Maschere western,
recensione di Andrea Tiradritti
RV-12
06.04.2023
Finisce come inizia Vera di Tizza Covi e Rainer Frimmel: la donna che dà nome al film è ripresa di spalle mentre cammina per le strade di Roma. La sua andatura è insieme sicura e malinconica e un cappello western, scintillante icona di ingombranti eredità familiari, le brilla sul capo. Mentre però nella sequenza iniziale, come sospinta da un’intima confidenza, la macchina da presa accompagna a breve distanza il suo vagare, in quella conclusiva la segue appena pochi passi prima di arrestarsi e filmarne, inavvicinabile, l’addio dall’inquadratura. È forse in questa resa, nell’ambigua dinamica che avvicina e allontana al corpo della sua protagonista, che il film rivela il tentativo di raggiungere una verità più profonda di quella biografica. I due cineasti sembrano consapevoli di quanto, per rendere cinematografico un volto ormai masticato e digerito dalla televisione dello spettacolo, per scavarne i lineamenti al di là del trucco di scena, sia necessario vestirlo di nuova luce, porlo in pericolo al confine tra parodia e fascinazione, raccontandone la ricca esistenza tramite una trasposizione romanzata, un’illusione, uno sguardo contraddittorio simile al sogno. Vera infatti, proprio come il film, dice la verità anche quando mente, così che il vero, nell’opera e nella persona, sia nascosto in piena vista, intuibile a ogni istante ma mai davvero a portata di mano.
Figlia di un padre impossibile, compagna generosa di uomini sventurati e donna ossessionata dal mito della bellezza, Vera Gemma viene messa in scena, riadattata dal di fuori, strumento per gli occhi del pubblico e del cinema, paesaggio frammentato e ricomposto in ordine sparso. L’incontro tra lei, trasteverina, e una famiglia proletaria di San Basilio è il pretesto che espande gli spazi e le narrazioni del film, confondendo i piani di realtà e finzione così da affollare la scena di pittoreschi personaggi – autisti cardiopatici, meccanici imbroglioni, bambini infortunati, ridicoli registi e figli d’arte – che interpretano loro stessi e sempre anche qualcun altro e nei confronti dei quali Vera a modo suo dona e chiede amore. Icona trash e attrice carismatica, figura sgradevole ed eccessiva, Vera Gemma si dimostra una maschera perfetta della società contemporanea, un simbolo tragicomico da irridere e ammirare, ma anche una donna libera, sofferente e dignitosa, capace di grandi sentimenti e rovinose cadute. Covi e Frimmel stravolgono il linguaggio del documentario d’osservazione allestendo un mondo fittizio, seppur verosimile, del quale Vera rimane il solo punto di riferimento, un feticcio che si offre un velo dopo l’altro, usando un cinico umorismo per parlare di relazioni d’amore, della memoria di un passato tanto sfavillante quanto perduto nel tempo, nonché del grottesco sottobosco mediatico a cui appartiene. Quel che rimane, oltre all’ostentazione di un lusso d’accatto, alla chirurgia, ai party esclusivi e a un senso di perdurante vuoto, è la testimonianza che sfiora le crepe di una vita inafferrabile perché fin dalla nascita esposta in vetrina a uso e consumo altrui.
Non sarà questo film a far rivalutare Vera Gemma a chi ne pensa male, al massimo potrà disorientare chi già la seguiva. Sarà forse questo film però un’utile mappa per capire come si possa filmare un personaggio controverso senza per forza toccare gli estremi opposti della morbosità e del tributo acritico, lasciando che dall’immagine sgorghi genuina l’autenticità di un’amarezza, la gioia di un abbraccio a un’amica, la solitudine di un cinema – e di un’anima – fuori dai canoni, grezzo perché essenziale e sofisticato perché capace di interrogarsi sulla propria natura artefatta. Un cinema che prova passione e compassione per le storie di cui si prende cura: un cinema il quale, una volta usciti dalla sala, faccia domandare se quel che si è visto fosse vero, se la vita di Vera sia davvero questa, se passeggiando per i vicoli di Roma la si possa incontrare, lei e il suo cappello da cowgirl, tacchi a spillo e cuore infranto, alla ricerca di un po’ di felicità oltre quelle misere luci della ribalta.
Maschere western,
recensione di Andrea Tiradritti
RV-12
06.04.2023
Finisce come inizia Vera di Tizza Covi e Rainer Frimmel: la donna che dà nome al film è ripresa di spalle mentre cammina per le strade di Roma. La sua andatura è insieme sicura e malinconica e un cappello western, scintillante icona di ingombranti eredità familiari, le brilla sul capo. Mentre però nella sequenza iniziale, come sospinta da un’intima confidenza, la macchina da presa accompagna a breve distanza il suo vagare, in quella conclusiva la segue appena pochi passi prima di arrestarsi e filmarne, inavvicinabile, l’addio dall’inquadratura. È forse in questa resa, nell’ambigua dinamica che avvicina e allontana al corpo della sua protagonista, che il film rivela il tentativo di raggiungere una verità più profonda di quella biografica. I due cineasti sembrano consapevoli di quanto, per rendere cinematografico un volto ormai masticato e digerito dalla televisione dello spettacolo, per scavarne i lineamenti al di là del trucco di scena, sia necessario vestirlo di nuova luce, porlo in pericolo al confine tra parodia e fascinazione, raccontandone la ricca esistenza tramite una trasposizione romanzata, un’illusione, uno sguardo contraddittorio simile al sogno. Vera infatti, proprio come il film, dice la verità anche quando mente, così che il vero, nell’opera e nella persona, sia nascosto in piena vista, intuibile a ogni istante ma mai davvero a portata di mano.
Figlia di un padre impossibile, compagna generosa di uomini sventurati e donna ossessionata dal mito della bellezza, Vera Gemma viene messa in scena, riadattata dal di fuori, strumento per gli occhi del pubblico e del cinema, paesaggio frammentato e ricomposto in ordine sparso. L’incontro tra lei, trasteverina, e una famiglia proletaria di San Basilio è il pretesto che espande gli spazi e le narrazioni del film, confondendo i piani di realtà e finzione così da affollare la scena di pittoreschi personaggi – autisti cardiopatici, meccanici imbroglioni, bambini infortunati, ridicoli registi e figli d’arte – che interpretano loro stessi e sempre anche qualcun altro e nei confronti dei quali Vera a modo suo dona e chiede amore. Icona trash e attrice carismatica, figura sgradevole ed eccessiva, Vera Gemma si dimostra una maschera perfetta della società contemporanea, un simbolo tragicomico da irridere e ammirare, ma anche una donna libera, sofferente e dignitosa, capace di grandi sentimenti e rovinose cadute. Covi e Frimmel stravolgono il linguaggio del documentario d’osservazione allestendo un mondo fittizio, seppur verosimile, del quale Vera rimane il solo punto di riferimento, un feticcio che si offre un velo dopo l’altro, usando un cinico umorismo per parlare di relazioni d’amore, della memoria di un passato tanto sfavillante quanto perduto nel tempo, nonché del grottesco sottobosco mediatico a cui appartiene. Quel che rimane, oltre all’ostentazione di un lusso d’accatto, alla chirurgia, ai party esclusivi e a un senso di perdurante vuoto, è la testimonianza che sfiora le crepe di una vita inafferrabile perché fin dalla nascita esposta in vetrina a uso e consumo altrui.
Non sarà questo film a far rivalutare Vera Gemma a chi ne pensa male, al massimo potrà disorientare chi già la seguiva. Sarà forse questo film però un’utile mappa per capire come si possa filmare un personaggio controverso senza per forza toccare gli estremi opposti della morbosità e del tributo acritico, lasciando che dall’immagine sgorghi genuina l’autenticità di un’amarezza, la gioia di un abbraccio a un’amica, la solitudine di un cinema – e di un’anima – fuori dai canoni, grezzo perché essenziale e sofisticato perché capace di interrogarsi sulla propria natura artefatta. Un cinema che prova passione e compassione per le storie di cui si prende cura: un cinema il quale, una volta usciti dalla sala, faccia domandare se quel che si è visto fosse vero, se la vita di Vera sia davvero questa, se passeggiando per i vicoli di Roma la si possa incontrare, lei e il suo cappello da cowgirl, tacchi a spillo e cuore infranto, alla ricerca di un po’ di felicità oltre quelle misere luci della ribalta.