NC-206
19.05.2024
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 77ª edizione del Festival di Cannes. Per questo secondo appuntamento ci concentreremo su due delle opere più attese del festival, Kinds of Kindness di Yorgos Lanthimos, il “ritorno” alle origini del regista greco, e Oh, Canada!, la nuova, e forse ultima opera, di Paul Schrader. Inoltre vi racconteremo dei nuovi lavori di Rithy Panh e Nayal Ayouch, le prime due opere presentate in Cannes Premiere, e dei film presentati in Un Certain Regard e Quinzaine des cineastes, tra cui Vingt Dieux, il toccante coming of age di Louise Courvoisier, Armand, opera prima di Halfdan Olav Ullman Tøndel con protagonista Renate Reinsve, ed infine Une langue universelle del cineasta canadese Matthew Rankin. Cogliamo anche l’occasione per presentarvi Rumours, un'esilarante satira politica interpretata da Cate Blanchett e Alicia Vikander.
Kinds of Kindness, di Yorgos Lanthimos
Chi é R.M.F.? Perché qualcuno vuole ucciderlo? Perché invece in un “universo” questa graziosa persona sta volando? Non ci sono risposte facili a queste domande complesse... una cosa è però sicura, in una dimensione parallela, l’uomo può finalmente stare tranquillo e mangiare un sandwich. R.M.F. è l’unico personaggio che appare in tutti e tre gli episodi di Kinds of Kindness, il nuovo film di Yorgos Lanthimos, il ritorno alle “origini” del cineasta greco. Dopo le due brillanti collaborazioni con lo sceneggiatore Tony McNamara in The Favourite (2019) e Poor Things (2023), nelle quali Lanthimos si è occupato solamente della regia, che hanno fruttato ben ventitré nomination e quattro vittorie agli Academy Awards, il cineasta greco decide di co-sceneggiare Kinds of Kindness con Efthymis Filippou, il suo storico collaboratore prima di McNamara. Il lungometraggio, dalla struttura antologica, esplora il desiderio di essere amati, di avere qualcuno di cui ci si può fidare, e quanto ci si può spingere oltre per ottenere tutto questo. Il primo episodio, intitolato “La morte di R.M.F.” è incentrato su Robert (Jesse Plemons), un uomo che sta cercando di riprendere in mano il suo presente dopo essersi distaccato dal suo capo, una persona potente che vuole manipolarlo è costringerlo a compiere azioni sconsiderate, come uccidere il povero R.M.F.. Il secondo episodio, “R.M.F. sta volando” narra invece di Daniel (Plemons) che è finito in una spirale depressiva dopo che la moglie Liz (Emma Stone) è naufragata in un’isola dominata dai cani, quando questa farà finalmente ritorno, l’uomo non riuscirà ad accettare l’accaduto e inizierà ad accusare la donna di essere un doppelgänger costringendola a sottoporsi a prove estreme per provare la sua “innocenza”. “R.M.F. mangia un sandwich” è invece il capitolo conclusivo, incentrato su una strana setta che sta cercando di preservare la purezza della specie umana. Tra questi c’è anche Emily (Stone), che ha abbandonato il marito e la figlia per dedicarsi a tempo pieno alla causa ed è stata incaricata dai due grandi capi di ricercare una donna misteriosa in grado di resuscitare le persone defunte. Questo ritorno alle origini di Lanthimos si può notare in ogni singolo aspetto del film; lo script ha un tono austero e cinico, demarcato anche dalle interpretazioni del cast di primo livello, ma anche sotto il punto di vista tecnico si possono notare dei cambiamenti, non ci sono fronzoli o inquadrature con fish eye lens, e viene prediletta di più una steady camera posta a una certa distanza proprio per dare quella sensazione di distacco emotivo, un’operazione simile a Dogtooth (2009), The Lobster (2015) e The Killing of the Sacred Deer (2017). Per quanto riguarda il cast, purtroppo pensiamo che la maggior parte degli attori sia stata leggermente sprecata; Jesse Plemons ed Emma Stone infatti risultano essere i protagonisti di tutte e tre gli episodi e fanno un lavoro eccellente, ma avremmo preferito un po’ più di varietà, soprattutto perché due grandissimi interpreti come Margaret Qualley e Hong Chau hanno ruoli secondari, se non superflui in due dei tre capitoli. Kinds of Kindness dividerà sicuramente l’opinione pubblica; chi ha apprezzato di più gli ultimi due capolavori di Lanthimos, potrebbe rimanere leggermente deluso, caso contrario invece per chi è un grande estimatore della prima fase della carriera del cineasta.
The Shameless, di Konstantin Bojanov
Dopo il debutto nel 2011 nella sezione La settimana della critica con il suo film Avé, quest'anno Konstantin Bojanov torna a Cannes, nella sezione Un Certain Regard, con il suo nuovo progetto: The Shameless. Un film che il regista ha impiegato più di dieci anni per portarlo a termine e che nel corso di questo periodo ha subito non pochi cambiamenti, primo tra tutti il genere. Nato come documentario nel 2014, per poi diventare un film di finzione, The Shameless racconta la storia di Nadira, una prostituta che scappa da Delhi dopo aver ucciso un poliziotto, assume il nuovo nome indù Renuka (celando così la propria fede musulmana) e si rifugia in una comunità di sex-workers nell’India meridionale. Qui conosce Devika, una diciassettenne che fa parte di una famiglia induista che porta avanti un’antica tradizione nel mondo della prostitizione. Le due si innamorano e Renuka porterà Devika a mettere in dubbio la propria famiglia e i propri valori religiosi. Il film si basa su storie vere pubblicate in un romanzo nel 2014, quindi pur andando sulla finzione, Bojanov non abbandona l’intento documentaristico di raccontare la vità all’interno delle varie comunità di sex-workers e le condizioni delle persone che ne fanno parte. All’interno del lungometraggio il regista bulgaro si focalizza soprattutto sulla relazione tra le due donne, dove si intravede non solo il desiderio d’amare e di essere amate, ma anche una certa tossicità dovuta alla maturità ed esperienza di Nadira che plasma e corrompe l’innocenza e la fragilità di Devika, giovane ragazza che essendo vissuta solo all’interno della proprio nucleo familiare non conosce il mondo esterno e si lascia “guidare” dalla donna più grande. Bojanov ci mostra un mondo crudo, fatto di violenza e segregazione, e la ricerca di emancipazione in un ambiente che non lascia alcuna speranza a chi lo abita.
Oh Canada, di Paul Schrader
Terminata la trilogia ispirata al cinema di Bresson, della quale facevano parte First Reformed (2017), The Card Counter (2021) e The Master Gardener (2022), Paul Schrader approda nuovamente sulla Croisette con il suo nuovo lungometraggio: un racconto incentrato su Léonard Fife (Richard Gere), un documentarista settantenne che sta mordendo di cancro ma che prima di emettere l’ultimo respiro decide di partecipare ad un’intervista per raccontare la sua storia e i suoi segreti più reconditi. Stilisticamente parlando, Oh, Canada è uno dei film più riusciti di Schrader negli ultimi anni; la narrativa non lineare, dove è presente Léonard Fife da giovane (interpretato questa volta da Jacob Elordi), dove si susseguono eventi che potrebbero rappresentare la realtà o una distorsione di questa, sono marcati da continui cambi di formato e di colore. Questa scelta basata sul contrasto tra verità e delirio non distrae mai lo spettatore e viene rappresentata con una certa coesione, a differenza di alcune scelte stilistiche adoperate in precedenza, basti pensare ai flashback “caleidoscopici” di The Card Counter. Grazie alla tematica centrale della malattia e dell’importanza di lasciare una legacy importante ai postumi, hanno permesso a Schrader di dirigere uno dei suoi film più emotivi e vulnerabili, come se fosse lo stesso regista ad aprirsi con il pubblico. Il buon successo del film dipende soprattutto da Richard Gere, in una delle sue prove migliori, che è in grado di comprendere ogni sfaccettatura del percorso emotivo di Léonard. Lo stesso si potrebbe dire anche di Elordi, ma quest’ultimo, in alcuni momenti, viene limitato da alcuni eccessi nella scrittura del personaggio - come in una delle ultime sequenze dal tono discutibile. Nonostante tutto, il giovane attore porta però sullo schermo una delle sue interpretazioni più riuscite. All’inizio si era sparsa la voce che Oh Canada sarebbe stato l’ultimo film dell’illustre carriera di Paul Schrader, notizia smentita proprio durante la conferenza stampa di ieri al Festival, ma bisogna comunque ammettere che quest’opera potrebbe rappresentare il testamento artistico di un cineasta che durante la sua carriera è stato spesso dato per scontato.
Vingt Dieux, di Louise Courvoisier
Louise Courvoisier, dopo aver vinto la sezione Cinéfondation nel 2019 con il suo cortometraggio Mano a Mano - che raccontava la storia di una coppia di ballerini che deve affrontare i propri problemi durante un viaggio - torna a Cannes nella sezione Un Certain Regard con il suo primo lungometraggio: Vingt Dieux. Il film vede protagonista il diciottenne Totone che passa la propria vita a fare serata con gli amici e a bere, tutto però cambia nel momento in cui si ritroverà da solo a badare alla sorella di sette anni. Dopo essere stato licenziato dal caseificio nel quale aveva iniziato a lavorare, Totone impiega le proprie energie nel cercare di produrre un pregiato formaggio del Comté per vincere il premio di 30.000 euro a un concorso. Courvoisier mette in piedi un film di formazione, dove il protagonista, nel cercare di raggiungere un obiettivo assieme agli amici, cresce e impara a scoprire cosa sono le cose davvero importanti nella vita. Il film si presenta con una struttura semplice e lineare, senza troppi colpi di scena o tecnicismi particolari, se non un iniziale piano sequenza che introduce gli spettatori nella fiera del paese dove si conosce Totone per la prima volta. Nonostante l’apparente semplicità, il film si costruisce molto bene sui rapporti umani tra i vari personaggi, portando a un’immediata empatia nei loro confronti che sfocia in veri momenti di commozione.
Une langue universelle, di Matthew Rankin
Matthew Rankin si è contraddistinto, negli ultimi anni, come una delle voci più originali del panorama cinematografico mondiale attraverso uno stile completamente sperimentale che spesso e volentieri si presta ad una narrativa utopistica e ad uno stile che combina vari tipi di linguaggi creando un cinema che fa della bizzarria, del grottesco e del weird, il suo punto più importante. Fin dal suo esordio ufficiale con il lungometraggio The Twentieth Century (2019), presentato in anteprima nella sezione Forum della Berlinale nel 2019 e subito vincitore del premio FIPRESCI, Rankin ha dimostrato una certa affinità con uno stile per nulla convenzionale - figlio di un approccio che richiama molto il lavoro di Guy Maddin e le sue stravaganze - che si struttura su un senso dell’umorismo molto particolare, che lo caratterizza in modo deciso e che ne fa una voce inevitabilmente legata a quel nuovo cinema canadese che sta emergendo dagli anni 2000. Con il suo esordio a Cannes 2024, grazie al suo secondo lungometraggio dal titolo Une Langue Universelle (2024), presente nella sezione Quinzaine Des Cinéastes, crea una storia inevitabilmente debitrice dello spazio in cui il film stesso, per spirito totalmente autobiografico, è ambientato. Lo stesso Rankin è protagonista di una vicenda umanista, in cui lo scenario paradossale incrocia Medio Oriente e Occidente. Il regista, infatti, torna a Winnipeg, e qui si imbatte in due bambini. Il tutto si svolge in un universo in cui tutto è il contrario di tutto. Une Langue Universelle è un film ricco di contrasti, sia nel delineare di volta in volta le situazioni che coinvolgono lo stesso protagonista - che creano un sano sentimento ironico e a tratti anche demenziale, come dimostra anche la singolare scena finale - sia nel gestire tipi di cinema e linguaggi molto diversi tra loro. Rispetto all’esordio Rankin attenua gli eccessi e l’accumulo di situazioni per scegliere un racconto più intimo e personale, gli scenari minimali e assolutamente spogli creano un clima alienante, che pervade la storia e che la connota come una fiaba metropolitana degna del cinema di Wes Anderson, in cui il “linguaggio universale” del titolo si ripercuote anche sull’ambientazione del film, presentando uno scenario che flirta fortemente con i tempi morti del cinema di Lynch e che, inaspettatamente, intreccia un rapporto, dall’afflato umanista e pedagogico, che si rifà direttamente al cinema di Abbas Kiarostami. Rankin, dunque, dimostra di saper andare non solo in direzione dell’eccesso, ma anche di essere in grado di creare piccoli racconti quotidiani dallo stile fiabesco, mantenendo comunque intatti l’imprevedibilità, l’umorismo e lo sperimentalismo, ma coniugandoli in altro modo rispetto all’esordio.
Savanna and the Mountain, di Paulo Carneiro
Il portoghese Paulo Carneiro, specializzato in documentari e in film dalla struttura decisamente antropologica, dopo aver ottenuto un grande successo con il suo film Bostofrio où le ciel rejoint la Terre (2018), pluripremiato e proiettato in più di quaranta festival cinematografici internazionali, è approdato verso luoghi decisamente prestigiosi. Se in Périphérique Nord (2022), docu-fiction dove l’incontro tra portoghesi del Nord e portoghesi del Sud, sfruttando l’escamotage degli appassionati e collezionisti d’auto, diventava per Carneiro l’occasione per compiere un’indagine sullo stato del Portogallo e proporre una riflessione sul sentimento d’appartenenza verso una comunità, approdando al Festival di Cannes nel 2024, con il suo Savanna And The Mountain (2024), il regista rinnova l’obiettivo e addirittura sposta la mira ancora più in alto, mostrandoci uno scenario decisamente più politico e socialmente coinvolto. Sfruttando, infatti, il villaggio di Covas do Barroso, Carneiro pone in essere una vera e propria lotta di classe dal sapore western, ispirata soprattutto dal conflitto tra gli abitanti del posto, che vedono usurpato e manomesso il proprio habitat naturale in favore dell’estrazione di litio. Il cineasta, dunque, presenta una riflessione più ampia sull’ambiente e sull’uomo incapace di non sfruttarlo, sul senso di appartenenza dei cittadini, che rivendicano il proprio spazio e le proprie tradizioni culturali come antitesi nei confronti del nuovo che avanza. Un argomento molto interessante, che però si forgia di una narrazione molto claudicante e troppo annacquata, soprattutto a causa di repentini cambi di tono nel racconto che disfano completamente il legame creato tra le singole scene, le quali risultano organi a sé stanti, anche a causa di una regia che decide troppe volte di cedere ai campi lunghi, tipici del linguaggio del western, e che raramente acquisisce quella forza necessaria a supportare un racconto del genere.
Meeting with Pol Pot, di Rithy Panh
Il cinema di Rithy Panh è sempre stato caratterizzato da una forte critica verso il governo cambogiano, più nello specifico gli anni della dittatura del regime Khmer Rouge, iniziata nel 1975. Avendo perso entrambi i genitori in quegli anni e vissuto in prima persona certe atrocità, è stato impossibile per il cineasta non affrontare queste tematiche nel corso della sua carriera. Dopo anni di assenza, nei quali Panh ha presentato le sue opere alla Berlimale - tra cui Irradies (2020) e Everything Will Be Ok (2022) - il cineasta ritorna finalmente al Festival di Cannes con il suo nuovo film nella sezione Cannes Premiere. Rendez-vous avec Pol Pot narra la vera storia di alcuni giornalisti internazionali che, nel 1978, furono invitati proprio dal Khmer Rouge per condurre un’intervista esclusiva a POL Pot, il leader del regime, per cercare di raccontare e riabilitare l’immagine del governo cambogiano. Quella che sembra all’apparenza una società ideale, in verità nasconde le gravi difficoltà politiche che il regime sta affrontando, da un’incombente guerra con il Vietnam al genocidio che sta perpetrando verso la propria popolazione. A differenza di alcuni grandi film sul giornalismo, tra cui The Killing Fields (1984) di Roland Joffé, che affronta lo stesso periodo storico del film di Panh, l’approccio del cineasta cambogiano è più pacato, meno incentrato a costruire una narrativa “avvincente” o dei personaggi ben caratterizzati, proprio perché il suo intento è quello di immergere lo spettatore in un mondo pieno di atrocità, come se la camera da presa rappresentasse non solo il punto di vista spaesato dei giornalisti, ma anche quello del pubblico. Come si è già potuto osservare nelle sue opere precedenti, Panh utilizza alcuni aspetti “sperimentali” come l’utilizzo di diversi pupazzetti/marionette e del materiale d’archivio. Liberamente ispirato da When the war was over, testo della giornalista Elizabeth Becker, interpretata da una sempre convincente Irene Jacob, Rendez-vous avec Pol Pot é un film più che solido, con l'unico difetto che l’approccio precedentemente citato non permette di sfruttare appieno il potenziale della storia.
Rumours, di Guy Maddin, Evan Johnson, Galen Johnson
20/21 Settembre, anno 2020 e qualcosa. I leader del G7 si riuniscono al castello di Dankerode in occasione del loro incontro annuale per cercare di trovare una soluzione per la crisi globale. Rumours è la nuova esilarante opera di Guy Maddin, co-diretta insieme a Evan e Galen Johnson, una satira politica dal tono demenziale, in cui i cineasti si prendono gioco delle persone più “potenti” al mondo, rappresentandole sotto forma di stereotipi piuttosto comuni; come ad esempio Antonio, lo svampito capo di governo italiano che ad ogni occasione tira fuori degli affettati dalla propria giacca, oppure il dormiente presidente degli Stati Uniti, un feticcio di Joe Biden interpretato da Charles Dance con un marcato accento britannico, e per finire la rivalità tra il capo di governo francese e quello tedesco, quest’ultimo portato sullo schermo da una carismatica Cate Blanchett in una sorta di parodia di Ursula Von der Leyen. Il film si apre con l’incontro tra i sette grandi leader mondiali e già dai primi minuti si può intuire il tono esilarante dell’opera, dove Maddin e Johnson, non perdono tempo nell’impostare gli strambi rapporti che ogni politico intrattiene con gli altri. Man mano che il film prosegue, i protagonisti dell’opera iniziano a trovarsi in una situazione surreale; sono stati abbandonati a loro stessi e costretti a vagare in una foresta- illuminata da luci al neon artificiali - dalle mille insidie, tra cui delle mummie di palude che si masturbano in continuazione, cervelli giganteschi e un capo di governo interpretato da Alicia Vikander che parla una lingua “antica e ormai estinta" secondo il presidente francese... ovvero lo svedese. L’estro sperimentale dei cineasti diventa sempre più marcato in queste sequenze e ciò mette ancora di più in risalto l’assurdità dell’opera, esplicativa in questo senso è una scena con Exile di Enya in sottofondo. Rumours non è un film da prendere seriamente, la satira politica alla base è piuttosto semplice e non raggiunge la complessità di film comeThe Death of Stalin (2017) di Armando Iannucci, ma bisogna comunque ammettere che l’opera di Maddin e dei Johnson è una tra le più buffe e spassose del festival.
Desert on Namibia, di Yôko Yamanaka
Appare nella sezione Quinzaine des Réalisateurs il secondo lungometraggio della regista giapponese Yôko Yamanaka Desert of Namibia. Attraverso la protagonista Kana, interpretata da un’atipica Yuuki Kawai, la regista cerca di tratteggiare il quadro di un’intera generazione, la genZ, che troppe volte si trova a dover celare le proprie emozioni o a non saperle gestire. La sfera emotiva di Kana, come indica anche il titolo, è come un deserto, all’apparenza un luogo nel quale nulla sembra poter nascere ma che nasconde insidie e situazioni violente e pericolose. Infatti, Kana che si presenta come una ragazza apatica: mente, tratta male gli uomini della sua vita e ha degli scatti di estrema violenza. Yamanaka gioca molto con il mezzo cinematografico, purtroppo non riuscendoci sempre, per cercare di far comprendere meglio la psiche e la vita della sua protagonista. Purtroppo il film, girato in 4:3, presenta spesso dei tecnicismi di cui non si comprende subito il fine, come i vari zoom dove la camera cerca dettagli che non si colgono subito.
Armand, di Halfdan Olav Ullman Tøndel
Una delle opere prime che attendevamo di più dal Festival era Armand di Haldan Olav Ullman Tøndel, nipote di Liv Ullman e Ingmar Bergman. Armand è un bambino di sei anni che è stato accusato di aver commesso un grave torto verso il migliore amico Jons. Nessuno sa di preciso cosa sia successo e, per fare più chiarezza sulla situazione, la scuola decide di convocare i genitori dei due ragazzi, da una parte Elizabeth (Renate Reinsve), madre single di Armand, e dall’altra Sarah (Ellen Dorrit Petersen) e Jarle (Øystein Røger), genitori di Jons. Dopo una prima ora piuttosto accattivante, basata su dialoghi intensi, che ci ha ricordato vagamente Mass (2021) di Fran Kranz, il film si perde in inutili atmosfere inquietanti nella seconda ora, una volta che la verità viene a galla. Inoltre la caratterizzazione delle figure genitoriali di Jons è piuttosto scarna, basata più su dei silenzi che dovrebbero trasmettere lo stato di frustrazione di essi, ma che in verità lasciano lo spettatore piuttosto deluso. Lo stesso non si può dire invece del personaggio di Elizabeth, la cui caratterizzazione di una donna sull’orlo di un breakdown mentale affascina e convince sin dal primo minuto. Il merito è per lo più di Renate Reinsve, che continua a dimostrarsi una delle migliori attrici europee in circolazione. Sarà impossibile dimenticare una struggente scena di cinque minuti dove l’interprete norvegese passa da una risata isterica a un crollo nervoso dovenon riesce più a trattenere le lacrime e il dolore per la situazione che sta affrontando, che le fa affiorare ricordi di traumi passati da bambina. Nonostante questo tour de force emotivo, l’attrice non è in grado di elevare un’opera confusionaria, dove, come già citato, il regista si perde in inutili sottotrame e atmosfere horror. Un vero peccato.
On Becoming a Guinea Fowl, di Rungano Nyoni
Il nome di Rungano Nyoni non è nuovo al Festival di Cannes; l’anno scorso era nella giuria della competizione, mentre nel 2017 presentò nella Quinzaine il suo primo lungometraggio I Am Not a Witch (2017), che aveva conquistato sin da subito pareri positivi. Quello che aveva colpito del suo film d’esordio era il modo in cui la cineasta aveva affrontato tematiche e tradizioni legate alla cultura del suo paese, la Zambia. Questo tipo di conversazione sulla tradizione di un popolo si può riscontrare in On Becoming a Guinea Fowl, il suo secondo lungometraggio selezionato in Un Certain Regard. L’inicipit del film riguarda Shula che, mentre sta tornando a casa dopo una serata passata in compagnia, intravede un corpo senza vita sulla strada. Inizia a fissarlo attentamente e si accorge che si tratta di una persona che conosce, lo zio paterno. Dopo qualche momento di pausa decide di contattare svogliatamente alcuni membri della famiglia con i quali non scorre buon sangue. Ma quando alcune scomode realtà iniziano a venire a galla sullo zio, per Shula potrebbe essere il momento perfetto per riconciliarsi con i famigliari. On Becoming a Guinea Fowl è un family-drama sardonico nel quale Nyoni mette enfasi sul trauma collettivo, l’abuso e il conseguente “silenzio”, lo scontro tra tradizione e modernità e, in generale, il concetto di matriarcato all’interno di una numerosa famiglia. Nonostante la cineasta zambiana abbia fatto un buon lavoro nell’amalgamare tutte queste tematiche, il film perde di ritmo nella parte centrale e l’inserimento di alcuni elementi surreali non funziona del tutto. Il che è un vero peccato perché la pellicola poteva facilmente diventare una delle migliori del festival, sopratutto per il crescendo emotivo nell’ultima parte, dove Shula e alcuni membri della famiglia raggiungono un momento di catarsi ed unione.
Everybody Loves Touda, di Nabil Ayouch
Dopo essere stato in competizione nel 2021 con il deludente Casablanca Beats, Nabil Ayouch ritorna al festival con il suo nuovo lungometraggio, Everybody Loves Touda, relegato nella sezione Cannes Premiere. Come nel caso del film precedente, il mondo della musica è uno degli argomenti cardine del film; Touda è una sheikha, una cantante e danzatrice specializzata in canti tradizionali, che sta cercando di costruire un futuro promettente non solo per il figlio sordomuto, ma anche per se stessa. La sua passione per l’arte canora però troverà diversi ostacoli nel suo percorso poiché alla società moderna non interessano più i canti tradizionali, ma delle ballate piuttosto semplici che possano divertire il pubblico. Anche se ad un primo impatto Everybidy Loves Touda sembrerebbe un film sullo scontro tra tradizione e modernità, e lo è in parte, la tematica alla base dell’opera è più incentrata sull’oggettificazione della donna all’interno della società marocchina. Queste cantanti non devono essere solo brave a esibirsi, ma devono anche sapere intrattenere e flirtare con i clienti. Nonostante il film risulti piuttosto prevedibile e semplice nel proprio sviluppo, la visione non risulta mai noiosa ed è stato piuttosto affascinante inoltrarsi nel mondo folkloristico dei canti religiosi, aspetto messo in risalto dalla dedizione di Nisrin Erradi, l’attrice che interpreta Touda.
NC-206
19.05.2024
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 77ª edizione del Festival di Cannes. Per questo secondo appuntamento ci concentreremo su due delle opere più attese del festival, Kinds of Kindness di Yorgos Lanthimos, il “ritorno” alle origini del regista greco, e Oh, Canada!, la nuova, e forse ultima opera, di Paul Schrader. Inoltre vi racconteremo dei nuovi lavori di Rithy Panh e Nayal Ayouch, le prime due opere presentate in Cannes Premiere, e dei film presentati in Un Certain Regard e Quinzaine des cineastes, tra cui Vingt Dieux, il toccante coming of age di Louise Courvoisier, Armand, opera prima di Halfdan Olav Ullman Tøndel con protagonista Renate Reinsve, ed infine Une langue universelle del cineasta canadese Matthew Rankin. Cogliamo anche l’occasione per presentarvi Rumours, un'esilarante satira politica interpretata da Cate Blanchett e Alicia Vikander.
Kinds of Kindness, di Yorgos Lanthimos
Chi é R.M.F.? Perché qualcuno vuole ucciderlo? Perché invece in un “universo” questa graziosa persona sta volando? Non ci sono risposte facili a queste domande complesse... una cosa è però sicura, in una dimensione parallela, l’uomo può finalmente stare tranquillo e mangiare un sandwich. R.M.F. è l’unico personaggio che appare in tutti e tre gli episodi di Kinds of Kindness, il nuovo film di Yorgos Lanthimos, il ritorno alle “origini” del cineasta greco. Dopo le due brillanti collaborazioni con lo sceneggiatore Tony McNamara in The Favourite (2019) e Poor Things (2023), nelle quali Lanthimos si è occupato solamente della regia, che hanno fruttato ben ventitré nomination e quattro vittorie agli Academy Awards, il cineasta greco decide di co-sceneggiare Kinds of Kindness con Efthymis Filippou, il suo storico collaboratore prima di McNamara. Il lungometraggio, dalla struttura antologica, esplora il desiderio di essere amati, di avere qualcuno di cui ci si può fidare, e quanto ci si può spingere oltre per ottenere tutto questo. Il primo episodio, intitolato “La morte di R.M.F.” è incentrato su Robert (Jesse Plemons), un uomo che sta cercando di riprendere in mano il suo presente dopo essersi distaccato dal suo capo, una persona potente che vuole manipolarlo è costringerlo a compiere azioni sconsiderate, come uccidere il povero R.M.F.. Il secondo episodio, “R.M.F. sta volando” narra invece di Daniel (Plemons) che è finito in una spirale depressiva dopo che la moglie Liz (Emma Stone) è naufragata in un’isola dominata dai cani, quando questa farà finalmente ritorno, l’uomo non riuscirà ad accettare l’accaduto e inizierà ad accusare la donna di essere un doppelgänger costringendola a sottoporsi a prove estreme per provare la sua “innocenza”. “R.M.F. mangia un sandwich” è invece il capitolo conclusivo, incentrato su una strana setta che sta cercando di preservare la purezza della specie umana. Tra questi c’è anche Emily (Stone), che ha abbandonato il marito e la figlia per dedicarsi a tempo pieno alla causa ed è stata incaricata dai due grandi capi di ricercare una donna misteriosa in grado di resuscitare le persone defunte. Questo ritorno alle origini di Lanthimos si può notare in ogni singolo aspetto del film; lo script ha un tono austero e cinico, demarcato anche dalle interpretazioni del cast di primo livello, ma anche sotto il punto di vista tecnico si possono notare dei cambiamenti, non ci sono fronzoli o inquadrature con fish eye lens, e viene prediletta di più una steady camera posta a una certa distanza proprio per dare quella sensazione di distacco emotivo, un’operazione simile a Dogtooth (2009), The Lobster (2015) e The Killing of the Sacred Deer (2017). Per quanto riguarda il cast, purtroppo pensiamo che la maggior parte degli attori sia stata leggermente sprecata; Jesse Plemons ed Emma Stone infatti risultano essere i protagonisti di tutte e tre gli episodi e fanno un lavoro eccellente, ma avremmo preferito un po’ più di varietà, soprattutto perché due grandissimi interpreti come Margaret Qualley e Hong Chau hanno ruoli secondari, se non superflui in due dei tre capitoli. Kinds of Kindness dividerà sicuramente l’opinione pubblica; chi ha apprezzato di più gli ultimi due capolavori di Lanthimos, potrebbe rimanere leggermente deluso, caso contrario invece per chi è un grande estimatore della prima fase della carriera del cineasta.
The Shameless, di Konstantin Bojanov
Dopo il debutto nel 2011 nella sezione La settimana della critica con il suo film Avé, quest'anno Konstantin Bojanov torna a Cannes, nella sezione Un Certain Regard, con il suo nuovo progetto: The Shameless. Un film che il regista ha impiegato più di dieci anni per portarlo a termine e che nel corso di questo periodo ha subito non pochi cambiamenti, primo tra tutti il genere. Nato come documentario nel 2014, per poi diventare un film di finzione, The Shameless racconta la storia di Nadira, una prostituta che scappa da Delhi dopo aver ucciso un poliziotto, assume il nuovo nome indù Renuka (celando così la propria fede musulmana) e si rifugia in una comunità di sex-workers nell’India meridionale. Qui conosce Devika, una diciassettenne che fa parte di una famiglia induista che porta avanti un’antica tradizione nel mondo della prostitizione. Le due si innamorano e Renuka porterà Devika a mettere in dubbio la propria famiglia e i propri valori religiosi. Il film si basa su storie vere pubblicate in un romanzo nel 2014, quindi pur andando sulla finzione, Bojanov non abbandona l’intento documentaristico di raccontare la vità all’interno delle varie comunità di sex-workers e le condizioni delle persone che ne fanno parte. All’interno del lungometraggio il regista bulgaro si focalizza soprattutto sulla relazione tra le due donne, dove si intravede non solo il desiderio d’amare e di essere amate, ma anche una certa tossicità dovuta alla maturità ed esperienza di Nadira che plasma e corrompe l’innocenza e la fragilità di Devika, giovane ragazza che essendo vissuta solo all’interno della proprio nucleo familiare non conosce il mondo esterno e si lascia “guidare” dalla donna più grande. Bojanov ci mostra un mondo crudo, fatto di violenza e segregazione, e la ricerca di emancipazione in un ambiente che non lascia alcuna speranza a chi lo abita.
Oh Canada, di Paul Schrader
Terminata la trilogia ispirata al cinema di Bresson, della quale facevano parte First Reformed (2017), The Card Counter (2021) e The Master Gardener (2022), Paul Schrader approda nuovamente sulla Croisette con il suo nuovo lungometraggio: un racconto incentrato su Léonard Fife (Richard Gere), un documentarista settantenne che sta mordendo di cancro ma che prima di emettere l’ultimo respiro decide di partecipare ad un’intervista per raccontare la sua storia e i suoi segreti più reconditi. Stilisticamente parlando, Oh, Canada è uno dei film più riusciti di Schrader negli ultimi anni; la narrativa non lineare, dove è presente Léonard Fife da giovane (interpretato questa volta da Jacob Elordi), dove si susseguono eventi che potrebbero rappresentare la realtà o una distorsione di questa, sono marcati da continui cambi di formato e di colore. Questa scelta basata sul contrasto tra verità e delirio non distrae mai lo spettatore e viene rappresentata con una certa coesione, a differenza di alcune scelte stilistiche adoperate in precedenza, basti pensare ai flashback “caleidoscopici” di The Card Counter. Grazie alla tematica centrale della malattia e dell’importanza di lasciare una legacy importante ai postumi, hanno permesso a Schrader di dirigere uno dei suoi film più emotivi e vulnerabili, come se fosse lo stesso regista ad aprirsi con il pubblico. Il buon successo del film dipende soprattutto da Richard Gere, in una delle sue prove migliori, che è in grado di comprendere ogni sfaccettatura del percorso emotivo di Léonard. Lo stesso si potrebbe dire anche di Elordi, ma quest’ultimo, in alcuni momenti, viene limitato da alcuni eccessi nella scrittura del personaggio - come in una delle ultime sequenze dal tono discutibile. Nonostante tutto, il giovane attore porta però sullo schermo una delle sue interpretazioni più riuscite. All’inizio si era sparsa la voce che Oh Canada sarebbe stato l’ultimo film dell’illustre carriera di Paul Schrader, notizia smentita proprio durante la conferenza stampa di ieri al Festival, ma bisogna comunque ammettere che quest’opera potrebbe rappresentare il testamento artistico di un cineasta che durante la sua carriera è stato spesso dato per scontato.
Vingt Dieux, di Louise Courvoisier
Louise Courvoisier, dopo aver vinto la sezione Cinéfondation nel 2019 con il suo cortometraggio Mano a Mano - che raccontava la storia di una coppia di ballerini che deve affrontare i propri problemi durante un viaggio - torna a Cannes nella sezione Un Certain Regard con il suo primo lungometraggio: Vingt Dieux. Il film vede protagonista il diciottenne Totone che passa la propria vita a fare serata con gli amici e a bere, tutto però cambia nel momento in cui si ritroverà da solo a badare alla sorella di sette anni. Dopo essere stato licenziato dal caseificio nel quale aveva iniziato a lavorare, Totone impiega le proprie energie nel cercare di produrre un pregiato formaggio del Comté per vincere il premio di 30.000 euro a un concorso. Courvoisier mette in piedi un film di formazione, dove il protagonista, nel cercare di raggiungere un obiettivo assieme agli amici, cresce e impara a scoprire cosa sono le cose davvero importanti nella vita. Il film si presenta con una struttura semplice e lineare, senza troppi colpi di scena o tecnicismi particolari, se non un iniziale piano sequenza che introduce gli spettatori nella fiera del paese dove si conosce Totone per la prima volta. Nonostante l’apparente semplicità, il film si costruisce molto bene sui rapporti umani tra i vari personaggi, portando a un’immediata empatia nei loro confronti che sfocia in veri momenti di commozione.
Une langue universelle, di Matthew Rankin
Matthew Rankin si è contraddistinto, negli ultimi anni, come una delle voci più originali del panorama cinematografico mondiale attraverso uno stile completamente sperimentale che spesso e volentieri si presta ad una narrativa utopistica e ad uno stile che combina vari tipi di linguaggi creando un cinema che fa della bizzarria, del grottesco e del weird, il suo punto più importante. Fin dal suo esordio ufficiale con il lungometraggio The Twentieth Century (2019), presentato in anteprima nella sezione Forum della Berlinale nel 2019 e subito vincitore del premio FIPRESCI, Rankin ha dimostrato una certa affinità con uno stile per nulla convenzionale - figlio di un approccio che richiama molto il lavoro di Guy Maddin e le sue stravaganze - che si struttura su un senso dell’umorismo molto particolare, che lo caratterizza in modo deciso e che ne fa una voce inevitabilmente legata a quel nuovo cinema canadese che sta emergendo dagli anni 2000. Con il suo esordio a Cannes 2024, grazie al suo secondo lungometraggio dal titolo Une Langue Universelle (2024), presente nella sezione Quinzaine Des Cinéastes, crea una storia inevitabilmente debitrice dello spazio in cui il film stesso, per spirito totalmente autobiografico, è ambientato. Lo stesso Rankin è protagonista di una vicenda umanista, in cui lo scenario paradossale incrocia Medio Oriente e Occidente. Il regista, infatti, torna a Winnipeg, e qui si imbatte in due bambini. Il tutto si svolge in un universo in cui tutto è il contrario di tutto. Une Langue Universelle è un film ricco di contrasti, sia nel delineare di volta in volta le situazioni che coinvolgono lo stesso protagonista - che creano un sano sentimento ironico e a tratti anche demenziale, come dimostra anche la singolare scena finale - sia nel gestire tipi di cinema e linguaggi molto diversi tra loro. Rispetto all’esordio Rankin attenua gli eccessi e l’accumulo di situazioni per scegliere un racconto più intimo e personale, gli scenari minimali e assolutamente spogli creano un clima alienante, che pervade la storia e che la connota come una fiaba metropolitana degna del cinema di Wes Anderson, in cui il “linguaggio universale” del titolo si ripercuote anche sull’ambientazione del film, presentando uno scenario che flirta fortemente con i tempi morti del cinema di Lynch e che, inaspettatamente, intreccia un rapporto, dall’afflato umanista e pedagogico, che si rifà direttamente al cinema di Abbas Kiarostami. Rankin, dunque, dimostra di saper andare non solo in direzione dell’eccesso, ma anche di essere in grado di creare piccoli racconti quotidiani dallo stile fiabesco, mantenendo comunque intatti l’imprevedibilità, l’umorismo e lo sperimentalismo, ma coniugandoli in altro modo rispetto all’esordio.
Savanna and the Mountain, di Paulo Carneiro
Il portoghese Paulo Carneiro, specializzato in documentari e in film dalla struttura decisamente antropologica, dopo aver ottenuto un grande successo con il suo film Bostofrio où le ciel rejoint la Terre (2018), pluripremiato e proiettato in più di quaranta festival cinematografici internazionali, è approdato verso luoghi decisamente prestigiosi. Se in Périphérique Nord (2022), docu-fiction dove l’incontro tra portoghesi del Nord e portoghesi del Sud, sfruttando l’escamotage degli appassionati e collezionisti d’auto, diventava per Carneiro l’occasione per compiere un’indagine sullo stato del Portogallo e proporre una riflessione sul sentimento d’appartenenza verso una comunità, approdando al Festival di Cannes nel 2024, con il suo Savanna And The Mountain (2024), il regista rinnova l’obiettivo e addirittura sposta la mira ancora più in alto, mostrandoci uno scenario decisamente più politico e socialmente coinvolto. Sfruttando, infatti, il villaggio di Covas do Barroso, Carneiro pone in essere una vera e propria lotta di classe dal sapore western, ispirata soprattutto dal conflitto tra gli abitanti del posto, che vedono usurpato e manomesso il proprio habitat naturale in favore dell’estrazione di litio. Il cineasta, dunque, presenta una riflessione più ampia sull’ambiente e sull’uomo incapace di non sfruttarlo, sul senso di appartenenza dei cittadini, che rivendicano il proprio spazio e le proprie tradizioni culturali come antitesi nei confronti del nuovo che avanza. Un argomento molto interessante, che però si forgia di una narrazione molto claudicante e troppo annacquata, soprattutto a causa di repentini cambi di tono nel racconto che disfano completamente il legame creato tra le singole scene, le quali risultano organi a sé stanti, anche a causa di una regia che decide troppe volte di cedere ai campi lunghi, tipici del linguaggio del western, e che raramente acquisisce quella forza necessaria a supportare un racconto del genere.
Meeting with Pol Pot, di Rithy Panh
Il cinema di Rithy Panh è sempre stato caratterizzato da una forte critica verso il governo cambogiano, più nello specifico gli anni della dittatura del regime Khmer Rouge, iniziata nel 1975. Avendo perso entrambi i genitori in quegli anni e vissuto in prima persona certe atrocità, è stato impossibile per il cineasta non affrontare queste tematiche nel corso della sua carriera. Dopo anni di assenza, nei quali Panh ha presentato le sue opere alla Berlimale - tra cui Irradies (2020) e Everything Will Be Ok (2022) - il cineasta ritorna finalmente al Festival di Cannes con il suo nuovo film nella sezione Cannes Premiere. Rendez-vous avec Pol Pot narra la vera storia di alcuni giornalisti internazionali che, nel 1978, furono invitati proprio dal Khmer Rouge per condurre un’intervista esclusiva a POL Pot, il leader del regime, per cercare di raccontare e riabilitare l’immagine del governo cambogiano. Quella che sembra all’apparenza una società ideale, in verità nasconde le gravi difficoltà politiche che il regime sta affrontando, da un’incombente guerra con il Vietnam al genocidio che sta perpetrando verso la propria popolazione. A differenza di alcuni grandi film sul giornalismo, tra cui The Killing Fields (1984) di Roland Joffé, che affronta lo stesso periodo storico del film di Panh, l’approccio del cineasta cambogiano è più pacato, meno incentrato a costruire una narrativa “avvincente” o dei personaggi ben caratterizzati, proprio perché il suo intento è quello di immergere lo spettatore in un mondo pieno di atrocità, come se la camera da presa rappresentasse non solo il punto di vista spaesato dei giornalisti, ma anche quello del pubblico. Come si è già potuto osservare nelle sue opere precedenti, Panh utilizza alcuni aspetti “sperimentali” come l’utilizzo di diversi pupazzetti/marionette e del materiale d’archivio. Liberamente ispirato da When the war was over, testo della giornalista Elizabeth Becker, interpretata da una sempre convincente Irene Jacob, Rendez-vous avec Pol Pot é un film più che solido, con l'unico difetto che l’approccio precedentemente citato non permette di sfruttare appieno il potenziale della storia.
Rumours, di Guy Maddin, Evan Johnson, Galen Johnson
20/21 Settembre, anno 2020 e qualcosa. I leader del G7 si riuniscono al castello di Dankerode in occasione del loro incontro annuale per cercare di trovare una soluzione per la crisi globale. Rumours è la nuova esilarante opera di Guy Maddin, co-diretta insieme a Evan e Galen Johnson, una satira politica dal tono demenziale, in cui i cineasti si prendono gioco delle persone più “potenti” al mondo, rappresentandole sotto forma di stereotipi piuttosto comuni; come ad esempio Antonio, lo svampito capo di governo italiano che ad ogni occasione tira fuori degli affettati dalla propria giacca, oppure il dormiente presidente degli Stati Uniti, un feticcio di Joe Biden interpretato da Charles Dance con un marcato accento britannico, e per finire la rivalità tra il capo di governo francese e quello tedesco, quest’ultimo portato sullo schermo da una carismatica Cate Blanchett in una sorta di parodia di Ursula Von der Leyen. Il film si apre con l’incontro tra i sette grandi leader mondiali e già dai primi minuti si può intuire il tono esilarante dell’opera, dove Maddin e Johnson, non perdono tempo nell’impostare gli strambi rapporti che ogni politico intrattiene con gli altri. Man mano che il film prosegue, i protagonisti dell’opera iniziano a trovarsi in una situazione surreale; sono stati abbandonati a loro stessi e costretti a vagare in una foresta- illuminata da luci al neon artificiali - dalle mille insidie, tra cui delle mummie di palude che si masturbano in continuazione, cervelli giganteschi e un capo di governo interpretato da Alicia Vikander che parla una lingua “antica e ormai estinta" secondo il presidente francese... ovvero lo svedese. L’estro sperimentale dei cineasti diventa sempre più marcato in queste sequenze e ciò mette ancora di più in risalto l’assurdità dell’opera, esplicativa in questo senso è una scena con Exile di Enya in sottofondo. Rumours non è un film da prendere seriamente, la satira politica alla base è piuttosto semplice e non raggiunge la complessità di film comeThe Death of Stalin (2017) di Armando Iannucci, ma bisogna comunque ammettere che l’opera di Maddin e dei Johnson è una tra le più buffe e spassose del festival.
Desert on Namibia, di Yôko Yamanaka
Appare nella sezione Quinzaine des Réalisateurs il secondo lungometraggio della regista giapponese Yôko Yamanaka Desert of Namibia. Attraverso la protagonista Kana, interpretata da un’atipica Yuuki Kawai, la regista cerca di tratteggiare il quadro di un’intera generazione, la genZ, che troppe volte si trova a dover celare le proprie emozioni o a non saperle gestire. La sfera emotiva di Kana, come indica anche il titolo, è come un deserto, all’apparenza un luogo nel quale nulla sembra poter nascere ma che nasconde insidie e situazioni violente e pericolose. Infatti, Kana che si presenta come una ragazza apatica: mente, tratta male gli uomini della sua vita e ha degli scatti di estrema violenza. Yamanaka gioca molto con il mezzo cinematografico, purtroppo non riuscendoci sempre, per cercare di far comprendere meglio la psiche e la vita della sua protagonista. Purtroppo il film, girato in 4:3, presenta spesso dei tecnicismi di cui non si comprende subito il fine, come i vari zoom dove la camera cerca dettagli che non si colgono subito.
Armand, di Halfdan Olav Ullman Tøndel
Una delle opere prime che attendevamo di più dal Festival era Armand di Haldan Olav Ullman Tøndel, nipote di Liv Ullman e Ingmar Bergman. Armand è un bambino di sei anni che è stato accusato di aver commesso un grave torto verso il migliore amico Jons. Nessuno sa di preciso cosa sia successo e, per fare più chiarezza sulla situazione, la scuola decide di convocare i genitori dei due ragazzi, da una parte Elizabeth (Renate Reinsve), madre single di Armand, e dall’altra Sarah (Ellen Dorrit Petersen) e Jarle (Øystein Røger), genitori di Jons. Dopo una prima ora piuttosto accattivante, basata su dialoghi intensi, che ci ha ricordato vagamente Mass (2021) di Fran Kranz, il film si perde in inutili atmosfere inquietanti nella seconda ora, una volta che la verità viene a galla. Inoltre la caratterizzazione delle figure genitoriali di Jons è piuttosto scarna, basata più su dei silenzi che dovrebbero trasmettere lo stato di frustrazione di essi, ma che in verità lasciano lo spettatore piuttosto deluso. Lo stesso non si può dire invece del personaggio di Elizabeth, la cui caratterizzazione di una donna sull’orlo di un breakdown mentale affascina e convince sin dal primo minuto. Il merito è per lo più di Renate Reinsve, che continua a dimostrarsi una delle migliori attrici europee in circolazione. Sarà impossibile dimenticare una struggente scena di cinque minuti dove l’interprete norvegese passa da una risata isterica a un crollo nervoso dovenon riesce più a trattenere le lacrime e il dolore per la situazione che sta affrontando, che le fa affiorare ricordi di traumi passati da bambina. Nonostante questo tour de force emotivo, l’attrice non è in grado di elevare un’opera confusionaria, dove, come già citato, il regista si perde in inutili sottotrame e atmosfere horror. Un vero peccato.
On Becoming a Guinea Fowl, di Rungano Nyoni
Il nome di Rungano Nyoni non è nuovo al Festival di Cannes; l’anno scorso era nella giuria della competizione, mentre nel 2017 presentò nella Quinzaine il suo primo lungometraggio I Am Not a Witch (2017), che aveva conquistato sin da subito pareri positivi. Quello che aveva colpito del suo film d’esordio era il modo in cui la cineasta aveva affrontato tematiche e tradizioni legate alla cultura del suo paese, la Zambia. Questo tipo di conversazione sulla tradizione di un popolo si può riscontrare in On Becoming a Guinea Fowl, il suo secondo lungometraggio selezionato in Un Certain Regard. L’inicipit del film riguarda Shula che, mentre sta tornando a casa dopo una serata passata in compagnia, intravede un corpo senza vita sulla strada. Inizia a fissarlo attentamente e si accorge che si tratta di una persona che conosce, lo zio paterno. Dopo qualche momento di pausa decide di contattare svogliatamente alcuni membri della famiglia con i quali non scorre buon sangue. Ma quando alcune scomode realtà iniziano a venire a galla sullo zio, per Shula potrebbe essere il momento perfetto per riconciliarsi con i famigliari. On Becoming a Guinea Fowl è un family-drama sardonico nel quale Nyoni mette enfasi sul trauma collettivo, l’abuso e il conseguente “silenzio”, lo scontro tra tradizione e modernità e, in generale, il concetto di matriarcato all’interno di una numerosa famiglia. Nonostante la cineasta zambiana abbia fatto un buon lavoro nell’amalgamare tutte queste tematiche, il film perde di ritmo nella parte centrale e l’inserimento di alcuni elementi surreali non funziona del tutto. Il che è un vero peccato perché la pellicola poteva facilmente diventare una delle migliori del festival, sopratutto per il crescendo emotivo nell’ultima parte, dove Shula e alcuni membri della famiglia raggiungono un momento di catarsi ed unione.
Everybody Loves Touda, di Nabil Ayouch
Dopo essere stato in competizione nel 2021 con il deludente Casablanca Beats, Nabil Ayouch ritorna al festival con il suo nuovo lungometraggio, Everybody Loves Touda, relegato nella sezione Cannes Premiere. Come nel caso del film precedente, il mondo della musica è uno degli argomenti cardine del film; Touda è una sheikha, una cantante e danzatrice specializzata in canti tradizionali, che sta cercando di costruire un futuro promettente non solo per il figlio sordomuto, ma anche per se stessa. La sua passione per l’arte canora però troverà diversi ostacoli nel suo percorso poiché alla società moderna non interessano più i canti tradizionali, ma delle ballate piuttosto semplici che possano divertire il pubblico. Anche se ad un primo impatto Everybidy Loves Touda sembrerebbe un film sullo scontro tra tradizione e modernità, e lo è in parte, la tematica alla base dell’opera è più incentrata sull’oggettificazione della donna all’interno della società marocchina. Queste cantanti non devono essere solo brave a esibirsi, ma devono anche sapere intrattenere e flirtare con i clienti. Nonostante il film risulti piuttosto prevedibile e semplice nel proprio sviluppo, la visione non risulta mai noiosa ed è stato piuttosto affascinante inoltrarsi nel mondo folkloristico dei canti religiosi, aspetto messo in risalto dalla dedizione di Nisrin Erradi, l’attrice che interpreta Touda.