Il villaggio in cui dimora l'anima
recensione di Beatrice Gangi
RV-67
22.09.2024
Nel 1945 è finita la guerra. Il 20 Gennaio, a Washington, Franklin Delano Roosevelt è stato proclamato Presidente per la quarta volta. Il 27 dello stesso mese, in Polonia, è stato liberato il campo di concentramento di Auschwitz, rivelando al mondo, per la prima volta, le testimonianze dei sopravvissuti. Il 25 Aprile, le truppe sovietiche e le truppe statunitensi si sono riunite sulle sponde del fiume Elba. Tra l’1 e il 4 Maggio, le armate tedesche si sono arrese in Italia, in Germania, in Danimarca, e nei Paesi Bassi. Il 16 Luglio, nel deserto del Nuovo Messico, è detonata per la prima volta la bomba atomica. Il 2 Settembre, nella baia di Tokyo, viene firmata la resa dell’impero giapponese e, ufficialmente, è finita la guerra.
Nel 1945 a Vermiglio non ci sono date. Non ci sono date perché non ci sono grandi eventi. Ci sono giorni simili in cui si mungono le vacche, dei bambini nascono e dei bambini muoiono. In cui si compiono peccati da confessare e peccati da nascondere. In Inverno, arriva la neve e due disertori tornano dalla guerra. Uno dei due si innamora di una ragazza, in Primavera, la sposa. In Estate, i più giovani ricevono il loro diploma, alcuni andranno avanti a studiare, altri non ne sono ritenuti sufficienti. Il disertore può tornare a casa, in Sicilia, raccontare alla madre che aspetta un figlio, che non è morto. In Autunno si aspetta che faccia ritorno al villaggio, a fare da padre. Non fa molta differenza, quando i soldati tornano nelle loro case.
È uscito in sala questa settimana Vermiglio di Maura Delpero, Gran Premio della giuria all’81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Qui al suo secondo lungometraggio, la regista torna sulla scena a cinque anni dal precedente Maternal (2019), ricordato tra i film più premiati della 72ª edizione del Locarno Film Festival. La cineasta, dagli hogar dell’Argentina contemporanea si sposta quindi alle montagne trentine della Seconda Guerra Mondiale, due luoghi così lontani e così diversi ma in cui raccontare, su tutto, una maternità simile. Infatti, in Vermiglio, pur essendo gli uomini a dettare il motore narrativo della storia (il Pietro di Giuseppe De Domenico, il disertore, con il suo arrivo a Vermiglio) e a concederne, o meno, lo sviluppo (Cesare Graziadei, anziano padre di famiglia e maestro elementare, interpretato da Tommaso Ragno) sono le donne, e i bambini, a renderla intima. Le sorelle Graziadei, Lucia (Martina Scrinzi), Ada (Rachele Potrich), e Flavia (Anna Thaler), il fratello Dino (Patrick Gardner), ormai più adulto che bambino, e Pietrin (Enrico Panizza), il più piccolo della famiglia.
Su tutti, è su Lucia e su Ada che la cineasta si sofferma più a lungo, riprendendo la delicata dissezione della femminilità già accennata in Maternal. Lucia è una giovane donna che, come l’omonima santa da lei interpretata in una sequenza del film, per amore, “perde la vista”. All’apparenza più stabile, si contrappone ad Ada, tra le sorelle considerata quella meno degna di nota. Mancante sia della “domesticità” di Lucia che dell’intelligenza di Flavia, è abbandonata in una personale dimensione religiosa, in cui trova al contempo sollievo e sconforto. Falsamente conflittuale, la Delpero è in grado di tracciare con dolcezza il rapporto delle tre sorelle, in un ritratto di resilienza contrapposto al mondo, virtuoso e ipocrita, dei due personaggi maschili principali.
Al netto di alcuni schematismi di sceneggiatura, è la splendida fotografia di Mikhail Krichman a dare una dimensione viva all’opera e, soprattutto, ai bellissimi paesaggi di montagna, nel loro susseguirsi e mutare nelle diverse stagioni. Tanto quanto coloro che lo vivono, il mondo naturale di Vermiglio è un elemento narrativo e di evocazione, in cui l’universo interiore dei personaggi assume una forma quasi materica. Più che nelle parole, è nelle immagini, nei cieli plumbei e nella penombra di una stalla in una giornata di sole, che indugia con maggiore intensità lo sguardo profondamente sensibile di Maura Delpero. Sottraendo tutto ciò che non è necessario, la cineasta propone quindi un’opera forse poco godibile per un pubblico più ampio, ma tra le più interessanti nel panorama del cinema italiano contemporaneo.
Più di tutto, a determinare un terreno di riflessione particolarmente potente rimane la scelta di localizzare la storia, apparentemente atemporale, proprio sul finire della Seconda Guerra Mondiale. A Vermiglio la guerra è un’entità, quasi astratta, vaga, a cui le donne, gli anziani, i fragili, e gli infermi, presenziano dalla panchina. Si fa fatica a comprendere come mai, chi ne ha già fatto ritorno, sembri essere ancora altrove. Si spera che finisca presto, che i cari al fronte diano proprie notizie con una lettera, che le risorse smettano di scarseggiare. Ma, la Vermiglio del 1945, non è un luogo che ha costruito o segnato la storia, è un microcosmo quotidiano in un macrocosmo di grandi eventi. In linea con la scelta narrativa costruita sulla sottrazione continua, la guerra della Delpero esiste nella sua assenza sullo schermo, nel suo mostrarsi solo attraverso coloro che ne sono stati lasciati da parte. L’autrice l’ha definito un “paesaggio dell’anima”. Ed è il paesaggio che ci si lascia dietro quando si va in guerra.
Il villaggio in cui dimora l'anima
recensione di Beatrice Gangi
RV-67
22.09.2024
Nel 1945 è finita la guerra. Il 20 Gennaio, a Washington, Franklin Delano Roosevelt è stato proclamato Presidente per la quarta volta. Il 27 dello stesso mese, in Polonia, è stato liberato il campo di concentramento di Auschwitz, rivelando al mondo, per la prima volta, le testimonianze dei sopravvissuti. Il 25 Aprile, le truppe sovietiche e le truppe statunitensi si sono riunite sulle sponde del fiume Elba. Tra l’1 e il 4 Maggio, le armate tedesche si sono arrese in Italia, in Germania, in Danimarca, e nei Paesi Bassi. Il 16 Luglio, nel deserto del Nuovo Messico, è detonata per la prima volta la bomba atomica. Il 2 Settembre, nella baia di Tokyo, viene firmata la resa dell’impero giapponese e, ufficialmente, è finita la guerra.
Nel 1945 a Vermiglio non ci sono date. Non ci sono date perché non ci sono grandi eventi. Ci sono giorni simili in cui si mungono le vacche, dei bambini nascono e dei bambini muoiono. In cui si compiono peccati da confessare e peccati da nascondere. In Inverno, arriva la neve e due disertori tornano dalla guerra. Uno dei due si innamora di una ragazza, in Primavera, la sposa. In Estate, i più giovani ricevono il loro diploma, alcuni andranno avanti a studiare, altri non ne sono ritenuti sufficienti. Il disertore può tornare a casa, in Sicilia, raccontare alla madre che aspetta un figlio, che non è morto. In Autunno si aspetta che faccia ritorno al villaggio, a fare da padre. Non fa molta differenza, quando i soldati tornano nelle loro case.
È uscito in sala questa settimana Vermiglio di Maura Delpero, Gran Premio della giuria all’81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Qui al suo secondo lungometraggio, la regista torna sulla scena a cinque anni dal precedente Maternal (2019), ricordato tra i film più premiati della 72ª edizione del Locarno Film Festival. La cineasta, dagli hogar dell’Argentina contemporanea si sposta quindi alle montagne trentine della Seconda Guerra Mondiale, due luoghi così lontani e così diversi ma in cui raccontare, su tutto, una maternità simile. Infatti, in Vermiglio, pur essendo gli uomini a dettare il motore narrativo della storia (il Pietro di Giuseppe De Domenico, il disertore, con il suo arrivo a Vermiglio) e a concederne, o meno, lo sviluppo (Cesare Graziadei, anziano padre di famiglia e maestro elementare, interpretato da Tommaso Ragno) sono le donne, e i bambini, a renderla intima. Le sorelle Graziadei, Lucia (Martina Scrinzi), Ada (Rachele Potrich), e Flavia (Anna Thaler), il fratello Dino (Patrick Gardner), ormai più adulto che bambino, e Pietrin (Enrico Panizza), il più piccolo della famiglia.
Su tutti, è su Lucia e su Ada che la cineasta si sofferma più a lungo, riprendendo la delicata dissezione della femminilità già accennata in Maternal. Lucia è una giovane donna che, come l’omonima santa da lei interpretata in una sequenza del film, per amore, “perde la vista”. All’apparenza più stabile, si contrappone ad Ada, tra le sorelle considerata quella meno degna di nota. Mancante sia della “domesticità” di Lucia che dell’intelligenza di Flavia, è abbandonata in una personale dimensione religiosa, in cui trova al contempo sollievo e sconforto. Falsamente conflittuale, la Delpero è in grado di tracciare con dolcezza il rapporto delle tre sorelle, in un ritratto di resilienza contrapposto al mondo, virtuoso e ipocrita, dei due personaggi maschili principali.
Al netto di alcuni schematismi di sceneggiatura, è la splendida fotografia di Mikhail Krichman a dare una dimensione viva all’opera e, soprattutto, ai bellissimi paesaggi di montagna, nel loro susseguirsi e mutare nelle diverse stagioni. Tanto quanto coloro che lo vivono, il mondo naturale di Vermiglio è un elemento narrativo e di evocazione, in cui l’universo interiore dei personaggi assume una forma quasi materica. Più che nelle parole, è nelle immagini, nei cieli plumbei e nella penombra di una stalla in una giornata di sole, che indugia con maggiore intensità lo sguardo profondamente sensibile di Maura Delpero. Sottraendo tutto ciò che non è necessario, la cineasta propone quindi un’opera forse poco godibile per un pubblico più ampio, ma tra le più interessanti nel panorama del cinema italiano contemporaneo.
Più di tutto, a determinare un terreno di riflessione particolarmente potente rimane la scelta di localizzare la storia, apparentemente atemporale, proprio sul finire della Seconda Guerra Mondiale. A Vermiglio la guerra è un’entità, quasi astratta, vaga, a cui le donne, gli anziani, i fragili, e gli infermi, presenziano dalla panchina. Si fa fatica a comprendere come mai, chi ne ha già fatto ritorno, sembri essere ancora altrove. Si spera che finisca presto, che i cari al fronte diano proprie notizie con una lettera, che le risorse smettano di scarseggiare. Ma, la Vermiglio del 1945, non è un luogo che ha costruito o segnato la storia, è un microcosmo quotidiano in un macrocosmo di grandi eventi. In linea con la scelta narrativa costruita sulla sottrazione continua, la guerra della Delpero esiste nella sua assenza sullo schermo, nel suo mostrarsi solo attraverso coloro che ne sono stati lasciati da parte. L’autrice l’ha definito un “paesaggio dell’anima”. Ed è il paesaggio che ci si lascia dietro quando si va in guerra.