NC-209
25.05.2024
Per questo ultimo appuntamento con Cannes 77 ci concentreremo su cinque titoli della competizione, tra cui The Shrouds, la nuova personale opera di David Cronenberg, L’Amour Ouf, l’ambizioso, secondo, lungometraggio di Gilles Lellouche, Three Kilometres to the End of the World di Emanuel Parvu, Marcello Mio! di Christophe Honoré, ed infine lo straordinario All We Imagine As Light di Payal Kapadia, primo film indiano in Competizione dopo un’assenza di trent’anni. Continueremo anche a raccontarvi anche di alcuni titoli presentati in Fuori Concorso e in Quinzaine des cinéastes, come La prisonnière de Bordeaux di Patricia Mazuy, dramma sulla disparità di classe con protagonista Isabelle Huppert, e Spectateurs! di Arnauld Desplechin. Infine, cogliamo anche l’occasione per raccontarvi di Twilight of the Warriors: Walled In, la nuova folle opera di Soi Cheang presentata nella sezione di mezzanotte dedicata al cinema di genere.
The Shrouds, di David Cronenberg
David Cronenberg è stato lontano dal mondo del cinema per otto anni, tra il 2014 e il 2022, per prendersi cura della moglie malata venuta poi a mancare nel 2017. Questo triste periodo ha condizionato le ultime due opere del cineasta; in Crimes of the Future (2022) ha ripercorso il periodo della malattia tramite il personaggio di Saul (Viggo Mortensen), che attraversa una sorta di mutazione per via dell’ambiente sintetico circostante, aiutato dalla compagna Caprice (Lea Seymour). In The Shrouds, la sua nuova opera presentata in Competizione qualche giorno fa, il cineasta canadese ripercorre il proprio lutto tramite il personaggio di Karsh (Vincent Cassel), un businessman che inventa una rivoluzionaria e controversa tecnologia che permette alle persone di controllare, attraverso dei monitor, i propri cari decomporsi negli appositi sudari. Un giorno, i loculi vengono profanati, tra cui quello che apparteneva alla moglie di Karsh (Diane Kruger) e così l’uomo inizierà a investigare su chi sia stato a commettere tali azioni. Dopo l’approccio intimo e delicato con cui Cronenberg aveva affrontato la tematica della malattia nel suo film precedente, ci si aspettava un’operazione simile anche per The Shrouds, ma l’approccio risulta completamente diverso; i dialoghi a tratti assurdi e grotteschi lasciano a desiderare, nello specifico uno nella seconda metà tra Kash e la sorella della moglie, interpretata da Diane Kruger, mentre stanno avendo un rapporto sessuale. La narrazione, incentrata attorno al complotto della profanazione dei sudari, non convince appieno e se sulla carta le tematiche dell’opera affascinano l’esecuzione risulta laconica, poiché Cronenberg esagera con l’assurdità delle situazioni. Per queste ragioni, ci dispiace constatare che The Shrouds ha rappresentato una delle più grandi delusioni di Cannes 2024.
Three Kilometers to the End of the World, di Emanuel Parvu
Quando era stata annunciata l’aggiunta di un film rumeno nella competizione ufficiale, c’era parecchio interesse intorno ad esso e non vedevamo l’ora di capire se era arrivato il momento di consacrare un nuovo cineasta della new wave rumena. Three Kilometres to the End of the World è il terzo lungometraggio dell’attore e regista Emanuel Parvu e analizza le dinamiche di un paesino rurale, più nello specifico quello di un nucleo famigliare dopo che viene diffusa la notizia dell’omosessualità del figlio Adi. Il ragazzo è stato aggredito brutalmente da due coetanei dopo essere stato visto in atteggiamenti intimi con un turista. Invece di cercare di trovare una sorta di giustizia verso i perpetratori del crimine, la famiglia di Adi sarà più interessata a cercare di scacciare via questa “malattia” tramite riti religiosi, creando inutili traumi nel giovane ragazzo. Parvu però si approccia in maniera troppo crudele alla storia, e il focus sull’aspetto bigotto dei genitori e del paese delude parecchio, tanto che a fine visione abbiamo iniziato a interrogarci sul perché di tale scelta. A parte questa narrativa “sbagliata”, il film lascia a desiderare anche per altri motivi; a livello visivo infatti non c’è molta coerenza, l’uso di piani sequenza e delle steady camera faceva presagire una storia dall’approccio distaccato, ma man mano che la pellicola prosegue questo stile evolve in diverse direzioni, senza una vera giustificazione all’interno della narrativa. I dialoghi risultano piuttosto scarni e semplici, come anche le interpretazioni centrali. Sembra quasi che Parvu abbia visto Beyond the Hills (2012) del collega Cristian Mungiu e abbia cercato di ricreare un’operazione simile senza mai riuscire a raggiungere i livelli del collega. Three Kilometres to the End of the World é stato uno dei peggiori lungometraggi presentati in Concorso e delude che abbia vinto la Queer Palm, dal momento che non sembra minimamente in grado di presentare un nuovo punto di vista su un argomento già egregiamente affrontato da altre opere.
La prisonnière de Bordeaux , di Patricia Mazuy
Presentato nella sezione Quinzaine des cineastes, La prisonnière de Bordeaux, la nuova opera di Patricia Mazuy, racconta dell’improbabile amicizia tra due donne nata all’interno di una prigione di Bordeaux mentre si stanno recando in visita dai mariti incarcerati; da una parte c’è Alma (Isabelle Huppert), una benestante che abita sola in una grande villa, mentre dall’altra c’è Mina (Hafsia Herzi), una madre single con due bambini che fatica ad arrivare a fine mese. Per facilitare la vita di quest’ultima e farle evitare lunghi viaggi ogni volta che deve recarsi dal marito, Alma propone a Mina di trasferirsi insieme ai figli nella sua abitazione. Quella che sembra una situazione benevole per entrambe, in poco tempo si trasformerà in una relazione di dipendenza reciproca; Alma inizierà ad essere ossessionata dalla nuova inquilina e cercherà di intromettersi il più possibile nella sua vita, mentre una succube Mina si renderà conto quanto sia fondamentale l’aiuto di Alma e inizierà ad approfittare della situazione tossica creatasi. Questo contrasto di personalità domina la nuova opera di Patricia Mazuy, ma il commento portato avanti dalla cineasta risulta piuttosto scontato, con un crescendo di tensione che sfocia in un finale tiepido. Il che ci ha sorpreso negativamente, più che altro se si prende in considerazione Bowling Saturn (2022), lavoro precedente di Mazuy che aveva stupito per il modo originale con cui analizzava il rapporto tra i due protagonisti, inserendo anche delle scene “scioccanti”. La prisonnière de Bordeaux rimane comunque una visione piacevole grazie alla buona chimica delle talentuose Isabelle Huppert e Hafsia Herzi. Infatti va anche citato il fatto che questa collaborazione non é la prima nella carriera delle due interpreti, che, alla scorsa Berlinale, avevano presentato insieme l’ultimo film di André Téchiné.
L'Amour ouf, di Gilles Lellouche
Ambientato nel corso di due decenni e diviso in due sezioni distinte, L’Amour Ouf racconta la lunga storia d’amore tra Jackie (Mallory Wanecque e Adele Excahrcopolous) e Clotaire (Malik Frikah), due giovani ragazzi che vivono nello stesso paese e frequentano la stessa scuola; lei è la classica ragazza modello, intelligente e con un'ottima relazione con il padre, mentre Clotaire, sin da bambino aveva mostra un’indole criminale e, una volta diventato adolescente, si unisce a una banda locale capitanata dal malavitoso La Brosse (Benoît Poelvoorde). Ma durante una rapina, dove muore una persona non a causa sua, sarà costretto a passare dieci anni in prigione per difendere l’onore della gang. Una volta uscito, verrà abbandonato al suo destino dalla banda criminale e dalla donna che ama dopo che si è auto isolato da lei durante i dieci anni in galera. Quello che stupisce del film, oltre all’ambizione dietro alla storia, è la regia di Lellouche e lo stile che implementa per raccontarla; gli esagerati movimenti di camera, tra cui spiccano le diverse carrellate, dissolvenze o riprese a trecentosessanta gradi ricordano quelle di un musical e abbiamo trovato questo approccio piuttosto affascinante, come se Lellouche volesse creare una versione moderna di West Side Story (1961), una favola crime su due innamorati destinati a stare insieme per il resto della loro vita. Il richiamo al musical del 1961 è rimarcato anche dalla palette di colori e nell’uso delle silhouette. Con un cast di primissimo livello, la crème de la crème del cinema francese, tra cui bisogna citare anche la presenza di Raphaël Quenard, Alain Chabat, Karim Leklou e Élodie Bouchez, L’Amour Ouf risulta essere un’opera piuttosto accattivante, ma non priva di difetti, infatti spesso la sceneggiatura e la storia non giustificano l’ambizione stilistica di Lellouche. Ma non ci sentiamo di criticare più di tanto il film, soprattutto perché alcune sequenze ci hanno lasciato senza parole, come ad esempio il montaggio che mostra l’ascesa come gangster di Clotaire sulle note di Made You Look di Nas.
Spectateurs, di Arnaud Desplechin
Negli ultimi anni si è potuta notare una certa tendenza da parte di alcuni cineasti che, traendo ispirazione dalla propria esperienza personale, hanno cercato di raccontare il proprio vissuto nel mondo del cinema. Tra questi nomi bisogna aggiungere anche quello di Arnauld Desplechin, che presenta fuori Concorso il suo nuovo film, un ibrido tra documentario e finzione, intitolato Spectateurs!. A differenza di opere delle stesso genere, e come si può evincere dal titolo stesso, Desplechin non è tanto interessato a raccontare le proprie origini da regista o il perché abbia intrapreso tale carriera, ma per lo più vuole dare una panoramica a trecentosessanta gradi sulla figura dello spettatore e sulla bellezza dell’esperienza cinematografica. Per compiere tale operazione, l’autore “richiama” uno dei suoi personaggi più famosi, quello di Paul Dedalus, suo alter ego e protagonista di Trois souvenirs de ma jeunesse (2015) e Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle) (1996), che occuperà la maggior parte delle sequenze di finzione all’interno dell’opera. Questo personaggio appare in quattro distinte fasi delle sua vita e, oltre all’immancabile Mathieu Amalric, la versione quattordicenne di Paul viene interpretata da Milo Machado-Graner, la giovane star di Anatomie d’une chute (2023) di Justine Triet. Spectateurs!, con una breve durata di un’ora e mezza, risulta essere una visione confortante, nel quale il regista trasporta il pubblico dentro il suo mondo cinefilo. Una menzione speciale va alle scene dove diverse persone vengono interpellate sulle proprie abitudini cinematografiche.
Twilight of the Warriors: Walled In, di Soi Cheang
Nel corso degli ultimi anni il regista di Hong Kong Soi Cheang è diventato una delle figure di spicco dei più famosi festival internazionali. Dopo aver partecipato alla competizione per il Leone d’Oro a Venezia con il suo Accident (2009), Cheang è diventato, da qualche anno, anche un habituè al Festival di Berlino, dove è stato presente, nel 2021 e nel 2023, con Limbo (2021) e Mad Fate (2023). A conferma di un periodo fortemente iperproduttivo, il cineasta sbarca per la prima al Festival di Cannes con un noir presentato in Séances de minuit dal titolo Twilight of the Warriors: Walled In (2024). Negli ultimi anni, Cheang ha dimostrato di essere fortemente versatile e di saper padroneggiare registri, ambienti e generi diversi, con un livello qualitativo sempre molto alto. Livello confermato anche in Twilight Of The Warriors: Walled In, che si caratterizza per essere una sorta di thriller comico e distopico che, inevitabilmente, richiama alla mente anche il suo periodo di riferimento storico, ovvero gli anni ‘70, ricalcando da vicino un mood molto simile ai film dell’epoca - inevitabile il confronto con Carpenter e il suo Assault On Precinct 13 (1976), il cui concept da one-location viene ripreso e riplasmato sotto l’egida del contemporaneo e dello scenario delle produzioni di Hong Kong, soprattutto di quelle più recenti. Proprio come queste ultime, infatti, l’immaginario romantico e noir che aveva caratterizzato i due decenni più fiorenti della storia del cinema di HK - ovvero gli anni ‘80 e ‘90 - è completamente distrutto, ritarato sull’attualità, mettendo a nudo l’involuzione e il caos di un’intera nazione immortalata in una regressione quasi animalesca. Il registro del racconto è però parossistico, umoristico, con l’umanità che si instrada in comportamenti completamente esasperati ed esasperanti (come quelli del divertentissimo ed esagerato Sammo Hung, qui in una prova che riporta alla mente i suoi migliori anni), in cui c’è spazio però per una storia di cameratismo degna di Johnnie To. Del resto, il quartetto di protagonisti riporta alla mente in modo alquanto esplicito quello di un capolavoro come Exiled (2006). A sorprendere, inoltre, è la maturità di Soi Cheang dietro la macchina da presa: la cinepresa si muove in modo sinuosissimo e vertiginoso in spazi angusti e quasi inaccessibili, usando dei piani sequenza esagerati, ma mai fastidiosi e sempre in tinta con il racconto. L’ipercinetismo è quello dei grandi maestri. I virtuosismi sono quelli folli e sbracati dello Tsui Hark più formalista - quello di Time And Tide (2000), per intendersi, sospeso tra piani sequenza folli, contre-plongée in teoria impossibili e deformazioni varie dell’inquadratura - mentre gli scoppi di violenza improvvisi e l’uso della shaky camera ricordano molto un regista caratterizzante proprio degli anni ‘70: Kinji Fukasaku. Tutto addensato in un’opera pop assolutamente fresca ed eccessiva nei neon e nei toni accesissimi, che creano un contrasto deciso con i sobborghi sporchi della Walled City del film. Twilight Of The Warriors: Walled In è dunque cinema pop di Hong Kong alla sua forma più massimalista, senza però dimenticare di dare spolvero ad uno dei temi cardine della filmografia recente della nazione orientale, ovvero quello del cameratismo e dell’amicizia.
All We Imagine As Light, di Payal Kapadia
La giovane regista Payal Kapadia si presenta a Cannes con un lungometraggio grazie al quale riesce a riportare l’India all’interno del Concorso del celebre festival francese. All We Imagine as Light è un film corale al femminile, nel quale Kapadia non cerca di trasmettere un messaggio fortemente femminista, ma esprime semplicemente la voglia di osservare le vite delle sue protagoniste raccogliendo storie che si compongono di amore, dolore, solitudine ma anche amicizia. Le protagoniste del film sono Prabha, un’infermiera sulla quarantina, che subito dopo il matrimonio organizzato dai genitori si ritroverà “abbandonata” dal marito che parte per la Germania. Per non stare del tutto sola, Prabha affitta una stanza a un’infermiera più giovane, Anu, che porta con sé tutta la sfrontatezza di una generazione più libera che lotta per ciò che vuole. Infine, la terza donna al centro della storia è la cuoca dell’ospedale Parvaty, prima collega e poi amica di Prabha. Insieme alle tre donne, l’altra grande protagonista del film è la città di Mumbai, una metropoli che invita le persone a viverla promettendo sogni e infinite possibilità che però, alla fine, rischiano di diventare solo flebili illusioni. Kapadia racconta magnificamente, e anche con una certa poesia, la sua Mumbai e la sua India. Presenta la città attraverso diverse voice-over, che non per forza appartengono ai personaggi del film, ma che a volte sembrano voci prese dalla strada, che raccontano il loro rapporto con questa “entità urbana” che li ingloba, li lascia senza fiato e a volte anche senza speranze. All We Imagine as Light nel suo insieme presenta molte tematiche importanti, Kapadia, oltre a criticare l’eccessiva urbanizzazione che provoca l’abbandono delle città perché nessuno può più permettersi una casa, presenta anche le contraddizioni tra una forte tradizione culturale e l’illusione di un futuro diverso. Lo vediamo con Anu, che porta avanti una relazione con Shiaz, un ragazzo musulmano che ama ma che sa che i genitori non lo accetteranno mai. Anu e Prabha ci mettono di fronte all’incomunicabilità tra due generazioni così vicine ma nello stesso tempo estremamente distanti. All We Imagine as Light si presenta come un vero gioiello, dalla regia alla sceneggiatura, fino alle scelte musicali che cambiano nel corso del film, passando dal jazz a composizioni più “classiche” che si amalgamano splendidamente con i rumori dei paesaggi urbani e quelli naturali. Kapadia ci porta a comprendere che siamo tutti luci che compongono un quadro più grande di noi, e che forse non bisogna temere il buio, ma imparare a brillarci dentro.
Baby, di Marcelo Caetano
Marcelo Caetano arriva a Cannes nella settimana della critica con il suo secondo lungometraggio: Baby. Anche in quest’ultimo progetto il regista brasiliano porta avanti le tematiche queer, presentando personaggi fuori dalle logiche imposte dal binarismo di genere che cercano di vivere appieno la propria vita e libertà. Wallington è un giovane ragazzo che dopo essere stato scagionato da un carcere minorile si ritroverà solo e abbandonato dai propri genitori nell’immensa e caotica San Paolo. Dopo una notte per strada, Wallington si riunisce aə amicə della comunità queer. Tramite loro il ragazzo farà la conoscenza di Ronaldo, un affascinante escort che lo introdurrà al mondo della prostituzione per guadagnare un po’ di soldi. Tra i due uomini nascerà prima un rapporto dettato dall’attrazione e dalla volontà di Ronaldo di “proteggere” il ragazzo più giovane, ma nel corso del film la loro relazione muterà, fino a sfociare in violenti liti e incomprensioni. Caetano presenta una San Paolo che accetta la “diversità” ma allo stesso tempo non mostra alcuna pietà per i suoi protagonisti. La regia si presenta fresca, con una fotografia dettata da colori caldi, saturi, che trasportano chiunque guardi Baby non solo nella città brasiliana, ma anche nel mondo di Wellington.
Marcello Mio, di Christophe Honoré
La pressione accumulata nel corso degli anni per via della legacy del padre ha iniziato a prendere il sopravvento su Chiara Mastroianni che è arrivata a prendere la drastica decisione di “riportare in vita” il celebre attore attraverso la propria figura, iniziando a vestirsi, ad atteggiarsi e farsi chiamare con il suo nome. Marcello Mio, la nuova opera di Christophe Honoré, che si trova nelle nostre sale in questi giorni, aveva una promessa piuttosto accattivante... cosa può fare una persona per cercare di trovare la propria identità e distaccarsi dal fardello legato alla fama delle figure genitoriali? Sulla carta c’erano tutti gli ingredienti per realizzare un film arguto, il cui approccio meta cinematografico si prestava perfettamente all'argomento trattato dal cineasta francese. Purtroppo il modo squilibrato con cui Honoré gestisce il tono dell’opera lascia l’amaro in bocca. Infatti, Marcello Mio, tende purtroppo ad essere una commedia quirky, dove l’ossessione e il trauma che Chiara Mastroianni vive, viene inscenato esclusivamente come una battuta che si ripete all’infinito. Esemplificativa è una sequenza dove l’attrice è invitata al programma televisivo A Ruota Libera dove è presente anche Stefania Sandrelli, che avrà l’incarico di riconoscere il “vero” Mastroianni tra diversi cosplay. Il tono ridicolo e sopra le righe di quella scena racchiude perfettamente i problemi principali del lungometraggio. Vista la tematica affrontata ci si aspettava anche una sorta di omaggio nei confronti di uno degli attori italiani più rinomati, ma i pochi riferimenti alla carriera non convincono appieno. Riteniamo la selezione di Marcello Mio nella Competizione piuttosto ingiustificata, soprattutto se si prende in considerazione il fatto che uno dei migliori film francesi al festival, Misericorde di Alain Guiraudie, è stato relegato nella sezione Cannes Premiere. Sembra quasi che Thierry Fremaux abbia preso la decisione di inserire la pellicola nel programma solo per “accaparrarsi” più celebrità possibili sul red carpet, come Catherine Deneuve, Fabrice Luchini e Melvil Poupaud, che nel film risultano limitati dalla natura “ridicola” dell’opera.
NC-209
25.05.2024
Per questo ultimo appuntamento con Cannes 77 ci concentreremo su cinque titoli della competizione, tra cui The Shrouds, la nuova personale opera di David Cronenberg, L’Amour Ouf, l’ambizioso, secondo, lungometraggio di Gilles Lellouche, Three Kilometres to the End of the World di Emanuel Parvu, Marcello Mio! di Christophe Honoré, ed infine lo straordinario All We Imagine As Light di Payal Kapadia, primo film indiano in Competizione dopo un’assenza di trent’anni. Continueremo anche a raccontarvi anche di alcuni titoli presentati in Fuori Concorso e in Quinzaine des cinéastes, come La prisonnière de Bordeaux di Patricia Mazuy, dramma sulla disparità di classe con protagonista Isabelle Huppert, e Spectateurs! di Arnauld Desplechin. Infine, cogliamo anche l’occasione per raccontarvi di Twilight of the Warriors: Walled In, la nuova folle opera di Soi Cheang presentata nella sezione di mezzanotte dedicata al cinema di genere.
The Shrouds, di David Cronenberg
David Cronenberg è stato lontano dal mondo del cinema per otto anni, tra il 2014 e il 2022, per prendersi cura della moglie malata venuta poi a mancare nel 2017. Questo triste periodo ha condizionato le ultime due opere del cineasta; in Crimes of the Future (2022) ha ripercorso il periodo della malattia tramite il personaggio di Saul (Viggo Mortensen), che attraversa una sorta di mutazione per via dell’ambiente sintetico circostante, aiutato dalla compagna Caprice (Lea Seymour). In The Shrouds, la sua nuova opera presentata in Competizione qualche giorno fa, il cineasta canadese ripercorre il proprio lutto tramite il personaggio di Karsh (Vincent Cassel), un businessman che inventa una rivoluzionaria e controversa tecnologia che permette alle persone di controllare, attraverso dei monitor, i propri cari decomporsi negli appositi sudari. Un giorno, i loculi vengono profanati, tra cui quello che apparteneva alla moglie di Karsh (Diane Kruger) e così l’uomo inizierà a investigare su chi sia stato a commettere tali azioni. Dopo l’approccio intimo e delicato con cui Cronenberg aveva affrontato la tematica della malattia nel suo film precedente, ci si aspettava un’operazione simile anche per The Shrouds, ma l’approccio risulta completamente diverso; i dialoghi a tratti assurdi e grotteschi lasciano a desiderare, nello specifico uno nella seconda metà tra Kash e la sorella della moglie, interpretata da Diane Kruger, mentre stanno avendo un rapporto sessuale. La narrazione, incentrata attorno al complotto della profanazione dei sudari, non convince appieno e se sulla carta le tematiche dell’opera affascinano l’esecuzione risulta laconica, poiché Cronenberg esagera con l’assurdità delle situazioni. Per queste ragioni, ci dispiace constatare che The Shrouds ha rappresentato una delle più grandi delusioni di Cannes 2024.
Three Kilometers to the End of the World, di Emanuel Parvu
Quando era stata annunciata l’aggiunta di un film rumeno nella competizione ufficiale, c’era parecchio interesse intorno ad esso e non vedevamo l’ora di capire se era arrivato il momento di consacrare un nuovo cineasta della new wave rumena. Three Kilometres to the End of the World è il terzo lungometraggio dell’attore e regista Emanuel Parvu e analizza le dinamiche di un paesino rurale, più nello specifico quello di un nucleo famigliare dopo che viene diffusa la notizia dell’omosessualità del figlio Adi. Il ragazzo è stato aggredito brutalmente da due coetanei dopo essere stato visto in atteggiamenti intimi con un turista. Invece di cercare di trovare una sorta di giustizia verso i perpetratori del crimine, la famiglia di Adi sarà più interessata a cercare di scacciare via questa “malattia” tramite riti religiosi, creando inutili traumi nel giovane ragazzo. Parvu però si approccia in maniera troppo crudele alla storia, e il focus sull’aspetto bigotto dei genitori e del paese delude parecchio, tanto che a fine visione abbiamo iniziato a interrogarci sul perché di tale scelta. A parte questa narrativa “sbagliata”, il film lascia a desiderare anche per altri motivi; a livello visivo infatti non c’è molta coerenza, l’uso di piani sequenza e delle steady camera faceva presagire una storia dall’approccio distaccato, ma man mano che la pellicola prosegue questo stile evolve in diverse direzioni, senza una vera giustificazione all’interno della narrativa. I dialoghi risultano piuttosto scarni e semplici, come anche le interpretazioni centrali. Sembra quasi che Parvu abbia visto Beyond the Hills (2012) del collega Cristian Mungiu e abbia cercato di ricreare un’operazione simile senza mai riuscire a raggiungere i livelli del collega. Three Kilometres to the End of the World é stato uno dei peggiori lungometraggi presentati in Concorso e delude che abbia vinto la Queer Palm, dal momento che non sembra minimamente in grado di presentare un nuovo punto di vista su un argomento già egregiamente affrontato da altre opere.
La prisonnière de Bordeaux , di Patricia Mazuy
Presentato nella sezione Quinzaine des cineastes, La prisonnière de Bordeaux, la nuova opera di Patricia Mazuy, racconta dell’improbabile amicizia tra due donne nata all’interno di una prigione di Bordeaux mentre si stanno recando in visita dai mariti incarcerati; da una parte c’è Alma (Isabelle Huppert), una benestante che abita sola in una grande villa, mentre dall’altra c’è Mina (Hafsia Herzi), una madre single con due bambini che fatica ad arrivare a fine mese. Per facilitare la vita di quest’ultima e farle evitare lunghi viaggi ogni volta che deve recarsi dal marito, Alma propone a Mina di trasferirsi insieme ai figli nella sua abitazione. Quella che sembra una situazione benevole per entrambe, in poco tempo si trasformerà in una relazione di dipendenza reciproca; Alma inizierà ad essere ossessionata dalla nuova inquilina e cercherà di intromettersi il più possibile nella sua vita, mentre una succube Mina si renderà conto quanto sia fondamentale l’aiuto di Alma e inizierà ad approfittare della situazione tossica creatasi. Questo contrasto di personalità domina la nuova opera di Patricia Mazuy, ma il commento portato avanti dalla cineasta risulta piuttosto scontato, con un crescendo di tensione che sfocia in un finale tiepido. Il che ci ha sorpreso negativamente, più che altro se si prende in considerazione Bowling Saturn (2022), lavoro precedente di Mazuy che aveva stupito per il modo originale con cui analizzava il rapporto tra i due protagonisti, inserendo anche delle scene “scioccanti”. La prisonnière de Bordeaux rimane comunque una visione piacevole grazie alla buona chimica delle talentuose Isabelle Huppert e Hafsia Herzi. Infatti va anche citato il fatto che questa collaborazione non é la prima nella carriera delle due interpreti, che, alla scorsa Berlinale, avevano presentato insieme l’ultimo film di André Téchiné.
L'Amour ouf, di Gilles Lellouche
Ambientato nel corso di due decenni e diviso in due sezioni distinte, L’Amour Ouf racconta la lunga storia d’amore tra Jackie (Mallory Wanecque e Adele Excahrcopolous) e Clotaire (Malik Frikah), due giovani ragazzi che vivono nello stesso paese e frequentano la stessa scuola; lei è la classica ragazza modello, intelligente e con un'ottima relazione con il padre, mentre Clotaire, sin da bambino aveva mostra un’indole criminale e, una volta diventato adolescente, si unisce a una banda locale capitanata dal malavitoso La Brosse (Benoît Poelvoorde). Ma durante una rapina, dove muore una persona non a causa sua, sarà costretto a passare dieci anni in prigione per difendere l’onore della gang. Una volta uscito, verrà abbandonato al suo destino dalla banda criminale e dalla donna che ama dopo che si è auto isolato da lei durante i dieci anni in galera. Quello che stupisce del film, oltre all’ambizione dietro alla storia, è la regia di Lellouche e lo stile che implementa per raccontarla; gli esagerati movimenti di camera, tra cui spiccano le diverse carrellate, dissolvenze o riprese a trecentosessanta gradi ricordano quelle di un musical e abbiamo trovato questo approccio piuttosto affascinante, come se Lellouche volesse creare una versione moderna di West Side Story (1961), una favola crime su due innamorati destinati a stare insieme per il resto della loro vita. Il richiamo al musical del 1961 è rimarcato anche dalla palette di colori e nell’uso delle silhouette. Con un cast di primissimo livello, la crème de la crème del cinema francese, tra cui bisogna citare anche la presenza di Raphaël Quenard, Alain Chabat, Karim Leklou e Élodie Bouchez, L’Amour Ouf risulta essere un’opera piuttosto accattivante, ma non priva di difetti, infatti spesso la sceneggiatura e la storia non giustificano l’ambizione stilistica di Lellouche. Ma non ci sentiamo di criticare più di tanto il film, soprattutto perché alcune sequenze ci hanno lasciato senza parole, come ad esempio il montaggio che mostra l’ascesa come gangster di Clotaire sulle note di Made You Look di Nas.
Spectateurs, di Arnaud Desplechin
Negli ultimi anni si è potuta notare una certa tendenza da parte di alcuni cineasti che, traendo ispirazione dalla propria esperienza personale, hanno cercato di raccontare il proprio vissuto nel mondo del cinema. Tra questi nomi bisogna aggiungere anche quello di Arnauld Desplechin, che presenta fuori Concorso il suo nuovo film, un ibrido tra documentario e finzione, intitolato Spectateurs!. A differenza di opere delle stesso genere, e come si può evincere dal titolo stesso, Desplechin non è tanto interessato a raccontare le proprie origini da regista o il perché abbia intrapreso tale carriera, ma per lo più vuole dare una panoramica a trecentosessanta gradi sulla figura dello spettatore e sulla bellezza dell’esperienza cinematografica. Per compiere tale operazione, l’autore “richiama” uno dei suoi personaggi più famosi, quello di Paul Dedalus, suo alter ego e protagonista di Trois souvenirs de ma jeunesse (2015) e Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle) (1996), che occuperà la maggior parte delle sequenze di finzione all’interno dell’opera. Questo personaggio appare in quattro distinte fasi delle sua vita e, oltre all’immancabile Mathieu Amalric, la versione quattordicenne di Paul viene interpretata da Milo Machado-Graner, la giovane star di Anatomie d’une chute (2023) di Justine Triet. Spectateurs!, con una breve durata di un’ora e mezza, risulta essere una visione confortante, nel quale il regista trasporta il pubblico dentro il suo mondo cinefilo. Una menzione speciale va alle scene dove diverse persone vengono interpellate sulle proprie abitudini cinematografiche.
Twilight of the Warriors: Walled In, di Soi Cheang
Nel corso degli ultimi anni il regista di Hong Kong Soi Cheang è diventato una delle figure di spicco dei più famosi festival internazionali. Dopo aver partecipato alla competizione per il Leone d’Oro a Venezia con il suo Accident (2009), Cheang è diventato, da qualche anno, anche un habituè al Festival di Berlino, dove è stato presente, nel 2021 e nel 2023, con Limbo (2021) e Mad Fate (2023). A conferma di un periodo fortemente iperproduttivo, il cineasta sbarca per la prima al Festival di Cannes con un noir presentato in Séances de minuit dal titolo Twilight of the Warriors: Walled In (2024). Negli ultimi anni, Cheang ha dimostrato di essere fortemente versatile e di saper padroneggiare registri, ambienti e generi diversi, con un livello qualitativo sempre molto alto. Livello confermato anche in Twilight Of The Warriors: Walled In, che si caratterizza per essere una sorta di thriller comico e distopico che, inevitabilmente, richiama alla mente anche il suo periodo di riferimento storico, ovvero gli anni ‘70, ricalcando da vicino un mood molto simile ai film dell’epoca - inevitabile il confronto con Carpenter e il suo Assault On Precinct 13 (1976), il cui concept da one-location viene ripreso e riplasmato sotto l’egida del contemporaneo e dello scenario delle produzioni di Hong Kong, soprattutto di quelle più recenti. Proprio come queste ultime, infatti, l’immaginario romantico e noir che aveva caratterizzato i due decenni più fiorenti della storia del cinema di HK - ovvero gli anni ‘80 e ‘90 - è completamente distrutto, ritarato sull’attualità, mettendo a nudo l’involuzione e il caos di un’intera nazione immortalata in una regressione quasi animalesca. Il registro del racconto è però parossistico, umoristico, con l’umanità che si instrada in comportamenti completamente esasperati ed esasperanti (come quelli del divertentissimo ed esagerato Sammo Hung, qui in una prova che riporta alla mente i suoi migliori anni), in cui c’è spazio però per una storia di cameratismo degna di Johnnie To. Del resto, il quartetto di protagonisti riporta alla mente in modo alquanto esplicito quello di un capolavoro come Exiled (2006). A sorprendere, inoltre, è la maturità di Soi Cheang dietro la macchina da presa: la cinepresa si muove in modo sinuosissimo e vertiginoso in spazi angusti e quasi inaccessibili, usando dei piani sequenza esagerati, ma mai fastidiosi e sempre in tinta con il racconto. L’ipercinetismo è quello dei grandi maestri. I virtuosismi sono quelli folli e sbracati dello Tsui Hark più formalista - quello di Time And Tide (2000), per intendersi, sospeso tra piani sequenza folli, contre-plongée in teoria impossibili e deformazioni varie dell’inquadratura - mentre gli scoppi di violenza improvvisi e l’uso della shaky camera ricordano molto un regista caratterizzante proprio degli anni ‘70: Kinji Fukasaku. Tutto addensato in un’opera pop assolutamente fresca ed eccessiva nei neon e nei toni accesissimi, che creano un contrasto deciso con i sobborghi sporchi della Walled City del film. Twilight Of The Warriors: Walled In è dunque cinema pop di Hong Kong alla sua forma più massimalista, senza però dimenticare di dare spolvero ad uno dei temi cardine della filmografia recente della nazione orientale, ovvero quello del cameratismo e dell’amicizia.
All We Imagine As Light, di Payal Kapadia
La giovane regista Payal Kapadia si presenta a Cannes con un lungometraggio grazie al quale riesce a riportare l’India all’interno del Concorso del celebre festival francese. All We Imagine as Light è un film corale al femminile, nel quale Kapadia non cerca di trasmettere un messaggio fortemente femminista, ma esprime semplicemente la voglia di osservare le vite delle sue protagoniste raccogliendo storie che si compongono di amore, dolore, solitudine ma anche amicizia. Le protagoniste del film sono Prabha, un’infermiera sulla quarantina, che subito dopo il matrimonio organizzato dai genitori si ritroverà “abbandonata” dal marito che parte per la Germania. Per non stare del tutto sola, Prabha affitta una stanza a un’infermiera più giovane, Anu, che porta con sé tutta la sfrontatezza di una generazione più libera che lotta per ciò che vuole. Infine, la terza donna al centro della storia è la cuoca dell’ospedale Parvaty, prima collega e poi amica di Prabha. Insieme alle tre donne, l’altra grande protagonista del film è la città di Mumbai, una metropoli che invita le persone a viverla promettendo sogni e infinite possibilità che però, alla fine, rischiano di diventare solo flebili illusioni. Kapadia racconta magnificamente, e anche con una certa poesia, la sua Mumbai e la sua India. Presenta la città attraverso diverse voice-over, che non per forza appartengono ai personaggi del film, ma che a volte sembrano voci prese dalla strada, che raccontano il loro rapporto con questa “entità urbana” che li ingloba, li lascia senza fiato e a volte anche senza speranze. All We Imagine as Light nel suo insieme presenta molte tematiche importanti, Kapadia, oltre a criticare l’eccessiva urbanizzazione che provoca l’abbandono delle città perché nessuno può più permettersi una casa, presenta anche le contraddizioni tra una forte tradizione culturale e l’illusione di un futuro diverso. Lo vediamo con Anu, che porta avanti una relazione con Shiaz, un ragazzo musulmano che ama ma che sa che i genitori non lo accetteranno mai. Anu e Prabha ci mettono di fronte all’incomunicabilità tra due generazioni così vicine ma nello stesso tempo estremamente distanti. All We Imagine as Light si presenta come un vero gioiello, dalla regia alla sceneggiatura, fino alle scelte musicali che cambiano nel corso del film, passando dal jazz a composizioni più “classiche” che si amalgamano splendidamente con i rumori dei paesaggi urbani e quelli naturali. Kapadia ci porta a comprendere che siamo tutti luci che compongono un quadro più grande di noi, e che forse non bisogna temere il buio, ma imparare a brillarci dentro.
Baby, di Marcelo Caetano
Marcelo Caetano arriva a Cannes nella settimana della critica con il suo secondo lungometraggio: Baby. Anche in quest’ultimo progetto il regista brasiliano porta avanti le tematiche queer, presentando personaggi fuori dalle logiche imposte dal binarismo di genere che cercano di vivere appieno la propria vita e libertà. Wallington è un giovane ragazzo che dopo essere stato scagionato da un carcere minorile si ritroverà solo e abbandonato dai propri genitori nell’immensa e caotica San Paolo. Dopo una notte per strada, Wallington si riunisce aə amicə della comunità queer. Tramite loro il ragazzo farà la conoscenza di Ronaldo, un affascinante escort che lo introdurrà al mondo della prostituzione per guadagnare un po’ di soldi. Tra i due uomini nascerà prima un rapporto dettato dall’attrazione e dalla volontà di Ronaldo di “proteggere” il ragazzo più giovane, ma nel corso del film la loro relazione muterà, fino a sfociare in violenti liti e incomprensioni. Caetano presenta una San Paolo che accetta la “diversità” ma allo stesso tempo non mostra alcuna pietà per i suoi protagonisti. La regia si presenta fresca, con una fotografia dettata da colori caldi, saturi, che trasportano chiunque guardi Baby non solo nella città brasiliana, ma anche nel mondo di Wellington.
Marcello Mio, di Christophe Honoré
La pressione accumulata nel corso degli anni per via della legacy del padre ha iniziato a prendere il sopravvento su Chiara Mastroianni che è arrivata a prendere la drastica decisione di “riportare in vita” il celebre attore attraverso la propria figura, iniziando a vestirsi, ad atteggiarsi e farsi chiamare con il suo nome. Marcello Mio, la nuova opera di Christophe Honoré, che si trova nelle nostre sale in questi giorni, aveva una promessa piuttosto accattivante... cosa può fare una persona per cercare di trovare la propria identità e distaccarsi dal fardello legato alla fama delle figure genitoriali? Sulla carta c’erano tutti gli ingredienti per realizzare un film arguto, il cui approccio meta cinematografico si prestava perfettamente all'argomento trattato dal cineasta francese. Purtroppo il modo squilibrato con cui Honoré gestisce il tono dell’opera lascia l’amaro in bocca. Infatti, Marcello Mio, tende purtroppo ad essere una commedia quirky, dove l’ossessione e il trauma che Chiara Mastroianni vive, viene inscenato esclusivamente come una battuta che si ripete all’infinito. Esemplificativa è una sequenza dove l’attrice è invitata al programma televisivo A Ruota Libera dove è presente anche Stefania Sandrelli, che avrà l’incarico di riconoscere il “vero” Mastroianni tra diversi cosplay. Il tono ridicolo e sopra le righe di quella scena racchiude perfettamente i problemi principali del lungometraggio. Vista la tematica affrontata ci si aspettava anche una sorta di omaggio nei confronti di uno degli attori italiani più rinomati, ma i pochi riferimenti alla carriera non convincono appieno. Riteniamo la selezione di Marcello Mio nella Competizione piuttosto ingiustificata, soprattutto se si prende in considerazione il fatto che uno dei migliori film francesi al festival, Misericorde di Alain Guiraudie, è stato relegato nella sezione Cannes Premiere. Sembra quasi che Thierry Fremaux abbia preso la decisione di inserire la pellicola nel programma solo per “accaparrarsi” più celebrità possibili sul red carpet, come Catherine Deneuve, Fabrice Luchini e Melvil Poupaud, che nel film risultano limitati dalla natura “ridicola” dell’opera.