante. Nel complesso, però, L'histoire de Souleymane non riesce mai a sfondare del tutto, prendendo un impianto che strizza l’occhio anche al road movie e mettendolo in primo piano tramite movimenti di macchina a mano che, alla lunga, diventano velleitari e talvolta anche fastidiosi, restando sì aderente a quanto raccontato, ma palesando anche alcune falle ritmiche che semplificano le soluzioni stilistiche utilizzate, costringendo il protagonista in piani americani nei momenti di maggior dialogo e accelerando improvvisamente, in modo abbastanza scontato, nelle scene in esterni. Un film, dunque, a cui manca sicuramente il coraggio di osare, e che si fa forte perlopiù di un messaggio urgente ma già visto e rivisto.
My Sunshine, di Hiroshi Okuyama
Come preannuncia lo stesso titolo, My Sunshine di Hiroshi Okuyama è un film che riesce a scaldare il cuore di chiunque lo guardi. Il giovane regista giapponese, classe 1996 e con un lungometraggio (Jesus, 2018) e una serie in collaborazione con Kore-eda Hirokazu (Makanai, 2023) alle spalle, si presenta alla 77a edizione di Cannes, nella sezione Un Certain Regard, con il suo secondo film. In un paesino su un’isola a nord del Giappone, facciamo la conoscenza di Takuma, un bambino all’ultimo anno delle elementari timido e introverso a causa della sua balbuzia che un giorno, a causa dell’arrivo dell’inverno, smette la divisa da baseball per indossare quella di hockey. Nella palazzina del ghiaccio, conosciamo gli altri due personaggi: Sakura, una giovanissima pattinatrice che incanta il giovane Takuma, e il suo allenatore Asakawa, ex pattinatore professionista. Un giorno quest’ultimo troverà il ragazzo allenarsi da solo nel pattinaggio e deciderà di dargli una mano. Okuyama non solo crea un film dove lo sport riesce ad avvicinare le persone e a saldare dei legami, ma va anche contro gli stereotipi che spesso questo genere si porta dietro, soprattutto in Giappone (basti pensare a tutti gli anime sportivi). Infatti, il rapporto tra maestro e discepolo, non si basa su un insegnamento tramandato attraverso le punizioni fisiche e le urla, ma su un rapporto di rispetto reciproco e di gioco. Asakuwa e Takuma, attraverso il pattinaggio, creano un legame di amicizia e complicità. Il regista nipponico con una regia fresca, mai opprimente e che segue i suoi personaggi con una certa distanza, regala al pubblico dei momenti di pura gioia e dolcezza. La fotografia, fatta di colori chiari a tratti pastello, richiama molto la fotografia dei film anni ‘90, tanto che in una scena Okuyama ricrea proprio la sensazione di assistere ad un filmino amatoriale. Elemento curioso della regia di Okuyama, è come riesca a rendere espliciti i suoi registi di riferimento, come il già citato Kore-eda e anche (forse) Wes Anderson, senza mai copiarli e riuscendo a mettere sempre del suo. My Sunshine si può considerare assolutamente un piccolo gioiellino di quest’anno e sicuramente ci farà tenere d’occhio i futuri lavori di questo giovane regista.
Eephus, di Carson Lund
Omnes Films é una casa di produzione americana indipendente che nel corso degli ultimi anni ha dato spazio a una nuova generazione di autori e registi, tra cui Tyler Taormina, Jonathan Davies e Carson Lund. Quest’ultimo, dopo aver lavorato per anni come direttore della fotografia per i due cineasti appena citati, decide di avventurarsi nel mondo della regia e, dopo aver diretto il cortometraggio Starr Farm (2016), presenta Eephus nella sezione Quinzaine de réalisateurs, il suo primo lungometraggio. Al centro della storia c’è una partita di baseball amatoriale giocata tra due squadre di uomini di mezza età del New England. A differenza di altri film sul mondo dello sport che si concentrano sul lato fisico e competitivo, come ad esempio il recente Challengers (2024) di Luca Guadagnino, il regista sovverte questa concezione osservando un gruppo di persone che stanno solo cercando di godersi un momento insieme e accentuando il lato goffo e impacciato dei giocatori. Facendo ciò, Lund infonde all’opera un’atmosfera melanconica e nostalgica, anche perché questa partita rappresenta l’ultima che verrà giocata nello stadio locale e probabilmente anche dai protagonisti. Il baseball, anche se centrale all’interno dell’opera, viene posto in secondo piano, o come base, per raccontare uno spaccato della società americana e quella sensazione di “cameratismo” che accomuna le persone. Con un pacato senso dell’umorismo, Eephus é una visione più che piacevole ed è forse una delle poche opere che negli ultimi anni ha saputo rappresentare efficacemente il mondo amatoriale dello sport.
Mongrel, di Chiang Wei Liang e You Qiao Yin
Tre nazioni diverse unite sotto lo stesso tetto. Taiwan, Singapore e Francia, per la prima volta, collaborano in un film e, soprattutto, presentano il loro operato al Festival di Cannes 2024. Mongrel (2024), il nuovo lungometraggio di Chiang Wei Liang e You Qiao Yin è stato ufficialmente presentato al pubblico nella sezione Quinzaine des Cinéastes 2024. Si tratta di un esordio assoluto per i due registi, che finora avevano presentato solamente cortometraggi, tra cui il significativo Anchorage Prohibited (2016), presentato alla Berlinale del 2016. In parte, Chiang Wei Liang, con Mongrel, prosegue proprio la poetica già vista nel suo primo cortometraggio. In Anchorage Prohibited, infatti, il regista si poneva, in modo molto coraggioso, l’obiettivo di sensibilizzare una tematica alquanto incresciosa e di difficile risoluzione come quella dell’immigrazione. Mongrel, primo lungometraggio dei registi, è infatti la storia di un migrante dal nome Oom - un ragazzo che lavora come badante su richiesta all’interno di famiglie rurali del Taiwan - che si ritrova però, clandestinamente, sprovvisto di documenti. Proprio per questo è costretto a lottare contro la burocrazia, a difesa dei più deboli, per garantire loro il suo servizio e non lasciarli completamente soli. Il film è molto particolare, recupera davvero tantissime nozioni provenienti dal cinema di Taiwan degli ultimi trent’anni. In particolare, Chiang sceglie un approccio alla vicenda, e nel racconto, che ricorda da vicino quello dei film di Tsai Ming-Liang, in cui i campi fissi si susseguono e diventano preponderanti per raccontare non solo di un problema molto importante quale quello della diaspora che sta coinvolgendo tutto il sud-est asiatico (soprattutto ai giorni nostri), ma anche di una storia intima e molto interessante, in cui la scena è, in particolar modo, “tirannizzata” dall’ottimo protagonista: Wanlop Rungkamjad. Quest’ultimo dà vita ad una figura che ricorda da vicino quelle dei primi film di Bruno Dumont, in particolare de L’Humanitè (1999), che tramite atteggiamenti silenziosi e una quotidianità routinaria osservata nei minimi particolari dai piani laterali del regista, dà volto ad un protagonista che, per molti versi, appare quasi cristologico, meticoloso nel dare la propria assistenza agli altri e impossibilitato a scappare dalla sua doppia vita. In molti punti del racconto, il regista taiwanese non manca di sottolineare questa particolare predisposizione del protagonista ad immolarsi tramite inquadrature in campo lungo che lo pongono al centro di una prospettiva “sacralizzata”. Mongrel è dunque sì interessante per via di come affronta una questione annosa e ancora irrisolta all’interno della realtà taiwanese, ma allo stesso tempo appare discontinuo, in cui il ritmo della regia non raggiunge un equilibrio vero e proprio e, anzi, in molte parti del racconto combina il registro aulico con quello popolare in modo poco efficace, restando molto compassato e regalando anche un mood pietista che sicuramente non nobilita per nulla il film.