di Omar Franini, Antonio Orrico, Cecilia Parini, Arturo Garavaglia e Lorenzo Sartor
NC-276
18.02.2025
In questo secondo appuntamento entreremo nel vivo della Competizione della Berlinale, a partire da Hot Milk, l’opera prima di Rebecca Lenkiewicz con protagoniste Emma Mackey e Vicky Krieps, Ari, il profondo character study di Leonor Serraille, La tour de glace, l’ambiguo coming of age di Lucile Hadžihalilović e Reflet dans un diamant mort, il nuovo pastiche postmoderno del duo Hélène Cattet e Bruno Forzani. Continueremo anche con la nostra panoramica sui film presentati nelle sezioni secondarie, tra cui Köln 75 di Ido Fluck, Cicadas di Ina Weisse con protagonista Nina Hoss, L’ Incroyable femme des neiges di Sébastien Betbeder, Fwends di Sophie Sommerville, Silent Sparks di Ping Chu e little boy del prolifico documentarista James Benning.
Ari, di Léonor Serraille
Spesso quando al cinema si parla di “studio di un personaggio”, si prendono in considerazione film dove noi spettatori passiamo tutto il tempo con un protagonista, di cui arriviamo pian piano a conoscere il background e da cui estrapoliamo un giudizio sulla base delle sue azioni. Ma siamo veramente sicuri che passare ottantotto minuti con una persona ci aiuti a conoscerla per davvero? E se alla fine dell’opera in realtà ci trovassimo ancora più smarriti rispetto che all’inizio? Ari è uno studio su un personaggio fuori dal comune, nonché un elegante invito a perdersi nelle immagini. Il protagonista dell’ultimo film di Léonor Serraille, interpretato da Andranic Manet, è un personaggio di cui è impossibile definire dei tratti precisi, perché è una figura sospesa che agisce senza mai definirsi attraverso l’azione. La regista stessa mette in scena il personaggio di Ari mentre si smarrisce all’interno delle opere di un museo o in mezzo alle creature marine che vede in un acquario, superando idealmente il vetro o la tela che segnano la demarcazione tra uomo e arte, tra dimensione umana e bestiale. È un carattere che trova la sua forza proprio nel guardare, perché osservando le altre persone egli ottiene la chiave per comprendere la loro interiorità, ed è per questo che l’autrice invita lo spettatore a osservare Ari nei momenti in cui parlano altri personaggi o in cui il voice over si interessa a tutt’altro. Un personaggio disorientante, che in questo smarrimento porta con sé un malessere generazionale che diventa universale, proprio perché nella maschera del protagonista emergono le fragilità comuni di tutti gli altri. In tal senso, le lotte tra generazioni diverse o tra orientamenti politici non sfociano mai nel macchiettismo, ma bensì rivelano l’incapacità umana di comunicare con chi propone uno sguardo diverso sul mondo. Un mondo contemporaneo di cui il personaggio riesce ad esserne emblema, ma da cui allo stesso tempo rifugge. In questa ambiguità, Andranic Manet si rivela un grande talento. Capace di evocare sfumature emotive opposte all’interno dello stesso momento, spesso contraddittorie come lo è il rapporto del personaggio con il mondo che lo circonda. Le fantasie in cui si perde Ari diventano la realtà condivisa dal personaggio con lo spettatore, nonché unica porta di accesso ai sentimenti intimi di una persona che conosciamo solo per quello che vorrebbe essere e quasi mai per quello che è stato in passato. All’interno di un concorso dove il sogno rappresenta un tema importante (tra i due Dreams diretti da Franco e Haugerud e l’ultima opera onirica della coppia Cattet/Forzani), la Serraille ci illustra come le illusioni di un essere umano ci rivelino molto di più su quest’ultimo che qualsiasi studio oggettivo. Piuttosto che cercare di comprendere il soggetto ritratto, è sempre meglio perdersi all’interno di un quadro. E Ari è un film in cui è meraviglioso perdersi.
La tour de glace, di Lucile Hadžihalilović
La fiaba è sempre composta da riti di passaggio. La fiaba stessa, per i bambini che l'ascoltano, è un rito di passaggio. La fiaba è simbolo e, in essa, è spesso il dettaglio che apre l'immagine al suo universo simbolico. Non sceglie la via più semplice per mettere in scena un coming of age, Lucile Hadžihalilović, regista francese che presenta in concorso La tour de glace, interpretato dall'esordiente Clara Pacini e dall'affermata Marion Cotillard. Sceglie una storia di catarsi, a tratti simile ad Alice nel paese delle meraviglie, una storia focalizzata sull'inseguimento di un'immagine su cui fondare la propria identità, di un universo entro cui riconoscersi. Racconto di formazione ambiguo ma ammaliante, La tour de glace padroneggia con grande precisione i simboli e offre allo spettatore immagini estremamente stratificate, sempre in bilico fra evanescenza e carnalità. La dimensione cromatica, che insiste particolarmente sul contrasto nella stessa immagine di toni caldi e freddi e che gioca con l'elemento simbolico del ghiaccio secondo diverse tonalità di blu, dona ulteriore spessore a immagini che tendono sempre alla stratificazione. Lucile Hadžihalilović firma un film di silenzi e di dettagli, dove lo sguardo e l'azione sono sempre mossi dal desiderio, dove gli specchi riorientano in continuazione la percezione dei personaggi. It is so hard to believe that it's me that I see in the window pane, recita la canzone It's Five o Clock degli Aphrodites Child che compare nel film. Sfondo perfetto per una storia che parla della formazione di un'identità mediante l'imitazione, la rielaborazione di un lutto e il superamento stesso della prassi imitativa per uscire dalla "torre di ghiaccio" che dà il titolo all'opera con un tesoro che permetta di aprirsi a nuovi "mondi di possibilità". L'universo cinematografico, nella sua innata capacità mitopoietica, diventa dunque la soglia per conoscere un mondo e i suoi modelli e, in seguito, per riportare nell'esperienza del reale frammenti di senso che offrono al soggetto nuove vie. La tour de glace è un lungometraggio complesso, ma non cerebrale, elaborato nella sua struttura e nelle sua immagini, ma che non perde mai il proprio focus, dilatato nei tempi eppure mai superfluo. Un'opera che accetta il rischio dell'incomprensione e non si crogiola su facili soluzioni narrative e che - proprio per questo - è destinata a rimanere impressa nella mente dello spettatore.
Hot Milk, di Rebecca Lenkiewicz
Dopo aver lavorato per anni come sceneggiatrice per alcuni grandi autori internazionali, come Pawel Pawlikowski in Ida (2014) o Sebastian Lelio in Disobedience (2019), Rebecca Lenkiewicz presenta alla Berlinale la sua opera prima, l’indagine del travagliato rapporto tra Rose (Fiona Shaw) e Sofia (Emma Mackey), una madre e una figlia che si recano in una cittadina spagnola per incontrare un medico che possa trovare una cura per la misteriosa malattia che affligge Rose e che la costringe da tempo su una sedia a rotelle. La veridicità della condizione di Rose è messa in dubbio più volte dalla figlia, la cui vita è ormai in funzione della madre, una condizione opprimente ed alienante che sta logorando sempre più la ragazza. Una possibile scappatoia si presenta quando Sofia si infatua di Ingrid (Vicky Krieps), un'enigmatica viaggiatrice incontrata sulla spiaggia. Nonostante la premessa intrigante, che sembra strizzare l’occhio ai drammi bergmaniani, Lenkiewicz mostra di essere una regista piuttosto acerba, non ancora in grado di controllare nessun aspetto del proprio film; la scrittura didascalica, arricchita da metafore e simbolismi piuttosto futili, risulta indolente e provoca delle conseguenze sulle interpretazioni delle tre grandi attrici protagoniste. Lenkiewicz vuole creare un ritratto ambiguo e criptico attraverso il personaggio di Sofia, ma ottiene l’esatto opposto; la mancanza di espressività nel volto di Mackey e l’approccio minimalista estraniano ancora di più il pubblico dalla storia. Non aiuta nemmeno la non chimica tra Mackey e Vicky Krieps, con quest’ultima che, sorprendentemente, porta sullo schermo la peggiore interpretazione della sua carriera. Il netto contrasto tra l’introversa Sofia e la più esuberante Ingrid dovrebbe funzionare sulla carta, ma ogni scena in cui i personaggi sono presenti va a formare un melodramma tedioso e poco interessante. Hot Milk è un'opera con molti problemi e pochissimi (se non inesistenti) pregi, la cui selezione in competizione può essere giustificata solo dallo star power di Krieps e Mackey. Un vero peccato.
Reflet dans un diamant mort, di Hélène Cattet e Bruno Forzani
Hélène Cattet e Bruno Forzani sono dei registi molto particolari, che utilizzano un tipo di approccio che attinge molto dalla tradizione europea, e in particolare da quella del filone del cinema di genere nostrano. I punti di riferimento della coppia di registi, del resto, vanno da Dario Argento - nome tutelare per quanto riguarda la vicenda di Amer (2009), il loro esordio nel lungometraggio presentato nel Namur International Festival of French-Speaking Film - da cui viene ripresa la metafisica allucinata e lo stile grafico costruito tutto sulle tonalità RGB, fino ad arrivare allo spaghetti western di Sergio Leone e compagni, punto di riferimento nel loro folle revenge movie destrutturato, ovvero Laissez Bronzer Les Cadavres (2017), lavoro post-moderno che ne ha consolidato in modo indelebile lo stile. Alla Berlinale 2025, è così tempo del loro quarto lungometraggio, dal titolo Reflet Dans Un Diamant Mort (2025), che mantiene sostanzialmente intatti i paradigmi stilistici più caratteristici del cinema della coppia, pur ridefinendone gli elementi più importanti grazie ad un ampliamento dei piani di lettura e di realtà sui quali la coppia di registi si muove in modo estremamente audace. L’indagine feticistica, che in qualche modo riattualizza il cinema degli anni ‘70 proponendolo all’interno di schemi narrativi odierni, si intreccia qui con il noir, fondendo lo stilismo con una riflessione molto amara sulla potenza del ricordo e della memoria (di cui Fabio Testi, volto scelto appositamente per il suo legame indissolubile con il cinema italiano di quegli anni, ne è espressione accurata), non solo quella episodica, ma anche quella cinematografica. Reflet Dans Un Diamant Mort è un film sulla morte delle icone del passato, in cui il profilo reale della vita si contamina in modo definitivo con la fiction, portando lo spettatore a percepire ciò che i due registi raccontano come fosse ciò che accade realmente. Per creare questo corto circuito tra memoria e vita attuale, tra fantasia e realtà, Cattet e Forzani si affidano alla forza dell’immagine, ai suoi colori (dove risalta tutto il loro fetish per il singolo frame) e alle musiche nostalgiche, espressione di un’epoca intera (con i brani di Bruno Nicolai o le musiche di Milano Calibro 9 composte da Enriquez Luis), dove il rimosso viene a galla tramite le distorsioni del visuale - come nella scena in cui la pellicola brucia, in una correlazione semantica con il protagonista. Ad ampliare la riflessione giunge anche la dimensione transmediale, che permette a Cattet e Forzani di interfacciarsi direttamente con il fumetto Diabolik delle sorelle Giussani, citate anche esplicitamente in un dialogo. Tutti questi elementi vanno a formare un noir astratto, che si pone in perfetta continuità con i lavori passati della coppia di cineasti e, soprattutto, di saggiare un altro pezzo di storia importante del cinema di genere italiano.
Cicadas, di Ina Weisse
Dopo il successo di The Audience (2019), dramma psicologico che analizzava il conflitto morale di una violoncellista, la regista Ina Weisse torna a collaborare con Nina Hoss in Cicadas, una delicata pellicola presentata nella sezione Panorama. Con solo tre lungometraggi all’attivo, si può già intuire la poetica di Weisse e tracciare un file rouge nelle sue opere. La maniera sottile in cui affronta la psiche dei suoi protagonisti, ovvero quel costante senso di inadempienza e di ansia dovuto alle aspettative altrui è davvero raro da trovare al giorno d’oggi. Cicadas non è da meno ed è lodevole il lavoro compiuto da Weisse nel rappresentare la storia di due donne che riescono a instaurare una forte intesa a seguito delle difficoltà famigliari che stanno affrontando. Isabell (Nina Hoss), costretta a prendersi cura del padre malato, è stata “forzata” a trascurare non solo la vita matrimoniale con il marito Philippe (Vincent Macaigne), ma anche la carriera di architetto, ritrovandosi a vivere in questo loop di autocommiserazione senza via d’uscita. La situazione inizia a cambiare quando nella sua vita entra Anja (Saskia Rosendahl), madre single che sta faticando a costruire un futuro per sua figlia, e tra loro inizia un rapporto di comprensione reciproco. Cicadas non è un film che punta ad un formalismo complesso, e quello che stupisce è il tono pacato con cui certe situazioni vengono affrontate, sarebbe stato piuttosto banale vedere le due protagoniste esternare platealmente le proprie emozioni. Ne consegue un character study che fa affidamento principalmente sulle interpretazioni centrali di Hoss e Rosendahl, che portano sullo schermo due ritratti complessi sulla maternità e sui rapporti umani. Onesto e delicato nella rappresentazione di tematiche che non si discostano da quello che noi stessi viviamo nel giorno d’oggi, Cicadas risulta un film più che convincente.
Köln 75, di Ido Fluk
Presentato nella sezione Berlinale Special, Köln 75, terzo lungometraggio di Ido Fluck, narra la storia vera dietro ad uno dei più celebri concerti jazz della storia tedesca, quello del pianista Keith Jarrett (John Magaro) a Cologne nel 1975. Il tutto nacque dall’ambizione di Vera Brandes (Mala Emde), una giovane “ventenne” che, grazie alla sua passione per il jazz decise di intraprendere la folle impresa di convincere il famoso pianista statunitense dalla non facile personalità ad esibirsi in Germania. Fluck riesce a ricostruire egregiamente l’atmosfera caotica di quel periodo sia dal punto di vista narrativo che stilistico. Il caos viene in primis trasmesso dalla vita della giovane Vera, pronta a tutto pur di ottenere quello che vuole, dai continui scontri con il padre, il suo ragazzo e i vari organizzatori di concerti. Nella sua vita esiste solo la musica, poiché la ragazza crede davvero che questa possa avere una certa influenza nella vita di tutti e questa convinzione, o meglio fissazione, è portata sullo schermo in maniera esimia dall’attrice Mala Emde. Il caos del periodo trova anche una connotazione a livello formale, dalla sovrapposizione di varie conversazioni, lunghi piani sequenza per esaltare le situazioni stressanti della protagonista ed infine l’uso uniforme della rottura della quarta parete, punto di vista che ha permesso un coinvolgimento extra da parte dell’audience per capire determinate situazioni storiche o legate alla figura di Jarrett. Köln 75 è un film più che piacevole, che non solo analizza efficacemente il periodo e l’ambiente jazz anni ‘70, ma riesce anche a trovare una modesta innovatività dell’approccio formale.
L’Incroyable femme des neiges, di Sébastien Betbeder
Sébastien Betbeder è un regista attivo da quasi vent’anni nel panorama francese e sul versante internazionale. Dopo gli inizi caratterizzati da alcune sortite fantasy, come Nuagè (2007), ha debuttato nei festival internazionali con il suo secondo lungometraggio, dal titolo Les Nuits avec Théodore (2012), in cui l’incursione in un mondo fantastico governa ancora la narrazione, presentato al TIFF di Toronto, e con Deux Automnes Trois Hivers (2013), con il quale compie finalmente il suo battesimo ufficiale al Festival di Cannes, nella sezione ACID, oltre a vincere un premio speciale della giuria al Torino Film Festival 2013. Tuttavia, la sua carriera si è poi divisa tra alcune prove ben riuscite - come il cortometraggio Inupiluk (2014) - e altre che non hanno avuto la stessa fortuna. Nel 2025 è sbarcato alla Berlinale, con la sua nuova commedia surreale dal titolo L’Incroyable femme des neiges. La commedia francese, nel raccontare le peripezie dell’esperta polare Coline Morel (interpretata in modo molto intelligente da Blanche Gardin), si presenta con un piglio molto particolare e per nulla banale, grottesca al punto giusto e soprattutto mai pesante. La forma e le intuizioni che lo stesso Betbeder ha nel proporre le gag al suo pubblico (esemplare e davvero molto divertente quella relativa all’incidente in macchina che coinvolge l’attrice principale, così come quella del coltello) instradano tutto su dei binari tipici della comicità slapstick, dove il movimento del corpo e il suo interfacciarsi con l’ambiente circostante scaturisce genuinamente più di qualche risata allo spettatore. Ne risulta un film permeato da un velo insistito di surrealismo, che con la dovuta leggerezza sfrutta la risata per problematizzare una delle questioni più importanti che l’umanità sta affrontando nella sua ultima era, vale a dire quella legata all’ambiente. L’Incroyable femme des neiges nasconde dunque una profonda anima sociologica, che sotto le risate nasconde un’indagine sulle possibilità che la vita offre all’uomo, nonostante le difficoltà, e su come queste ultime possano rappresentare in realtà un’opportunità di crescita e di riscatto. Betbeder crea un meccanismo ad orologeria che funziona per la maggior parte del tempo, salvo alcune scene che diventano leggermente didascaliche e che impattano meno sullo spettatore. La forma scelta dal cineasta agevola di molto il tono del film, in quanto la regia mossa e l’uso improvviso di tecniche da mockumentary, quali lo zoom o il piano sequenza slabbrato, riportano alla mente le sit-com americane più famose, e agevola di molto la riuscita della caratterizzazione dei personaggi, i quali si ritrovano immersi in un’atmosfera sospesa, surreale, tale da ricordare quella provincia tipica del cinema di Bruno Dumont, di cui vengono riproposte tutte le idiosincrasie con molta ilarità.
Fwends, di Sophie Somerville
Una passeggiata lungo le strade di Melbourne apre il primo lungometraggio di Sophie Somerville, in cui due amiche, Em (Emmanuelle Mattana) e Jessie (Melissa Gan), si ritrovano dopo tanto tempo e passano la loro giornata a girare per la città, disquisendo di vita privata, argomenti sociali, illazioni filosofiche e arrivando a chiedersi quanto ci sia di oggettivo nella realtà che vivono ogni giorno. In questo lungo inizio la regista segue le due amiche tenendosi a debita distanza, nascondendosi alla loro vista e rendendo centrale l’elemento metropolitano che le circonda. La Melbourne ritratta da Sophie Somerville diventa quindi un centro di continuo movimento, messa in scena dalla cineasta con uno sguardo semi-documentaristico, fondato soprattutto sull’artificio del mezzo digitale. Zoom continui, movimenti di macchina sgraziati e lunghi piani fissi diventano lo strumento attraverso cui svelare l’elemento alienante e allucinatorio interno alla realtà abitata dalle due esuberanti protagoniste, come se due personaggi usciti dalla penna di Noah Baumbach si scambiassero dialoghi brillanti mentre vengono ripresi dalla telecamera di Hong Sang-soo. L’originalità dell’esordio della giovane regista australiana risiede nel piegare la struttura classica dell’indie americano alle forme stranianti dell’era digitale, esibendo così, anche stilisticamente, l’instabilità della realtà moderna. Man mano che l’opera prosegue e i dubbi esistenzialisti dei personaggi vengono svelati, pure la messa in scena comincia ad affidarsi a soluzioni sempre più sperimentali, arrivando così a rappresentare l’inconsistenza dei nostri tempi attraverso la distorsione delle immagini. L’atmosfera irreale da sogno a occhi aperti che apre il film lascia quindi spazio all’incubo dello smarrimento identitario e il viaggio delle protagoniste nella Melbourne notturna assume le forme di un incubo distorto, in cui i dubbi generazionali faticano a trovare una forma unitaria con cui esprimersi. Nonostante il suo interessante approccio teorico ai meccanismi del digitale, Fwends rimane però fedele alla sua natura da classica commedia brillante sundanciana, riservando uno spazio importante ai botta e risposta delle due attrici, unite da una genuina alchimia. In questi lunghi dialoghi la spontaneità delle interazioni e il realismo delle conversazioni rende ancora più difficile comprendere dove risiede il confine tra attore e personaggio ed è in questa ambiguità che si trova tutta la forza di un film basato sull’equilibrio tra forme che non dovrebbero avere alcuna correlazione tra di loro, in un continuo giro a vuoto in cui la metropoli cambia i personaggi che la abitano, svelando un desiderio di libertà a lungo nascosto. Noi spettatori osserviamo da lontano tutti i piccoli eventi che riempiono la giornata delle protagoniste, le quali, nella ricerca di un significato ultimo alla loro esistenza, capiranno l’impossibilità di raggiungere una verità assoluta in un’epoca segnata dal relativismo assoluto o di trovare un senso alla vita dentro il tardo-capitalismo contemporaneo.
Sandbag Dam, di Čejen Černić
In una piccola cittadina croata che sembra situata al di fuori di una precisa datazione temporale, Marko (Lav Novosel) rincontra il proprio amico d’infanzia Slaven (Andrija Zunaci), con cui aveva avuto in passato una relazione tenuta nascosta a tutti gli altri abitanti conservatori del luogo. Costretto a trovare un modo di conciliare le aspettative maciste della famiglia con il desiderio nascosto che prova verso il suo amante, il protagonista vive un percorso pieno di contraddizioni. Incoerente e curiosa è pure la carriera della regista Čejen Černić, passata dal ruolo di aiuto-regista dei B-Movie camp di Uwe Boll a dirigere drammi ispirati al cinema dei Dardenne per i maggiori festival europei. Più che a trattare il tema dell’intolleranza nei confronti di una minoranza discriminata, la cineasta intende decostruire i principi di mascolinità con cui si cerca di reprimere qualunque espressione della sessualità fuori dai canoni eteronormativi. Per quasi metà film l’elemento passionale viene infatti represso, nascosto per mostrare invece immagini di uomini impegnati in attività "mascoline" o a sfidarsi a braccio di ferro. Solo nell’ultima parte l’ambiente cittadino esprimerà il proprio bigottismo e i personaggi cominceranno a svelarsi per come sono realmente, mostrando come nel perbenismo si nasconda una cieca intolleranza verso ciò che è considerato "inusuale". Per esprimere tali concetti, la regista tallona i personaggi, non si allontana mai da loro, cercando di esprimere anche stilisticamente la repressione di cui soffrono, tenendosi coerente alla schiettezza del registro scelto. Nonostante le buone premesse espresse, tuttavia, non si può pretendere di narrare il presente senza averne capito la particolarità, e guardando Sandbag Dam si ha come l’impressione di assistere a un cinema vecchio, incapace di andare oltre il luogo comune. Nella contemporaneità per narrare una storia già vista così tante volte serve porre uno sguardo personale sul tema e tra jump-cut random, continue ellissi nel montaggio e sequenze chiuse sbrigativamente, Černić sembra più interessata a semplificare tutte le tappe del proprio discorso, asciugando la storia fino al punto in cui ogni personaggio è definibile con un aggettivo e ogni conflitto si risolve nel nulla. È sicuramente ammirabile la volontà di deviare dal canone classico delle storia queer, negando infatti un possibile finale fatalista per i due personaggi, in favore di una chiusura spezzata molto più efficace, ma è l’unica scelta compiuta all’interno di una pellicola che invece sembra limitarsi a seguire uno schema. Per quanto bravi possano essere gli attori protagonisti, a mancare è proprio la mano di un regista che riesca a non far sembrare il film una lunga sequela di momenti già visti.
little boy, di James Benning
James Benning è uno dei registi più influenti degli ultimi anni, ed è annoverato sicuramente tra quelli che hanno saputo carpire meglio l’essenza dell’immagine e le potenzialità del cinema, rapportandosi in modo diretto con il suo luogo di nascita, l’America, che spesso e volentieri è diventata vero e proprio protagonista in pectore e oggetto dei suoi lungometraggi d’avanguardia - un esempio cardine è la pellicola American Dreams: Lost And Found (1984). little Boy è un’opera del tutto particolare, che adotta una tecnica da collage e che, soprattutto, sfrutta un coro di voci molto importante - del regista di Pepe (2024), Nelson De Los Santos Arias, a Yuan Gao - per porre un nuovo sguardo sugli Stati Uniti, l’ennesimo che Benning propina allo spettatore e che gli permette, per la prima volta, di affrontare determinate questioni del proprio Paese di provenienza utilizzando la prospettiva di un piccolo bambino, per attraversare la Storia e le storie nel tentativo di compiere un’indagine a tutto tondo sul sogno americano e sulle sue controversie. La più grande novità riguardante little boy, riguarda soprattutto il modo in cui Benning racconta la crescita di un bambino e, di conseguenza, la metamorfosi del suo sguardo attraverso le ere. Infatti, per la prima volta nella storia del regista, ad avere la precedenza non è il paesaggio come specchio di un Paese, quanto piuttosto i modellini degli edifici che lo stesso protagonista costruisce nel corso del tempo. Delle costruzioni che risultano molto significative, in quanto mettono in evidenza una panoramica della storia americana che parte dal 1961 per approdare al 2016. little boy è dunque un vero e proprio romanzo di formazione atipico, in quanto si fa indagine di una certa cultura pop attraverso elementi cardine del cinema. Se, però, la descrizione utilizzata in American Dreams (Lost And Found) era completamente basata sul rapporto tra cultura pop e socialità americana, in little boy Benning sfrutta la possibilità di rappresentazione garantita dai modellini che governano l’immagine e che sono ripresi, di volta in volta, per creare un link tra la parola, l’immagine e la cultura decennale che evolve di anno in anno, oltre che per osservarne il comportamento attraverso lo sguardo inedito di un bambino. Una visione che porta, inevitabilmente, anche l’immagine a rendersi statica e immobile e semplicemente contemplativa nei confronti della Storia degli Stati Uniti, partendo da una delle prospettive più particolari della carriera di Benning per creare un ponte che colleghi passato, presente e futuro.
Hysteria, di Mehmet Akif Büyükatalay
È di poche settimane fa la notizia dell'uccisione in Svezia di Salwan Momika, attivista iracheno che nel 2023 bruciò in pubblico il Corano in un atto di protesta contro i dogmi dell'islamismo. Hysteria, secondo lungometraggio del regista tedesco di origine turca Mehmet Akif Büyükatalay, ha proprio come nodo centrale l'azione di bruciare il Corano. Thriller metacinematografico dalla forte urgenza politica, Hysteria segue il crescendo di tensione che si sviluppa fra un cast - composto da richiedenti asilo politico - e la troupe di un film in seguito alla decisione del regista Yigit (tedesco, ma di origine turca) di inserire una scena in cui viene mostrato il Corano bruciato, ne conseguirà una misteriosa sparizione della pellicola che contiene quelle immagini. Büyükatalay pone al centro dell'attenzione la responsabilità che chi produce immagini ha nei confronti di chi le fruisce. Una responsabilità etica che troppe volte viene superficialmente sottomessa all'estetica o alla ricerca del facile sentimentalismo. Metacinema che usa la riflessione sul mezzo in una chiave sociale, Hysteria procede con il ritmo di un thriller e una dinamica delle relazioni fra i personaggi che sembra uscita dalla penna della drammaturga Yasmine Reza. A risultare particolarmente interessante è il lavoro compiuto sulla protagonista Elif (Devrim Lingnau), assistente alla regia, il cui ruolo attivo nella vicenda viene progressivamente spento e smontato, destinato a soffocare nell'intensità dello scontro ideologico e sociale fra Yigit e il suo cast. Büyükatalay, a differenza del regista del suo film, non ha paura di prendere una posizione, di essere responsabile delle proprie immagini, e offre allo spettatore un ritratto perfetto dell'élite culturale europea, della sua incapacità di trovare immagini per raccontare la realtà e della sua ipocrisia nel non volersi prendere la responsabilità di ciò che esse significano. Allo stesso modo, però, non si pone neanche esplicitamente dalla parte dei rifugiati, limitandosi ad osservare come il terreno di scontro fra i contendenti sia un territorio su cui tutti finiscono per scivolare e impantanarsi. L'Europa - sembra dire chiaramente il regista - è una stanza chiusa che sta bruciando nel fuoco delle sue contraddizioni.
Silent Sparks, di Ping Chu
Fra Tsai Ming-liang, l'Hou Hsiao-hsien di Daughter of Nile (1987) e il primo Wong Kar-wai, Silent Sparks rappresenta un solido noir che cala lo spettatore in una Taipei plumbea. A stupire dell'esordio alla regia di Ping Chu è il controllo formale che il regista da prova di avere sull'immagine. Chu non spreca alcuna inquadratura, parcellizza l'azione in pochi spazi, lavora sui silenzi degli attori e sulle ellissi. Nonostante la trama derivativa, a stupire è l'attenzione che in Silent Sparks viene dedicata alla descrizione dei due protagonisti, entrambi ottimamente interpretati da Huang Guan Zhi e Shih Ming-shuai, e la capacità con cui il cineasta è in grado di tratteggiare, con una profonda essenzialità, i loro intrecci e i loro destini. Un film semplice tanto nella sua struttura quanto profondo nel modo in cui mette in scena le azioni e le relazioni fra i personaggi, che non cerca il vezzo stilistico, ma che ripone una totale fiducia nel potere comunicativo delle immagini. Un film che - parafrasando il titolo - procede come una silenziosa scintilla per poi arrivare ad un bagliore improvviso che investe gli spettatori e rimane nell'aria anche se è inevitabilmente destinato a spegnersi, soffocato da una realtà che non sembra concedere alcuna luce ai protagonisti. Silent Sparks è la dimostrazione che si possono girare film derivativi, manifestando, anche apertamente, le proprie ispirazioni e infondendo in essi un tocco, uno sguardo, una sensibilità che riesca a far dimenticare allo spettatore qualsiasi deja-vu e aprire un piccolo scorcio, accendere una piccola luce, nel mare di una cinematografia contemporanea taiwanese, che sembra sempre più sclerotizzata.
di Omar Franini, Antonio Orrico, Cecilia Parini, Arturo Garavaglia e Lorenzo Sartor
NC-276
18.02.2025
In questo secondo appuntamento entreremo nel vivo della Competizione della Berlinale, a partire da Hot Milk, l’opera prima di Rebecca Lenkiewicz con protagoniste Emma Mackey e Vicky Krieps, Ari, il profondo character study di Leonor Serraille, La tour de glace, l’ambiguo coming of age di Lucile Hadžihalilović e Reflet dans un diamant mort, il nuovo pastiche postmoderno del duo Hélène Cattet e Bruno Forzani. Continueremo anche con la nostra panoramica sui film presentati nelle sezioni secondarie, tra cui Köln 75 di Ido Fluck, Cicadas di Ina Weisse con protagonista Nina Hoss, L’ Incroyable femme des neiges di Sébastien Betbeder, Fwends di Sophie Sommerville, Silent Sparks di Ping Chu e little boy del prolifico documentarista James Benning.
Ari, di Léonor Serraille
Spesso quando al cinema si parla di “studio di un personaggio”, si prendono in considerazione film dove noi spettatori passiamo tutto il tempo con un protagonista, di cui arriviamo pian piano a conoscere il background e da cui estrapoliamo un giudizio sulla base delle sue azioni. Ma siamo veramente sicuri che passare ottantotto minuti con una persona ci aiuti a conoscerla per davvero? E se alla fine dell’opera in realtà ci trovassimo ancora più smarriti rispetto che all’inizio? Ari è uno studio su un personaggio fuori dal comune, nonché un elegante invito a perdersi nelle immagini. Il protagonista dell’ultimo film di Léonor Serraille, interpretato da Andranic Manet, è un personaggio di cui è impossibile definire dei tratti precisi, perché è una figura sospesa che agisce senza mai definirsi attraverso l’azione. La regista stessa mette in scena il personaggio di Ari mentre si smarrisce all’interno delle opere di un museo o in mezzo alle creature marine che vede in un acquario, superando idealmente il vetro o la tela che segnano la demarcazione tra uomo e arte, tra dimensione umana e bestiale. È un carattere che trova la sua forza proprio nel guardare, perché osservando le altre persone egli ottiene la chiave per comprendere la loro interiorità, ed è per questo che l’autrice invita lo spettatore a osservare Ari nei momenti in cui parlano altri personaggi o in cui il voice over si interessa a tutt’altro. Un personaggio disorientante, che in questo smarrimento porta con sé un malessere generazionale che diventa universale, proprio perché nella maschera del protagonista emergono le fragilità comuni di tutti gli altri. In tal senso, le lotte tra generazioni diverse o tra orientamenti politici non sfociano mai nel macchiettismo, ma bensì rivelano l’incapacità umana di comunicare con chi propone uno sguardo diverso sul mondo. Un mondo contemporaneo di cui il personaggio riesce ad esserne emblema, ma da cui allo stesso tempo rifugge. In questa ambiguità, Andranic Manet si rivela un grande talento. Capace di evocare sfumature emotive opposte all’interno dello stesso momento, spesso contraddittorie come lo è il rapporto del personaggio con il mondo che lo circonda. Le fantasie in cui si perde Ari diventano la realtà condivisa dal personaggio con lo spettatore, nonché unica porta di accesso ai sentimenti intimi di una persona che conosciamo solo per quello che vorrebbe essere e quasi mai per quello che è stato in passato. All’interno di un concorso dove il sogno rappresenta un tema importante (tra i due Dreams diretti da Franco e Haugerud e l’ultima opera onirica della coppia Cattet/Forzani), la Serraille ci illustra come le illusioni di un essere umano ci rivelino molto di più su quest’ultimo che qualsiasi studio oggettivo. Piuttosto che cercare di comprendere il soggetto ritratto, è sempre meglio perdersi all’interno di un quadro. E Ari è un film in cui è meraviglioso perdersi.
La tour de glace, di Lucile Hadžihalilović
La fiaba è sempre composta da riti di passaggio. La fiaba stessa, per i bambini che l'ascoltano, è un rito di passaggio. La fiaba è simbolo e, in essa, è spesso il dettaglio che apre l'immagine al suo universo simbolico. Non sceglie la via più semplice per mettere in scena un coming of age, Lucile Hadžihalilović, regista francese che presenta in concorso La tour de glace, interpretato dall'esordiente Clara Pacini e dall'affermata Marion Cotillard. Sceglie una storia di catarsi, a tratti simile ad Alice nel paese delle meraviglie, una storia focalizzata sull'inseguimento di un'immagine su cui fondare la propria identità, di un universo entro cui riconoscersi. Racconto di formazione ambiguo ma ammaliante, La tour de glace padroneggia con grande precisione i simboli e offre allo spettatore immagini estremamente stratificate, sempre in bilico fra evanescenza e carnalità. La dimensione cromatica, che insiste particolarmente sul contrasto nella stessa immagine di toni caldi e freddi e che gioca con l'elemento simbolico del ghiaccio secondo diverse tonalità di blu, dona ulteriore spessore a immagini che tendono sempre alla stratificazione. Lucile Hadžihalilović firma un film di silenzi e di dettagli, dove lo sguardo e l'azione sono sempre mossi dal desiderio, dove gli specchi riorientano in continuazione la percezione dei personaggi. It is so hard to believe that it's me that I see in the window pane, recita la canzone It's Five o Clock degli Aphrodites Child che compare nel film. Sfondo perfetto per una storia che parla della formazione di un'identità mediante l'imitazione, la rielaborazione di un lutto e il superamento stesso della prassi imitativa per uscire dalla "torre di ghiaccio" che dà il titolo all'opera con un tesoro che permetta di aprirsi a nuovi "mondi di possibilità". L'universo cinematografico, nella sua innata capacità mitopoietica, diventa dunque la soglia per conoscere un mondo e i suoi modelli e, in seguito, per riportare nell'esperienza del reale frammenti di senso che offrono al soggetto nuove vie. La tour de glace è un lungometraggio complesso, ma non cerebrale, elaborato nella sua struttura e nelle sua immagini, ma che non perde mai il proprio focus, dilatato nei tempi eppure mai superfluo. Un'opera che accetta il rischio dell'incomprensione e non si crogiola su facili soluzioni narrative e che - proprio per questo - è destinata a rimanere impressa nella mente dello spettatore.
Hot Milk, di Rebecca Lenkiewicz
Dopo aver lavorato per anni come sceneggiatrice per alcuni grandi autori internazionali, come Pawel Pawlikowski in Ida (2014) o Sebastian Lelio in Disobedience (2019), Rebecca Lenkiewicz presenta alla Berlinale la sua opera prima, l’indagine del travagliato rapporto tra Rose (Fiona Shaw) e Sofia (Emma Mackey), una madre e una figlia che si recano in una cittadina spagnola per incontrare un medico che possa trovare una cura per la misteriosa malattia che affligge Rose e che la costringe da tempo su una sedia a rotelle. La veridicità della condizione di Rose è messa in dubbio più volte dalla figlia, la cui vita è ormai in funzione della madre, una condizione opprimente ed alienante che sta logorando sempre più la ragazza. Una possibile scappatoia si presenta quando Sofia si infatua di Ingrid (Vicky Krieps), un'enigmatica viaggiatrice incontrata sulla spiaggia. Nonostante la premessa intrigante, che sembra strizzare l’occhio ai drammi bergmaniani, Lenkiewicz mostra di essere una regista piuttosto acerba, non ancora in grado di controllare nessun aspetto del proprio film; la scrittura didascalica, arricchita da metafore e simbolismi piuttosto futili, risulta indolente e provoca delle conseguenze sulle interpretazioni delle tre grandi attrici protagoniste. Lenkiewicz vuole creare un ritratto ambiguo e criptico attraverso il personaggio di Sofia, ma ottiene l’esatto opposto; la mancanza di espressività nel volto di Mackey e l’approccio minimalista estraniano ancora di più il pubblico dalla storia. Non aiuta nemmeno la non chimica tra Mackey e Vicky Krieps, con quest’ultima che, sorprendentemente, porta sullo schermo la peggiore interpretazione della sua carriera. Il netto contrasto tra l’introversa Sofia e la più esuberante Ingrid dovrebbe funzionare sulla carta, ma ogni scena in cui i personaggi sono presenti va a formare un melodramma tedioso e poco interessante. Hot Milk è un'opera con molti problemi e pochissimi (se non inesistenti) pregi, la cui selezione in competizione può essere giustificata solo dallo star power di Krieps e Mackey. Un vero peccato.
Reflet dans un diamant mort, di Hélène Cattet e Bruno Forzani
Hélène Cattet e Bruno Forzani sono dei registi molto particolari, che utilizzano un tipo di approccio che attinge molto dalla tradizione europea, e in particolare da quella del filone del cinema di genere nostrano. I punti di riferimento della coppia di registi, del resto, vanno da Dario Argento - nome tutelare per quanto riguarda la vicenda di Amer (2009), il loro esordio nel lungometraggio presentato nel Namur International Festival of French-Speaking Film - da cui viene ripresa la metafisica allucinata e lo stile grafico costruito tutto sulle tonalità RGB, fino ad arrivare allo spaghetti western di Sergio Leone e compagni, punto di riferimento nel loro folle revenge movie destrutturato, ovvero Laissez Bronzer Les Cadavres (2017), lavoro post-moderno che ne ha consolidato in modo indelebile lo stile. Alla Berlinale 2025, è così tempo del loro quarto lungometraggio, dal titolo Reflet Dans Un Diamant Mort (2025), che mantiene sostanzialmente intatti i paradigmi stilistici più caratteristici del cinema della coppia, pur ridefinendone gli elementi più importanti grazie ad un ampliamento dei piani di lettura e di realtà sui quali la coppia di registi si muove in modo estremamente audace. L’indagine feticistica, che in qualche modo riattualizza il cinema degli anni ‘70 proponendolo all’interno di schemi narrativi odierni, si intreccia qui con il noir, fondendo lo stilismo con una riflessione molto amara sulla potenza del ricordo e della memoria (di cui Fabio Testi, volto scelto appositamente per il suo legame indissolubile con il cinema italiano di quegli anni, ne è espressione accurata), non solo quella episodica, ma anche quella cinematografica. Reflet Dans Un Diamant Mort è un film sulla morte delle icone del passato, in cui il profilo reale della vita si contamina in modo definitivo con la fiction, portando lo spettatore a percepire ciò che i due registi raccontano come fosse ciò che accade realmente. Per creare questo corto circuito tra memoria e vita attuale, tra fantasia e realtà, Cattet e Forzani si affidano alla forza dell’immagine, ai suoi colori (dove risalta tutto il loro fetish per il singolo frame) e alle musiche nostalgiche, espressione di un’epoca intera (con i brani di Bruno Nicolai o le musiche di Milano Calibro 9 composte da Enriquez Luis), dove il rimosso viene a galla tramite le distorsioni del visuale - come nella scena in cui la pellicola brucia, in una correlazione semantica con il protagonista. Ad ampliare la riflessione giunge anche la dimensione transmediale, che permette a Cattet e Forzani di interfacciarsi direttamente con il fumetto Diabolik delle sorelle Giussani, citate anche esplicitamente in un dialogo. Tutti questi elementi vanno a formare un noir astratto, che si pone in perfetta continuità con i lavori passati della coppia di cineasti e, soprattutto, di saggiare un altro pezzo di storia importante del cinema di genere italiano.
Cicadas, di Ina Weisse
Dopo il successo di The Audience (2019), dramma psicologico che analizzava il conflitto morale di una violoncellista, la regista Ina Weisse torna a collaborare con Nina Hoss in Cicadas, una delicata pellicola presentata nella sezione Panorama. Con solo tre lungometraggi all’attivo, si può già intuire la poetica di Weisse e tracciare un file rouge nelle sue opere. La maniera sottile in cui affronta la psiche dei suoi protagonisti, ovvero quel costante senso di inadempienza e di ansia dovuto alle aspettative altrui è davvero raro da trovare al giorno d’oggi. Cicadas non è da meno ed è lodevole il lavoro compiuto da Weisse nel rappresentare la storia di due donne che riescono a instaurare una forte intesa a seguito delle difficoltà famigliari che stanno affrontando. Isabell (Nina Hoss), costretta a prendersi cura del padre malato, è stata “forzata” a trascurare non solo la vita matrimoniale con il marito Philippe (Vincent Macaigne), ma anche la carriera di architetto, ritrovandosi a vivere in questo loop di autocommiserazione senza via d’uscita. La situazione inizia a cambiare quando nella sua vita entra Anja (Saskia Rosendahl), madre single che sta faticando a costruire un futuro per sua figlia, e tra loro inizia un rapporto di comprensione reciproco. Cicadas non è un film che punta ad un formalismo complesso, e quello che stupisce è il tono pacato con cui certe situazioni vengono affrontate, sarebbe stato piuttosto banale vedere le due protagoniste esternare platealmente le proprie emozioni. Ne consegue un character study che fa affidamento principalmente sulle interpretazioni centrali di Hoss e Rosendahl, che portano sullo schermo due ritratti complessi sulla maternità e sui rapporti umani. Onesto e delicato nella rappresentazione di tematiche che non si discostano da quello che noi stessi viviamo nel giorno d’oggi, Cicadas risulta un film più che convincente.
Köln 75, di Ido Fluk
Presentato nella sezione Berlinale Special, Köln 75, terzo lungometraggio di Ido Fluck, narra la storia vera dietro ad uno dei più celebri concerti jazz della storia tedesca, quello del pianista Keith Jarrett (John Magaro) a Cologne nel 1975. Il tutto nacque dall’ambizione di Vera Brandes (Mala Emde), una giovane “ventenne” che, grazie alla sua passione per il jazz decise di intraprendere la folle impresa di convincere il famoso pianista statunitense dalla non facile personalità ad esibirsi in Germania. Fluck riesce a ricostruire egregiamente l’atmosfera caotica di quel periodo sia dal punto di vista narrativo che stilistico. Il caos viene in primis trasmesso dalla vita della giovane Vera, pronta a tutto pur di ottenere quello che vuole, dai continui scontri con il padre, il suo ragazzo e i vari organizzatori di concerti. Nella sua vita esiste solo la musica, poiché la ragazza crede davvero che questa possa avere una certa influenza nella vita di tutti e questa convinzione, o meglio fissazione, è portata sullo schermo in maniera esimia dall’attrice Mala Emde. Il caos del periodo trova anche una connotazione a livello formale, dalla sovrapposizione di varie conversazioni, lunghi piani sequenza per esaltare le situazioni stressanti della protagonista ed infine l’uso uniforme della rottura della quarta parete, punto di vista che ha permesso un coinvolgimento extra da parte dell’audience per capire determinate situazioni storiche o legate alla figura di Jarrett. Köln 75 è un film più che piacevole, che non solo analizza efficacemente il periodo e l’ambiente jazz anni ‘70, ma riesce anche a trovare una modesta innovatività dell’approccio formale.
L’Incroyable femme des neiges, di Sébastien Betbeder
Sébastien Betbeder è un regista attivo da quasi vent’anni nel panorama francese e sul versante internazionale. Dopo gli inizi caratterizzati da alcune sortite fantasy, come Nuagè (2007), ha debuttato nei festival internazionali con il suo secondo lungometraggio, dal titolo Les Nuits avec Théodore (2012), in cui l’incursione in un mondo fantastico governa ancora la narrazione, presentato al TIFF di Toronto, e con Deux Automnes Trois Hivers (2013), con il quale compie finalmente il suo battesimo ufficiale al Festival di Cannes, nella sezione ACID, oltre a vincere un premio speciale della giuria al Torino Film Festival 2013. Tuttavia, la sua carriera si è poi divisa tra alcune prove ben riuscite - come il cortometraggio Inupiluk (2014) - e altre che non hanno avuto la stessa fortuna. Nel 2025 è sbarcato alla Berlinale, con la sua nuova commedia surreale dal titolo L’Incroyable femme des neiges. La commedia francese, nel raccontare le peripezie dell’esperta polare Coline Morel (interpretata in modo molto intelligente da Blanche Gardin), si presenta con un piglio molto particolare e per nulla banale, grottesca al punto giusto e soprattutto mai pesante. La forma e le intuizioni che lo stesso Betbeder ha nel proporre le gag al suo pubblico (esemplare e davvero molto divertente quella relativa all’incidente in macchina che coinvolge l’attrice principale, così come quella del coltello) instradano tutto su dei binari tipici della comicità slapstick, dove il movimento del corpo e il suo interfacciarsi con l’ambiente circostante scaturisce genuinamente più di qualche risata allo spettatore. Ne risulta un film permeato da un velo insistito di surrealismo, che con la dovuta leggerezza sfrutta la risata per problematizzare una delle questioni più importanti che l’umanità sta affrontando nella sua ultima era, vale a dire quella legata all’ambiente. L’Incroyable femme des neiges nasconde dunque una profonda anima sociologica, che sotto le risate nasconde un’indagine sulle possibilità che la vita offre all’uomo, nonostante le difficoltà, e su come queste ultime possano rappresentare in realtà un’opportunità di crescita e di riscatto. Betbeder crea un meccanismo ad orologeria che funziona per la maggior parte del tempo, salvo alcune scene che diventano leggermente didascaliche e che impattano meno sullo spettatore. La forma scelta dal cineasta agevola di molto il tono del film, in quanto la regia mossa e l’uso improvviso di tecniche da mockumentary, quali lo zoom o il piano sequenza slabbrato, riportano alla mente le sit-com americane più famose, e agevola di molto la riuscita della caratterizzazione dei personaggi, i quali si ritrovano immersi in un’atmosfera sospesa, surreale, tale da ricordare quella provincia tipica del cinema di Bruno Dumont, di cui vengono riproposte tutte le idiosincrasie con molta ilarità.
Fwends, di Sophie Somerville
Una passeggiata lungo le strade di Melbourne apre il primo lungometraggio di Sophie Somerville, in cui due amiche, Em (Emmanuelle Mattana) e Jessie (Melissa Gan), si ritrovano dopo tanto tempo e passano la loro giornata a girare per la città, disquisendo di vita privata, argomenti sociali, illazioni filosofiche e arrivando a chiedersi quanto ci sia di oggettivo nella realtà che vivono ogni giorno. In questo lungo inizio la regista segue le due amiche tenendosi a debita distanza, nascondendosi alla loro vista e rendendo centrale l’elemento metropolitano che le circonda. La Melbourne ritratta da Sophie Somerville diventa quindi un centro di continuo movimento, messa in scena dalla cineasta con uno sguardo semi-documentaristico, fondato soprattutto sull’artificio del mezzo digitale. Zoom continui, movimenti di macchina sgraziati e lunghi piani fissi diventano lo strumento attraverso cui svelare l’elemento alienante e allucinatorio interno alla realtà abitata dalle due esuberanti protagoniste, come se due personaggi usciti dalla penna di Noah Baumbach si scambiassero dialoghi brillanti mentre vengono ripresi dalla telecamera di Hong Sang-soo. L’originalità dell’esordio della giovane regista australiana risiede nel piegare la struttura classica dell’indie americano alle forme stranianti dell’era digitale, esibendo così, anche stilisticamente, l’instabilità della realtà moderna. Man mano che l’opera prosegue e i dubbi esistenzialisti dei personaggi vengono svelati, pure la messa in scena comincia ad affidarsi a soluzioni sempre più sperimentali, arrivando così a rappresentare l’inconsistenza dei nostri tempi attraverso la distorsione delle immagini. L’atmosfera irreale da sogno a occhi aperti che apre il film lascia quindi spazio all’incubo dello smarrimento identitario e il viaggio delle protagoniste nella Melbourne notturna assume le forme di un incubo distorto, in cui i dubbi generazionali faticano a trovare una forma unitaria con cui esprimersi. Nonostante il suo interessante approccio teorico ai meccanismi del digitale, Fwends rimane però fedele alla sua natura da classica commedia brillante sundanciana, riservando uno spazio importante ai botta e risposta delle due attrici, unite da una genuina alchimia. In questi lunghi dialoghi la spontaneità delle interazioni e il realismo delle conversazioni rende ancora più difficile comprendere dove risiede il confine tra attore e personaggio ed è in questa ambiguità che si trova tutta la forza di un film basato sull’equilibrio tra forme che non dovrebbero avere alcuna correlazione tra di loro, in un continuo giro a vuoto in cui la metropoli cambia i personaggi che la abitano, svelando un desiderio di libertà a lungo nascosto. Noi spettatori osserviamo da lontano tutti i piccoli eventi che riempiono la giornata delle protagoniste, le quali, nella ricerca di un significato ultimo alla loro esistenza, capiranno l’impossibilità di raggiungere una verità assoluta in un’epoca segnata dal relativismo assoluto o di trovare un senso alla vita dentro il tardo-capitalismo contemporaneo.
Sandbag Dam, di Čejen Černić
In una piccola cittadina croata che sembra situata al di fuori di una precisa datazione temporale, Marko (Lav Novosel) rincontra il proprio amico d’infanzia Slaven (Andrija Zunaci), con cui aveva avuto in passato una relazione tenuta nascosta a tutti gli altri abitanti conservatori del luogo. Costretto a trovare un modo di conciliare le aspettative maciste della famiglia con il desiderio nascosto che prova verso il suo amante, il protagonista vive un percorso pieno di contraddizioni. Incoerente e curiosa è pure la carriera della regista Čejen Černić, passata dal ruolo di aiuto-regista dei B-Movie camp di Uwe Boll a dirigere drammi ispirati al cinema dei Dardenne per i maggiori festival europei. Più che a trattare il tema dell’intolleranza nei confronti di una minoranza discriminata, la cineasta intende decostruire i principi di mascolinità con cui si cerca di reprimere qualunque espressione della sessualità fuori dai canoni eteronormativi. Per quasi metà film l’elemento passionale viene infatti represso, nascosto per mostrare invece immagini di uomini impegnati in attività "mascoline" o a sfidarsi a braccio di ferro. Solo nell’ultima parte l’ambiente cittadino esprimerà il proprio bigottismo e i personaggi cominceranno a svelarsi per come sono realmente, mostrando come nel perbenismo si nasconda una cieca intolleranza verso ciò che è considerato "inusuale". Per esprimere tali concetti, la regista tallona i personaggi, non si allontana mai da loro, cercando di esprimere anche stilisticamente la repressione di cui soffrono, tenendosi coerente alla schiettezza del registro scelto. Nonostante le buone premesse espresse, tuttavia, non si può pretendere di narrare il presente senza averne capito la particolarità, e guardando Sandbag Dam si ha come l’impressione di assistere a un cinema vecchio, incapace di andare oltre il luogo comune. Nella contemporaneità per narrare una storia già vista così tante volte serve porre uno sguardo personale sul tema e tra jump-cut random, continue ellissi nel montaggio e sequenze chiuse sbrigativamente, Černić sembra più interessata a semplificare tutte le tappe del proprio discorso, asciugando la storia fino al punto in cui ogni personaggio è definibile con un aggettivo e ogni conflitto si risolve nel nulla. È sicuramente ammirabile la volontà di deviare dal canone classico delle storia queer, negando infatti un possibile finale fatalista per i due personaggi, in favore di una chiusura spezzata molto più efficace, ma è l’unica scelta compiuta all’interno di una pellicola che invece sembra limitarsi a seguire uno schema. Per quanto bravi possano essere gli attori protagonisti, a mancare è proprio la mano di un regista che riesca a non far sembrare il film una lunga sequela di momenti già visti.
little boy, di James Benning
James Benning è uno dei registi più influenti degli ultimi anni, ed è annoverato sicuramente tra quelli che hanno saputo carpire meglio l’essenza dell’immagine e le potenzialità del cinema, rapportandosi in modo diretto con il suo luogo di nascita, l’America, che spesso e volentieri è diventata vero e proprio protagonista in pectore e oggetto dei suoi lungometraggi d’avanguardia - un esempio cardine è la pellicola American Dreams: Lost And Found (1984). little Boy è un’opera del tutto particolare, che adotta una tecnica da collage e che, soprattutto, sfrutta un coro di voci molto importante - del regista di Pepe (2024), Nelson De Los Santos Arias, a Yuan Gao - per porre un nuovo sguardo sugli Stati Uniti, l’ennesimo che Benning propina allo spettatore e che gli permette, per la prima volta, di affrontare determinate questioni del proprio Paese di provenienza utilizzando la prospettiva di un piccolo bambino, per attraversare la Storia e le storie nel tentativo di compiere un’indagine a tutto tondo sul sogno americano e sulle sue controversie. La più grande novità riguardante little boy, riguarda soprattutto il modo in cui Benning racconta la crescita di un bambino e, di conseguenza, la metamorfosi del suo sguardo attraverso le ere. Infatti, per la prima volta nella storia del regista, ad avere la precedenza non è il paesaggio come specchio di un Paese, quanto piuttosto i modellini degli edifici che lo stesso protagonista costruisce nel corso del tempo. Delle costruzioni che risultano molto significative, in quanto mettono in evidenza una panoramica della storia americana che parte dal 1961 per approdare al 2016. little boy è dunque un vero e proprio romanzo di formazione atipico, in quanto si fa indagine di una certa cultura pop attraverso elementi cardine del cinema. Se, però, la descrizione utilizzata in American Dreams (Lost And Found) era completamente basata sul rapporto tra cultura pop e socialità americana, in little boy Benning sfrutta la possibilità di rappresentazione garantita dai modellini che governano l’immagine e che sono ripresi, di volta in volta, per creare un link tra la parola, l’immagine e la cultura decennale che evolve di anno in anno, oltre che per osservarne il comportamento attraverso lo sguardo inedito di un bambino. Una visione che porta, inevitabilmente, anche l’immagine a rendersi statica e immobile e semplicemente contemplativa nei confronti della Storia degli Stati Uniti, partendo da una delle prospettive più particolari della carriera di Benning per creare un ponte che colleghi passato, presente e futuro.
Hysteria, di Mehmet Akif Büyükatalay
È di poche settimane fa la notizia dell'uccisione in Svezia di Salwan Momika, attivista iracheno che nel 2023 bruciò in pubblico il Corano in un atto di protesta contro i dogmi dell'islamismo. Hysteria, secondo lungometraggio del regista tedesco di origine turca Mehmet Akif Büyükatalay, ha proprio come nodo centrale l'azione di bruciare il Corano. Thriller metacinematografico dalla forte urgenza politica, Hysteria segue il crescendo di tensione che si sviluppa fra un cast - composto da richiedenti asilo politico - e la troupe di un film in seguito alla decisione del regista Yigit (tedesco, ma di origine turca) di inserire una scena in cui viene mostrato il Corano bruciato, ne conseguirà una misteriosa sparizione della pellicola che contiene quelle immagini. Büyükatalay pone al centro dell'attenzione la responsabilità che chi produce immagini ha nei confronti di chi le fruisce. Una responsabilità etica che troppe volte viene superficialmente sottomessa all'estetica o alla ricerca del facile sentimentalismo. Metacinema che usa la riflessione sul mezzo in una chiave sociale, Hysteria procede con il ritmo di un thriller e una dinamica delle relazioni fra i personaggi che sembra uscita dalla penna della drammaturga Yasmine Reza. A risultare particolarmente interessante è il lavoro compiuto sulla protagonista Elif (Devrim Lingnau), assistente alla regia, il cui ruolo attivo nella vicenda viene progressivamente spento e smontato, destinato a soffocare nell'intensità dello scontro ideologico e sociale fra Yigit e il suo cast. Büyükatalay, a differenza del regista del suo film, non ha paura di prendere una posizione, di essere responsabile delle proprie immagini, e offre allo spettatore un ritratto perfetto dell'élite culturale europea, della sua incapacità di trovare immagini per raccontare la realtà e della sua ipocrisia nel non volersi prendere la responsabilità di ciò che esse significano. Allo stesso modo, però, non si pone neanche esplicitamente dalla parte dei rifugiati, limitandosi ad osservare come il terreno di scontro fra i contendenti sia un territorio su cui tutti finiscono per scivolare e impantanarsi. L'Europa - sembra dire chiaramente il regista - è una stanza chiusa che sta bruciando nel fuoco delle sue contraddizioni.
Silent Sparks, di Ping Chu
Fra Tsai Ming-liang, l'Hou Hsiao-hsien di Daughter of Nile (1987) e il primo Wong Kar-wai, Silent Sparks rappresenta un solido noir che cala lo spettatore in una Taipei plumbea. A stupire dell'esordio alla regia di Ping Chu è il controllo formale che il regista da prova di avere sull'immagine. Chu non spreca alcuna inquadratura, parcellizza l'azione in pochi spazi, lavora sui silenzi degli attori e sulle ellissi. Nonostante la trama derivativa, a stupire è l'attenzione che in Silent Sparks viene dedicata alla descrizione dei due protagonisti, entrambi ottimamente interpretati da Huang Guan Zhi e Shih Ming-shuai, e la capacità con cui il cineasta è in grado di tratteggiare, con una profonda essenzialità, i loro intrecci e i loro destini. Un film semplice tanto nella sua struttura quanto profondo nel modo in cui mette in scena le azioni e le relazioni fra i personaggi, che non cerca il vezzo stilistico, ma che ripone una totale fiducia nel potere comunicativo delle immagini. Un film che - parafrasando il titolo - procede come una silenziosa scintilla per poi arrivare ad un bagliore improvviso che investe gli spettatori e rimane nell'aria anche se è inevitabilmente destinato a spegnersi, soffocato da una realtà che non sembra concedere alcuna luce ai protagonisti. Silent Sparks è la dimostrazione che si possono girare film derivativi, manifestando, anche apertamente, le proprie ispirazioni e infondendo in essi un tocco, uno sguardo, una sensibilità che riesca a far dimenticare allo spettatore qualsiasi deja-vu e aprire un piccolo scorcio, accendere una piccola luce, nel mare di una cinematografia contemporanea taiwanese, che sembra sempre più sclerotizzata.