di Omar Franini, Antonio Orrico, Cecilia Parini, Arturo Garavaglia e Lorenzo Sartor
NC-277
21.02.2025
In questo terzo appuntamento esploreremo ancora la Competizione della Berlinale, da Mother’s Baby di Johanna Moder e If I Had Legs I’d Kick You di Mary Bronstein - due opere simili tematicamente, che affrontano la maternità e le difficoltà legate ad essa in maniera singolare - a Girls on Wire, melodramma di Vivian Qu, e What Marielle Knows, piacevole commedia di Frédéric Hambalek. Continueremo anche con la nostra panoramica sui film presentati nelle sezioni secondarie, tra cui Bombam (Spring Night) di Kang Mi-ja, Confidante di Çağla Zencirci e Guillaume Giovanetti, Sunshine di Antoinette Jadaone, Under the Flags, the Sun di Juanjo Pereira, Late Shift di Petra Biondina Volpe, Our Wildest Days di Vasilis Ketatos ed infine Canone Effimero di Gianluca e Massimiliano De Serio, documentario che esplora le forme musicali popolari delle varie regioni del nostro Paese.
Girls on Wire, di Vivian Qu
Vivian Qu è una tra le personalità più importanti del cinema asiatico degli ultimi anni. Dopo aver girato il thriller paranoico Trap Street (2013) e il dramma Angels Wear White (2017), entrambi presentati alla Mostra del Cinema di Venezia, la regista torna alla ribalta al 75° Festival Internazionale di Berlino, per presentare Girls On Wire. L'ultimo film dell'autrice cinese si forgia di uno stile apparentemente simile a tantissimi altri crime movie di quest’epoca, sfruttando degli elementi tipici di registi quali Diao Yi’nan e Jia Zhang-ke, come i piani sequenza, la fotografia al neon e soprattutto un’attitudine al "clima da tragedia". Ma è nello sviluppo della sua vicenda e, soprattutto, nel suo significato nascosto - che sfugge in un primo momento e che torna a galla soprattutto nell’ultima mezz’ora finale - che Vivian Qu costruisce un’intelligente parabola che va a ricollegarsi pienamente all’attualità e, soprattutto, al rapporto tra Cina e Hong Kong. Nel corso delle battute finali, infatti, si capisce il suo intento, ovvero quello di rappresentare una Cina continentale decisamente dura nei confronti dei suoi stessi “figli” (con tanto di montaggio alternato tra un passato che si riferisce, indirettamente, al 1997 e il presente, espresso tramite le relazioni che coinvolgono le due protagoniste) e che, in qualche modo, è destinata a “sopraffarli”. Girls On Wire è dunque un lungometraggio che contestualizza in modo intrigante la questione relativa alla Mainland China, rendendola mai esplicitamente manifesta e assumendo dei tratti davvero intriganti, che riaggiornano l’ottica del rapporto che c’è tra il noir e l’handover, con il primo che diventa piena espressione del caos prodotto dal secondo e dunque specchio di un’attualità tragica.
What Marielle Knows?, di Frédéric Hambalek
What Marielle Knows? parte da una premessa tanto semplice quanto estremamente efficace: cosa succederebbe se un figlio dotato di telepatia potesse visualizzare le vite dei suoi genitori quando non sono con lui? Su questa base il regista Frédéric Hambalek costruisce una divertente commedia che intrattiene lo spettatore per tutta la sua breve durata. Il successo della scrittura del film risiede nello sviluppare poche situazioni comiche, che ruotano attorno alla vita sessuale e alle relazioni lavorative, e approfondirle con tutto il peso del non detto che si manifesta nella quotidiana vita familiare. Interessante è poi il modo con cui il regista sceglie di inquadrare i suoi personaggi, facendo compiere in diverse scene alla macchina da presa una serie di movimenti apparentemente ingiustificati che si configurano come uno sguardo invisibile ma onnisciente sulle loro azioni. Lo sguardo di una figlia che, messa in scena quasi come il Berry Kehogan de Il Sacrificio del Cervo Sacro (2017), spoglia i suoi genitori dei loro costumi culturali, costringendoli a venire a patto con le loro contraddizioni e a costruire una relazione più autentica. Il film ha un'inflessione nei minuti finali, quando Hambalek sembra a tutti i costi intenzionato a dare una morale e a cercare una svolta drammatica che possa chiudere la sua opera. Nonostante questo, What Marielle Knows? rimane un'ottima commedia e una satira ben orchestrata sulle nuove famiglie borghesi tedesche e sulla fragilità di sistemi di relazioni fondati sull'apparenza. Nulla di nuovo, certo, ma raccontato con le immagini giuste.
Bombam (Spring Night), di Kang Mi-ja
Bombam (Spring Night), il nuovo film di King Mi-ja presentato nella sezione Forum del Festival di Berlino, narra di due anime sole che si incontrano a un matrimonio e da lì non si lasciano più. Quello che potrebbe sembrare l’incipit di una storia d’amore si rivela, in realtà, la vicenda di due persone che chiedono aiuto in una società che sembra non volerli vedere. La regista sudcoreana segue la particolare routine nata tra Yeong-gyeong e Su-hwan, fatta di bevute serali dove lui riaccompagna a casa lei che, appoggiata sulle sue spalle, recita una poesia che racconta le notti di primavera. Quella che all’inizio è un’assurda frequentazione, nel tempo si trasforma in qualcosa di più, in un’amicizia che affonda le sue radici nelle difficoltà che i due protagonisti sono costretti ad affrontare, e per colpa delle quali sono stati abbandonati da tutti i loro cari. L'opera presenta una lentezza che riesce perfettamente a rispecchiare questa sorta di immobilità tra i due personaggi, come se stessero dentro a una bolla tutta loro, inoltre ogni singola sequenza è come se racchiudesse in sé la "fotografia" di questo rapporto platonico, raccontato egregiamente dagli attori Han Ye-ri e Kim Seol-jin. Han Ye-ri, incanta con la sua interpretazione che all’inizio "tiene a distanza" lo spettatore, per poi avvicinarlo a sé nel corso del film. Bombam (Spring Night) è, allo stesso tempo, un film crudo e poetico, che convince nonostante una regia estremamente accademica e meccanica, e trova la sua forza nel rapporto tra Yeong-gyeong e Su-hwan.
Under the Flags, the Sun, di Juanjo Pereira
Dal 1954 al 1989 il Paraguay ha subito i soprusi del regime di Alfredo Stroessner, il quale per anni ha represso le proteste contro il governo adoperando metodi estremamente violenti e portando avanti una politica di propaganda. Il montaggio di filmati d’archivio di Juanjo Pereira attinge proprio da questi materiali video propagandistici allo scopo di costruire un proprio percorso di ribaltamento delle immagini girate a favore del regime, disvelando progressivamente la loro natura coercitiva e le bugie della dittatura di Stroessner. Per quanto appaia importante apprendere il modo in cui il Partito Colorado in Uruguay ha aiutato nazisti come Josef Mengele a sfuggire al giudizio della Corte Internazionale o come esso abbia represso la memoria delle vittime socialiste del regime, la vera potenza dell’opera risiede nell’estraniamento creato dal montaggio. Tutti i film analogici selezionati da Pereira vengono infatti decontestualizzati, velocizzati, rielaborati in reverse o giustapposti ad altre immagini che ne contraddicono il contenuto, in un’operazione di continua negazione delle intenzioni originarie di chi filmava. Suoni extradiegetici e distorsioni visive diventano il mezzo stilistico con cui veicolare una rilettura dissacrante della Storia, scevra quindi di qualsiasi forma di imparzialità, in favore della più sprezzante ironia con cui il dittatore e i suoi sottoposti vengono dipinti. Il cinema, mostrato come mezzo ideologico con cui trasmettere la forza di una nazione, diventa strumento con cui queste verità costruite possono essere frammentate, rielaborate secondo una nuova prospettiva. L’estraniamento provocato dal mezzo digitale che si intromette all’interno delle immagini analogiche rappresenta così la modalità con cui il regista disorienta lo spettatore, mostrando come dietro le immagini di pace si nasconda la reale natura del regime. I video degradati e ridotti ormai a una pessima qualità in cui vengono discussi i crimini della dittatura diventano una sorta di spiraglio su una dimensione grottesca, permettendo allo spettatore di accedere a immagini proibite, ignorate dalle pagine della Storia, in cui il disagio risiede nel mettersi a osservare qualcosa di cui dovremmo rimanere all’oscuro. Pertanto, la distorsione digitale emerge con forza, mostrando i protagonisti della storia paraguaiana come fantasmi i cui peccati possono essere rivelati solo dal meccanismo stesso del cinema. Attraverso la sua precisa selezione e attenta rielaborazione delle immagini, Juanjo Pereira riesce così a ribaltare il ruolo del cinema come strumento di massificazione politico, mostrando come attraverso l’artificio della finzione possa essere riscritta la Storia di un’intera nazione.
Confidente, di Çağla Zencirci & Guillaume Giovanetti
Il sesso rischia di metterci a nudo in tutti i sensi. Siamo più vulnerabili ed per questo che forse, quando ci fidiamo del partner che abbiamo di fronte, tendiamo a non avere più freni e a raccontare tutti i nostri più piccoli segreti e perversioni. Questa per Arzu, una giovane donna che lavora per una linea telefonica erotica ad Ankara, è la quotidianità. È il 1999, Sabiha, che al lavoro si fa chiamare Arzu, passa le sue giornate ad assecondare i desideri più profondi degli uomini che la chiamano, da quello che ama il sesso anale, a colui che adora essere maltrattato, fino al triste vedovo che la chiama anche solo per avere un po’ di compagnia. Dopo una chiamata scherzosa, ricevuta da un gruppo di adolescenti, la quotidianità di Arzu crolla a seguito di un terribile terremoto che colpisce Istanbul. La protagonista si ritrova così come unico ponte tra il suo giovane cliente sepolto vivo sotto le macerie e il mondo esterno. Per salvarlo, la centralinista dovrà intraprendere una telefonata che la porterà a partecipare a un gioco politico più grande di lei. Il quarto film della coppia turco-francese composta da Çağla Zencirci e Guillaume Giovanetti è una piccola perla in questa Berlinale. Il lungometraggio veicola un discorso femminista attraverso il mezzo dell’action-movie, ma tutto viene contenuto tra quattro mura. Non vediamo mai il mondo fuori dalla casa dove Arzu e le sue colleghe lavorano, ma nella quiete riusciamo lo stesso a percepire il caos esterno attraverso la cornetta del telefono. Saadet Işıl Aksoy, ci regala un’interpretazione magistrale, permettendoci di entrare con lei nei panni di Arzu. Viviamo con lei la noia delle chiamate, la paura di non riuscire a salvare il giovane ragazzo, lo sconforto di fronte al genere maschile, ma anche la forza di ribellarsi a questo schema. Se in Barbie di Greta Gerwig, America Ferrara intraprendeva un monologo sulle donne tanto sentito quanti per alcuni versi banale, Saadet Işıl Aksoy ci riporta quello stesso discorso in maniera sincera e per nulla scontata, perché il potere delle donne sta nel saper sempre ascoltare, fino a diventare le uniche confidenti.
Our Wildest Days, di Vasilis Kekatos
Road movie dall'estetica abbacinante, Our Wildest Days trascina lo spettatore nel viaggio di Chloe (Daphné Patakia), una ragazza che scappa di casa e si unisce a un gruppo di ragazzi che viaggiano per la Grecia compiendo rapine ai danni di banchi di pegni. Coming of age patinato, il film d'esordio del greco Vasilis Ketatos dietro un'estetica pop porta in scena i fantasmi della gioventù greca post-2011. All'inseguimento di un'utopia egualitaria, i protagonisti di Our Wildest Days percorrono un Paese ridotto allo stremo. Come dei nuovi Robin Hood, i giovani rubano a chi si è arricchito con la crisi per restituire ai legittimi proprietari ciò che avevano impegnato. Nonostante alcune scelte di regia che appaiano sin troppo ridondanti, Our Wildest Days è un film sincero, in cui lo sguardo della macchina da presa fa da specchio all'irrequietudine e al desiderio che anima la giovane Chloe. Un film che si prende le sue pause e poi accelera, che, lungi dal seguire una retta univoca, costella il bildungsroman della protagonista di indecisioni, di ripensamenti, di continue rinegoziazioni. Un atto d'amore verso una gioventù fantasma, ma che deve continuare a lottare per reclamare un posto, per proporre una propria idea di mondo diversa da quella ereditata dai padri e costruire una società migliore.
After Dreaming, di Christine Haroutounian
Due giovani, un soldato e una ragazza, partono per un viaggio lungo le strade di un’Armenia martoriata dalla guerra, procedendo verso una destinazione sconosciuta e perdendosi man mano che il loro vagabondaggio prosegue. Questo incipit da cui parte l’opera prima di Christine Haroutounian è in realtà l’unico appiglio narrativo di un esperimento radicale che nega allo spettatore qualunque background, evoluzione o introspezione psicologica dei protagonisti, in favore dei tanti momenti vuoti di contemplazione che riempiono il film. La cineasta, supportata dal regista messicano Carlo Reygadas, qui in veste di produttore, compie un gesto coraggioso, scegliendo di dedicare gran parte del minutaggio a momenti di stasi, a ripetizioni, distensioni di un discorso che non sembra mai iniziare. I personaggi che abitano la dimensione sospesa messa in scena dalla regista possono fermarsi per molti minuti a meditare sull’orizzonte, dei soldati addestrati possono rimanere a lungo nella posizione a loro ordinata e un numero musicale durante un matrimonio può essere mostrato nella sua interezza fino all’assuefazione, conducendo lo spettatore in uno stato di sottomissione nei confronti di immagini da cui non può trarre alcuna soddisfazione. Il viaggio condotto dai protagonisti è infatti accompagnato da un terzo personaggio, ovvero la macchina da presa stessa, che si emancipa progressivamente dal loro punto di vista, distaccandosi e lasciandoli soli nel loro viaggio di autodistruzione. Una macchina da presa che insiste esplicitamente sul fuori fuoco, suggerendo l’idea che tutto quello che stiamo guardando sia un sogno, un’allucinazione che deve ancora prendere forma, dove le categorie di tempo e spazio non sono più definibili e in cui i protagonisti stessi vivono di gesti vuoti, lasciati al caso. Come lo sguardo della cineasta si libera dei suoi personaggi, anche chi guarda il film deve lasciarsi avvolgere dagli spazi eliminali, dal montaggio ipnotico, dalle inquadrature sghembe, dai piano-sequenza con camera a mano e dai lunghi silenzi. Nell’Armenia denunciata da Christine Haroutounian, uomini e donne sono a loro modo entrambi manichini, carne da macello con un preciso ruolo da compiere. L’uomo è destinato a morire per la patria, la donna a diventare la vedova che lo deve piangere a casa. I rumori della guerra e dei cannoni si mischiano così ai suoni delle campane delle chiese e il matrimonio che i giovani armeni vengono costretti a compiere diventa una prigione, dove forse l’unica via di fuga sta proprio in un orizzonte ideale raggiungibile solo con lo sguardo e mai fisicamente. Il viaggio dei protagonisti non è quindi quello di due corpi che devono trovare la liberazione qui sulla terra, ma di due sguardi che devono imparare di nuovo come mettersi a fuoco.
Canone Effimero, di Gianluca e Massimiliano De Serio
Unico film italiano presentato alla Berlinale, Canone effimero è una ricerca antropologica sulle forme musicali popolari che attraversa varie regioni della penisola. Dentro a un 1:1 stretto, i De Serio si soffermano sui volti e sui dettagli della loro ricerca, donando ad ogni immagine del film una forte valenza documentaria. La macchina da presa rispetta i tempi della musica, rispetta i corpi dei protagonisti del film, rispetta le loro narrazioni e i loro ricordi, non concedendosi mai stacchi nel montaggio e presentando un unico angolo di ripresa. Coglie nella durata dell'immagine il canone e cerca di restituirlo a una temporalità cristallizzata, destinata a scorrere in movimento sullo schermo. L'ossimoro che dà il titolo al film, del resto, è anche un riferimento all'immagine cinematografica, attraversata dalla doppia anima di fissazione e transitorietà. Frutto di un preciso studio etnomusicologico, Canone effimero trascina lo spettatore in un flusso audiovisivo privo di coordinate geografiche in cui domina l'elemento della musica, urgente testimonianza di un bagaglio culturale che non deve logorarsi, ma sopravvivere grazie a nuove voci. I volti sullo schermo, grazie al formato stretto scelto dai De Serio, diventano quindi come delle icone, che tramandano un canone e vanno oltre la loro natura effimera. Volti di memoria che, nelle scene finali del film, conducono addirittura l'immagine a tornare indietro su se stessa, come se le canzoni e la musica fossero in grado di far tornare indietro nel tempo. Canone effimero è un'opera preziosa da cui lo spettatore esce purificato.
Late Shift, di Petra Biondina Volpe
Presentato nella sezione Berlinale Special, Late Sift di Petra Biondina Volpe segue le vicende di un reparto chirurgico ospedaliero, esplorando il punto di vista di Floria (Leonie Benesch), infermiera che, nonostante l’atmosfera caotica e frenetica, è in grado di prendersi cura dei suoi pazienti in maniera inappuntabile mostrando completa dedizione e comprensione. Ambientata nel corso di un solo giorno, l’opera di Volpe inizialmente mostra la routine di Floria con i vari check quotidiani, ma man mano che le ore proseguono, la tensione aumenta anche per via della scarsità di personale. Tutto viene caratterizzato da lunghi piani sequenza che seguono Floria all’interno della struttura ospedaliera, che assume quasi una forma labirintica e nel quale la giovane infermiera deve spostarsi da una stanza all’altra freneticamente. Con una durata di soli novanta minuti, Late Shift è un’opera più che discreta, il cui punto di forza risiede nella sensazionale interpretazione centrale di Benesch, che in poco tempo sta diventando una delle attrici di punta del cinema europeo. Dopo le sublimi interpretazioni in The Teacher’s Lounge (2023) e September 5 (2024), l’attrice tedesca porta ancora una volta sullo schermo il ritratto complesso di una donna in una situazione di costante pressione. Quello che colpisce è la naturalezza con cui l’interprete mostra i cambi repentini nel mood dell’infermiera a seconda delle situazioni affrontate.
Sunshine, di Antoinette Jadaone
Antoniette Jadaone porta sullo schermo la difficile tematica dell’aborto focalizzandosi sul corpo di Sunshine (Maris Racal), giovane ginnasta filippina in procinto di partecipare alle qualificazioni per i Giochi Olimpici che si trova a dover fare i conti con una gravidanza inattesa. Nelle Filippine l’aborto è ilegale. Fatta questa considerazione, è interessante notare come lo sguardo della regista coincida, in tutto e per tutto, con quello della sua giovane protagonista, favorendo un forte processo di immedesimazione. Tutte le immagini di Sunshine sono a servizio del personaggio, della sua storia e della sua evoluzione. Tutte le scene della protagonista sono funzionali a empatizzare con lei e - di conseguenza - a mettere in evidenza le discrasie del sistema sociale filippino. Film di denuncia travestito da coming-of-age, il lungometraggio di Antoniette Jadaone arriva con semplicità a tutti e comunica al meglio il suo messaggio. Il merito va principalmente a una regia estremamente sensibile, che calibra con parsimonia gli elementi più drammatici e tiene in perfetto equilibrio l'implicito e l'esplicito senza mai cercare immagini ricattatorie. Al contrario, la tematica della gravidanza viene trattata come un incidente con cui una ragazza deve interfacciarsi per inseguire il proprio sogno. Forse sta proprio in questo la forza del film della Jadaone. Forse l’unico modo per far arrivare in modo chiaro un messaggio ad un’ampia platea è cercare immagini semplici dietro cui ognuno può rispecchiarsi. Sunshine colpisce nel segno, e lo fa con una traiettoria ben precisa.
Sorda, di Eva Libertad
La maternità viene da sempre dipinta come il periodo più gioioso della vita di ogni donna, ma non sempre la realtà corrisponde all’immaginario collettivo. Essere madri è difficile. Ci si sente inadatte, incapaci di crescere una nuova vita e tristi o arrabbiate di star male quando il mondo intero si aspetta di vederci felici. Cosa accade poi quando a diventare madre è una persona che già per la società in cui vive viene percepita come “difettosa”? Eva Libertad porta nella sezione Panorama di Berlino il suo ultimo film, Sorda, dove affronta il tema della maternità da parte di una donna non udente. Ángela, sorda da quando era piccola, e il suo compagno Héctor, udente, stanno aspettando una bambina. Il rapporto tra i due è meraviglioso, vivono reciprocamente i loro “mondi”, Héctor parla con la lingua dei segni e frequenta gli amici della moglie, e Ángela “ascolta” il mondo attraverso il marito. Ma la quiete verrà spezzata dall’arrivo della piccola e dai desideri contrastanti dei due neo-genitori, lui vorrebbe che la figlia fosse udente, mentre Ángela sente il desiderio di condividere il proprio mondo fatto di silenzi e vibrazioni con la bambina. In questo fIlm - nato originariamente come cortometraggio nel 2021, e candidato anche ai Goya Awards nel 2023 - Libertad mette in scena, grazie anche alla complicità e il talento di Miriam Garlo (protagonista anche del corto), le difficoltà dell’essere madre e non udente nella società odierna. Ángela è una donna piena di vita e gioia che, man mano che la figlia cresce, si spegne sempre di più a causa del suo nuovo ruolo. Diventare madre spesso provoca l’isolamento della donna, ma cosa può provare una persona che da sempre viene isolata dalla società? La regista spagnola pone l’accento anche sulle molte barriere che le persone sorde devono affrontare, calzante è in questo senso la scena in sala parto, dove non c'è nessuno che possa comunicare con Ángela per rassicurarla, oppure quella dove è presente il commesso di un negozio per apparecchi acustici e visivi che non sa la lingua dei segni. Eva Libertad attraverso la propria regia cerca di farci entrare nel mondo di Ángela, facendoci “sentire” quello che lei “sente” e vede, senza mai cascare nel pietismo ma mostrandoci le difficoltà e le gioie di una donna alla sua prima gravidanza.
Queerpanorama, di Jun Li
È un film di dialoghi e di relazioni, Queerpanorama. Un film di identità e di genere, di reciprocità e insperate interconnessioni. La macchina da presa di Jun Li osserva, fissa, le varie avventure sessuali che il giovane protagonista del film compie con diversi uomini e le varie identità che, di volta in volta, adotta nel presentarsi loro. Il protagonista di Queerpanorama è un corpo nudo, un agente, un vuoto, che cerca di compiersi nelle relazioni con gli uomini con cui ha rapporti sessuali. È un’identità che cerca la completezza e - quindi - si relaziona con uomini di diversa provenienza geografica e diversa età. In una Hong Kong d’interni, il bianco e nero algido di Jun Li inscatola i personaggi nell’ambiente, prediligendo la neutralità del campo totale e concedendosi pochi ma significativi stacchi su primi piani. I numerosi dialoghi che puntellano l'opera descrivono una contemporaneità priva di coordinate, un mondo in cui l’identità sembra destinata a dissolversi per la mancanza di relazioni. Episodico e, a tratti, eccessivamente verboso, Queerpanorama è uno spaccato di una società globale afflitta dalla solitudine che cerca una propria compiutezza. Nonostante il pessimismo che pervade l’atmosfera del film, nel finale la camera si concede un movimento, un progressivo avvicinamento al corpo del protagonista e del suo nuovo amante con cui sembra trovare una autentica sintonia. Forse non è ancora detta l’ultima parola.
Mother’s Baby, di Johanna Moder
Julia (una eccellente Marie Leuenberger) è una direttrice d'orchestra di successo che si sta preparando a una tournée sulle principali sinfonie di Schubert, una musica dal ritmo incalzante con cui ha sempre trovato una forte sintonia. Questo progetto verrà temporaneamente messo da parte poiché Julia e il marito Georg desiderano da tanto un bambino e, dopo diversi tentativi, riescono nell'obbiettivo a seguito dell'incontrato con uno specialista, il Dottor Vilfort (il sempre ambiguo ed inquietante Claes Bang), che ha sottoposto la donna ad una cura sperimentale. Anche se il parto va a buon fine, il neonato viene allontanato per una notte dalla madre per via di alcune complicazioni. Quando questo verrà finalmente riportato ai genitori, Julia inizierà a nutrire dei dubbi e sospetterà che la clinica abbia scambiato il piccolo. Mother’s Baby, quinto lungometraggio di Johanna Moder, pone lo spettatore dentro lo stato d’animo di Julia, un crescendo di tensione e psicosi che rispecchia proprio le sinfonie tanto studiate dalla direttrice. Julia è davvero la vittima di un complotto perpetrato dal marito e dai medici della clinica privata? Con richiami piuttosto espliciti a Rosemary’s Baby, specialmente nella dinamica moglie-marito-dottore, Moder dirige un thriller psicologico dalle molteplici sfaccettature sulla depressione post partum e quella specifica esperienza interiore nella quale una madre non riesce a creare una connessione con il nascituro. Julia ha sempre cercato di mantenere un determinato controllo sulla sua vita, un’illusione che viene a sparire per via della maternità, fino ad arrivare alla dissoluzione della propria persona. La regia di Moder eccelle nel mostrare questa condizione decadente della protagonista; da i lunghi silenzi per richiamare non solo la condizione d’isolamento della donna, ma anche per mostrare la sottile linea tra percezione e realtà, alle varie metafore umane ed animalesche, come l’implemento degli axolotl, creature la cui rigenerazione affascina il mondo cinico e meccanico di Vilfort. Quello che colpisce di Mother’s Baby è il controllo formale di Moder, la cui visione non scade mai nel body horror, ma punta molto sul creare un’atmosfera inquieta tramite il sound design e la colonna sonora allo scopo di incanalare la paranoia di Julia. Anche se non reinventa il genere o le tematiche affrontate, gli spettacolari ultimi dieci minuti, dove finalmente si scopre la “verità”, rendono Mother’s Baby un film più che lodevole.
1001 Frames, di Mehrnoush Alia
È prima di tutto uno splendido saggio sulle possibilità del fuori campo, 1001 frames. Riprendendo la lezione di film di Kiarostami come Shirin (2008) e Ten (2002), Mehrnoush Alia porta in scena i corpi di attrici di diverse età alle prese con un provino. 1001 frames cattura la relazione che si instaura fra le donne davanti alla macchina da presa e la voce del regista, mai interamente in campo, le cui richieste si fanno di volta in volta più ambigue fino a diventare vere e proprie violenze nei loro confronti. Metacinema che utilizza in chiave simbolica il dispositivo del provino per denunciare la condizione subalterna della donna in una società patriarcale e nel mondo del cinema, il film di Mehrnoush Alia utilizza pochi ma chiari elementi per portare fino a compimento la propria tesi. La macchina da presa, lo sguardo maschile, scruta i corpi delle attrici, le circonda arrivando quasi a minacciarle. Nonostante la natura evidentemente sperimentale del film, la progressione narrativa viene gestita con grande abilità dalla regista. Il crescendo di tensione è credibile e passa per diversi momenti estremamente intensi che mettono a dura prova lo spettatore, chiamato a far fronte a un orrore che non vede ma che percepisce dalle parole e dalle reazioni delle attrici. Il finale, che aggiunge un'ulteriore strato metacinematografico al film, ci appare come una coda non necessaria, atta solo a creare una cornice finzionale e a rendere più digeribile la violenza portata in scena. Una leggerezza che grava sin troppo sull'architettura dell'opera.
If I Had Legs I’d Kick You, di Mary Brostein
Durante una seduta terapeutica, una bambina inizia a descrivere la personalità della madre paragonandola a un “putty that can be stretched”, ovvero una pasta modellabile che può essere deformata o addirittura rompersi se subisce un enorme stress. La camera non inquadra mai la bambina o la terapeuta, ma si concentra su Linda (Rose Byrne), la madre che, sentendo queste parole, si indispettisce e cerca di negare il tutto, ma l’intenso closeup smentisce le sue parole. Come ogni anno, la Berlinale propone sempre in Competizione un film che è stato presentato prima al Sundance, e dopo l’enorme successo di Past Lives (2023) di Celine Song e A Different Man (2024) di Aron Schimberg, è arrivato il turno di Mary Bronstein con If I Had Legs I’d Kick You. Il film narra le vicende di Linda, terapista che sta faticando a crescere la figlia per via di una particolare malattia intestinale di cui soffre. Il marito, essendo sempre via per lavoro, non è mai presente, lasciando tutta la responsabilità alla moglie. La situazione peggiora sempre di più quando il soffitto della loro abitazione crolla all’improvviso, creando una voragine che rende l’appartamento inabitabile. Con queste scene d’introduzione Bronstein presenta già il ritmo dell’opera e quello che succederà nelle seguenti due ore, un test continuo per vedere quanto Linda possa resistere prima di cedere allo stress e crollare definitivamente. La visione stilistica di Bronstein e la sua mise en scene sono ammirevoli; il lavoro sul soundscape è il montaggio frenetico riescono ad immergere lo spettatore nell'incessante attacco di panico che caratterizza tutta la vita di Linda, e Rose Byrne, nella sua miglior interpretazione, sorregge la maggior parte del film sulle sue spalle, trasmettendo in maniera estremamente empatia la difficile condizione del suo personaggio. Il problema principale dell’opera risiede per lo più nel tono del film, che spesso scade nei peggiori stereotipi quirky del cinema indipendente statunitense con alcuni personaggi secondari. La scrittura risulta a tratti prevedibile e piuttosto moraleggiante nel messaggio che vuole trasmettere sulle difficoltà della maternità. Inoltre, non aiuta il modo in cui Bronstein imbastisce determinate scelte all’interno dell’opera, come il rimarcato simbolismo dietro alla voragine nell’appartamento, o come viene gestita la presenza della figlia all’interno del film. Nonostante questi difetti, If I Had Legs I’d Kick You risulta un'opera riuscita, soprattutto per la bravura di Byrne, ma rimane comunque quella sensazione che si poteva fare di più.
di Omar Franini, Antonio Orrico, Cecilia Parini, Arturo Garavaglia e Lorenzo Sartor
NC-277
21.02.2025
In questo terzo appuntamento esploreremo ancora la Competizione della Berlinale, da Mother’s Baby di Johanna Moder e If I Had Legs I’d Kick You di Mary Bronstein - due opere simili tematicamente, che affrontano la maternità e le difficoltà legate ad essa in maniera singolare - a Girls on Wire, melodramma di Vivian Qu, e What Marielle Knows, piacevole commedia di Frédéric Hambalek. Continueremo anche con la nostra panoramica sui film presentati nelle sezioni secondarie, tra cui Bombam (Spring Night) di Kang Mi-ja, Confidante di Çağla Zencirci e Guillaume Giovanetti, Sunshine di Antoinette Jadaone, Under the Flags, the Sun di Juanjo Pereira, Late Shift di Petra Biondina Volpe, Our Wildest Days di Vasilis Ketatos ed infine Canone Effimero di Gianluca e Massimiliano De Serio, documentario che esplora le forme musicali popolari delle varie regioni del nostro Paese.
Girls on Wire, di Vivian Qu
Vivian Qu è una tra le personalità più importanti del cinema asiatico degli ultimi anni. Dopo aver girato il thriller paranoico Trap Street (2013) e il dramma Angels Wear White (2017), entrambi presentati alla Mostra del Cinema di Venezia, la regista torna alla ribalta al 75° Festival Internazionale di Berlino, per presentare Girls On Wire. L'ultimo film dell'autrice cinese si forgia di uno stile apparentemente simile a tantissimi altri crime movie di quest’epoca, sfruttando degli elementi tipici di registi quali Diao Yi’nan e Jia Zhang-ke, come i piani sequenza, la fotografia al neon e soprattutto un’attitudine al "clima da tragedia". Ma è nello sviluppo della sua vicenda e, soprattutto, nel suo significato nascosto - che sfugge in un primo momento e che torna a galla soprattutto nell’ultima mezz’ora finale - che Vivian Qu costruisce un’intelligente parabola che va a ricollegarsi pienamente all’attualità e, soprattutto, al rapporto tra Cina e Hong Kong. Nel corso delle battute finali, infatti, si capisce il suo intento, ovvero quello di rappresentare una Cina continentale decisamente dura nei confronti dei suoi stessi “figli” (con tanto di montaggio alternato tra un passato che si riferisce, indirettamente, al 1997 e il presente, espresso tramite le relazioni che coinvolgono le due protagoniste) e che, in qualche modo, è destinata a “sopraffarli”. Girls On Wire è dunque un lungometraggio che contestualizza in modo intrigante la questione relativa alla Mainland China, rendendola mai esplicitamente manifesta e assumendo dei tratti davvero intriganti, che riaggiornano l’ottica del rapporto che c’è tra il noir e l’handover, con il primo che diventa piena espressione del caos prodotto dal secondo e dunque specchio di un’attualità tragica.
What Marielle Knows?, di Frédéric Hambalek
What Marielle Knows? parte da una premessa tanto semplice quanto estremamente efficace: cosa succederebbe se un figlio dotato di telepatia potesse visualizzare le vite dei suoi genitori quando non sono con lui? Su questa base il regista Frédéric Hambalek costruisce una divertente commedia che intrattiene lo spettatore per tutta la sua breve durata. Il successo della scrittura del film risiede nello sviluppare poche situazioni comiche, che ruotano attorno alla vita sessuale e alle relazioni lavorative, e approfondirle con tutto il peso del non detto che si manifesta nella quotidiana vita familiare. Interessante è poi il modo con cui il regista sceglie di inquadrare i suoi personaggi, facendo compiere in diverse scene alla macchina da presa una serie di movimenti apparentemente ingiustificati che si configurano come uno sguardo invisibile ma onnisciente sulle loro azioni. Lo sguardo di una figlia che, messa in scena quasi come il Berry Kehogan de Il Sacrificio del Cervo Sacro (2017), spoglia i suoi genitori dei loro costumi culturali, costringendoli a venire a patto con le loro contraddizioni e a costruire una relazione più autentica. Il film ha un'inflessione nei minuti finali, quando Hambalek sembra a tutti i costi intenzionato a dare una morale e a cercare una svolta drammatica che possa chiudere la sua opera. Nonostante questo, What Marielle Knows? rimane un'ottima commedia e una satira ben orchestrata sulle nuove famiglie borghesi tedesche e sulla fragilità di sistemi di relazioni fondati sull'apparenza. Nulla di nuovo, certo, ma raccontato con le immagini giuste.
Bombam (Spring Night), di Kang Mi-ja
Bombam (Spring Night), il nuovo film di King Mi-ja presentato nella sezione Forum del Festival di Berlino, narra di due anime sole che si incontrano a un matrimonio e da lì non si lasciano più. Quello che potrebbe sembrare l’incipit di una storia d’amore si rivela, in realtà, la vicenda di due persone che chiedono aiuto in una società che sembra non volerli vedere. La regista sudcoreana segue la particolare routine nata tra Yeong-gyeong e Su-hwan, fatta di bevute serali dove lui riaccompagna a casa lei che, appoggiata sulle sue spalle, recita una poesia che racconta le notti di primavera. Quella che all’inizio è un’assurda frequentazione, nel tempo si trasforma in qualcosa di più, in un’amicizia che affonda le sue radici nelle difficoltà che i due protagonisti sono costretti ad affrontare, e per colpa delle quali sono stati abbandonati da tutti i loro cari. L'opera presenta una lentezza che riesce perfettamente a rispecchiare questa sorta di immobilità tra i due personaggi, come se stessero dentro a una bolla tutta loro, inoltre ogni singola sequenza è come se racchiudesse in sé la "fotografia" di questo rapporto platonico, raccontato egregiamente dagli attori Han Ye-ri e Kim Seol-jin. Han Ye-ri, incanta con la sua interpretazione che all’inizio "tiene a distanza" lo spettatore, per poi avvicinarlo a sé nel corso del film. Bombam (Spring Night) è, allo stesso tempo, un film crudo e poetico, che convince nonostante una regia estremamente accademica e meccanica, e trova la sua forza nel rapporto tra Yeong-gyeong e Su-hwan.
Under the Flags, the Sun, di Juanjo Pereira
Dal 1954 al 1989 il Paraguay ha subito i soprusi del regime di Alfredo Stroessner, il quale per anni ha represso le proteste contro il governo adoperando metodi estremamente violenti e portando avanti una politica di propaganda. Il montaggio di filmati d’archivio di Juanjo Pereira attinge proprio da questi materiali video propagandistici allo scopo di costruire un proprio percorso di ribaltamento delle immagini girate a favore del regime, disvelando progressivamente la loro natura coercitiva e le bugie della dittatura di Stroessner. Per quanto appaia importante apprendere il modo in cui il Partito Colorado in Uruguay ha aiutato nazisti come Josef Mengele a sfuggire al giudizio della Corte Internazionale o come esso abbia represso la memoria delle vittime socialiste del regime, la vera potenza dell’opera risiede nell’estraniamento creato dal montaggio. Tutti i film analogici selezionati da Pereira vengono infatti decontestualizzati, velocizzati, rielaborati in reverse o giustapposti ad altre immagini che ne contraddicono il contenuto, in un’operazione di continua negazione delle intenzioni originarie di chi filmava. Suoni extradiegetici e distorsioni visive diventano il mezzo stilistico con cui veicolare una rilettura dissacrante della Storia, scevra quindi di qualsiasi forma di imparzialità, in favore della più sprezzante ironia con cui il dittatore e i suoi sottoposti vengono dipinti. Il cinema, mostrato come mezzo ideologico con cui trasmettere la forza di una nazione, diventa strumento con cui queste verità costruite possono essere frammentate, rielaborate secondo una nuova prospettiva. L’estraniamento provocato dal mezzo digitale che si intromette all’interno delle immagini analogiche rappresenta così la modalità con cui il regista disorienta lo spettatore, mostrando come dietro le immagini di pace si nasconda la reale natura del regime. I video degradati e ridotti ormai a una pessima qualità in cui vengono discussi i crimini della dittatura diventano una sorta di spiraglio su una dimensione grottesca, permettendo allo spettatore di accedere a immagini proibite, ignorate dalle pagine della Storia, in cui il disagio risiede nel mettersi a osservare qualcosa di cui dovremmo rimanere all’oscuro. Pertanto, la distorsione digitale emerge con forza, mostrando i protagonisti della storia paraguaiana come fantasmi i cui peccati possono essere rivelati solo dal meccanismo stesso del cinema. Attraverso la sua precisa selezione e attenta rielaborazione delle immagini, Juanjo Pereira riesce così a ribaltare il ruolo del cinema come strumento di massificazione politico, mostrando come attraverso l’artificio della finzione possa essere riscritta la Storia di un’intera nazione.
Confidente, di Çağla Zencirci & Guillaume Giovanetti
Il sesso rischia di metterci a nudo in tutti i sensi. Siamo più vulnerabili ed per questo che forse, quando ci fidiamo del partner che abbiamo di fronte, tendiamo a non avere più freni e a raccontare tutti i nostri più piccoli segreti e perversioni. Questa per Arzu, una giovane donna che lavora per una linea telefonica erotica ad Ankara, è la quotidianità. È il 1999, Sabiha, che al lavoro si fa chiamare Arzu, passa le sue giornate ad assecondare i desideri più profondi degli uomini che la chiamano, da quello che ama il sesso anale, a colui che adora essere maltrattato, fino al triste vedovo che la chiama anche solo per avere un po’ di compagnia. Dopo una chiamata scherzosa, ricevuta da un gruppo di adolescenti, la quotidianità di Arzu crolla a seguito di un terribile terremoto che colpisce Istanbul. La protagonista si ritrova così come unico ponte tra il suo giovane cliente sepolto vivo sotto le macerie e il mondo esterno. Per salvarlo, la centralinista dovrà intraprendere una telefonata che la porterà a partecipare a un gioco politico più grande di lei. Il quarto film della coppia turco-francese composta da Çağla Zencirci e Guillaume Giovanetti è una piccola perla in questa Berlinale. Il lungometraggio veicola un discorso femminista attraverso il mezzo dell’action-movie, ma tutto viene contenuto tra quattro mura. Non vediamo mai il mondo fuori dalla casa dove Arzu e le sue colleghe lavorano, ma nella quiete riusciamo lo stesso a percepire il caos esterno attraverso la cornetta del telefono. Saadet Işıl Aksoy, ci regala un’interpretazione magistrale, permettendoci di entrare con lei nei panni di Arzu. Viviamo con lei la noia delle chiamate, la paura di non riuscire a salvare il giovane ragazzo, lo sconforto di fronte al genere maschile, ma anche la forza di ribellarsi a questo schema. Se in Barbie di Greta Gerwig, America Ferrara intraprendeva un monologo sulle donne tanto sentito quanti per alcuni versi banale, Saadet Işıl Aksoy ci riporta quello stesso discorso in maniera sincera e per nulla scontata, perché il potere delle donne sta nel saper sempre ascoltare, fino a diventare le uniche confidenti.
Our Wildest Days, di Vasilis Kekatos
Road movie dall'estetica abbacinante, Our Wildest Days trascina lo spettatore nel viaggio di Chloe (Daphné Patakia), una ragazza che scappa di casa e si unisce a un gruppo di ragazzi che viaggiano per la Grecia compiendo rapine ai danni di banchi di pegni. Coming of age patinato, il film d'esordio del greco Vasilis Ketatos dietro un'estetica pop porta in scena i fantasmi della gioventù greca post-2011. All'inseguimento di un'utopia egualitaria, i protagonisti di Our Wildest Days percorrono un Paese ridotto allo stremo. Come dei nuovi Robin Hood, i giovani rubano a chi si è arricchito con la crisi per restituire ai legittimi proprietari ciò che avevano impegnato. Nonostante alcune scelte di regia che appaiano sin troppo ridondanti, Our Wildest Days è un film sincero, in cui lo sguardo della macchina da presa fa da specchio all'irrequietudine e al desiderio che anima la giovane Chloe. Un film che si prende le sue pause e poi accelera, che, lungi dal seguire una retta univoca, costella il bildungsroman della protagonista di indecisioni, di ripensamenti, di continue rinegoziazioni. Un atto d'amore verso una gioventù fantasma, ma che deve continuare a lottare per reclamare un posto, per proporre una propria idea di mondo diversa da quella ereditata dai padri e costruire una società migliore.
After Dreaming, di Christine Haroutounian
Due giovani, un soldato e una ragazza, partono per un viaggio lungo le strade di un’Armenia martoriata dalla guerra, procedendo verso una destinazione sconosciuta e perdendosi man mano che il loro vagabondaggio prosegue. Questo incipit da cui parte l’opera prima di Christine Haroutounian è in realtà l’unico appiglio narrativo di un esperimento radicale che nega allo spettatore qualunque background, evoluzione o introspezione psicologica dei protagonisti, in favore dei tanti momenti vuoti di contemplazione che riempiono il film. La cineasta, supportata dal regista messicano Carlo Reygadas, qui in veste di produttore, compie un gesto coraggioso, scegliendo di dedicare gran parte del minutaggio a momenti di stasi, a ripetizioni, distensioni di un discorso che non sembra mai iniziare. I personaggi che abitano la dimensione sospesa messa in scena dalla regista possono fermarsi per molti minuti a meditare sull’orizzonte, dei soldati addestrati possono rimanere a lungo nella posizione a loro ordinata e un numero musicale durante un matrimonio può essere mostrato nella sua interezza fino all’assuefazione, conducendo lo spettatore in uno stato di sottomissione nei confronti di immagini da cui non può trarre alcuna soddisfazione. Il viaggio condotto dai protagonisti è infatti accompagnato da un terzo personaggio, ovvero la macchina da presa stessa, che si emancipa progressivamente dal loro punto di vista, distaccandosi e lasciandoli soli nel loro viaggio di autodistruzione. Una macchina da presa che insiste esplicitamente sul fuori fuoco, suggerendo l’idea che tutto quello che stiamo guardando sia un sogno, un’allucinazione che deve ancora prendere forma, dove le categorie di tempo e spazio non sono più definibili e in cui i protagonisti stessi vivono di gesti vuoti, lasciati al caso. Come lo sguardo della cineasta si libera dei suoi personaggi, anche chi guarda il film deve lasciarsi avvolgere dagli spazi eliminali, dal montaggio ipnotico, dalle inquadrature sghembe, dai piano-sequenza con camera a mano e dai lunghi silenzi. Nell’Armenia denunciata da Christine Haroutounian, uomini e donne sono a loro modo entrambi manichini, carne da macello con un preciso ruolo da compiere. L’uomo è destinato a morire per la patria, la donna a diventare la vedova che lo deve piangere a casa. I rumori della guerra e dei cannoni si mischiano così ai suoni delle campane delle chiese e il matrimonio che i giovani armeni vengono costretti a compiere diventa una prigione, dove forse l’unica via di fuga sta proprio in un orizzonte ideale raggiungibile solo con lo sguardo e mai fisicamente. Il viaggio dei protagonisti non è quindi quello di due corpi che devono trovare la liberazione qui sulla terra, ma di due sguardi che devono imparare di nuovo come mettersi a fuoco.
Canone Effimero, di Gianluca e Massimiliano De Serio
Unico film italiano presentato alla Berlinale, Canone effimero è una ricerca antropologica sulle forme musicali popolari che attraversa varie regioni della penisola. Dentro a un 1:1 stretto, i De Serio si soffermano sui volti e sui dettagli della loro ricerca, donando ad ogni immagine del film una forte valenza documentaria. La macchina da presa rispetta i tempi della musica, rispetta i corpi dei protagonisti del film, rispetta le loro narrazioni e i loro ricordi, non concedendosi mai stacchi nel montaggio e presentando un unico angolo di ripresa. Coglie nella durata dell'immagine il canone e cerca di restituirlo a una temporalità cristallizzata, destinata a scorrere in movimento sullo schermo. L'ossimoro che dà il titolo al film, del resto, è anche un riferimento all'immagine cinematografica, attraversata dalla doppia anima di fissazione e transitorietà. Frutto di un preciso studio etnomusicologico, Canone effimero trascina lo spettatore in un flusso audiovisivo privo di coordinate geografiche in cui domina l'elemento della musica, urgente testimonianza di un bagaglio culturale che non deve logorarsi, ma sopravvivere grazie a nuove voci. I volti sullo schermo, grazie al formato stretto scelto dai De Serio, diventano quindi come delle icone, che tramandano un canone e vanno oltre la loro natura effimera. Volti di memoria che, nelle scene finali del film, conducono addirittura l'immagine a tornare indietro su se stessa, come se le canzoni e la musica fossero in grado di far tornare indietro nel tempo. Canone effimero è un'opera preziosa da cui lo spettatore esce purificato.
Late Shift, di Petra Biondina Volpe
Presentato nella sezione Berlinale Special, Late Sift di Petra Biondina Volpe segue le vicende di un reparto chirurgico ospedaliero, esplorando il punto di vista di Floria (Leonie Benesch), infermiera che, nonostante l’atmosfera caotica e frenetica, è in grado di prendersi cura dei suoi pazienti in maniera inappuntabile mostrando completa dedizione e comprensione. Ambientata nel corso di un solo giorno, l’opera di Volpe inizialmente mostra la routine di Floria con i vari check quotidiani, ma man mano che le ore proseguono, la tensione aumenta anche per via della scarsità di personale. Tutto viene caratterizzato da lunghi piani sequenza che seguono Floria all’interno della struttura ospedaliera, che assume quasi una forma labirintica e nel quale la giovane infermiera deve spostarsi da una stanza all’altra freneticamente. Con una durata di soli novanta minuti, Late Shift è un’opera più che discreta, il cui punto di forza risiede nella sensazionale interpretazione centrale di Benesch, che in poco tempo sta diventando una delle attrici di punta del cinema europeo. Dopo le sublimi interpretazioni in The Teacher’s Lounge (2023) e September 5 (2024), l’attrice tedesca porta ancora una volta sullo schermo il ritratto complesso di una donna in una situazione di costante pressione. Quello che colpisce è la naturalezza con cui l’interprete mostra i cambi repentini nel mood dell’infermiera a seconda delle situazioni affrontate.
Sunshine, di Antoinette Jadaone
Antoniette Jadaone porta sullo schermo la difficile tematica dell’aborto focalizzandosi sul corpo di Sunshine (Maris Racal), giovane ginnasta filippina in procinto di partecipare alle qualificazioni per i Giochi Olimpici che si trova a dover fare i conti con una gravidanza inattesa. Nelle Filippine l’aborto è ilegale. Fatta questa considerazione, è interessante notare come lo sguardo della regista coincida, in tutto e per tutto, con quello della sua giovane protagonista, favorendo un forte processo di immedesimazione. Tutte le immagini di Sunshine sono a servizio del personaggio, della sua storia e della sua evoluzione. Tutte le scene della protagonista sono funzionali a empatizzare con lei e - di conseguenza - a mettere in evidenza le discrasie del sistema sociale filippino. Film di denuncia travestito da coming-of-age, il lungometraggio di Antoniette Jadaone arriva con semplicità a tutti e comunica al meglio il suo messaggio. Il merito va principalmente a una regia estremamente sensibile, che calibra con parsimonia gli elementi più drammatici e tiene in perfetto equilibrio l'implicito e l'esplicito senza mai cercare immagini ricattatorie. Al contrario, la tematica della gravidanza viene trattata come un incidente con cui una ragazza deve interfacciarsi per inseguire il proprio sogno. Forse sta proprio in questo la forza del film della Jadaone. Forse l’unico modo per far arrivare in modo chiaro un messaggio ad un’ampia platea è cercare immagini semplici dietro cui ognuno può rispecchiarsi. Sunshine colpisce nel segno, e lo fa con una traiettoria ben precisa.
Sorda, di Eva Libertad
La maternità viene da sempre dipinta come il periodo più gioioso della vita di ogni donna, ma non sempre la realtà corrisponde all’immaginario collettivo. Essere madri è difficile. Ci si sente inadatte, incapaci di crescere una nuova vita e tristi o arrabbiate di star male quando il mondo intero si aspetta di vederci felici. Cosa accade poi quando a diventare madre è una persona che già per la società in cui vive viene percepita come “difettosa”? Eva Libertad porta nella sezione Panorama di Berlino il suo ultimo film, Sorda, dove affronta il tema della maternità da parte di una donna non udente. Ángela, sorda da quando era piccola, e il suo compagno Héctor, udente, stanno aspettando una bambina. Il rapporto tra i due è meraviglioso, vivono reciprocamente i loro “mondi”, Héctor parla con la lingua dei segni e frequenta gli amici della moglie, e Ángela “ascolta” il mondo attraverso il marito. Ma la quiete verrà spezzata dall’arrivo della piccola e dai desideri contrastanti dei due neo-genitori, lui vorrebbe che la figlia fosse udente, mentre Ángela sente il desiderio di condividere il proprio mondo fatto di silenzi e vibrazioni con la bambina. In questo fIlm - nato originariamente come cortometraggio nel 2021, e candidato anche ai Goya Awards nel 2023 - Libertad mette in scena, grazie anche alla complicità e il talento di Miriam Garlo (protagonista anche del corto), le difficoltà dell’essere madre e non udente nella società odierna. Ángela è una donna piena di vita e gioia che, man mano che la figlia cresce, si spegne sempre di più a causa del suo nuovo ruolo. Diventare madre spesso provoca l’isolamento della donna, ma cosa può provare una persona che da sempre viene isolata dalla società? La regista spagnola pone l’accento anche sulle molte barriere che le persone sorde devono affrontare, calzante è in questo senso la scena in sala parto, dove non c'è nessuno che possa comunicare con Ángela per rassicurarla, oppure quella dove è presente il commesso di un negozio per apparecchi acustici e visivi che non sa la lingua dei segni. Eva Libertad attraverso la propria regia cerca di farci entrare nel mondo di Ángela, facendoci “sentire” quello che lei “sente” e vede, senza mai cascare nel pietismo ma mostrandoci le difficoltà e le gioie di una donna alla sua prima gravidanza.
Queerpanorama, di Jun Li
È un film di dialoghi e di relazioni, Queerpanorama. Un film di identità e di genere, di reciprocità e insperate interconnessioni. La macchina da presa di Jun Li osserva, fissa, le varie avventure sessuali che il giovane protagonista del film compie con diversi uomini e le varie identità che, di volta in volta, adotta nel presentarsi loro. Il protagonista di Queerpanorama è un corpo nudo, un agente, un vuoto, che cerca di compiersi nelle relazioni con gli uomini con cui ha rapporti sessuali. È un’identità che cerca la completezza e - quindi - si relaziona con uomini di diversa provenienza geografica e diversa età. In una Hong Kong d’interni, il bianco e nero algido di Jun Li inscatola i personaggi nell’ambiente, prediligendo la neutralità del campo totale e concedendosi pochi ma significativi stacchi su primi piani. I numerosi dialoghi che puntellano l'opera descrivono una contemporaneità priva di coordinate, un mondo in cui l’identità sembra destinata a dissolversi per la mancanza di relazioni. Episodico e, a tratti, eccessivamente verboso, Queerpanorama è uno spaccato di una società globale afflitta dalla solitudine che cerca una propria compiutezza. Nonostante il pessimismo che pervade l’atmosfera del film, nel finale la camera si concede un movimento, un progressivo avvicinamento al corpo del protagonista e del suo nuovo amante con cui sembra trovare una autentica sintonia. Forse non è ancora detta l’ultima parola.
Mother’s Baby, di Johanna Moder
Julia (una eccellente Marie Leuenberger) è una direttrice d'orchestra di successo che si sta preparando a una tournée sulle principali sinfonie di Schubert, una musica dal ritmo incalzante con cui ha sempre trovato una forte sintonia. Questo progetto verrà temporaneamente messo da parte poiché Julia e il marito Georg desiderano da tanto un bambino e, dopo diversi tentativi, riescono nell'obbiettivo a seguito dell'incontrato con uno specialista, il Dottor Vilfort (il sempre ambiguo ed inquietante Claes Bang), che ha sottoposto la donna ad una cura sperimentale. Anche se il parto va a buon fine, il neonato viene allontanato per una notte dalla madre per via di alcune complicazioni. Quando questo verrà finalmente riportato ai genitori, Julia inizierà a nutrire dei dubbi e sospetterà che la clinica abbia scambiato il piccolo. Mother’s Baby, quinto lungometraggio di Johanna Moder, pone lo spettatore dentro lo stato d’animo di Julia, un crescendo di tensione e psicosi che rispecchia proprio le sinfonie tanto studiate dalla direttrice. Julia è davvero la vittima di un complotto perpetrato dal marito e dai medici della clinica privata? Con richiami piuttosto espliciti a Rosemary’s Baby, specialmente nella dinamica moglie-marito-dottore, Moder dirige un thriller psicologico dalle molteplici sfaccettature sulla depressione post partum e quella specifica esperienza interiore nella quale una madre non riesce a creare una connessione con il nascituro. Julia ha sempre cercato di mantenere un determinato controllo sulla sua vita, un’illusione che viene a sparire per via della maternità, fino ad arrivare alla dissoluzione della propria persona. La regia di Moder eccelle nel mostrare questa condizione decadente della protagonista; da i lunghi silenzi per richiamare non solo la condizione d’isolamento della donna, ma anche per mostrare la sottile linea tra percezione e realtà, alle varie metafore umane ed animalesche, come l’implemento degli axolotl, creature la cui rigenerazione affascina il mondo cinico e meccanico di Vilfort. Quello che colpisce di Mother’s Baby è il controllo formale di Moder, la cui visione non scade mai nel body horror, ma punta molto sul creare un’atmosfera inquieta tramite il sound design e la colonna sonora allo scopo di incanalare la paranoia di Julia. Anche se non reinventa il genere o le tematiche affrontate, gli spettacolari ultimi dieci minuti, dove finalmente si scopre la “verità”, rendono Mother’s Baby un film più che lodevole.
1001 Frames, di Mehrnoush Alia
È prima di tutto uno splendido saggio sulle possibilità del fuori campo, 1001 frames. Riprendendo la lezione di film di Kiarostami come Shirin (2008) e Ten (2002), Mehrnoush Alia porta in scena i corpi di attrici di diverse età alle prese con un provino. 1001 frames cattura la relazione che si instaura fra le donne davanti alla macchina da presa e la voce del regista, mai interamente in campo, le cui richieste si fanno di volta in volta più ambigue fino a diventare vere e proprie violenze nei loro confronti. Metacinema che utilizza in chiave simbolica il dispositivo del provino per denunciare la condizione subalterna della donna in una società patriarcale e nel mondo del cinema, il film di Mehrnoush Alia utilizza pochi ma chiari elementi per portare fino a compimento la propria tesi. La macchina da presa, lo sguardo maschile, scruta i corpi delle attrici, le circonda arrivando quasi a minacciarle. Nonostante la natura evidentemente sperimentale del film, la progressione narrativa viene gestita con grande abilità dalla regista. Il crescendo di tensione è credibile e passa per diversi momenti estremamente intensi che mettono a dura prova lo spettatore, chiamato a far fronte a un orrore che non vede ma che percepisce dalle parole e dalle reazioni delle attrici. Il finale, che aggiunge un'ulteriore strato metacinematografico al film, ci appare come una coda non necessaria, atta solo a creare una cornice finzionale e a rendere più digeribile la violenza portata in scena. Una leggerezza che grava sin troppo sull'architettura dell'opera.
If I Had Legs I’d Kick You, di Mary Brostein
Durante una seduta terapeutica, una bambina inizia a descrivere la personalità della madre paragonandola a un “putty that can be stretched”, ovvero una pasta modellabile che può essere deformata o addirittura rompersi se subisce un enorme stress. La camera non inquadra mai la bambina o la terapeuta, ma si concentra su Linda (Rose Byrne), la madre che, sentendo queste parole, si indispettisce e cerca di negare il tutto, ma l’intenso closeup smentisce le sue parole. Come ogni anno, la Berlinale propone sempre in Competizione un film che è stato presentato prima al Sundance, e dopo l’enorme successo di Past Lives (2023) di Celine Song e A Different Man (2024) di Aron Schimberg, è arrivato il turno di Mary Bronstein con If I Had Legs I’d Kick You. Il film narra le vicende di Linda, terapista che sta faticando a crescere la figlia per via di una particolare malattia intestinale di cui soffre. Il marito, essendo sempre via per lavoro, non è mai presente, lasciando tutta la responsabilità alla moglie. La situazione peggiora sempre di più quando il soffitto della loro abitazione crolla all’improvviso, creando una voragine che rende l’appartamento inabitabile. Con queste scene d’introduzione Bronstein presenta già il ritmo dell’opera e quello che succederà nelle seguenti due ore, un test continuo per vedere quanto Linda possa resistere prima di cedere allo stress e crollare definitivamente. La visione stilistica di Bronstein e la sua mise en scene sono ammirevoli; il lavoro sul soundscape è il montaggio frenetico riescono ad immergere lo spettatore nell'incessante attacco di panico che caratterizza tutta la vita di Linda, e Rose Byrne, nella sua miglior interpretazione, sorregge la maggior parte del film sulle sue spalle, trasmettendo in maniera estremamente empatia la difficile condizione del suo personaggio. Il problema principale dell’opera risiede per lo più nel tono del film, che spesso scade nei peggiori stereotipi quirky del cinema indipendente statunitense con alcuni personaggi secondari. La scrittura risulta a tratti prevedibile e piuttosto moraleggiante nel messaggio che vuole trasmettere sulle difficoltà della maternità. Inoltre, non aiuta il modo in cui Bronstein imbastisce determinate scelte all’interno dell’opera, come il rimarcato simbolismo dietro alla voragine nell’appartamento, o come viene gestita la presenza della figlia all’interno del film. Nonostante questi difetti, If I Had Legs I’d Kick You risulta un'opera riuscita, soprattutto per la bravura di Byrne, ma rimane comunque quella sensazione che si poteva fare di più.