Un ritratto di Philip Seymour Hoffman a quasi dieci anni dalla sua morte,
di Davide Merola
TR-76
11.03.2023
Lo scrittore John le Carré incontrò Philip Seymour Hoffman sul set di La spia – A Most Wanted Man, la pellicola di Anton Corbijn basata sul suo romanzo Yssa il buono. Il film di Corbijn fu l’ultimo lavoro di Hoffman: uscì negli Stati Uniti nel luglio del 2014; il 2 febbraio di quello stesso anno l’attore fu trovato morto nel bagno del suo appartamento a Manhattan. Fu poi accertato che Hoffman morì a causa di un mix di droghe che gli risultò fatale. Per anni l’attore aveva lottato contro la tossicodipendenza. John le Carré, a margine di quell’incontro sul set di A Most Wanted Man, in un’intervista al New York Times, disse di Hoffman dopo la sua morte: «the world was too bright for him to handle».
Philip Seymour Hoffman non fu riconosciuto fin da subito per l’attore che viene considerato oggi, a quasi dieci anni dalla sua scomparsa. Spesso etichettato come “spalla” relegata a film indipendenti, ha saputo trarre da quei “piccoli” ruoli il meglio, rendendo ogni sua interpretazione e ogni suo personaggio iconico e memorabile. La celebrazione come miglior attore della sua generazione non arriva solo dopo la sua morte, ma già nel 2006 con il riconoscimento dell’Academy al miglior attore per il film Truman Capote. Nella pellicola di Bennett Miller, Hoffman interpreta lo scrittore Truman Capote durante il periodo della sua carriera in cui si prepara per lavorare al romanzo A sangue freddo, opera che lo lancerà definitivamente nell’Olimpo dei più grandi scrittori americani dell’epoca segnando contemporaneamente anche la fine della sua carriera, in quanto Capote, abbattuto dalle critiche dell’opinione pubblica riguardo la durezza del suo romanzo-cronaca, dopo quel romanzo non lavorò più ad alcun libro. Sembra di vedere riflessa in questa parabola la carriera dello stesso attore, ma al contrario di Capote Hoffman ha continuato a lavorare ad altrettante grandi pellicole, anche se forse il riconoscimento dell’Academy, che lo ha lanciato allo stesso modo nell’Olimpo di Hollywood, è stato come per Capote e il suo romanzo un peso difficile da reggere.
Questo perché Philip Seymour Hoffman è sempre stato una figura modesta. Sapeva di essere un attore poco ortodosso soprattutto per la giuria dell’Academy (questo prima della statuetta per il miglior attore), ma accettava tale condizione. Secondo lui ci sarebbe stato sempre qualcun altro interessato a quello che faceva, e lo ha dimostrato con la sua poliedrica capacità di passare dalle commedie ai drammi, spesso interpretando personaggi inquietanti e disadattati.
In Before the Devil Knows You’re Dead di Sidney Lumet interpreta Andy, un immobiliare sull’orlo della bancarotta che convince il fratello Hank a rapinare la gioielleria di famiglia. Il colpo va male e la loro madre finisce in coma. Da quel momento gli eventi precipitano in turbine di droghe e tradimenti. Nella scena in cui il personaggio di Hoffman si confronta con la moglie di ritorno dal funerale della madre, proprio riguardo alla scelta del padre di staccare la spina ai macchinari che la tenevano ancora in vita, assistiamo a tutta la fragilità che un personaggio spregevole come Andy può trasmettere. In un pianto rotto dalla rabbia, quel “it’s not fair” pronunciato in un urlo strozzato da Hoffman dimostra tutta la capacità del suo personaggio di oscillare tra le debolezze e la furia (nonché la straordinaria bravura di Hoffman nel rappresentare questo spettro di emozioni).
A proposito di personaggi spregevoli, l’anno dopo Hoffman interpreta Padre Flynn in Doubt: nel film di John Patrick Shanley, Flynn viene accusato dalla suora Aloysius di intrattenere relazioni improprie con il giovane Donald, un nuovo studente della scuola cattolica nei quali entrambi insegnano. Sorella Aloysius vorrebbe cacciare Padre Flynn, ma non ci sono abbastanza prove contro di lui. La scena dell’ultimo sermone di Flynn come parroco di quella scuola dimostra tutta l’ambiguità del personaggio: l’eulogia a “sé stesso” sembra quasi l’ammissione di una colpa, ma vacilla in un addio sentito e sincero instaurando così il proverbiale “dubbio” che aleggia su tutta la faccenda. Il volto laconico di Hoffman conferisce al sermone una calma che pare quasi inquietante. In un’intervista riguardo questi ruoli ripugnanti, Hoffman disse di non cercare nello specifico ruoli negativi da interpretare, ma che gli interessavano personaggi che avessero una difficoltà e un conflitto da affrontare.
La lista dei ruoli che ha interpretato e che hanno solcato il palcoscenico della sua carriera include – tra gli altri – il maggiordomo Brandt in The Big Lebowski; il giornalista-mentore Lester Bangs in Almost Famous; il professore Jacob Elinsky in 25th Hour; il villain Owen Davian in Mission Impossibile III e il direttore di teatro Caden Cotard in Synecdoche, New York. Ma i personaggi a cui la sua carriera deve molto sono quelli legati alla collaborazione con Paul Thomas Anderson. In titoli quali Hard Eight, Boogie Nights, Magnolia, Punch-Drunk Love e, infine, The Master, Philip Seymour Hoffman ha coltivato quei ruoli “secondari” che lo hanno reso famoso, dando un nuovo significato all’espressione: “rubare la scena”. Dai margini delle storie di PTA, Hoffman si è fatto strada fino ad diventarne il centro. Questo è chiaro sin dall’esordio del regista con Hard Eight: la capacità di Hoffman di muoversi in queste storie diventerà la qualità fondamentale del rapporto con Paul Thomas Anderson, che renderà simbiontica la relazione tra i due nei film successivi.
Del primo film di PTA ci si ricorda un odioso e presuntuoso giocatore di poker che non vincerebbe neanche per sbaglio. Uno di quei personaggi la cui uscita di scena ti solleva, ma allo stesso tempo ti rimane impressa per quanto fugace ed elettrizzante è stata la sua presenza: quel giocatore di poker era proprio Philip Seymour Hoffman. Da lì in poi i due non si sono praticamente più separati. In Boogie Nights interpreta Scotty, un operatore di camera di cinema porno che rimane letteralmente sempre ai margini dell’inquadratura: mai davanti alla telecamera, ma sempre dietro, a volte sullo sfondo. Insistente come un ragazzo di quattordici anni (vestito anche alla stessa maniera), il personaggio di Hoffman non ha un vero e proprio sviluppo se non quel momento folgorante - proprio come in Hard Eight - in cui Scotty confessa il suo amore per la pornostar Dirk Diggler, interpretato da Mark Wahlberg, venendo brutalmente rifiutato. Nella scena Hoffman cambia diverse espressioni nel giro di pochi secondi: prima è ubriaco, poi entusiasta, esitante, infine tenta di riconquistare una certa compostezza, ma la scena termina con lui che si piange addosso ormai lasciato solo a prendersela con sé stesso. In quel momento di debolezza riusciamo a trarre tutte le conclusioni su un personaggio fino a quel momento rimasto in disparte, che dai margini è arrivato al centro con un’empatia tale da risultare condivisibile.
Ritroviamo quella stessa empatia – ma amplificata – in Magnolia, con Hoffman nei panni dell’infermiere Phil di nuovo ai margini di una storia: quella della relazione tossica e disfunzionale tra il produttore televisivo Earl e suo figlio, lo speaker motivazionale Frank (Tom Cruise). Cerca di tenersi fuori dai loro problemi ma contemporaneamente viene trascinato al loro interno, senza fare nulla per evitarlo. Funge da catalizzatore in questa relazione: non vuole fare altro che aiutare. Hoffman interpreta questo ruolo con una tale naturalezza che sarebbe stato difficile immaginare qualcun altro al suo posto. In Punch-Drunk Love il duo PTA-Hoffman si lascia andare a un leitmotiv più bizzarro (come la scena finale di Magnolia in cui piovono le rane dal cielo) che passa dalla psicologia del personaggio di Adam Sandler, Barry, a tutti i personaggi che compongono questa storia, tra cui quello che Hoffman interpreta: Dean. Una specie di nemesi, di super bullo portato all’estremo tanto da risultare ridicolo quanto il personaggio di Barry.
In questa maniera Philip Seymour Hoffman si allontana sempre di più dai margini di queste storie. Infatti in The Master è finalmente al centro: è effettivamente il “master” del titolo, il leader di una setta che conquista tutti con il suo carisma, anche la centralità della storia. Certo, tutto è raccontato dal punto di vista del personaggio di Joaquin Phoenix, ma anche lui punta verso quello stesso centro solo perché segue il personaggio di Hoffman, creando così quella dinamica tra i due per cui il film è famoso. In questa centralità Hoffman paradossalmente perde la sua naturalezza in favore di una recitazione più teatrale in linea con il carattere del suo personaggio, che deve porsi in quella maniera di fronte agli altri membri della setta.
Philip Seymour Hoffman riusciva a separare il personaggio da sè stesso. Lo faceva trovando le differenze e le similitudini tra lui e i suoi ruoli: occuparsi di questi passaggi lo rendeva capace di creare questa persona che non era lui; che non viveva la sua vita, ma un’altra. Per alcuni questo significava essere un attore caratterista, ma per Philip Seymour Hoffman significava semplicemente recitare e recitare per lui non è mai stato difficile. Farlo bene, invece, era la vera difficoltà. Qualche anno prima della sua morte, in un’intervista disse che adorava fare l’attore, ma che era un mestiere che aveva un prezzo: «Per me recitare è una tortura, ed è una tortura perché sai che è una cosa bellissima… Volerlo fare è facile, ma cercare di essere il migliore… beh, quello è assolutamente una tortura».
È lo stesso conflitto interiore che notò le Carré sul set di A Most Wanted Man: alla fine, a furia di interpretare personaggi che avevano sempre qualche difficoltà e un conflitto da affrontare, Philip Seymour Hoffman è diventato uno di loro.
Un ritratto di Philip Seymour Hoffman
a quasi dieci anni dalla sua morte,
di Davide Merola
TR-76
11.03.2023
Lo scrittore John le Carré incontrò Philip Seymour Hoffman sul set di La spia – A Most Wanted Man, la pellicola di Anton Corbijn basata sul suo romanzo Yssa il buono. Il film di Corbijn fu l’ultimo lavoro di Hoffman: uscì negli Stati Uniti nel luglio del 2014; il 2 febbraio di quello stesso anno l’attore fu trovato morto nel bagno del suo appartamento a Manhattan. Fu poi accertato che Hoffman morì a causa di un mix di droghe che gli risultò fatale. Per anni l’attore aveva lottato contro la tossicodipendenza. John le Carré, a margine di quell’incontro sul set di A Most Wanted Man, in un’intervista al New York Times, disse di Hoffman dopo la sua morte: «the world was too bright for him to handle».
Philip Seymour Hoffman non fu riconosciuto fin da subito per l’attore che viene considerato oggi, a quasi dieci anni dalla sua scomparsa. Spesso etichettato come “spalla” relegata a film indipendenti, ha saputo trarre da quei “piccoli” ruoli il meglio, rendendo ogni sua interpretazione e ogni suo personaggio iconico e memorabile. La celebrazione come miglior attore della sua generazione non arriva solo dopo la sua morte, ma già nel 2006 con il riconoscimento dell’Academy al miglior attore per il film Truman Capote. Nella pellicola di Bennett Miller, Hoffman interpreta lo scrittore Truman Capote durante il periodo della sua carriera in cui si prepara per lavorare al romanzo A sangue freddo, opera che lo lancerà definitivamente nell’Olimpo dei più grandi scrittori americani dell’epoca segnando contemporaneamente anche la fine della sua carriera, in quanto Capote, abbattuto dalle critiche dell’opinione pubblica riguardo la durezza del suo romanzo-cronaca, dopo quel romanzo non lavorò più ad alcun libro. Sembra di vedere riflessa in questa parabola la carriera dello stesso attore, ma al contrario di Capote Hoffman ha continuato a lavorare ad altrettante grandi pellicole, anche se forse il riconoscimento dell’Academy, che lo ha lanciato allo stesso modo nell’Olimpo di Hollywood, è stato come per Capote e il suo romanzo un peso difficile da reggere.
Questo perché Philip Seymour Hoffman è sempre stato una figura modesta. Sapeva di essere un attore poco ortodosso soprattutto per la giuria dell’Academy (questo prima della statuetta per il miglior attore), ma accettava tale condizione. Secondo lui ci sarebbe stato sempre qualcun altro interessato a quello che faceva, e lo ha dimostrato con la sua poliedrica capacità di passare dalle commedie ai drammi, spesso interpretando personaggi inquietanti e disadattati.
In Before the Devil Knows You’re Dead di Sidney Lumet interpreta Andy, un immobiliare sull’orlo della bancarotta che convince il fratello Hank a rapinare la gioielleria di famiglia. Il colpo va male e la loro madre finisce in coma. Da quel momento gli eventi precipitano in turbine di droghe e tradimenti. Nella scena in cui il personaggio di Hoffman si confronta con la moglie di ritorno dal funerale della madre, proprio riguardo alla scelta del padre di staccare la spina ai macchinari che la tenevano ancora in vita, assistiamo a tutta la fragilità che un personaggio spregevole come Andy può trasmettere. In un pianto rotto dalla rabbia, quel “it’s not fair” pronunciato in un urlo strozzato da Hoffman dimostra tutta la capacità del suo personaggio di oscillare tra le debolezze e la furia (nonché la straordinaria bravura di Hoffman nel rappresentare questo spettro di emozioni).
A proposito di personaggi spregevoli, l’anno dopo Hoffman interpreta Padre Flynn in Doubt: nel film di John Patrick Shanley, Flynn viene accusato dalla suora Aloysius di intrattenere relazioni improprie con il giovane Donald, un nuovo studente della scuola cattolica nei quali entrambi insegnano. Sorella Aloysius vorrebbe cacciare Padre Flynn, ma non ci sono abbastanza prove contro di lui. La scena dell’ultimo sermone di Flynn come parroco di quella scuola dimostra tutta l’ambiguità del personaggio: l’eulogia a “sé stesso” sembra quasi l’ammissione di una colpa, ma vacilla in un addio sentito e sincero instaurando così il proverbiale “dubbio” che aleggia su tutta la faccenda. Il volto laconico di Hoffman conferisce al sermone una calma che pare quasi inquietante. In un’intervista riguardo questi ruoli ripugnanti, Hoffman disse di non cercare nello specifico ruoli negativi da interpretare, ma che gli interessavano personaggi che avessero una difficoltà e un conflitto da affrontare.
La lista dei ruoli che ha interpretato e che hanno solcato il palcoscenico della sua carriera include – tra gli altri – il maggiordomo Brandt in The Big Lebowski; il giornalista-mentore Lester Bangs in Almost Famous; il professore Jacob Elinsky in 25th Hour; il villain Owen Davian in Mission Impossibile III e il direttore di teatro Caden Cotard in Synecdoche, New York. Ma i personaggi a cui la sua carriera deve molto sono quelli legati alla collaborazione con Paul Thomas Anderson. In titoli quali Hard Eight, Boogie Nights, Magnolia, Punch-Drunk Love e, infine, The Master, Philip Seymour Hoffman ha coltivato quei ruoli “secondari” che lo hanno reso famoso, dando un nuovo significato all’espressione: “rubare la scena”. Dai margini delle storie di PTA, Hoffman si è fatto strada fino ad diventarne il centro. Questo è chiaro sin dall’esordio del regista con Hard Eight: la capacità di Hoffman di muoversi in queste storie diventerà la qualità fondamentale del rapporto con Paul Thomas Anderson, che renderà simbiontica la relazione tra i due nei film successivi.
Del primo film di PTA ci si ricorda un odioso e presuntuoso giocatore di poker che non vincerebbe neanche per sbaglio. Uno di quei personaggi la cui uscita di scena ti solleva, ma allo stesso tempo ti rimane impressa per quanto fugace ed elettrizzante è stata la sua presenza: quel giocatore di poker era proprio Philip Seymour Hoffman. Da lì in poi i due non si sono praticamente più separati. In Boogie Nights interpreta Scotty, un operatore di camera di cinema porno che rimane letteralmente sempre ai margini dell’inquadratura: mai davanti alla telecamera, ma sempre dietro, a volte sullo sfondo. Insistente come un ragazzo di quattordici anni (vestito anche alla stessa maniera), il personaggio di Hoffman non ha un vero e proprio sviluppo se non quel momento folgorante - proprio come in Hard Eight - in cui Scotty confessa il suo amore per la pornostar Dirk Diggler, interpretato da Mark Wahlberg, venendo brutalmente rifiutato. Nella scena Hoffman cambia diverse espressioni nel giro di pochi secondi: prima è ubriaco, poi entusiasta, esitante, infine tenta di riconquistare una certa compostezza, ma la scena termina con lui che si piange addosso ormai lasciato solo a prendersela con sé stesso. In quel momento di debolezza riusciamo a trarre tutte le conclusioni su un personaggio fino a quel momento rimasto in disparte, che dai margini è arrivato al centro con un’empatia tale da risultare condivisibile.
Ritroviamo quella stessa empatia – ma amplificata – in Magnolia, con Hoffman nei panni dell’infermiere Phil di nuovo ai margini di una storia: quella della relazione tossica e disfunzionale tra il produttore televisivo Earl e suo figlio, lo speaker motivazionale Frank (Tom Cruise). Cerca di tenersi fuori dai loro problemi ma contemporaneamente viene trascinato al loro interno, senza fare nulla per evitarlo. Funge da catalizzatore in questa relazione: non vuole fare altro che aiutare. Hoffman interpreta questo ruolo con una tale naturalezza che sarebbe stato difficile immaginare qualcun altro al suo posto. In Punch-Drunk Love il duo PTA-Hoffman si lascia andare a un leitmotiv più bizzarro (come la scena finale di Magnolia in cui piovono le rane dal cielo) che passa dalla psicologia del personaggio di Adam Sandler, Barry, a tutti i personaggi che compongono questa storia, tra cui quello che Hoffman interpreta: Dean. Una specie di nemesi, di super bullo portato all’estremo tanto da risultare ridicolo quanto il personaggio di Barry.
In questa maniera Philip Seymour Hoffman si allontana sempre di più dai margini di queste storie. Infatti in The Master è finalmente al centro: è effettivamente il “master” del titolo, il leader di una setta che conquista tutti con il suo carisma, anche la centralità della storia. Certo, tutto è raccontato dal punto di vista del personaggio di Joaquin Phoenix, ma anche lui punta verso quello stesso centro solo perché segue il personaggio di Hoffman, creando così quella dinamica tra i due per cui il film è famoso. In questa centralità Hoffman paradossalmente perde la sua naturalezza in favore di una recitazione più teatrale in linea con il carattere del suo personaggio, che deve porsi in quella maniera di fronte agli altri membri della setta.
Philip Seymour Hoffman riusciva a separare il personaggio da sè stesso. Lo faceva trovando le differenze e le similitudini tra lui e i suoi ruoli: occuparsi di questi passaggi lo rendeva capace di creare questa persona che non era lui; che non viveva la sua vita, ma un’altra. Per alcuni questo significava essere un attore caratterista, ma per Philip Seymour Hoffman significava semplicemente recitare e recitare per lui non è mai stato difficile. Farlo bene, invece, era la vera difficoltà. Qualche anno prima della sua morte, in un’intervista disse che adorava fare l’attore, ma che era un mestiere che aveva un prezzo: «Per me recitare è una tortura, ed è una tortura perché sai che è una cosa bellissima… Volerlo fare è facile, ma cercare di essere il migliore… beh, quello è assolutamente una tortura».
È lo stesso conflitto interiore che notò le Carré sul set di A Most Wanted Man: alla fine, a furia di interpretare personaggi che avevano sempre qualche difficoltà e un conflitto da affrontare, Philip Seymour Hoffman è diventato uno di loro.