La coppia borghese, il caso e Chabrol,
recensione di Antonio Orrico
RV-43
14.12.2023
Nel piano sequenza iniziale di Un colpo di fortuna, il nuovo film di Woody Allen, Fanny Moreau incontra per puro caso a Parigi un suo vecchio amico, Alain. La scelta stilistica che il regista americano utilizza per narrare questo rendez-vous del tutto combinatorio è quella che più di ogni altra è legata alla casualità, alle situazioni che accadono all’interno del diegetico, irrefrenabili perché governate dalla continuità dell’azione. Già solo mediante questo incipit, Allen torna a immergere i suoi attori nelle spirali di un destino inteso come espressione dell’insensatezza e dell’irrazionalità delle vicende umane, riflettendo sul qui e ora e sull’impossibilità di governare il futuro.
L’incontro rappresenta dunque il vero punto di interesse del film, il quale sfrutta la detection thriller solo come cornice astratta della sua narrazione. Lo stesso Allen si diverte a tradire il genere anticipando addirittura le frasi del copione, tradendo così ogni minima aspettativa riguardante la suspense e trascinando lo spettatore in un valzer divertente e divertito, che elude tutti gli stereotipi del genere rileggendoli sotto l’egida spensierata della commedia da nouvelle vague.
Il caso diventa dunque il filo conduttore dell’ennesima crisi di coppia raffigurata dal maestro, il quale si diverte ancora oggi, a 88 anni, a deridere il matrimonio borghese, svelandone gli artifici e la noia, nonché la costitutiva voglia di evadere e di non sentirsi più, solamente, banali trofei da esposizione. Il linguaggio cinematografico mostra quanto lo stesso Allen sia votato, soprattutto in quest’ultima parte di carriera, a una maggiore libertà espressiva, presentandosi a tal punto fluido e consapevole da animare le vicende narrate per poi di colpo farle cessare. I piani sequenza che perlustrano gli interni delle abitazioni, sia quella altolocata di Fanny che quella ben più proletaria di Alain, sotto questo punto di vista, sono costruiti proprio per evidenziare la narrazione-fiume dell’opera, in cui è l’improvvisazione della vita a essere messa in evidenza ed è il tempo reale, il qui ed ora appunto, a essere privilegiato.
Una lezione, questa, che proviene direttamente dai maestri francesi e che Allen ben fonde tramite il lavoro del suo fido Vittorio Storaro, ancora una volta artefice di colori stupendi, modellati in funzione degli stati d’animo dei tre protagonisti e sulla base dei toni che il racconto attraversa. Se nella prima parte, legata alla commedia, assistiamo a una ricerca cromatica basata perlopiù su tonalità vintage e calde, tali da riportare alla mente lo splendore tecnico di Café Society (2016) e Rifkin’s Festival (2021), si nota un notevole cambio di cromatismi nella seconda, dove il raffreddamento della vicenda e il suo viraggio verso un universo da mistero chabroliano coincide anche con una chiusura emotiva e uno spegnimento dei colori. Dal giallo e dal rosso che caratterizzano l’incipit, si assiste a uno sviluppo in cui domina il blu, colore che anestetizza l’atmosfera trasognata e la conduce verso un crescendo di suspense in cui la borghesia cede in modo agghiacciante ai suoi vizi ed è per questo messa alla berlina.
Una metamorfosi che, naturalmente, coinvolge anche gli stessi protagonisti del film. La cartina al tornasole di Un colpo di fortuna è Melvil Poupaud, bravissimo nel materializzare la svolta. Se Allen inizialmente lo presenta come un ragazzino cresciuto ancora sognatore, strizzando fortemente l’occhio al fanciullesco Gaspard nel rohmeriano Conte d'été (1996), egli cambia in corso d’opera: con l’avanzare del thriller si trasforma in un perfetto protagonista di un’opera chabroliana, simile all'irrequieto e focoso personaggio interpretato da François Cluzet in L’Enfer (1994).
Poupaud e Schneider possono essere considerati inoltre come due prolungamenti, due alter ego dell’Allen attoriale. Il regista infatti si sdoppia, infondendo tutte le sfaccettature del proprio essere all’interno dei due personaggi maschili. Li fa così espressioni della premeditazione e dell’insensatezza del mondo, del razionale e dell’irrazionale, del rigore e dell’improvvisazione.
In questo modo Allen si affranca dal tono più serioso e abbraccia fino in fondo la commedia all’interno del mistero. La bravissima Valérie Lemercier è la variabile impazzita che permette l’operazione, il mezzo con cui Allen “tradisce” il genere, riproponendo gli schemi di quel cinema francese che giocava divertito con il mistero, come accadeva nello Chabrol più satirico. La Camille di questo film è del resto una versione femminile dell’Inspecteur Lavardin, abilmente interpretato da Jean Poiret all’interno di Poulet Au Vinagre (1985). I due condividono la stessa ironia sorniona e sarcastica, maschera rappresentante il modello borghese di cui il regista americano palesa nuovamente in maniera acuta e grottesca la goffagine, soprattutto al cospetto del cinismo che porta con sé la morte.
La coppia borghese, il caso e Chabrol,
recensione di Antonio Orrico
RV-43
14.12.2023
Nel piano sequenza iniziale di Un colpo di fortuna, il nuovo film di Woody Allen, Fanny Moreau incontra per puro caso a Parigi un suo vecchio amico, Alain. La scelta stilistica che il regista americano utilizza per narrare questo rendez-vous del tutto combinatorio è quella che più di ogni altra è legata alla casualità, alle situazioni che accadono all’interno del diegetico, irrefrenabili perché governate dalla continuità dell’azione. Già solo mediante questo incipit, Allen torna a immergere i suoi attori nelle spirali di un destino inteso come espressione dell’insensatezza e dell’irrazionalità delle vicende umane, riflettendo sul qui e ora e sull’impossibilità di governare il futuro.
L’incontro rappresenta dunque il vero punto di interesse del film, il quale sfrutta la detection thriller solo come cornice astratta della sua narrazione. Lo stesso Allen si diverte a tradire il genere anticipando addirittura le frasi del copione, tradendo così ogni minima aspettativa riguardante la suspense e trascinando lo spettatore in un valzer divertente e divertito, che elude tutti gli stereotipi del genere rileggendoli sotto l’egida spensierata della commedia da nouvelle vague.
Il caso diventa dunque il filo conduttore dell’ennesima crisi di coppia raffigurata dal maestro, il quale si diverte ancora oggi, a 88 anni, a deridere il matrimonio borghese, svelandone gli artifici e la noia, nonché la costitutiva voglia di evadere e di non sentirsi più, solamente, banali trofei da esposizione. Il linguaggio cinematografico mostra quanto lo stesso Allen sia votato, soprattutto in quest’ultima parte di carriera, a una maggiore libertà espressiva, presentandosi a tal punto fluido e consapevole da animare le vicende narrate per poi di colpo farle cessare. I piani sequenza che perlustrano gli interni delle abitazioni, sia quella altolocata di Fanny che quella ben più proletaria di Alain, sotto questo punto di vista, sono costruiti proprio per evidenziare la narrazione-fiume dell’opera, in cui è l’improvvisazione della vita a essere messa in evidenza ed è il tempo reale, il qui ed ora appunto, a essere privilegiato.
Una lezione, questa, che proviene direttamente dai maestri francesi e che Allen ben fonde tramite il lavoro del suo fido Vittorio Storaro, ancora una volta artefice di colori stupendi, modellati in funzione degli stati d’animo dei tre protagonisti e sulla base dei toni che il racconto attraversa. Se nella prima parte, legata alla commedia, assistiamo a una ricerca cromatica basata perlopiù su tonalità vintage e calde, tali da riportare alla mente lo splendore tecnico di Café Society (2016) e Rifkin’s Festival (2021), si nota un notevole cambio di cromatismi nella seconda, dove il raffreddamento della vicenda e il suo viraggio verso un universo da mistero chabroliano coincide anche con una chiusura emotiva e uno spegnimento dei colori. Dal giallo e dal rosso che caratterizzano l’incipit, si assiste a uno sviluppo in cui domina il blu, colore che anestetizza l’atmosfera trasognata e la conduce verso un crescendo di suspense in cui la borghesia cede in modo agghiacciante ai suoi vizi ed è per questo messa alla berlina.
Una metamorfosi che, naturalmente, coinvolge anche gli stessi protagonisti del film. La cartina al tornasole di Un colpo di fortuna è Melvil Poupaud, bravissimo nel materializzare la svolta. Se Allen inizialmente lo presenta come un ragazzino cresciuto ancora sognatore, strizzando fortemente l’occhio al fanciullesco Gaspard nel rohmeriano Conte d'été (1996), egli cambia in corso d’opera: con l’avanzare del thriller si trasforma in un perfetto protagonista di un’opera chabroliana, simile all'irrequieto e focoso personaggio interpretato da François Cluzet in L’Enfer (1994).
Poupaud e Schneider possono essere considerati inoltre come due prolungamenti, due alter ego dell’Allen attoriale. Il regista infatti si sdoppia, infondendo tutte le sfaccettature del proprio essere all’interno dei due personaggi maschili. Li fa così espressioni della premeditazione e dell’insensatezza del mondo, del razionale e dell’irrazionale, del rigore e dell’improvvisazione.
In questo modo Allen si affranca dal tono più serioso e abbraccia fino in fondo la commedia all’interno del mistero. La bravissima Valérie Lemercier è la variabile impazzita che permette l’operazione, il mezzo con cui Allen “tradisce” il genere, riproponendo gli schemi di quel cinema francese che giocava divertito con il mistero, come accadeva nello Chabrol più satirico. La Camille di questo film è del resto una versione femminile dell’Inspecteur Lavardin, abilmente interpretato da Jean Poiret all’interno di Poulet Au Vinagre (1985). I due condividono la stessa ironia sorniona e sarcastica, maschera rappresentante il modello borghese di cui il regista americano palesa nuovamente in maniera acuta e grottesca la goffagine, soprattutto al cospetto del cinismo che porta con sé la morte.